fbevnts From economic globalism to juridical cosmopolitanism. A reflection between effectiveness and ideality

Dal globalismo economico al cosmopolitismo giuridico. Una riflessione tra effettività e idealità

27.06.2019

Barbara Troncarelli

Professore ordinario di Informatica giuridica, Università degli Studi del Molise

 

Dal globalismo economico al cosmopolitismo giuridico.

Una riflessione tra effettività e idealità*

 

From economic globalism to juridical cosmopolitanism.

A reflection between effectiveness and ideality

 

SOMMARIO: 1. Il globalismo economico come attuazione riduzionistica del principio internazionalista. – 2. Il cosmopolitismo giuridico come teorizzazione antiriduzionistica del principio sovranazionale.

 

1. Il globalismo economico come attuazione riduzionistica del principio internazionalista.

 

«Finora la globalizzazione non è stata un processo inclusivo. Dobbiamo creare gli strumenti affinché lo diventi»[1]. L’apertura dei mercati in cui si è tradotto tale processo, senza sufficienti tutele giuridiche che ne regolamentassero l’attuazione in modo da garantire i diritti sociali e, in particolare, il diritto di tutti al lavoro, ha sì creato grandi ricchezze e benefìci economici, ma non per le fasce più deboli delle popolazioni, anche nelle economie avanzate. A parte la criticità delle condizioni lavorative in tanti Paesi nei quali sono state dislocate, dato il costo più basso del lavoro, varie attività imprenditoriali prima svolte in Occidente, l’intensificazione delle importazioni di merci dai luoghi esteri di produzione ha spesso determinato anche nelle società occidentali più industrializzate una notevole problematicità, per l’incremento della disoccupazione e per la correlativa perdita del potere d’acquisto da parte delle persone precedentemente impegnate in attività produttive locali, e non in grado di  ritrovare una collocazione occupazionale, soprattutto se prive di specifiche competenze tecnico-professionali. Si è infatti assistito alla chiusura di numerose aziende non riuscite a sostenere la concorrenza proveniente dal mercato globale, né a internazionalizzarsi per reperire altri sbocchi commerciali.

Sono molte le aspettative rimaste irrealizzate di costruire mediante la globalizzazione un nuovo legame sociale imperniato sui doveri etico-giuridici di rispetto della pari dignità di ciascuno, e non solo sui diritti economico-utilitari di affermazione della libera iniziativa individuale. Si tratta di aspettative giuste, ma che soltanto una globalizzazione basata dialetticamente su un nesso di “unità nella differenza”[2], di uguaglianza nella libertà, di solidarietà nella competitività, avrebbe potuto porre in essere, e non un globalismo come quello delineatosi sotto forma di un insieme destrutturato di svariati particolarismi in antagonismo, se non in netto conflitto tra loro. Tutto ciò è riconducibile prevalentemente alla riduttiva assunzione del principio internazionalista nei termini di una più o meno latente erosione del principio di sovranità nazionale, per giunta in assenza di una dimensione davvero sovranazionale che, andando oltre il piano dei meccanismi internazionali di funzionamento dei mercati, si sia dimostrata capace di creare un ordine realmente unitario, mondiale o quantomeno europeo. Al posto della promozione dei princìpi di dignità umana e di solidarietà sociale, che avevano avuto una prima espressione nelle democrazie costituzionali sorte dopo il secondo conflitto mondiale in un clima di emblematica riscoperta dei diritti come presupposto etico-giuridico di ogni assetto intra- e interstatale pronto a superare in un’ottica di welfare gli angusti limiti del capitalismo esperito sin dalla prima rivoluzione industriale, il modello funzionalistico prevalso nella forma di un globalismo meramente economico ha generato, a partire dagli anni Ottanta del Novecento, qualcosa di radicalmente diverso.

Si allude alla comparsa di una tendenza regressiva protesa verso un «revisionismo costituzionale»[3] che ha indotto a porre in discussione finanche il quadro non negoziabile dei princìpi costituzionalmente radicati. Alcuni di tali princìpi e diritti fondamentali hanno ceduto sempre più il passo alle dinamiche impersonali dell’economia e della finanza, tanto che l’esasperata «ripresa delle politiche neoliberiste ha assunto ormai forme teologiche, di incontrastata verità cui tutto sacrificare, il lavoro in primo luogo»[4]. Il globalismo economico ha così dischiuso uno scenario nel quale si è prospettata ben presto una profonda crisi d’identità dei soggetti coinvolti, individuali non meno che statali, nel senso che mentre le persone sono divenute oggetto di un processo di crescente omologazione, e si sono trasformate da lavoratori e da depositari di spettanze etico-giuridiche in anonimi consumatori funzionali allo sviluppo vorticoso della tecnica e dei nuovi social media, gli Stati nazionali hanno subìto tentativi di forte riduzione delle loro prerogative di sovranità e autodeterminazione a vantaggio non già di quanto «assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni»[5], ma di una logica fittiziamente globale come quella insita nelle dinamiche economiche di mercato non supportate da strategie politiche comuni, anche all’interno dell’Unione Europea quale insieme di Stati mai giunto ad acquisire una effettiva coesione sovranazionale nel rispetto delle diverse specificità nazionali[6]. A essere globalizzate sono state soprattutto le divisioni intercorrenti tra i pochi detentori di notevoli disponibilità economico-finanziarie e i molti espropriati del diritto socio-individuale al proprio sostentamento e a una vita dignitosa. Si tratta di una dignità tutelabile soprattutto mediante l’esercizio concreto e continuativo del diritto al lavoro, tanto essenziale da essere meritevole di incentivazione, se necessario, con misure di intervento pubblico rivolte a fronteggiare sia le sistemiche crisi dell’economia comportate dal globalismo dei mercati, sia le dinamiche di automatizzazione tecnologica delle attività produttive[7].

Resta il fatto che le originarie istanze post-belliche di un mondo libero, giusto e pacifico, poste alla base dell’istituzione a metà Novecento della Comunità Economica Europea, fondata su una cooperazione commerciale atta ad aprire gradualmente la strada a un più ampio progetto di costruzione anche socio-politica dell’Europa, sono state in larga parte disattese. Si è avverata, invece, la previsione di chi aveva intuìto da tempo un incremento globale del profitto dei soggetti forti, cioè di chi aveva compreso che «il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia per tutto il globo terrestre»[8]. Così era stato predetto, già nel 1848, da Marx ed Engels, a cui va riconosciuta una grande lungimiranza nel preannunciare con ampio anticipo quelle tendenze globalistiche che poi sarebbero comparse appieno negli ultimi decenni del Novecento. Quanto è emerso come “terzo capitalismo”, o «capitalism 3.0»[9], cioè come forma di economia capitalistica incentrata sull’espansione mondiale sia dei mercati sia delle nuove tecnologie informatiche, presenta una insospettata linea di continuità con il “primo capitalismo” ottocentesco dei tempi di Marx ed Engels. Pur nell’eterogeneità che contraddistingue le due fasi storiche, si tratta di sistemi economico-industriali entrambi lontani dal riconoscimento dei diritti e dalla doverosa tutela sociale delle condizioni di vita dei lavoratori, come si può constatare ancora se si pensi ai molti dipendenti precari e/o in balìa degli interessi di titolari d’impresa protesi a delocalizzare in Paesi esteri le loro attività produttive, o ad automatizzarle a fini di risparmio sui costi della manodopera.

