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Diritti fondamentali e costituzionalismo. La prospettiva storica

26.04.2020

Stefania Romeo

Ricercatore di Diritto romano

Università Mediterranea di Reggio Calabria

 

Diritti fondamentali e costituzionalismo.

La prospettiva storica*

 

English title: Fundamental rights and constitutionalism. The historical perspective

DOI: 10.26350/004084_000065

 

Sommario: 1. Impostazione del problema ed ambito dell’indagine 2. Il “costituzionalismo romano” 3. I “valori fondamentali” dell’antichità classica.

 

 

  1. Impostazione del problema ed ambito dell’indagine

 

La centralità dei “diritti fondamentali” è insistentemente proclamata quale conquista dei sistemi giuridici attuali, al confronto con un modello antico che quei diritti non solo ignorava ma, talvolta, anche negava. Si afferma l’ovvio dicendo che la società classica, e romana in particolare, non conobbe diritti fondamentali, portato della cultura moderna, ed ebbe anzi una nozione di “umanità” non certo egualitaria bensì, all’opposto, elitaria.

Basti leggere gli articoli della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite del 1948, quale manifesto dei diritti umani della modernità, per avere evidenza della profonda diversità tra società antica e società moderna, tra una nozione di soggettività limitata e fortemente condizionata dal godimento di un particolare status, ed una, all’opposto, assunta a principio generale dell’ordinamento, in forza del quale l’uomo come individuo è titolare di alcuni diritti fondamentali, riconosciuti e tutelati.

Qualunque tentativo di storicizzare la problematica dei diritti fondamentali è, dunque, evidentemente destinato a fallire.

E, tuttavia, pur senza indulgere alla lusinga di percorrere la facile via dello «sbandieramento dei precedenti di cui, in sé, la contemporaneità giuridica ha dimostrato di non sapersene che fare»[1], è certamente forte nello storico del diritto l’esigenza di riflettere, con il proprio strumentario concettuale e metodologico, su un tema che si impone alla contemporaneità giuridica e sociale[2]. Nell’attuale e vivace dialettica tra la richiesta di uno statuto universale, capace di abbracciare tutti gli uomini e le loro molteplici essenziali esigenze, ed i conflitti sociali ed ideologici che di quella tensione di universalità rappresentano la negazione, un elemento di equilibrio può forse essere offerto dalla considerazione della dimensione storica del problema in una duplice chiave: costituzionale, come storia dell’apparato istituzionale nel quale il fenomeno dei “diritti fondamentali” si colloca; ed etimologico, come storia delle parole e dei concetti.

Il primo di tali profili costituisce esso stesso tema centrale e assai dibattuto.

In un momento di forte riflessione, almeno nazionale, sulla bontà della Carta fondamentale, e, in chiave europea, sulle matrici culturali di una istituenda Costituzione europea, la dottrina antichistica ha sottoposto il modello istituzionale offerto dall’antichità classica ad importanti riflessioni, impiegando per esse la nozione di «costituzionalismo»[3].

Sebbene la giuspubblicistica individui i presupposti ideologici del “costituzionalismo” nella temperie culturale del XVIII secolo, appare utile soffermarsi sul derivato concettuale di quella, ossia sulla nozione di «costituzione», per verificarne la ricorrenza (o i termini di essa) anche nell’esperienza romana[4].

Come noto, una «costituzione» romana come testo scritto contenente norme circa il funzionamento degli organi costituzionali non esiste: qualsiasi teorizzazione pura rappresenta una costruzione di modelli espressivi assolutamente estranea alla realtà politica della res publica, la quale, per tutto il corso della sua esperienza costituzionale, vive di un complesso di «prassi e convenzioni costituzionali»[5], da cui poi sono stati estrapolati, dai pensatori dell’epoca, profili teorici. Su questi ultimi, com’era evidente, si è appuntata l’attenzione della dottrina moderna, incline a confrontarsi con testi scritti, e poco propensa a riflettere, com’è invece nella peculiarità metodologica dei prudentes, sul valore della prassi.

La dottrina giuspubblicistica colloca la nascita del concetto di Costituzione «quale Carta codificata (Verfassung, Constitution, Constitucion, Statuto[6] nella seconda metà del 1700, in America (Usa, Cost. 1787) ed in Europa (in Francia nel 1791), e non lo considera, riduttivamente, ed «in modo discutibilmente asettico e neutrale», come «mero «assetto» o «struttura fondamentale dello stato», ma «inscindibilmente legato al patrimonio essenziale del costituzionalismo, quale movimento culturale caratterizzato da precisi connotati «politici»: netta prevalenza, nella dialettica autorità/libertà, della seconda; riconoscimento di un’uguaglianza ontologica fra gli uomini; libera scelta dei governanti da parte dei governati; separazione dei poteri»[7].

Questa connessione e stretta dipendenza della costituzione dal costituzionalismo può essere utilmente assunta come base di lavoro per verificare la ricorrenza anche nell’esperienza romana di un assetto istituzionale compatibile con la tutela di diritti fondamentali. In sostanza, anche se si prescinde dalla identificazione della “costituzione” con il “costituzionalismo” nei termini ideologici appena evocati, è evidente che essa quale struttura fondamentale dello stato manifesta i valori fondamentali della società che in quella organizzazione politica si identifica. Ecco che individuare questi valori anche per l’esperienza romana consente di riscontrare la tutela in essa di quelli che oggi si definiscono diritti fondamentali.

In questa prospettiva può essere comodo discutere di costituzione e di costituzionalismo anche per l’assetto della res publica romana, avendo come obiettivo quello di verificare la compatibilità tra la struttura della organizzazione costituzionale e la tutela delle prerogative fondamentali dei cives.

 

  1. Il “costituzionalismo romano”

 

Il termine «constitutio» – che nel latino giuridico del principato designa specificamente la fonte normativa imperiale – allude sia allo status, ossia alle qualità essenziali distintive di un oggetto, sia al fatto costitutivo di qualcosa.

Con specifico riferimento all’ordinamento giuridico, «constitutio» indica, nelle fonti classiche, la configurazione storica dello Stato (le costituzioni delle città greche, le politeiai studiate da Aristotele, o la constitutio romana ricordata da Cicerone), ossia la struttura, le prerogative ed i limiti dei poteri sovrani. Quale modo di atteggiarsi di un ordinamento storico, la costituzione non coincide con il significato moderno più accreditato che ad essa attribuisce una carica ideologica pregnante: è “costituzionale” «solo un ordinamento «giuridico» caratterizzato dai valori «politici» del costituzionalismo, sempre più considerato, al pari dei diritti umani, patrimonio universale dell’umanità»[8].

Estendere, dunque, oggi, all’esperienza antica, greca e romana, la nozione moderna di «costituzione» impone anzitutto di verificare la ricorrenza dei valori del «costituzionalismo», dovendosi altrimenti, e più correttamente, discutere di «constitutio» o di «politeia» quale status ordinamentale e sociale descrittivo della struttura dei poteri sovrani e delle forze sociali rappresentate.

