fbevnts Come un frattale. Rilevanza contravvenzionale del vestire religiosamente o culturalmente connotato e paradigmi penalistici “in diversa scala”

Come un frattale. Rilevanza contravvenzionale del vestire religiosamente o culturalmente connotato e paradigmi penalistici “in diversa scala”

26.02.2018

Rosa Palavera

Dottoranda di ricerca in diritto penale, Università Cattolica di Milano

Come un frattale. Rilevanza contravvenzionale del vestire religiosamente o culturalmente connotato e paradigmi penalistici “in diversa scala”*

 

Sommario: I. Ipotesi: diritto e omotetia funzionale. – II. “Zoom in”: osservazioni puntuali. – III. “Zoom out”: punti di osservazione. – III.1. Riduzione dell’offensività a sospetto d’autore per assimilazione. – III.2. Verifica dei profili sanzionatori come poligrafo della spersonificazione. – III.3. Crisi del legicentrismo (tendenzialmente) nazionale e compenetrazione delle fonti. IV. Conclusioni: le opzioni di default come paradigmi scalari.

 

I. Ipotesi: diritto e omotetia funzionale

I frattali sono strutture autosimili a diverse scale. Possono essere generati matematicamente, tramite applicazioni reiterate di algoritmi[1]. In natura, l’occorrenza di frattali è collegata all’idea di efficienza interna e di evoluzione, consentendo a sistemi complessi la capillarità necessaria per il loro funzionamento[2]. Il ricorso all’analisi frattale è stato proposto per compiere previsioni su eventi incerti[3]. In particolare, i frattali si candidano come strumenti di valutazione nei casi di fisiologica irregolarità[4]. Il tema non è sfuggito alla passione combinatoria dei giuristi nordamericani, che ne hanno parlato a vari propositi[5], tra cui quello di propugnare una visione evoluzionistica del diritto[6], nonché, come era immaginabile, valorizzare alternativamente l’instabilità erratica o l’approssimazione delle previsioni anche in ambito legale[7]. Si svolge in questa sede una ben più limitata ipotesi di omotetia, anche diacronica, tra norme di portata sanzionatoria limitata o applicazioni territorialmente circoscritte e tendenze generali del sistema penale, riflettendo altresì sulle eventuali implicazioni funzionali della stessa. La realtà lombarda, nella sua varietà e vivacità, è terreno di elezione per condurre un’analisi “sul campo”, prendendo spunto dal tema del vestire religiosamente (o culturalmente) connotato.

 

II. “Zoom in”: osservazioni puntuali

Esiste un diritto penale del nemico “in scala ridotta”, osservabile nel prisma dei reati contravvenzionali? Occorre regolare l’obiettivo su dimensioni piccolissime rispetto a quelle su cui si concentra usualmente la dottrina: giurisprudenza di merito, primo grado di giudizio, realtà di provincia, reati minori. Guardando al territorio lombardo, non possono dirsi superate, a distanza di qualche anno dalle pronunce, due sentenze del Tribunale di Cremona: la prima relativa a una donna musulmana che si presenta a Palazzo di Giustizia in burqa, scoprendo il viso e fornendo i documenti alla richiesta di identificazione; la seconda relativa a un uomo di fede sikh che si reca al supermercato vestendo l’intero abito tradizionale, completo di turbante e kirpan[8]. Insuperate, si diceva, non solo perché relative a tematiche ancora attuali, ma altresì perché portatrici di un insegnamento ancora valido rispetto alla giurisprudenza successiva e, benché riguardante fatti avvenuti in territori contigui, centrale e di grado superiore.