 Il capitalismo globale, o terzo capitalismo, si configura invece come notevolmente eterogeneo a un’altra fase di sviluppo, cioè al “secondo capitalismo” scaturito dalla grande crisi economica degli anni Venti del Novecento e proseguìto per circa un cinquantennio, quando vennero adottate strategie economiche favorevoli a interventi statali, di contro all’illusione liberista che il sistema economico di mercato sarebbe stato sempre in grado di autoregolarsi pervenendo spontaneamente alla prosperità e alla piena occupazione. Nel secondo Novecento si è potuto apprezzare un sostanziale successo di tale modello di “economia mista”, vertente su un nuovo equilibrio creatosi tra Stato e mercato, che pur con alcuni aspetti di problematicità connessi al rischio di uno slittamento dello Stato sociale in Stato assistenzialista, ha aperto la strada, nelle economie avanzate, a un periodo di proficua stabilità, durato fino alla metà degli anni Settanta. È stato questo il modello di capitalismo adottato sotto l’egida del pensiero keynesiano, nonché della visione solidaristica o social-democratica che si è delineata in quegli anni alla luce di un liberismo orientato al buon funzionamento della produzione e degli scambi, tale che tutti potessero esserne beneficiari in termini di progresso e utilità, sociale non meno che individuale. Ciò si è tradotto in regolazione, apertura, welfare e investimenti pubblici nei beni collettivi, determinando i cosiddetti “trent’anni gloriosi” dell’Europa.

Ma con la crisi petrolifera degli anni Settanta, e anche a seguito di alcuni eccessi regolativi, si è imposta una reazione anti-welfarista e neoliberista all’insegna di concetti quali privatizzazione, concorrenza, riduzione del ruolo del settore pubblico, deregulation. Ne è conseguita in ambito economico una profonda avversione alle regole, che ha avuto uno dei suoi effetti più negativi nella crisi globale, apparsa nel 2008, dei mercati economico-finanziari[10], e che ha tratto stimolo da un processo di globalizzazione univocamente economicistico e funzionalistico. Tradendo le iniziali speranze di progressivo avanzamento e benessere per tutti, questo perdurante processo sembra aver assolutizzato, di fatto se non di principio, la logica utilitaristica dei soggetti più forti e la correlativa marginalizzazione dei più vulnerabili, o divenuti tali perché tagliati fuori dal mondo produttivo. Non a caso, si è intensificata negli ultimi anni un’accesa discussione sulle possibili alternative al capitalismo neoliberista[11], e sulla sua sostenibilità economico-sociale visti gli effetti già comportati da questo «capitalismo finanziario»[12]. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta del Novecento, il prassismo economico, infatti, ha preso un graduale ma costante sopravvento sulla razionalità etica e sui princìpi normativi a essa riconducibile, che erano emersi all’indomani del secondo conflitto mondiale per dare luogo a importanti iniziative internazionali di alto significato umanitario, quali la Dichiarazione universale dei diritti umani promulgata dall’Onu nel 1948. Di essa è stato mantenuto, tuttavia, l’intendimento tendenzialmente individualistico dei diritti umani, che ha dato luogo alla formazione di un solco profondo tra le legittime pretese di libera iniziativa economica e le esigenze, non meno legittime, di giustizia e solidarietà sociale a cui è possibile rispondere solo se la libertà venga concepita e praticata non come mera discrezionalità soggettivistica, ma come fondamentale principio etico-razionale e irrinunciabile spazio esistenziale valido per tutti. Non si è tenuto abbastanza in considerazione che le libertà economiche sono distinte e, al tempo stesso, inscindibili dalle libertà civili, o meglio che le libertà economiche non sono esigibili senza il riconoscimento delle libertà civili, e soprattutto che la libertà sostanziale derivante a ciascun essere umano dal riconoscimento altrui della sua dignità è la conditio sine qua non del reale esercizio di ogni altra più specifica libertà, sia dei diritti di libertà politica dei cittadini sia dei loro diritti di libertà economico-imprenditoriale, i quali non sono riducibili a incondizionate espressioni di individualismo e di liberismo autoreferenziale. In tal senso, Croce aveva ragione ad affermare che le libertà economiche, alle quali fondatamente anteponeva le libertà civili e politiche, possono essere conseguìte anche mediante forme di statalismo, non essendo il liberismo l’unica possibile traduzione sul piano economico del vero liberalismo, cioè della «religione della libertà» da lui professata[13]: «se manca l’animo libero, nessuna istituzione serve, e se quell’animo c’è, le più varie istituzioni possono secondo tempi e luoghi rendere buon servigio»[14].

Anche seguendo il liberalismo classico di Smith, e non quello crociano, risulta notevole come il sistema neoliberista sia giunto nella contemporaneità a esiti di marcato divario dai «sentimenti morali» di smithiana memoria[15]. Ciò ha ostacolato la possibilità di una conciliazione del neoliberismo con l’idea anti-individualistica di legame sociale e con il principio del bene comune, che se è un principio di difficile definizione, senza dubbio non è un mero insieme di interessi particolari[16], ma comporta una dimensione di organicità e di reciproca implicazione tra i versanti, distinti benché non separati, di unità e differenza, totalità e singolarità, uguaglianza ed eterogeneità. La perdita postmoderna della misura, e della capacità di mediazione dialettica tra istanze diverse o contrapposte eppur tutte meritevoli di tutela converge, invero, con la perdita del concetto di regola, a cui subentra una velleità di autoregolazione insita nell’enfatizzata libertà di iniziativa e di autoaffermazione individuale, riscontrabile entro un mercato carente se non privo di norme, statali o internazionali che siano, secondo una prospettiva che, nella prassi economica, è richiamata appunto dal concetto di deregulation[17]. Non si tiene in debito conto che, per il consolidamento stesso dell’economia di mercato, è impossibile fare a meno di interventi pubblici atti a impartire doveri di equità, dato che agli obiettivi tipicamente economico-manageriali di efficacia e di efficienza si giunge non già prescindendo dai valori morali di rispetto intersoggettivo, ma muovendo proprio da essi, nel senso che «senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica»[18]. Come è stato osservato, «non si tratta di fare appello a un altruismo pericolosamente astratto, a una generosità istintiva. La questione vera è rappresentata dal mantenimento della coesione sociale, che non nasce da processi spontanei, ma è funzione del grado di benessere che l’organizzazione istituzionale rende possibile»[19], ossia di un benessere che è il portato di etico-razionali scelte normative.