Il pensiero politico greco elabora il concetto politeia. Da polis, esso indica sia l’insieme dei politai – non solo collettivamente considerati, la koinonia ton politon aristotelica, ma anche, da un punto di vista individuale, quale condizione giuridica di ciascuno di essi in quanto appartenenti alla comunità civica –, sia l’organizzazione costituzionale, ossia la distribuzione del potere tra di essi[9]. Il dibattito sulle forme costituzionali capaci di realizzare l’eunomia anima la riflessione storica e politica, da Erodoto a Tucidide a Platone ed Aristotele, lasciando un impianto dogmatico fondamentale per la riflessione successiva e moderna.

L’ambito di applicazione del termine politeia coincide con il moderno termine «costituzione» nell’accezione propria poc’anzi richiamata.

Il retore Isocrate discute del modello costituzionale dell’Atene del IV secolo, vagheggiando, nell’Areopagitico, il rafforzamento dell'autorità dell’Areopago per risanare la polis. In questo contesto, definisce la politeia psychè poleos, «l’anima della città, perché ha la stessa funzione che la mente ha nel corpo: è lei che decide su tutto, conserva i successi, contiene i disastri; a lei si devono omologare le leggi, gli uomini politici e i privati cittadini, e i risultati che si ottengono sono ovviamente conformi»[10]

            Come, dunque, il corpo è guidato dalla mente, così la città (i governati) deve essere guidata da una “ragione” governante. La politeia è la forma organizzativa statuale, è il “fatto costituente” ed ordinatore del governo e del potere della città, la legge superiore alle altre, nella gerarchia delle fonti del diritto, che definisce l’assetto e la struttura dei poteri statuali e modella del suo ethos la realtà sociale ed economica della polis. Ne discende che le politeiai, ossia le costituzioni delle poleis greche, «sono in realtà tante quante le poleis stesse in ciascun «momento» della loro vicenda storica: in effetti presso la Scuola aristotelica era stata «compilata» una raccolta che raggiungeva il rispettabile numero di circa 150 politeiai di città greche, comprendenti anche la «storia» dei cambiamenti che ciascuna di esse aveva conosciuto nel corso del tempo, come attesta l’unica tra di esse pervenutaci integralmente, la Costituzione degli Ateniesi»[11].

La tipizzazione della politeiai-costituzioni nelle tre principali forme della basileia-monarchia (cui corrisponde la forma degenerata della tirannide); dell’aristokratia (cui corrisponde la forma degenerata della oligarchia); e della politeia (cui corrisponde la forma degenerata della demokratia), è strutturata intorno al numero dei soggetti ai quali viene attribuito l’esercizio del potere politico, ed è dunque strettamente correlata al governo della volontà ed ai suoi potenziali limiti.

L’importante ed imponente letteratura sul pensiero politico greco dimostra la centralità che la nozione di politeia dovette avere nell’antichità greca: la speculazione filosofica, platonica e aristotelica, sulla migliore “costituzione” possibile, o i trattati sui regimi politici delle poleis, principalmente di Aristotele e della sua Scuola, riscontrano una importante tradizione indiretta[12] sulla esistenza di “atti costituzionali” relativi al potere di governo, suscettibili di essere assimilati, senza grosse forzature, pure formalmente, alla moderna nozione di costituzione come legge fondamentale. 

L’esigenza di regolamentare, e così limitare, il potere politico, riflesso nelle politeiai, sembra dunque caratterizzare l’esperienza culturale greca, nella quale pure, a differenza di quella romana, manca una elaborazione teorica e sistematica delle norme giuridiche ed una riflessione scientifica intorno al fenomeno giuridico[13]. Vero è che, com’è stato osservato da autorevole dottrina, il fatto che in Grecia «non sia mai esistita una scienza del diritto non significa per niente la mancanza di una coscienza giuridica»[14]. Il problema del giuridico investe la vita della collettività, penetrandola in fondo più di quanto non avvenga nell’esperienza romana. Se, infatti, in quest’ultima, il ius è prerogativa dei prudentes, ossia di un ceto di professionisti al quale è riservata, in via esclusiva ed elitaria, la conoscenza e la sapienza giuridica, nel mondo delle poleis – ove pure manca la stessa parola “diritto”[15] –, il diritto non ha una consacrazione scientifica e non è monopolio di un ceto di specialisti: ogni polis ha le sue istituzioni e le sue leggi, ed il giuridico coinvolge, investe ed interessa la collettività. Diritto e politica si svolgono lungo un percorso unico, attraversato dalla comunità nella sua dimensione partecipativa alla vita della polis.

Né, d’altro canto, la centralità del fenomeno giuridico (o giuridico-politico) in Grecia può dirsi oscurata dalla contingenza e dal particolarismo delle sue manifestazioni, giacché esse sottendono la sussistenza di «principi fondamentali e comuni, che di ogni legislazione costituiscono il presupposto necessario e immutabile»[16], e che emergono chiaramente quando, divenuta la polis organismo dipendente e non più sovrano di fronte alle monarchie territoriali ellenistiche, e dissolti dunque gli istituti di diritto pubblico, sono proprio i fondamenti comuni del diritto privato a dare omogeneità alla regolamentazione privatistica dei Greci e tra i Greci e i Romani.

  Così inteso, il diritto – ovvero la politica quale sapere relativo al disciplinamento dei poteri della (e nella) polis – sembra dunque rivestire in Grecia un valore tanto profondo quanto quello che, pure sotto profili diversi, si riscontra nell’esperienza romana: esso è una manifestazione dello spirito greco, e, per la sua uniformità, pur nella frammentarietà delle vicende storiche e politiche, ne qualifica la civiltà.

Invero, nei limiti in cui sia possibile un confronto tra esperienze culturali così determinanti per la storia del pensiero politico e giuridico moderno, può dirsi che il ius per i Romani è l’ars boni et aequi della definizione celsina[17], ossia è un sapere frutto della elaborazione dei giuristi che, nella ricerca della iustitia, praticano la vera philosophia. Nella contrapposizione dialettica tra giuristi e legislatore, ovvero tra un modello di legalità sostanziale ed uno di legalità positiva[18], sembra maturare, agli occhi di Ulpiano, una sorta di “controllo di costituzionalità”: un “costituzionalismo giurisprudenziale” insomma, che, in un contesto istituzionale che ruota intorno ad un potere centralizzato e forte, “delega” ai giuristi-filosofi il riscontro della conformità degli atti del principe-legislatore alla iustitia, ossia ad un modello di equità dedotto dai principi del ius naturale.