In ambito economico, ciò richiede l’istituzione di apposite autorità garanti, oltre che l’introduzione di princìpi e regole miranti a evitare concentrazioni monopolistiche, a favorire una ponderata allocazione delle risorse, a promuovere la costituzione di imprese pubbliche. Sin dagli anni Ottanta del secolo scorso, nell’economia dei Paesi industrializzati si è però deciso di seguire la direzione opposta della deregulation, anziché di realizzare opportuni interventi statali, o di ottimizzarli mediante un adeguato sviluppo di organi istituzionali quali il sistema burocratico-amministrativo e l’apparato giurisdizionale, o di disciplinare meglio la fornitura di servizi di pubblica utilità. La deregolamentazione in nome di una indiscriminata libertà economica ha sancito la limitazione, se non la fine, di molte protezioni di carattere sindacale e ambientale, nonché l’abolizione di controlli aventi finalità sociali. Sebbene sia difficile confutare quanto realisticamente sostenuto sin dal liberalismo classico di Smith, cioè che i rapporti economici scaturiscano innanzitutto dall’interesse e non dalla benevolenza degli individui, una responsabile interpretazione di tali rapporti suggerisce che essi non possano essere scissi dal piano etico-giuridico e sociale della giustizia. Di qui, la necessità di tornare a obiettivi di riequilibrio economico, già perseguìti negli anni Cinquanta dai fondatori del progetto comunitario di integrazione europea, e di tenere sotto controllo i meccanismi di mercato tramite la formulazione di norme e vincoli a salvaguardia dell’interesse pubblico oltre che degli interessi individuali stessi, cioè a difesa di una giustizia sociale in cui l’economia sia «ricondotta a un ordine di fini che non si esaurisce in essa, in quanto il fine ultimo dell’economia è la persona umana nella sua crescita integrale e solidale a livello planetario»[20].

Nel predominio assunto a livello europeo e mondiale dai mercati e dalle transazioni finanziarie, affiora invece una deriva economicistica gravante sui soggetti deboli, siano essi individui o popoli, comportata dall’affermazione di una forma cinica di capitalismo, sotteso a un modello globale non rivolto verso uno spirito di coesione, ma configuratosi come un falso universalismo ad alto rischio di autodistruggersi e di provocare conseguenze molto gravi a livello non soltanto di singole società nazionali, ma di intera comunità internazionale. Si pensi ancora a quanto accaduto nella crisi sistemica del 2008, innescata sia dalla «crescente sperequazione distributiva» che dalla «deregolamentazione dei mercati»[21]. In considerazione di ciò, ai fini di una reale tutela dei diritti, inclusi i diritti economici delle persone socialmente più fragili, le autorità pubbliche, nelle loro attività di regolamentazione e controllo, sono chiamate ad approntare mezzi idonei, giuridici e politici, per la salvaguardia dei singoli e della collettività da ogni attentato alla loro crescita individuale e sociale. Resta il fatto che non si può pervenire a esiti di rinnovamento, o meglio di “risanamento” sociale se i diritti fondamentali vengano ricondotti essenzialmente alle pretese degli individui e, in particolare, alle loro libertà economiche nonché alla preservazione di esse o “dalla” ingerenza dello Stato o “mediante” l’ingerenza stessa dello Stato e di una politica, nazionale o internazionale o europea che sia, resa funzionale alla logica dell’economia. Ciò può condurre solo alla perpetuazione del disequilibrio sociale, e all’aggravamento della crisi prodotta anche nei Paesi più avanzati dai meccanismi sistemici del modello prevalso di globalizzazione dei mercati. Più esattamente, per questa via si può giungere alla creazione di una vera e propria «spirale viziosa: la disuguaglianza economica si traduce in disuguaglianza politica, che produce regole che favoriscono i ricchi, che a loro volta rafforzano la disuguaglianza economica»[22].

Anziché la configurazione di un ordine sociale inclusivo esprimente una complessità sociale propriamente unitaria e “interculturale”, in cui il tutto non nega la sussistenza autonoma delle singole parti, ma le oltrepassa conservandole, ha preso il sopravvento un disordine globale acentrico e reticolare, foriero di una frammentarietà particolaristica e “multiculturale” caratterizzata da tante isolate interazioni da espletare, senza però fini e relazioni solidali a cui tendere, dato che gli automatismi sistemici permeanti la società postmoderna sono tutt’al più capaci di «eseguire uno scopo», ma non di «avere uno scopo»[23]. I meccanismi di funzionamento su cui si basa tale globalismo fittizio quanto unidimensionale, operante per lo più in termini di affermazione degli interessi particolari di individui e gruppi gli uni in competizione con gli altri, sono chiaramente rinvenibili nelle modalità di attuazione della società tecnologica. Si tratta di modalità nelle quali tecnica ed economia interagiscono strettamente tra loro, ambedue trovando nel denaro «lo strumento ideale della tecnica moderna»[24]. Ciò determina un insieme di autoreferenziali dinamiche trasformative protese verso esiti di egemonia tecnocratica, in cui tutto è uniformato a prezzo[25] e a «variazioni di quantità»[26], ma non senza notevoli disparità di sviluppo sociale, a livello anche  intra-europeo[27], con inevitabili riflessi negativi nella qualità della vita individuale di larghe fasce della popolazione. La tecno-economia ha così assunto, contestualmente all’economicizzazione della politica e del diritto internazionale, un potere autonomo quanto sconfinato[28], dando luogo a un sistema sociale complessivo, autoregolato se non deregolato, dedito a una prassi di fatto incompatibile con obiettivi di crescita sociale estensibile a tutti. L’economia, tradotta in un sistema tecnocratico, chiuso e al tempo stesso globale, finisce per essere un processo autoreferenziale composto da un enorme insieme di interazioni e transazioni di mercato, ma in cui la presenza dell’altro prescinde da ogni richiamo a valori di solidarietà e uguaglianza.

Al secondo capitalismo affermatosi a metà Novecento, non alieno da intenti di benessere collettivo dopo le tante privazioni causate dalla seconda guerra mondiale, ha fatto quindi seguito il trend segnato dal terzo capitalismo, neoliberista e finanziario, mirante, come già il primo capitalismo ottocentesco, al godimento esclusivo ed escludente di una libertà del tutto priva di veri elementi di condivisione sociale. Ma la globalizzazione dei mercati e delle transazioni economico-finanziarie ha finito per entrare in grave crisi, rivelandosi antinomica ai princìpi fondamentali e non negoziabili del diritto, oltre che alla politica in quanto espressione pubblica di autodeterminazione di nazioni e popoli. Con la globalizzazione economica, è venuta meno la rilevanza sia delle persone e delle loro irripetibili specificità pur nella «parità ontologica»[29] che le unisce, sia della polis in quanto senso di appartenenza a una comunità statale, benché tale appartenenza e legame sociale non sia subordinabile né all’ambito dei soggetti privati e delle loro pur legittime prerogative di autonoma iniziativa economico-imprenditoriale, né all’orizzonte solo apparentemente imparziale e universale di un globalismo internazionalistico senza connotazioni propriamente politiche, né giuridiche. Questo predominio tecno-economico si è dimostrato incapace, per tutelare un individualismo radicale eppur anonimo e spersonalizzato, di ogni riferimento al dovere reciproco di rispetto della libertà di tutti e di ognuno, nonché inidoneo a garantire un armonico rapporto, organico e dialettico, intercorrente tra economia degli interessi particolari e politica del bene comune, come anche tra sovranità nazionale e comunità internazionale, nessuno dei due versanti sacrificabile a vantaggio dell’altro.

L’avvento del terzo capitalismo ha comportato un affidamento unilaterale ai mercati che, all’insegna di un discriminante sviluppo economico-finanziario, ha ravvisato nell’assetto liberista dei Paesi occidentali l’unica vera alternativa a ogni regime totalitario, in particolare a quello sovietico. Con il crollo di tale regime, sancito dalla caduta del muro di Berlino, si è anzi giunti a considerare il nuovo assetto delineato dalla globalizzazione economica come un approdo definitivo del cammino umano, o meglio come il fine e, al tempo stesso, la «fine della storia»[30], a cui nulla avrebbe potuto più subentrare di ulteriore. Ma il modello di globalizzazione funzionalistico-sistemica, che ha trasferito la conflittualità insita nel sistema degli Stati-nazione dal piano degli scontri militari al piano delle competizioni economiche e delle disuguaglianze sociali, a cui si sono aggiunte le intolleranze etnico-religiose e le azioni terroristiche sorte entro un multiculturalismo alimentato da incessanti flussi migratori, ha condotto a una sostanziale distorsione del principio internazionalista, univocamente inteso a prescindere dalle peculiari esigenze dei singoli popoli, al punto da perdere ogni capacità di apportare un reale superamento degli stessi particolarismi nazionali contro cui è stato invocato.

L’errore maggiore, frutto di una serie di scelte compiute negli ultimi anni dalla comunità internazionale, in special modo lungo il percorso di costruzione dell’Europa, risiede nell’aver privilegiato una nozione di unità rivelatasi funzionale prevalentemente, se non esclusivamente, agli affari economici anziché alle istanze sociali, sulla base di una governance animata non già da finalità di carattere partecipativo e solidaristico, ma da intenti rivolti alla tutela dei maggiori interessi in gioco, come è avvenuto anche nel processo di unificazione monetaria, precipuamente nel Trattato sull’Unione Europea firmato a Maastricht nel 1992. Il principio internazionalista finora posto in essere ha richiesto eccessive cessioni di sovranità nazionale, non compensate dalla presenza di una vera dimensione di sovranazionalità, e imposte all’insegna di una globalizzazione tesa a stravolgere il nesso dialettico di unità nella differenza a favore di un quadro internazionale costituito da un insieme di soggetti statali esposto all’egemonia di quelli più forti, e all’oscillazione tra gli estremi del differenzialismo e dell’omologazione, del sovranismo più escludente e del globalismo più indifferenziato. È una situazione in cui, da una parte, predominano gli interessi delle parti anziché gli interessi realmente comuni, dall’altra riscuote biasimo ogni tentativo di riaffermazione della potestà nazionale quale reazione al destabilizzante fenomeno, iniziato con la globalizzazione economica e tuttora in corso, che «non solo la sovranità - statuale o sovranazionale che sia – è venuta meno ma anche che, al momento, non se ne dia la possibilità»[31], da cui consegue «un “corto circuito” non più nazionale ma planetario»[32].

È mancata la consapevolezza che, in un mondo davvero globale, il principio di nazionalità permane tale pur facendosi, al tempo stesso, altro da sé, e che l’identità di ciascun soggetto statale non subisce alcuna forma di depauperamento, ma accresce la sua articolazione, nel senso che avverte la differenza al suo interno, oltre che al di fuori di sé. La differenziazione sistemica[33], come “differenza da” quanto è esterno ed estraneo al sistema, non viene elusa, ma superata dalla “differenza in” un orizzonte comune di appartenenza costituito dalla realtà stessa nella sua unitarietà, in particolare dalla realtà umana, che è unità, o identità, nella differenza, e differenza nell’unità. Solo l’identità dialetticamente intesa, peculiare del modello ancora utopico, ma realizzabile, di una globalizzazione organica e “sistematica”, e non più solo tecnocratica e “sistemica”, apre la strada verso l’unità costituita da un ordine realmente globale, cioè verso un’universalità che coesista con l’eterogeneità intersoggettiva di individui e popoli, e in cui tale eterogeneità sia espressione essa stessa di una organica e integrata società mondiale. Non che siano assenti, nel modello prevalso di globalizzazione, parziali realizzazioni di una integrazione sociale basata sul principio dialettico di unità nella differenza, ma ciò non toglie che in tale modello ad imporsi siano state le forti spinte disgregative proprie dell’individualismo dell’economia di mercato.

Sempre in questa prospettiva, riguardo al fenomeno epocale dei flussi migratori verso l’Occidente, sarebbe stato auspicabile astenersi sia da una rigida chiusura localistica, come quella adottata in Europa dai Paesi del Gruppo di Visegrád, sia da un’apertura insostenibile dei confini, come quella imposta dal Regolamento di Dublino allorché dispone la presentazione della richiesta di asilo esclusivamente nei Paesi di primo ingresso più esposti alle rotte del Mediterraneo, sui quali è venuto a gravare l’onere di gestire da soli l’arrivo illegale di un numero ingente di migranti[34]. In alternativa, si sarebbero dovute già organizzare, mediante l’intermediazione dell’Onu, azioni coordinate di solidale accoglienza a livello mondiale e non solo europeo, contemperandole con la necessaria tutela della dimensione identitaria degli Stati e delle loro specificità valoriali, e promuovendo così una riaffermazione non più autoreferenziale, bensì etico-relazionale, delle basilari idee di patria e nazione, a salvaguardia di tutti i soggetti coinvolti, individuali e statali, operanti sul piano internazionale. Si pensi al significativo, quanto dimenticato, monito papale secondo cui il «diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria»[35], per garantire il quale non si può prescindere in tutte le aree del mondo dal «promuovere uno sviluppo economico equilibrato, il progressivo superamento delle disuguaglianze sociali, il rispetto scrupoloso della persona umana, il buon funzionamento delle strutture democratiche»[36]. Se si neghi o sottovaluti il piano nazionale, più esattamente il concetto identitario di patria come realtà ideale ed effettiva in cui operare per il progresso proprio e altrui, non si potrà mai giungere a edificare alcuna concreta unità e coesione interumana, né tantomeno alcun vero ordine mondiale e cosmopolitico, non riducibile a un’aggregazione multiculturale di diversi individui e gruppi indifferentemente, se non ostilmente, conviventi l’uno accanto all’altro. Piuttosto, sussiste l’inalienabile diritto a un adeguato avanzamento sociale di ogni Stato e popolo esistente geopoliticamente come tale, con particolare riferimento a quei Paesi più arretrati del continente africano che non sono ancora riusciti a godere delle loro pur grandi risorse naturali, e le cui popolazioni continuano a vivere sotto la soglia della povertà, spesso flagellate da gravi malattie endemiche. La comunità internazionale, almeno le sue componenti maggiormente allineate all’ideologia del multiculturalismo sottesa al modello di una globalizzazione «corrispondente, dal punto di vista dell’individuo, a uno sradicamento, a una perdita della localizzazione territoriale, dell’appartenenza di gruppo, dell’identità culturale»[37], ha assunto sì l’impegno a sottoscrivere un patto a fini di gestione globale degli effetti migratori del sottosviluppo[38], peraltro tendente a eludere l’importante distinzione tra migranti economici e rifugiati[39], ma questo impegno pattizio non sembra essersi rivolto a una gestione altrettanto globale delle cause profonde di tali effetti. Sono cause ascrivibili, nei territori di provenienza delle correnti migratorie, sia alla crescente diffusione della violenza e dell’illegalità, come è comprovato dalla tratta incontrastata di esseri umani in balìa nel Mar Mediterraneo di trafficanti senza scrupoli, sia alla perdurante arretratezza socio-economica di quelle regioni, di fatto percepita con sostanziale indifferenza dall’Occidente industrializzato, quasi che il sottosviluppo del terzo mondo rappresenti un portato inevitabile della storia e non già l’esito di cattive politiche internazionali perpetrate da lungo tempo a scapito di quelle popolazioni e della loro crescita sociale. Anziché iniziative poco realistiche, se non insostenibili, a sostegno di una incessante fuga migratoria dai Paesi poveri, servirebbero investimenti industriali e infrastrutturali, soprattutto da parte degli Stati più economicamente avanzati, che sotto la guida dell’Onu fossero finalizzati a un miglioramento progressivo delle condizioni di vita ivi esistenti.