Ma, come noto, l’immagine ulpianea del giurista-filosofo, “controllore” del principe-legislatore, riecheggia un rapporto – quello tra giuristi e filosofi – che tanta fortuna aveva avuto, pure in un ambito storico ed istituzionale ben diverso, per opera di Cicerone. Nel trattato De republica, l’Arpinate risveglia il sentimento civile dei Romani, pericolosamente travolto dalla crisi e dallo sconvolgimento politico e sociale, affiancando all’immagine del popolo che partecipa, quale corpo civico, alla vita della respublica, quella del giurista, il sapiente filosofo, che nel momento in cui crea il diritto, riflette la coscienza sociale del popolo così riunito nel segno della respubblica e ne manifesta la volontà.

Cic. de rep. 1.2.2: nihil enim dicitur a philosophis, quod quidem recte honesteque dicatur, quod ab iis partum confirmatumque sit, a quibus civitatibus iura discripta sunt. unde enim pietas, aut a quibus religio? unde ius aut gentium aut hoc ipsum civile quod dicitur? unde iustitia fides aequitas? unde pudor continentia fuga turpidinis adpetentia laudis et honestatis? unde in laboribus et periculis fortitudo? nempe ab iis qui haec disciplinis informata alia moribus confirmarunt, sanxerunt autem alia legibus

 

Il “giurista” filosofo ciceroniano – che rivendica, per tale via, un ruolo civile rispetto al sapiente greco, chiuso nella pura teoresi – consegna l’essenza del ius nel contesto della città repubblicana: «il ius viene presentato non altrimenti che come il logos della repubblica, e il fondamento della sua virtù. Un logos che non è solo pensiero, ma che, in quanto ragione disciplinante, ha dalla sua il vantaggio di essersi incarnato in ordine normativo e regola sociale («ius aut gentium … aut civile»); in fedeltà agli dèi e ai culti («unde pietas … a quibus religio?» – «est enim pietas iustitia adversum deos», avrebbe scritto sempre Cicerone nel De natura deorum); in tempra morale («… unde in laboribus et periculis fortitudo?»); in principio etico («unde pudor, continentia?»)[19].

L’immagine di un ius/logos, «trama» della respublica-res populi, ovvero e corrispondentemente di un populus che diventa societas in forza del ius e della utilitas, sembra evocare la ragione governante isocratea, che guida la città dei governati.

Il ruolo del ius nel contesto storico ed istituzionale della civitas rappresenta un nodo centrale degli studi romanistici, rispetto al quale emerge, evidente ed imponente, la complessità dell’esperienza storica romana, che solo un approccio diacronico può schiarire agli occhi dell’osservatore moderno. L’importanza dei risultati raggiunti consente, in questa sede, di rinviare all’autorevole letteratura che si è occupata della questione[20].

Giova appena osservare che la dialettica tra ius e lex qualifica l’esperienza giuridica romana, consacrando in essa il primato del ius e dei suoi specialisti: il sapere giuridico laicizzato, espressione della nuova aristocrazia, si lega alla politica nella misura in cui manifesta e disciplina il potere di comando con una importante funzione limitativa quando questo si appunterà in capo al princeps-dominus. Così è nell’immagine ulpianea del prudens-filosofo, che conosce l’ars boni et aequi della definizione celsina.

Non può dirsi certo assente (o ininfluente) nel mondo romano il modello greco «della «legge» come espressione del comando politico, che si era affermato con il diffondersi della scrittura e poi dell’onda democratica»[21].

Le XII Tavole rappresentano senz’altro un momento di rottura nella tradizione della oralità sacerdotale, ed il loro significato, ideologico e politico, avrà una forza dirompente nello scardinamento dei modelli del sapere oracolare e del potere politico patrizio. Nondimeno, il confronto tra ius e lex/nomos, ossia tra «due ipotesi diverse di organizzazione normativa e di disciplinamento sociale: due modelli alternativi di sovranità, potremmo dire»[22], sortisce esiti diversi, con la prevalenza, in Grecia e dal V secolo in poi, del nomos, «la legge (dettata dalla) politica» e del tutto umana, apportatrice di eguaglianza, di isonomia»[23], su cui si fonda la politeia e che, in quanto manifestazione della dike operante nella polis, ne garantisce la conservazione e la stabilità; a Roma, del ius, il sapere giuridico della nuova aristocrazia, che nella capacità produttiva di regole, incarna ed esprime l’ordine sociale e l’equilibrio dei poteri.

Com’è stato efficacemente osservato, «mentre in Grecia l’invenzione della legge come comando politico «escarnato» non trovava di fronte a sé, nelle pratiche di disciplinamento sociale elaborate fino ad allora, nulla di altrettanto forte, dal punto di vista culturale e istituzionale, da poterle resistere, se non residui di una regalità oramai recessiva in cui si confondevano ancora aspetti religiosi e prescrittivi, ed essa poté divenire ben presto il punto di riferimento esclusivo di ogni elaborazione in questo campo, subito oggetto nella nuova filosofia di un grande dibattito etico e metafisico: un altro segno dell’assoluta preminenza della politica che riusciva ad integrare tutto dentro di sé; a Roma invece, quando una parte della città cercò di imporre lo stesso modello, questo si scontrò subito con un’esperienza alternativa già tanto consistente e capace di autoriformarsi e persino di acquisire dall’interno una dimensione progressivamente laica – il paradigma del ius – da poterglisi opporre come qualcosa di consolidato, duro e fermo»[24].

Gli approdi scientifici appena richiamati sulla storia del ius – e, per quanto utile, su quella parallela del nomos in Grecia – offrono un affresco della romanità (e della grecità) che, senza abbandonarsi in inutili descrizioni e comparatismi, coglie nello sviluppo delle vicende l’anima che fa da motore alla storia. Se la politica è una manifestazione contingente della civiltà di un popolo, l’ethos quale sentire comune che ne condiziona lo svolgimento, con la sua ricca carica di tradizione ed ideologia, appare governarla e guidarla: così per il tramite del nomos in Grecia e del ius a Roma. Essi assolvono alla medesima funzione regolatrice e disciplinatrice del potere politico e delle dinamiche sociali.

Sembra insomma potersi ravvisare una qualche specularità tra il ius dell’esperienza romana e il nomos dell’esperienza greca. Essa corre lungo il filo di una legge fondamentale che guida i percorsi del populus/demos, costituente la civitas-politeia, e si identifica, in ultima analisi, nel sentire della collettività, nell’ethos che anima la comunità aristocratica della respublica ciceroniana, ovvero il demos della polis Atene nel V secolo.

Il diritto pubblico greco (come quello privato) esprime (ed è per tale via ricostruibile con sufficiente precisione) un ethos e rispecchia una civiltà che ascrive il primato alla politica ed al nomos come legge dettata dalla politica: la vita istituzionale della polis deve svolgersi katà tou nomou, presidio della sovranità democratica e delle istanze isonomiche e poliadiche ad essa sottese. Al mondo ellenico la modernità ha riconosciuto la sapienza nelle costruzioni politiche e nei principi di organizzazione dei pubblici poteri.