Frattanto, la comunità europea è sorta come una nuova e promettente istituzione sovranazionale, in primis per volontà delle nazioni partecipanti al Trattato di Roma del 1957, mediante cui sono state introdotte in Europa strategie economico-commerciali comuni nella consapevolezza che ciò avrebbe dovuto costituire il passo iniziale verso un più vasto sviluppo della cooperazione tra gli Stati all’insegna di diritti e princìpi di civiltà giuridica valevoli anche a livello extracomunitario, in modo da scongiurare quegli aspetti della tradizione vetero-europea e statolatrica a causa dei quali la guerra e gli sfrenati impulsi nazionalistici avevano costituito per secoli i più ricorrenti quanto tragici avvenimenti della storia. Così facendo, l’Europa ha intrapreso a metà Novecento una direzione potenzialmente idonea a conseguire gli auspicati esiti di pace europea e mondiale in una prospettiva internazionalista ma non ancora antisovranista, orientata verso una inedita e proficua unità pur nella differenza intercorrente tra molteplici culture e nazionalità, chiamate a rispettarsi vicendevolmente tra loro. È significativo quanto espresso, già nel 1948, nell’art. 10 della Carta costituzionale italiana, secondo cui occorre conformarsi alle norme del diritto internazionale, sia scritte, cioè frutto di volontarie adesioni degli Stati a trattati e convenzioni internazionali, sia non scritte in quanto derivanti da consuetudini originate e condivise dalla generalità dei soggetti statali. Benché sul piano solo degli scambi economici, l’istituzione della comunità europea ha iniziato quindi ad attuare i dettami programmatici e prescrittivi di armonica coesistenza, promossi dal costituzionalismo del secondo dopoguerra, mediante l’affermazione di princìpi di grande rilevanza anche etico-giuridica quale il principio della cooperazione internazionale[40], a cui ha fatto seguito, tra l’altro, il principio dello sviluppo sostenibile[41], rilevante a livello sociale e ambientale oltre che economico.

Non si tratta di princìpi esclusivamente europei, ma essi hanno trovato nell’Europa un soggetto che avrebbe potuto tradurre la propria unificazione economica in una compiuta identità anche socio-politica basata su una sua Costituzione. Solennemente progettata e sottoscritta nel 2004 a Roma[42], la Costituzione europeanon è stata tuttavia ratificata da tutti gli Stati firmatari, nonostante quanto era stato enunciato nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, secondo cui «i popoli europei, nel creare un’unione sempre più stretta tra loro, hanno deciso di condividere un futuro di pace fondato su valori comuni»[43]. Nemmeno altre rilevanti iniziative giuridiche, finalizzate non solo a limitare la sovranità nazionale dei singoli Stati in nome del progetto europeo, come è accaduto con il Trattato di Maastricht a fini di integrazione monetaria[44], ma anche a estendere le competenze comunitarie a settori non economici, come nel Trattato di Lisbona[45], sono riuscite a far sì che il processo di avanzamento comunitario verso un’unificazione più ispirata a valori di giustizia sociale proseguisse oltre un modello esclusivamente funzionalistico di globalizzazione. L’Unione Europea ha finito così per assumere, al di là delle molte enunciazioni formali, un rigido impianto burocratico-ordinamentale supportato dalla concezione gerarchica del primato delle norme comunitarie sugli ordinamenti giuridici nazionali, quale principio inderogabile formulato per la prima volta nel 1964 dalla Corte europea di giustizia[46] a salvaguardia della piena efficacia di tali norme in tutti gli Stati membri. Di qui, il sopravvento di una logica univoca protesa sostanzialmente a elidere la potestà legislativa degli Stati e il principio stesso di sovranità a essi spettante. Ma ciò ha fomentato istanze reattive di sovranismo che stanno cercando di riacquistare rilievo in modo altrettanto univoco e adialettico. 

Di fronte all’incapacità di perseguire, se non di conseguire, un costruttivo intento di “unità cosmopolitica nella differenza politica”, ossia una totalità composita nell’alveo delle diverse specificità spirituali e naturali, valoriali e fattuali dei singoli popoli, si è ormai chiamati a rispondere in termini idonei e più complessi alla stessa intrinseca complessità sociale, europea e mondiale, ponendo in atto una mediazione, innanzitutto etico-giuridica, tra individualismo e comunitarismo, sovranismo e internazionalismo. È solo il dialettico contemperamento di legittime aspettative e spettanze eterogenee, se non contrapposte, a determinare un positivo coinvolgimento di tutti, ovvero a costituire il principale mezzo di contenimento dei molti contrasti sociali, alcuni latenti e altri palesemente constatabili, proliferati in una società internazionale carente o mancante di equità intersoggettiva. Al posto di una organica unità differenziata, si è assistito infatti a una destrutturata «frammentazione e inconsistenza»[47], teoretica oltre che pratica, insita in svariati elementi concettuali e operativi caoticamente accorpati dalle dinamiche di una globalizzazione e di un multiculturalismo ambedue espressione di «de-differenziazione»[48], cioè ambedue forme di un omologante appiattimento di espressioni e valori, rimasti nondimeno estranei ed esterni tra loro. È questa una omologazione alimentata dall’espansività dell’economia liberista e, nel contempo, connotata da una forte disintegrazione particolaristica, senza più centro né ordine, entro un equilibrio “stabilmente aleatorio” che sembra essersi tradotto in un caos mondiale irto tanto di dipendenze condizionanti quanto di chiusure limitanti. Si noti che il multiculturalismo, in quanto mera somma uniformante di elementi diversi, talora reciprocamente indifferenti, talaltra in scontro aperto gli uni con gli altri, non è confondibile con la dialetticità dell’interculturalismo, inteso come unità organica di parti in pacifica relazione reciproca. Solo l’interculturalismo è in grado di riunificare l’eterogeneità delle sue molteplici componenti senza assimilarle a un solo elemento più o meno dominante, perché «la forza di una cultura sta […] nella capacità di relazionarsi continuamente con ciò che è “altro”, senza perdere la consapevolezza della propria identità»[49].

Si tratta di aspetti di rilevanza non soltanto socio-culturale, ma anche normativa, perché la cultura e lo scambio interculturale sono valori che richiedono, da una parte, il dovere di rispetto della pluralità del pensiero umanistico e scientifico, nonché delle diverse tradizioni storiche e artistiche, dall’altra il dovere non meno importante di custudia della valenza identitaria del patrimonio culturale di ogni realtà nazionale. Ciò emerge anche dall’art. 9 della Costituzione italiana, che dispone, in generale, la promozione dello sviluppo culturale e tecno-scientifico nonché, in particolare, la conservazione delle ricchezze storiche, artistiche e naturali della nazione, trovando così conferma più o meno esplicita l’inscindibile legame sussistente tra comunità statale e comunità mondiale, tra polis e cosmopolis. Non si può evitare di aggiungere, inoltre, il patrimonio di valori religiosi che connotano l’identità di ogni realtà sociale, soprattutto in Europa, avente sue specifiche «radici cristiane» che attendono ancora di essere riconosciute adeguatamente, come più volte Papa Benedetto XVI, sin da prima del suo pontificato, ha esortato a compiere per restituire ai popoli cristiani la consapevolezza dei loro fondamenti spirituali, non esimendosi dall’osservare, in tal senso, come «la multiculturalità, che viene continuamente e con passione incoraggiata e favorita, è talvolta soprattutto abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle cose proprie»[50].

Nel tipo di globalismo prevalso sono invece ravvisabili, in chiave multiculturale e non già interculturale, vani tentativi di neutralizzazione della complessità sociale per mezzo di un approccio funzionalistico-sistemico più affine al concetto meccanicistico di sistema come un mero insieme sommatorio che non al concetto organico di sistema come organizzazione unitaria di tante identità differenti, rispondenti ai princìpi di una logica polivalente incardinata su un nesso dialetticamente coesivo di elementi pur distinti e non confondibili tra loro. Ma il falso sincretismo globalistico tende a comprimere simili prerogative di distinzione e autonomia delle singole parti, spesso minacciate nella propria identità non solo sul piano geopolitico, ma anche sul piano storico-temporale della preservazione di un passato la cui memoria sembra dissolversi in un presente uniformante che cerca di assorbire in sé tutto, anche ciò che è stato e che sarà. Ma è un superamento del passato solo illusorio, perché proprio il carattere fittizio della globalizzazione tecno-economica, e il suo malinteso intendimento del principio internazionalista, hanno portato per reazione a recuperare dal passato stesso le idee di Stato e politica come dimensioni sostanziali di organizzazione del conflitto[51], nonché l’idea del diritto, in special modo del diritto costituzionale, come «struttura di pace»[52] non solo posta a garanzia dei princìpi della coesistenza umana, ma strettamente legata ai concetti basilari della scienza politica, tra cui il concetto di sovranità nazionale[53].  Non è affatto la negazione di tali categorie concettuali, ma è l’affermazione del passato nel presente, della tradizione nell’innovazione, dei classici valori giuridico-politici in un nuovo ordine da costruire come tale, che può determinare un’autentica globalizzazione, o meglio una vera svolta globale.

Si tratta di edificare non un’unità internazionale come quella concepita dalla comunità europea contestualmente a una limitazione di sovranità degli Stati nazionali, ma di erigere l’unità nazionale come espressione di una nuova unità plurale o differenziata tra le nazioni. Solo muovendo dalla paritaria compresenza di questi due livelli, nazionale e internazionale, si può proficuamente teorizzare l’idea di un’ulteriore unità sovrastatale, e realmente sovranazionale, rappresentata dal diritto cosmopolitico. È un’idea diversa non solo da quella delineatasi nel quadro dell’Unione Europea, ma anche da quanto istituito nel secondo dopoguerra come Organizzazione delle Nazioni Unite, essendo enti riconducibili entrambi all’universalismo, più formale che sostanziale, rappresentato in gran parte dagli interessi dei soggetti più influenti, anziché all’universalismo di un orizzonte normativo più ampio possibile e ancora di là da venire, consistente in pochi quanto fondamentali princìpi, condivisi e vincolanti, vertenti non solo sul rispetto reciproco tra i differenti popoli e Stati, ma anche e innanzitutto sulla «parità ontologica»[54] riferibile a tutti gli individui in quanto esseri umani, e cittadini del mondo oltre che cittadini di una determinata nazione. Pur nel rispetto delle diversità geopolitiche, ciò significa riferire il progetto cosmopolitico alla comune osservanza di tali essenziali princìpi e valori su cui rimodulare le istituzioni nazionali e internazionali già esistenti, ma non significa affatto ascrivere al progetto un compito eccessivamente gravoso di governance multilivello, i cui requisiti estesi a ogni ambito istituzionale, tra i quali l’ordine interno, la difesa militare, l’amministrazione della giustizia, o la politica monetaria, esporrebbero il progetto stesso a una inevitabile insostenibilità in termini di «problemi di attuazione molto complessi»[55]. Ma è questa una problematicità evitabile se si guardasse, più semplicemente, a un ordine cosmopolitico imperniato su un nuovo e diffusivo “diritto per princìpi”[56], capace di condurre a un modello ulteriore di globalizzazione, giuridica e non solo economica, dialetticamente organicistica o “sistematica”, e non solo riduttivamente funzionalistica o “sistemica”.

In questa visione di un cosmopolitismo più dei princìpi che non del sovvertimento radicale dell’ordine già in atto, la dimensione cosmopolitica presuppone lo sviluppo di una dimensione internazionale che non vada a scapito della legittima preservazione della dimensione nazionale, e di quel principio di sovranità che è stato emblematicamente attribuito dalla Costituzione italiana al popolo, il cui diritto di sovranità attende anzi una «rifondazione costituzionale»[57] in chiave di rifondazione della politica stessa quale unica vera democrazia, o meglio quale «politica dell’uguaglianza»[58]. Beninteso, ciò non ha nulla a che vedere con il sovranismo come fattore tipico dello spirito nazionalistico dei regimi totalitari, ma piuttosto «esige il riconoscimento comune di princìpi normativi fondamentali, di validità universale»[59], ovvero un riconoscimento che implica non l’enfatizzazione né l’elisione, bensì la ridefinizione della sovranità in una «prospettiva planetaria»[60]. È una prospettiva in cui l’identità spirituale del popolo, nella sua determinazione spazio-temporale, geopolitica e storica, può aprirsi in direzione dell’intera realtà umana, senza tuttavia perdere la propria autonoma connotazione. È inoltre una prospettiva verso cui gli Stati già possono guardare, dato che «appartenenza nazionale non significa necessariamente Stato centralistico»[61], di per sé ostile alle autonomie locali e al rispetto delle diversità. Ma anche nel recente passato si può trovare di tale prospettiva un’anticipazione nell’orizzonte teorico delineato dall’importante, benché poco noto, Manifesto di Ventotene, in cui il lungimirante federalismo di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi si è tradotto nella fiduciosa attesa di un’unità europea in cui ogni nazione, frutto di «unità di costumi e di aspirazioni»[62], concorra all’edificazione di un «nuovo organismo» in grado di costituire e mantenere «un ordine comune, pur lasciando agli Stati stessi l’autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo di una vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli»[63]. Ancora più antesignano e lungimirante, nonché idealmente innovatore, è stato il pensiero di un uomo come Gian Domenico Romagnosi, fautore del tentativo teorico di mediare tra la chiusura rappresentata dall’identità dello Stato e l’idea di un’unità universale umana. Appare paradigmatico che proprio l’ordine statale permetta, per Romagnosi, la comparsa di una vera e più ampia coscienza sociale, poiché «sospinge per una forza lenta, imperiosa e progressiva i popoli d’Europa verso uno stato di scambievole equilibrio interno ed esterno»[64]. Solo seguendo tale direzione, l’approdo ultimo sarà la superiore unità costituita da quell’ordinamento di diritto pubblico che Romagnosi denomina «società delle genti»[65], e che rappresenta il più elevato approdo del diritto e dell’intera civiltà umana.