In modo non dissimile, il sistema istituzionale romano, pur nella sua fluidità e nel suo pluralismo – non assimilabile, senz’altro, alla rigidità dei nomoi greci – vede nel ius un agente ordinante, capace di governare e controllare la regolarità istituzionale. Se pure mancano modelli costituzionali formalizzati, formali constitutiones insomma, Roma assorbe nelle costruzioni dei prudentes propri peculiari modelli di regolazione sociale e politica.

A questo punto, se la Costituzione rappresenta la limitazione legale del potere politico e nasce, anzi, con la funzione di opporre al potere della volontà il potere della legge – e il costituzionalismo, che ne è la derivazione dommatica, rappresenta l’antitesi del dispotismo –, allora sia Roma che Atene (quale modello della polis) conobbero forse un “costituzionalismo”, ossia maturarono l’idea del limite/controllo al potere di governo, che espressero ora nell’idea della legge (nomos come legge politica/politeia), ora in quella del ius.

Si tratta, ovviamente, della ricezione di modelli espressivi che può rivelarsi utile nella misura in cui consente di cogliere l’essenza di un fenomeno altrimenti poco comprensibile all’osservatore moderno, ma i cui limiti – che sono poi quelli naturalmente derivanti dal diverso contesto storico-sociale e che precludono qualsiasi acritica e disinvolta assimilazione – non possono non rilevarsi, se non altro come premessa metodologica.

In altre parole, il fenomeno del «costituzionalismo» ha, come anticipato, una sua precisa dimensione storica ed ideologica, ossia esprime un nucleo duro di valori che hanno preso corpo in un determinato momento storico e si è riflesso in precise strutture costituzionali. Qualsiasi esportazione a contesti diversi, che quei valori, se non poi quelle strutture, non potevano ovviamente maturare, porta con sé una pericolosa carica deformante[25].

 Sicché – e pur senza oscurare il sostrato “costituzionalista” comune ai due fenomeni, ossia l’idea di un controllo disciplinante il potere di governo – appare più corretto discutere di «politeia» greca e di «constitutio» romana: locuzioni che alludono a fenomeni storici ed istituzionali ben circoscritti, ed al bagaglio di valori ed ideologie da essi espressi.

La dottrina romanistica si è in realtà interrogata in ordine alla nozione di costituzione ed alle idee “costituzionali” dell’antichità classica, greca e romana, pervenendo a soluzioni tutt’altro che condivise.

Da una parte, si è ritenuto che, mentre per la realtà greca, che conosce il concetto di politeia – «considerata non solamente nel suo aspetto materiale, ossia quale struttura organizzativa e insieme ordinatrice della comunità politica nel complesso dei suoi elementi, sebbene anche come realtà tecnico-giuridica, o, se si preferisce, formale della comunità»[26] –,  appare «legittimo discorrere di un «costituzionalismo» dei Greci, pur con le avvertenze che impone l’applicazione a un’esperienza costituzionale del passato di una nozione propria della moderna problematica costituzionale»[27], non altrettanto può osservarsi per l’esperienza romana.

Manca a Roma un documento scritto che definisce l’organizzazione dei poteri pubblici ed i rapporti tra questi ed i cives. La lex publica, che compare nel sistema delle fonti del diritto ricordato da Gaio e già prima, ed in termini pressoché identici, anche da Cicerone[28], non è assimilabile al concetto di costituzione in senso formale, non solo sul piano dei contenuti, ma anche e preliminarmente avendo riguardo al profilo formale della gerarchia delle fonti: plebiscita, senatus consulta, constitutiones principum, edicta eorum qui ius edicendi habent, responsa prudentium sono fonti autonome di produzione del diritto, e non derivano la loro sovranità da una fonte formale superiore, ma dalla sovranità dell’organo deputato ad emanarli[29].

Né può attribuirsi «carattere costituente» alla lex publica in ragione della sua natura sovrana, «punto di incontro e insieme «prodotto» della volontà normativa di tre distinti «sovrani»: il magistrato, il senato, il populus nella sua veste comiziale»[30]. L’organizzazione repubblicana, strutturata sui tre elementi del Populus, Senatus, Magistratus, ciascuno sovrano nell’ambito delle proprie prerogative, e tuttavia e al tempo stesso limitante e limitato dalla sovranità dell’altro, trova in sé stessa la ragion d’essere di una costituzione, ovvero il fondamento ed i limiti del potere sovrano.

Insomma, è proprio la connessione tra i suddetti tre elementi strutturali della costituzione repubblicana, «in un rapporto di equilibrio dinamico, in una sorta di bilanciamento, o, se si preferisce, in un sistema di azioni-poteri concorrenti e reciprocamente contrastanti»[31], a rappresentare il limite della sovranità dei medesimi, realizzando, di fatto, quel sistema di garanzie del (e nei confronti del) potere sovrano, che rappresenta poi la funzione di una carta costituzionale.

D’altronde, la scelta di affidare alla contingenza del rapporto tra organi sovrani l’organizzazione ed i limiti dei poteri medesimi rappresenta un’alternativa alla “norma costituzionale” pienamente coerente, già sotto il profilo del metodo giuridico, con la propensione dei giuristi romani a rifuggere dalla fissità di regole formali, per trovare nell’attualità delle vicende giuridiche (e politiche in questo caso) la regola ordinante.

Da un punto di vista politico, poi, un’organizzazione costituzionale che modella l’ampiezza dei poteri sovrani dei propri organi in ragione delle occorrenze politiche gode di una elasticità che, senza necessità di formali cambiamenti, si modella ad esse ed è, dunque, potenzialmente più longeva. Così almeno sembra dimostrare l’esperienza costituzionale repubblicana, con la sua resistenza di fronte agli spostamenti repentini di potere politico, e con la sua sopravvivenza (e “convivenza” con la nuova figura del princeps[32]) per i primi periodi di vita del Principato.

Invero, la storicità del concetto moderno di costituzione è stata dedotta dall’impiego nelle fonti latine della «voce astratta constitutio nel significato di institutio e ordinatio e con riferimento appunto alla res publica e alla civitas»[33].  Nella medesima direzione, poi, l’allusione «al concetto di fondo che noi abbiamo della costituzione» è stato individuato nell’espressione rei publicae constituendae «caratteristica del linguaggio legislativo della repubblica»[34].

E tuttavia, le locuzioni appena richiamate si prestano ad essere assimilate al moderno concetto di «costituzione» solo con alcuni correttivi. Se manca, certamente, il dato formale essenziale costitutivo di questa nozione, che è la forma scritta e la fissità delle regole formali relative alla organizzazione dei pubblici poteri e ai rapporti tra questi e il cittadino, non può dirsi certo assente il profilo assiologico che caratterizza una costituzione nel senso moderno: attraverso una certa organizzazione del potere sovrano, la comunità esprime un determinato orientamento sul rapporto potere-cittadino.

L’esperienza politica e giuridica romana può dirsi ispirata ad un senso di pragmatismo ed empirismo che conquista margini di astrazione solo nella tarda età classica, quando non solo il termine «constitutio» assume il significato di atto legislativo del princeps, ma gli stessi giuristi tendono a teorizzare i principi relativi alla organizzazione statuale. Nasce il ius publicum, nella definizione del giurista severiano riportata in apertura del Digesto.

 

D. 1.1.1.2, Ulp. 1 inst.: huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia, quaedam privatim. Publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus constitit. Privatum ius tripertitum est: collectum etenim est ex naturalibus praeceptis aut gentium aut civilibus.

 

Non appare certo corretto discutere di «aspetti teorici» con riguardo al periodo repubblicano. Ed infatti, lo sforzo sicuramente evidente nella letteratura extragiuridica, e massimamente in Cicerone e Polibio, di generalizzare e razionalizzare i principi emergenti dalla prassi politica repubblicana (basti pensare alle definizioni di populus; res publica; civitas), non può ascriversi ad un dogmatismo politico del tutto estraneo allo spirito ed alla sensibilità di un sistema ordinato intorno ad un equilibrio tra poteri che non è istituzionalmente definito, ma vive, di volta in volta, nelle contingenze delle vicende politiche.

Lo sforzo teoretico di Polibio e di Cicerone rappresenta, piuttosto, la riflessione di una dottrina che assiste, in prima persona, alla realtà politica contemporanea, e che questa legge con lo sguardo ammonitore di chi possiede i contenuti superiori della scientia filosofica, la sola capace di elevare contenuti contingenti e particolari. La constitutio romana come status rei publicae, «struttura essenziale ed esistenziale della civitas»[35], vive di un dinamismo e di una elasticità che allarga o restringe le maglie dei pubblici poteri in ragione delle congiunture storiche e politiche.

La civitas vive entro sè stessa. E, tuttavia, la sua esistenza è ordinata da un’attività superiore che detta le regole del gioco.

Insomma, l’empirismo ed il pragmatismo dell’esperienza “costituzionale” romana, espressi nelle locuzioni latine ad essa relative e riflessi nelle teorizzazioni ciceroniane e polibiane, non impediscono di configurare, anche nell’esperienza romana, un concetto analogo a quello moderno di costituzione.

Se pure manca la struttura ordinante, ciò non significa che manchino le regole ordinatrici. L’ethos che fonda l’organizzazione costituzionale repubblicana, e che ispira il ius-logos, essenza governante le sue interne dinamiche, si identifica con la libertas: i rapporti di forza tra gli organi detentori del potere sovrano, nel loro fattuale dinamismo, sono, tra alti e bassi, governati dalle contingenze fino al limite (ovvero nel rispetto) della libertas. È la libertas il motivo conduttore, l’ideologia (ethos-logos) che ispira i rapporti politici d’età repubblicana. La sua violazione è considerata fonte di gravi rotture per l’equilibrio costituzionale.

Ciò induce a ritenere che l’esperienza romana non ebbe una «costituzione», ma conobbe senz’altro un «costituzionalismo».

Se la «costituzione» è la legge fondamentale scritta che fonda la legittimità del potere politico nella garanzia dei diritti fondamentali e nella separazione dei poteri, il «costituzionalismo» è la teorizzazione della «costituzione» intesa quale limitazione e regolamentazione del potere politico[36]: la «democrazia costituzionale» rappresenta la traduzione istituzionale dei limiti posti all’assolutezza del potere politico a tutela dei governati.

È evidente che siffatta “pura” accezione di «costituzionalismo» non pare utile per il mondo romano. Manca la separazione dei poteri (secondo la tradizionale tripartizione di Montesquieu[37], legislativo, esecutivo e giudiziario), ravvisandosi, invece, secondo lo schema consociativo della costituzione mista di matrice polibiana e ciceroniana, tre forme di esercizio di un unico potere. Manca una codificazione formale e scritta di norme superiori disciplinanti l’ordine politico, qualcosa insomma di assimilabile alla nostra Carta Costituzionale[38], la cui «teorizzazione» «come dottrina» integrerebbe il «costituzionalismo»[39].

Nell’esperienza romana, la riflessione sui principi giuridici relativi al sistema politico non assume una dimensione teorica ed una forma scritta. Per quanto numerose, le leges non ebbero mai una funzione centrale di regolamentazione del potere politico, le cui dinamiche appaiono governate dalla prassi costituzionale. Se poi le XII Tavole, fons omnis publici privatique iuris (Livio, 3.34), sanciscono il principio della eguaglianza giuridica dei cittadini, l’aequatio iure omnium, e rappresentano pertanto la risultante di una rivendicazione politica patrizio-plebea, il ius privatum fu il prodotto peculiare e geniale della iurisprudentia, ossia di un’attività “interpretativa” contingente, la c.d. interpretatio iuris, che rappresenta l’espressione propria e duratura dell’esperienza giuridica romana.

Questi limiti relativi all’impiego del termine costituzionalismo per l’esperienza antica sono, in realtà, quelli generali relativi all’impiego di categorie dogmatiche moderne ad istituti e fenomeni dell’antichità. Com’è stato saggiamente osservato, il rischio di utilizzare «per il mondo romano modelli teorici e concetti che si sono venuti ad affermare solo in età moderna (dal concetto di sovranità, alla teoria dei poteri, alla personalità giuridica) e che a quell’esperienza sono completamente estranei» è quello di «costringere in un sistema teorico una esperienza giuridica estranea alle origini storiche ben determinate di quel sistema e ribelle a costruzioni dogmatiche»[40].

Pur con questi limiti, può nondimeno ammettersi che anche l’esperienza romana conobbe un suo «costituzionalismo», ossia ebbe ben presente, sicuramente nella fase repubblicana, l’idea del limite al potere politico. Tutta la storia romana, nell’evoluzione delle forme storiche ed istituzionali, fu percorsa da un valore che, tra alterne vicende, non mancò mai di qualificarne il pensiero politico e giuridico: la libertas.

Negata nell’età arcaica del regnum, sostituita dall’auctoritas durante il principato, la libertas qualifica senz’altro la costituzione repubblicana ed il potere statuale, nella forma tripartita della sua esplicazione. Com’è stato puntuamente osservato, «è significativo … che il costituzionalismo romano si ispiri, non tanto ad uno schema strutturale dei poteri divisi come accade alla modernità liberale europea, quanto ad un valore etico-politico, che è la libertas»[41]. Essa caratterizza l’essenza della vita politica repubblicana[42], ponendosi quale garanzia dei diritti dei governati-cives rispetto all’autorità statale (coercitio magistratuale) ed al monopolio politico dello Stato assoluto, ossia di quella tirannide nella quale Cicerone vedrà la negazione della «res publica» che è «res populi».

 

  1. de re publ. 3, 31, 43: ergo ubi tyrannus est, ibi non vitiosam, ut heri dicebam, sed, ut nunc ratio cogit, dicendum est plane nullam esse rem publicam.