In definitiva, l’unità “delle nazioni” non può essere davvero tale se miri a negare, o a sminuire, il piano logicamente anteriore costituito dall’unità “della nazione”, nonché dal principio di sovranità del popolo, al quale la sovranità appartiene e dal quale viene esercitata «nelle forme e nei limiti della Costituzione»[66]. In ogni realtà complessa quale un organismo, naturale o sociale che esso sia, non solo la parte è nell’unità, ma l’unità è nella parte, perché l’unità non è una semplicistica somma di singole parti, ma inerisce a ciascuna di esse per costituirne il presupposto e, insieme, il fine, che supera e conserva tutto ciò da cui ha preso inizio. Solo la riaffermazione dell’unità dello Stato, espressa dalla sovranità popolare e definita dai suoi princìpi costituzionali, può consentire il corretto intendimento dell’unità degli Stati nei termini di un principio internazionalista che non collida con il principio di nazionalità, ma si confronti dialetticamente con esso e lo oltrepassi, senza negarlo, verso un ulteriore piano, quello sovranazionale. Si tratta di un piano che può trovare compimento solo muovendo dall’unità composita dello Stato e dalla sua potestà legislativa per tendere, anche se faticosamente, prima all’unità non meno composita del diritto internazionale, e poi all’unità globale del diritto cosmopolitico. 

 

2. Il cosmopolitismo giuridico come teorizzazione antiriduzionistica del principio sovranazionale.

 

Da Kant tematizzato prima e più di Romagnosi, il cosmopolitismo giuridico è, tuttavia, un’idea non esauribile né interpretabile nell’esclusiva accezione kantiana. Resta il fatto che non si può prescindere dalla riflessione kantiana, perché essa è indispensabile quale punto fermo da cui muovere in direzione delle dinamiche storico-sociali successivamente comparse nella postmodernità. Kant ben comprende come «il raggiungimento di una società civile che faccia valere universalmente il diritto» non sia un obiettivo solo giuridico, ma rappresenti un obiettivo anche morale, cioè l’esito di una «insocievole socievolezza» che può «infine trasformare in un tutto morale un accordo patologicamente forzato ad una società»[67]. E ben comprende che questo obiettivo di «una costituzione civile perfettamente giusta» è non solo il più desiderabile a cui cercare sempre di avvicinarsi anche se non possa essere mai davvero attuato, ma anche «il più difficile e quello che verrà risolto più tardi dal genere umano»[68]. Ciò che, però, della sua concezione non sembra condivisibile è che un compito così arduo come quello del diritto cosmopolitico, e dell’unità anche giuridica degli uomini, sia da considerarsi nondimeno come «destino del genere umano, giustificato da una tendenza naturale in tal senso»[69]. Infatti, occorre tenere conto che non è la natura a proiettare l’uomo oltre se stesso, né è la natura, in merito a un diritto così difficile da realizzare come quello cosmopolitico, a permettere di accogliere, nel pensiero prima ancora che nella prassi, una nuova dimensione identitaria del soggetto umano, in cui questi possa giungere a riconquistarsi come un soggetto capace di trascendere la propria, essa sì naturale, libertà individualistica, cioè come un soggetto capace di farsi libero proprio perché non più autoreferenziale, e di affermarsi nell’affermazione dell’altro anziché in una immediata e irriflessa autoaffermazione di sé.      

Nella prefigurazione di un nuovo assetto giuridico ultrastatale, orientato verso una società cosmopolitica, è in gioco l’affermazione di una doverosità non tanto “controfattuale” o alternativa alla prassi ordinaria, quanto “metafattuale”, perché essa appare un’idea della ragione che va al di là dei dati di fatto nonché di una presunta «tendenza naturale»[70] del genere umano verso il superamento della sua peculiare insocievolezza. Si allude a un orizzonte ideale in cui il diritto consiste non soltanto nelle funzionalità pratico-operative delle norme di legge, ma assume anche finalità valoriali e metagiuridiche che non possono essere ignorate dalle norme stesse, nella loro profonda ratio e nei loro sottesi princìpi, ossia da un dover essere giuridico che non può se non radicarsi nell’essere della razionalità etica, ovvero in una dimensione ulteriore rispetto al diritto esistente. Si tratta di una razionalità che trova nel diritto cosmopolitico la sua più elevata espressione, per cui esso può essere inteso fondatamente come un terzo sistema, sovrastante ma non contrapposto agli altri due sistemi normativi rappresentati dal diritto statale e dal diritto internazionale.

Appare in tal senso opinabile la concezione kelseniana, peraltro rispondente a una opinione diffusa, secondo cui, al di là dei due sistemi del diritto statale e del diritto internazionale, tertium non datur, «non essendovi un terzo ordinamento superiore ad entrambi»[71]. L’argomentazione addotta da Kelsen per sostenere la propria visione del rapporto tra il diritto statale e il diritto internazionale è, in sostanza, che tra tali sistemi può sussistere solo un rapporto gerarchico di sovraordinazione dell’uno rispetto all’altro, ma non un rapporto di indipendenza reciproca, né di coordinazione mediante un altro ordinamento di tipo cosmopolitico, che a suo avviso non esiste. Dove l’assunto dell’inesistenza di un terzo diritto rispetto al diritto statale e al diritto internazionale esprime più una constatazione fattuale o una rilevazione descrittiva che non un’argomentazione dimostrativa dell’inasseribilità di un simile diritto, che nonostante la sua connotazione storico-fattuale sembra delinearsi, non poco aporeticamente, come un postulato aprioristico nel relativismo giuspositivistico di Kelsen. Cioò non toglie che, nell’ambito del suo internazionalismo giuridico, il diritto internazionale sia da lui inteso nei termini di una sua presunta superiorità, stando alla quale sussiste «il primato dell’ordinamento giuridico internazionale»[72].