 

L’essenza garantista del costituzionalismo moderno vive, insomma, anche nell’esperienza romana e nelle garanzie che la prassi appresta alla libertas del civis. La storia del «costituzionalismo romano» può in fondo identificarsi con la storia della libertas, e, dunque, con i percorsi della condizione politico-giuridica del civis, in un contesto formale non inquadrato entro una cornice di superiore rigidità e fissità formale, ma intessuto di un sostrato di norme materiali fondamentali alimentate dalla vivacità delle dinamiche politiche.

Se si considera poi che l’equivalente in senso collettivo della nozione di «civis» è il «populus», proprio come la «res publica» lo è, in chiave oggettiva ed ordinamentale, rispetto al «populus» stesso, allora discutere di «costituzionalismo romano» significa anche indagare i rapporti tra il «populus», quale depositario della sovranità, dunque dei poteri di diritto pubblico (normativo, esecutivo, giudiziario), e le altre istituzioni politiche che nella prassi costituzionale romana, ora della respublica, ora del principato, entrano in rapporto dialettico e talora concorrente con esso.

Diversa ancora è poi la questione relativa al rapporto tra il «costituzionalismo romano» - categoria moderna che può acquistare un preciso valore per l’esperienza romana e che per la sua precipuità semantica bene si presta a definire la complessità del rapporto tra il populus sovrano e gli altri organi di diritto pubblico – e la categoria del ius publicum. Quest’ultima assume una precisa configurazione storica solo nel tardo principato e nella voce di uno dei maggiori giuristi dell’impero, Ulpiano (D. 1.1.1.2. Ulp. 1 inst.): riflesso evidente di un «costituzionalismo romano» che solo in età tarda giunge ad astrattizzare il concetto di populus/publicus, che ora si contrappone al privatus, in un rapporto con gli altri organi istituzionali che non è più conflittuale nella gestione della sovranità, giacché il populus (ora princeps) gestisce in via esclusiva i poteri afferenti alla sfera pubblica.

In conclusione, se da un punto di vista rigorosamente formale, Roma, a differenza di Atene, non conobbe una “Legge” scritta deputata a regolare il potere politico, sottoponendolo all’imperio di una “Regola fondamentale”, da un punto di vista sostanziale, il sistema del governo romano, con il suo equilibrio “empirico” di pesi e contrappesi, trova un limite (ed una garanzia) nella libertas, che è il principio ordinante le dinamiche pubblicistiche e che, per la sua penetrante capacità regolatrice, ne esprime la civiltà.

Roma insomma elaborò un sistema costituzionale nel quale, a prescindere dal dato formale (l’esistenza di una costituzione scritta), il potere politico e gli organi nei quali esso si esprime soggiacciono all’imperio di una “regola” superiore ordinante, l’ideologia della libertas, che permea di sé il ius-logos, «trama»[43] della respublica.

La circostanza prospettata per cui sia Atene sia Roma espressero un costituzionalismo (se non anche una costituzione), e, dunque, nell’organizzazione dei poteri sovrani manifestarono un peculiare patrimonio ideologico – le cui voci si identificano nel Pericle tucidideo per l’Atene del V secolo, ed in Cicerone e Polibio per la Roma repubblicana –, non legittima a trasporre automaticamente i moderni concetti di costituzione e di costituzionalismo all’esperienza antica. Se questi si qualificano in ragione di un peculiare bagaglio di idee e di valori che, a loro volta, sono il portato di uno specifico contesto storico e sociale, frutto di specifici processi ed evoluzioni storiche, appare storicamente più corretto discutere di un “costituzionalismo romano”, ovvero di una politeia e di un “costituzionalismo greco”.

E, soprattutto, appare utile attingere all’antichità greco romana ed ai suoi percorsi[44], poiché in essi possono rintracciarsi le radici ideologiche di un fenomeno, il costituzionalismo appunto, che troverà piena espressione come esperienza storica solo nell’età moderna. Il principio della sovranità popolare; il valore della libertas, sono principi della res publica romana (e la sovranità già del pensiero greco), di cui l’esperienza moderna fa tesoro concettualizzandola e fissandola a principio[45].

Se il costituzionalismo integra la teorizzazione dei limiti al potere politico, libertas e ius ne rappresentano l’essenza quali limiti all’autorità statale, capaci di correggere le eventuali distorsioni del potere. Ad essi la prassi politica deve ispirarsi nella gestione delle dinamiche istituzionali.

Vi è in realtà a Roma – come sottolinea efficacemente Pani – uno «spirito costituzionalista» che consente «di porsi contro le istituzioni restando nella «costituzione»[46]. Questi principi fondamentali fondano la democrazia costituzionale romana. Libertà, partecipazione, diritto sono i cardini della democrazia greca e romana. Solo quando queste regole superiori mutano o vengono meno può riconoscersi una modifica della costituzione.

Se così è, allora, è possibile forse pensare che non maturi alcuna “rottura” costituzionale durante il principato: i richiami alla respublica restituta, alla libertas, confermano, almeno formalmente, la vitalità di quei valori sui quali si fonda la res publica, e che si pongono, nel manifesto dell’ideologia augustea, come argine all’assolutezza dei poteri del princeps, secondo quella medesima funzione che svolgevano nella «costituzione» repubblicana. L’evoluzione del principato paleserà poi uno scarto tra la «costituzione formale» e la «costituzione materiale»: Augusto pone le premesse per quella rottura costituzionale rispetto alla res publica che matura definitivamente e formalmente con l’evoluzione politica successiva. Prima è possibile individuare storture, abusi della costituzione repubblicana, ma non una vera e propria rottura.

 

  1. I “valori fondamentali” dell’antichità classica

 

L’esistenza di un “costituzionalismo romano” giova a chiarire il senso del riconoscimento di “diritti fondamentali” anche in questa esperienza storica.

Giova anzitutto precisare che per il mondo romano conviene discutere di diritti fondamentali anziché di diritti umani. Sebbene le due espressioni siano correntemente usate (e forse anche considerate[47]) sinonimiche, il diritto romano, così pubblico come privato, attribuisce rilevanza giuridica al “cittadino”, non all’individuo in quanto tale.  Il “diritto”, ius civile, è dei cives Romani: i diritti spettano ai cives Romani; gli stranieri ne sono esclusi[48].

Non è giuridicamente tutelato l’uomo in quanto tale nella misura in cui non tutti gli “uomini” sono “personae[49] e non tutte le “personae” sono giuridicamente uguali.

Con riguardo al primo aspetto, basti considerare la trattazione gaiana nella quale emerge evidente questo duplice volto di un medesimo fenomeno.

Gaio utilizza due termini homo/persona per esprimere due diversi profili di rilevanza dell’essere umano. La persona è l’essere umano oggetto della considerazione giuridica: il diritto che riguarda le persone (ius personarum) integra uno dei tre elementi dell’omne ius quo utimur (Gai 1.8). I soggetti di natura sono classificati in base alla posizione assunta all’interno della collettività, e qualificati anzitutto, ed in prima battuta, come liberi o servi. Questa è la summa divisio personarum quod omnes homines aut liberi sunt aut servi (Gai 1.9.): la libertà o la schiavitù sono aggettivazioni giuridiche che qualificano l’essere umano in quanto tale e che, proprio per questo, attengono al concetto di persona[50].

 Con riguardo al secondo profilo, l’esistenza degli schiavi, uomini per natura ma non personae, i limiti alla capacità di diritto pubblico dello straniero (e, per lo straniero che avesse lo statuto di nemico anche di diritto privato), la limitata capacità giuridica delle donne escludono il principio, ed ancor più, il diritto di uguaglianza a Roma[51].

Il prisma della cittadinanza[52] definisce il rapporto giuridico che lega l’individuo all’ordine politico e sociale, qualificando una “appartenenza” che giova a definire la stessa nozione di “diritti fondamentali” ed a contestualizzarla in questa esperienza storica.

Lo stesso privilegio della cittadinanza subisce numerose limitazioni in ragione della dignitas del cittadino: i cives non sono tutti uguali e la dignitas sociale di cui godono segna le differenze nell’attribuzione dei diritti[53]. Nella respublica censitaria ed aristocratica, la cittadinanza è requisito per l’attribuzione dei diritti, e la libertas politica e soggettiva è prerogativa della res publica e dei suoi cives. Ma la libertassi aequa non estne libertas quidem est (Cic., de rep. 1.31.47). Per una sua piena esplicazione, la libertas deve essere aequa.

Alla libertas ed all’aequitas fa dunque da corollario un terzo valore che è la dignitas. L’aequa libertas importa un’attribuzione di diritti misurata in ragione del gradus dignitatis, per effetto del quale, come ricorda Cicerone, quisque est gradu firmiter collocatus (de rep. 1.45.69). In ciò il senso della aequabilitas ciceroniana come ripartizione dei compiti, doveri e diritti in proporzione ai meriti ed ai valori[54].

Essere cittadini[55] significa partecipare attivamente alla vita della res publica, ma i diritti di partecipazione sono graduati in ragione dell’autorevolezza sociale, del censo, del sesso.

Se si fa forse eccezione per talune affermazioni latamente riferibili al diritto alla vita o all’integrità fisica, riconosciuti all’uomo in quanto tale[56], la tutela dei “diritti” dell’uomo passa attraverso il riconoscimento dello status di persona. Libertà, cittadinanza, famiglia integrano i filtri per il godimento dei diritti: ius connubii, ius commercii, ius usucapionis, per il diritto privato, ius suffragii e ius honorum, i più importantiper il diritto pubblico.

Sono questi i “diritti fondamentali” del civis, e il loro riconoscimento soggiace al gradus dignitatis.

Essi possono definirsi “fondamentali” nella misura in cui, limitando il potere pubblico, si considerano attuazione della libertas quale valore qualificante l’identità culturale del corpo sociale. La libertà romana non è un diritto soggettivo in senso stretto. Essa opera nella costituzione materiale attraverso una serie di meccanismi costituzionali quali, ad esempio, l’intercessio tribunizia o l’auctoritas senatus, che, di volta in volta, garantiscono l’osservanza delle leggi da parte degli organi pubblici e dei singoli cittadini. È nella garanzia dell’osservanza delle leggi la tutela dei “diritti soggettivi” spettanti al cittadino[57].

Solo entro questo cornice storica ed assiologica è possibile parlare di “diritti fondamentali” nel mondo romano, avvertendo che non si tratta di situazioni soggettive riconosciute a tutti gli uomini (perché non tutti gli uomini sono “personae” e perché non tutte le “personae” hanno il medesimo “gradus”) e, ancor prima, non si tratta di situazioni soggettive nell’accezione moderna di “diritti soggettivi”, ma di quelle assimilabili situazioni di vantaggio nelle quali si esprime la libertas.

È evidente, infatti, che qualsiasi discussione sulla categoria dei “diritti fondamentali” presuppone un sistema che conosca la figura del diritto soggettivo. Questa manca invece nello strumentario giuridico privatistico proprio dell’esperienza romana che, come noto, non teorizza la categoria del ius in senso soggettivo o, almeno, vi giunge in una fase avanzata del suo percorso: è nella categoria del meum esse che si individua la genesi dei diritti soggettivi romani[58].

In un mondo giuridico che approda al concetto di ius (in senso soggettivo) solo all’esito di un lungo percorso che passa attraverso la categoria del potere (mancipium) e della dimensione proprietaria (meum esse) delle situazioni giuridiche, ma concepisce l’idea di attribuzioni soggettive, pure limitate attraverso il filtro della cittadinanza, se appare forse improprio discutere di “diritti”, non sembra allo stesso modo inutile ragionare intorno ad essi.

Una giusta collocazione del problema dei “diritti fondamentali” che passi attraverso la sua storicizzazione, anzi, meglio, la sua “costituzionalizzazione”, consente di individuare “valori” primari che l’ordinamento pone quale proprio fondamento e che integrano limiti ai poteri costituiti. La cittadinanza si nutre di questi valori e diventa elemento di condivisione di una identità sociale e religiosa e di compartecipazione di una esperienza storica e giuridica.

Civitas è lo “stato” non nel significato moderno del termine, quale soggetto giuridico dotato di una propria base territoriale. Civitas è l’aggregato di cives, coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus (Cic., de rep. 1.25.39). La religione li tiene insieme in un vincolo identitario sociale prima ancora che giuridico.

Se si sottrae la questione alla lente deformante della formalizzazione del diritto soggettivo, e si assume il paramentro sostanziale della tutela dei valori “fondamentali” per il cittadino, allora il problema dei diritti fondamentali assume una diversa consistenza.

Nel “costituzionalismo” dei Romani è l’affermazione stessa dei diritti fondamentali.

Costituzionalismo e diritti fondamentali appaiono come come due facce della stessa medaglia[59]: non c’è potere pubblico che non sia governato – dunque limitato e disciplinato – dalla libertas.

Né il limite del gradus dignitatis era percepito come una violazione dell’aequitas, quanto, all’opposto, una sua attuazione. L’aequitas importa paria iura (Cic., Top. 4.23), ma l’eguaglianza dei diritti sarebbe iniqua se non fosse “graduata” in ragione della dignitas.

Se, dunque, si considera che nel mondo romano i diritti erano riconosciuti esclusivamente al cittadino, nessuna comparazione potrebbe a ragione porsi con la concezione dei diritti fondamentali della modernità, quali diritti inviolabili riconosciuti all’uomo in quanto tale, che, frutto della temperie culturale del XVII e XVIII secolo, costituiscono oggi oggetto di un confronto importante e di vivace dibattito.