Ma qui preme osservare che il cosmopolitismo giuridico non è né, come ritenuto da Kant, una «tendenza naturale»[73] dell’umanità riconducibile a un concetto giusnaturalistico inscritto nel destino del genere umano, né, come suggerito da Kelsen, una mera «utopia del diritto naturale puro», quale appare appunto ogni «concezione di un ordinamento che realizza l’interesse “comune” o “generale” e costituisce una società perfettamente solidale»[74]. Appare notevole come ambedue queste visioni, pur nella loro diversità, siano pervase da una medesima convinzione più o meno esplicita, quella di ritenere che il diritto cosmopolitico, kantianamente connaturato nel destino dell’umanità, oppure kelsenianamente insussistente, esprima una esigenza di universalismo giuridico non implicante alcun salto di qualità rispetto ai limiti intrinseci del diritto, bensì solo un rafforzamento, sia pur quantitativamente intenso, delle istituzioni transnazionali. In ciascuna di tali visioni, è lo sviluppo del diritto internazionale ad avere pur sempre il compito di garantire un nuovo ordine giuridico globale, e non già la tematizzazione di un ulteriore livello giuridico-ordinamentale di carattere cosmopolitico. Per Kelsen, la propria «dottrina pura del diritto», concorrendo alla «dissoluzione teoretica del dogma della sovranità»[75] e all’affermazione dell’idea, fortemente osteggiata da Schmitt[76],  in base alla quale «è solo una contingenza storica (peraltro vera per gli ultimi tre secoli) che gli ordinamenti giuridici siano “efficaci” solo nella dimensione territoriale degli Stati nazionali»[77], apre la strada non già a un terzo livello ordinamentale oltre quello statale e internazionale, ma a una «evoluzione del diritto universale» verso un progressivo «perfezionamento tecnico del diritto internazionale»[78].

Riguardo al cosmopolitismo giuridico di Kant, la sua lezione permane indispensabile per una razionale configurazione dei rapporti interumani su scala planetaria[79]. La sua idea di un diritto cosmopolitico rappresenta il paradigmatico tentativo di determinare un assetto giuridico in grado di soddisfare l’esigenza, tuttora perseguìta da molteplici soggetti e organizzazioni a livello nazionale e internazionale, di un rispetto più esteso possibile dei diritti umani. Seguendo il pensiero kantiano, è importante osservare che ciò potrebbe realizzarsi senza dissolvere la dimensione statale in una indifferenziata unità mondiale, ma procedendo a una suddivisione nelle tre branche corrispondenti ai piani, distinti eppur uniti, del diritto pubblico, del diritto interstatale, e del diritto cosmopolitico. Sul piano pubblico del diritto costituzionale interno, si tratta di salvaguardare i valori di libertà, giustizia e pace mediante l’osservanza dei princìpi stabiliti da adeguate carte costituzionali, mentre sul piano del diritto interstatale ogni ordinamento nazionale è chiamato a istituire relazioni e a promuovere trattati miranti a una proficua cooperazione internazionale. Ma il piano ulteriore di un diritto cosmopolitico così come concepito da Kant, a garanzia dei diritti di tutti in quanto cittadini del mondo e non solo cittadini di uno Stato, capace di far sì che «la violazione del diritto avvenuta in un punto della terra» sia finalmente «avvertita in tutti i punti»[80], a ben vedere è in diretta linea di continuità con la logica politica e giuridica degli Stati, tanto è vero che il suo primario obiettivo consiste, più ancora che nella tutela della dignità di ogni soggetto umano, nella garanzia della «pace perpetua»[81] tra gli Stati. Ciò significa che a sostanziare il diritto cosmopolitico in Kant è, in definitiva, «l’idea di un diritto pubblico internazionale, che decida le controversie dei popoli in modo civile come per mezzo di un processo e non in modo barbaro (al modo dei selvaggi), vale a dire per mezzo della guerra»[82]. Non soltanto. Tale idea di «ius cosmopoliticum», in quanto «associazione perpetua pacifica», nella concezione kantiana è soprattutto un «principio giuridico»[83], realizzabile mediante un continuo sforzo di avvicinamento e alleanza degli Stati tra loro, e non tanto un disinteressato principio etico. Esso risulterebbe a Kant un principio, quale in effetti è, in prevalenza etico, se tra diritto internazionale e cosmopolitismo giuridico venisse da lui fondatamente rinvenuto un salto qualitativo, cioè un momento dialettico di unità nella differenza, o di legame nella discontinuità, come quello espresso dal concetto metaforico di “frontiere” del diritto, denotante essenzialmente il superamento metagiuridico e morale, ma senza negazione della dimensione giuridica, di un altro tipo di confini, quello dei chiusi “limiti”, pur intrinseci e strutturali, relativi al diritto settorialmente inteso[84].

Al contrario dei limiti settoriali da cui il diritto stricto sensu non può fuoriuscire, le frontiere evocano un ambito del reale in grado di oltrepassare se stesso, un interno che si rapporta a un esterno, un dentro che trapassa in un fuori, nella fattispecie un diritto che, andando oltre i propri limiti costitutivi, riscopre il suo radicamento etico, divenendo nel contempo diritto positivo e diritto ideale, pretesa e obbligo, regole e princìpi, prescrittività giuridicamente simmetrica e doverosità moralmente incondizionata. Senza negare i due livelli tradizionali del diritto, statale e internazionale, solo l’ulteriore livello cosmopolitico potrebbe ricomprendere in sé un orizzonte più vasto di princìpi e valori metagiuridici se non extragiuridici, ma proprio perciò indispensabili per contrastare l’«antigiuridismo»[85] permeante la contemporaneità. Solo nell’idea di cosmopolitismo giuridico il diritto potrebbe giungere all’autocoscienza o piena cognizione di sé, e quindi al proprio compimento, in cui il diritto stesso diviene più propriamente una “giuridicità” che oltrepassa i suoi limiti categoriali. E solo in tale idea cosmopolitica potrebbe farsi più chiara la relazione tra differenti eppur uniti elementi del reale, in particolare la relazione delle regole giuridiche con i loro fondamenti etici, dell’interesse particolare con l’interesse collettivo, della complementare pretesa individuale con il reciproco dovere sociale di rispetto di ognuno verso l’altro.

Ma a questo punto si presenta il problema maggiore, ancora rimasto irrisolto, che induce a chiedersi se e come si possa dar corso a un reale cosmopolitismo giuridico che vada al di là non solo del diritto internazionale in quanto espressione di dinamiche pur sempre circoscritte ai particolari contesti politico-nazionali, ma anche del diritto sovranazionale finora perseguìto da istituzioni superiori alle singole sovranità nazionali quali l’Unione Europea, nonché da istituzioni mondiali come quelle sorte nell’ambito delle Nazioni Unite, incluse le istituzioni giurisdizionali costituite dai tribunali internazionali operanti per la repressione dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità. Si tratta di capire in quali termini, esclusivamente legali o anche metagiuridici, sia attingibile il piano più profondo e archetipico del diritto, che vada oltre i suoi specifici limiti di ordinamento positivo spazio-temporalmente connotato, cioè oltre la propria contingente fenomenicità normativa in ambito statale e internazionale, per spingersi verso quelle frontiere del diritto evocate dal concetto vetero-cristiano e cosmopolitico di civitas maxima, universalmente diffusivo nella tutela di tutti e di ciascuno. In questo riferimento all’unità cosmopolitica e a un legame sociale più inclusivo possibile, non si può fare a meno di richiamare la teorizzazione di una delle principali categorie concettuali e operative esprimenti la socialità umana, cioè dell’alleanza come legame intersoggettivo che è reso possibile dalla fiducia intesa quale percepita “affidabilità” di agenti e azioni[86]. In quanto istitutiva di rapporti umani, l’alleanza è il fondament

Troncarelli Barbara



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