Se, invece, il tema dei diritti fondamentali si “storicizza”, ossia si guarda ad esso nella diversa prospettiva storica, quale espressione di una precisa epoca storica e di una fisionomia costituzionale che pone limiti al potere politico, allora anche per il mondo romano è possibile individuare “valori fondamentali” in tutte le espressioni della libertas

Nella tutela della libertas e della vita privata dei cives[60], che significa anche rispetto dell’autonomia dei popoli conquistati[61], si riconoscono i tratti principali di un fortunato modello istituzionale che, con senso di realismo politico, riuscì ad adattarsi a più ampie dimensioni ed a modellarsi a nuove esigenze di gestione amministrativa.

In un sistema costituzionale che rappresenta una «insuperata sintesi di autorità e libertà»[62], il valore della persona umana – nei suoi profili della libertà e della dignità –  diventa il filo conduttore di un’architettura giuridica che offre ancora ai diritti della modernità importanti indicazioni: «l’umanità del diritto, e dunque anche l’umanizzazione della pratica giuridica, di cui la società oggi ha particolarmente bisogno, segna la strada per l’attuazione dei diritti umani, per la realizzazione del diritto vero»[63].

Una concezione universalistica del diritto, che riconosca a tutti gli uomini indistintamente “diritti umani”, inizia a farsi strada solo nell’età del principato.

Già invero Cicerone (de rep. 3.33) riconosceva nella legge naturale la fonte di un diritto universale orientato dal criterio della humanitas. E l’idea di umanità iniziò ad influenzare il diritto e la vita giuridica romana in maniera sempre più pervasiva, «in modo “comprensivo e profondo”, nel diritto di famiglia, nel diritto e processo penale, perfino (soprattutto dall’età imperiale) in materia di schiavitù; costituendo un cardine della grande trasformazione incentrata sull’aequitas, che caratterizzò la giurisdizione pretoria e dunque la formazione del ius honorarium. Lo spazio concesso all’uomo, ai suoi veri bisogni diventò sempre più ampio nella nuova visione del diritto a partire dal III secolo avanti Cristo. Slegò l’applicazione del ius dalla subtilitas veterum, per orientarla su una nuova iustitia. Ponendo le basi per l’affermazione dei praecepta iuris, che ancora oggi debbono caratterizzare la convivenza tra gli uomini: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere»[64]

Il concetto di humanitas prende corpo all’interno del Circolo degli Scipioni, e modera il rigore del diritto in ragione della dignità dell’uomo che diventa solidarietà tra gli uomini: la considerazione del valore dell’uomo porta con sé necessariamente il rispetto dei terzi e, senza dar luogo a specifici diritti, diventa un principio informatore del sistema, del ius che, secondo l’insegnamento celsino, è ars boni et aequi[65].

L’humanitas e l’aequitas divengono categorie giuridiche sostanzialmente convergenti nella funzione da attribuire al diritto: l’humanitas come valore morale di solidarietà e clemenza, capace di orientare il diritto verso l’attuazione di un’aequitas sostanziale tra tutti gli uomini, inclusi dunque gli schiavi, ed a prescindere dalle differenziazioni sociali portate dal gradus dignitatis, diviene, attraverso la mediazione filosofica dello stoicismo, un tema fondamentale della giurisprudenza imperiale.

La trattazione ulpianea della schiavitù e della manumissione (D. 1.1.4, Ulp. 1 inst.; D. 50.17.32, Ulp. 43 ad Sab.) rivela più di ogni altra l’approccio umanitario alle questioni giuridiche.

La naturalis ratio (Gai 1.1.) riflette una visione universale della società fondata su un terreno di valori condivisi. L’imperatore quale monarca ecumenico è l’espressione di una cosmopoli unificata da un diritto universale.

Per il giurista-sacerdote, perché coltiva la giustizia ed impartisce la conoscenza del buono e dell’equo (D. 1.1.1 pr., Ulp. 1 inst.)[66], il diritto naturale, la cui conoscenza è appunto prerogativa dei giuristi, deve orientare il diritto positivo di emanazione imperiale.

Ne deriva l’affermazione di un universalismo giuridico, fondato appunto sul diritto naturale, che, di lì a poco, troverà affermazione politica con la Constitutio Antoniniana del 212 d.C. 

In questa nuova prospettiva, il diritto diventa hominum causa constitutum, fatto dall’uomo, al servizio ed in funzione dell’uomo[67]. I giuristi, conditores iuris, sono gli artefici di questa rinnovazione su base umanitaria ed equa del diritto attraverso una nuova lettura dei tradizionali istituti del ius civile.

È proprio sul terreno della prassi giurisprudenziale che l’humanitas penetra negli istituti tradizionali del ius civile, conferendo loro una dimensione universalistica calibrata sulle rinnovate dimensioni dell’impero[68].

L’idea di una natura umana universale che impone l’attuazione nella prassi degli ideali di giustizia e solidarietà per tutti gli uomini non esclude la diversità, ma – con un atteggiamento ben lontano dalle ipocrite declamazioni dei moderni – la riconduce entro l’alveo della universalità e della varietà della natura umana.

La mutata condizione dello schiavo è frutto anche di questa rinnovata visione dei valori posti a base del diritto e dell’ordinamento. E non è un caso se la misura dei diritti e dei doveri non fu ancorata presso i Romani alla differenza etnica, ma alla diversa condizione sociale dell’essere umano.

Si fa strada una nuova accezione di dignitas, che non significa piu ruolo sociale rivestito capace di legittimare una diversa posizione rispetto al diritto, ma la dignitas hominis diventa valore dell’ordinamento capace di realizzare l’eguaglianza sostanziale tra tutti gli uomini, compresi gli schiavi.

Con le categorie dell’humanitas e dell’aequitas, attuate grazie a quel sistema tutto speciale che è la «costituzione» dei Romani, i giuristi romani offrono alle moderne società un modello assiologico e pratico di grande valore: quello della «umanità del diritto», ossia un mondo di valori (quelli racchiusi nell’ampio concetto di humanitas) che, senza estrinsecarsi in specifici diritti, anima una prassi giuridica orientata dalla centralità della persona (homo) e «della sua genetica prevalenza sulla norma, che deve essere in primo luogo strumento di umanità»[69].

Da «invisibile principio informatore dello sviluppo dell’ordinamento»[70], l’humanitas penetra nei singoli ambiti, consentendo lo sviluppo del sistema in relazione alle esigenze sociali reclamate dall’aequitas.

In questa prospettiva l’“humanitas” romana e i moderni “human rights” vivono percorsi di segno opposto, nella misura in cui l’humanitas opera sul terreno dei valori cui le regole giuridiche danno concreta attuazione, laddove i diritti umani, proprio in quanto cristallizzazioni giuridiche, si arrestano a mere proclamazioni, molto spesso prive di effettivo riscontro nella pratica giuridica.

E poiché, com’è stato bene rilevato, «l’essenza dei diritti umani è tutta nell’efficacia della loro protezione»[71], a fronte di una lievitazione di questi diritti, la cui concreta applicazione si allontana spesso, e tanto, dai suoi presupposti teorici, il modello

Romeo Stefania



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