Le due vicende non sono identiche, né è unica la disposizione applicata, ma le similitudini, già in fatto, sono sufficienti per pensare a sezioni di un medesimo frattale e, nella dimensione giuridica, sono ancora più accentuate. In fatto: comportamenti correlati a una religione, alloctona. Il simbolo è indossato, reso così al tempo stesso evidente e prossimo alla persona, connotandola nella sua individualità e nella sua carica simbolica e comunicativa. La manifestazione è astrattamente estrema – non un foulard, ma una velatura integrale del volto, non un segno in forma di ciondolo o spilla, ma un coltello alla cintura – un elemento che lascia pensare a un modo di vivere la fede o l’appartenenza culturale a sua volta estremizzato, che pervade l’intera immagine del soggetto, condizionandone la percezione da parte degli altri[9]. In diritto: sentenze penali, relative a reati contravvenzionali (art. 5 L. 152/75 per i mezzi atti ad ostacolare il riconoscimento della persona, e art. 4 L. 110/75 per il porto di armi improprie), estranei al codice, previsti da due leggi diverse, ma entrambe del 1975, promulgate a un mese una dall’altra e in seguito ritoccate, peraltro con inasprimenti di pena (art. 10 c. 4bis D.L. 144/2005 come convertito dalla L. 155/2005 e art. 5 c. 1 lett. b D.Lgs. 204/2010), quel tanto che basta a escludere l’ipotesi che siano rimaste in vigore per una dimenticanza del legislatore. Entrambe le fattispecie, imperniate su istanze di sicurezza, richiedono l’assenza di giustificato motivo. Medesimi gli approcci da parte dei giudici e le pronunce di assoluzione. Inoltre, proprio perché vivono nel cuore pulsante del quotidiano – i vestiti, l’acquisto del necessario per il sostentamento, i rapporti con la famiglia, l’accesso alla giustizia – entrambe le vicende, umanamente e giuridicamente, parlano di diritti fondamentali[10].

Il luogo in cui è germinato questo inatteso[11]è un punto di intersezione culturale esemplare, storicamente e nell’attualità: la città che vide i riti siriaci alle sue porte assediate[12], le merci orientali risalire il Po[13] e le traduzioni di Gerardus Cremonensis diffondersi all’intera Europa[14], è oggi luogo di stabilizzazione e di riunificazione familiare per gli immigrati[15],mostra una sostanziale regolarità della situazione lavorativa per gli adulti[16] e dell’inserimento scolastico per i minori[17], risultando terza in Lombardia per livelli complessivi di integrazione[18]. Si osserva, peraltro, che, mentre l’associazionismo attivo, una delle maggiori risorse attingibili in questo percorso, è spesso ostacolato dalla tendenza mimetica e soffre di disorganicità e scarso radicamento, proprio le realtà religiosamente orientate riescono sia a strutturarsi durevolmente sia a porsi come soggetti credibili nella promozione del dialogo interculturale[19].

Potrebbe ipotizzarsi, in senso positivo, una specificità locale. Nondimeno, in occasione dei fatti in questione, la macchina dello Stato si è mossa nella direzione della criminalizzazione[20], sino all’esito, che, per quanto in questi casi condivisibile, ha dovuto svolgere la sua opera costruttiva all’interno di un cammino segnato dalla conflittualità. Le due sentenze portano, quindi, alla luce della ribalta nazionale vicende il cui sviluppo può ascriversi, nella sua dimensione territoriale, alla medesima tendenza esasperante che ha prodotto le ordinanze sindacali – non solo, ma spesso, lombarde – delle cd. «tre ondate»[21] e, successivamente, una delibera regionale[22], come quelle volta a imporre un’interpretazione geograficamente localizzata della previsione legislativa, ossia, in definitiva, a soffocare – quanto meno qui e ora – l’«organo respiratore»[23] ermeneutico di una norma già discutibilmente impostata.

Nel seguito, interpretazioni guidate dalle medesime istanze sono riprodotte a livello di vertice, con tre pronunce della Corte di Cassazione, relative a fatti occorsi in provincia di Mantova[24] e Piacenza[25]. Il comune denominatore, stando a quanto dichiarato o osservato in commento e salvo poco congrui – ma incidentali – riferimenti alla tradizione autoctona[26] e, per il burqa, alla condizione femminile[27], è il timore di esiti aggressivi della condotta vestimentaria, quando non, più esplicitamente, di attentati[28].

Oltre i confini italiani, le asserite ragioni di sicurezza sono frammiste a motivazioni, spesso preponderanti, più apertamente culturali. In alcuni casi il velo è vietato proprio per la sua carica comunicativa, ritenuta offensiva del principio di laicità[29]. In altri casi, il divieto poggia sull’ostacolo alla comunicazione, ritenuta non già una facoltà degli individui, ma un presupposto irrinunciabile (recte, obbligatorio) della convivenza civile[30]. Con una sorta di “pudore del proprio terrore”, argomenti la cui prevalenza rispetto alla libertà religiosa non sarebbe probabilmente prospettabile nel contesto nazionale[31] sono invece cavalcati con successo nelle tradizioni culturali più impregnate di laïcité de combat[32], come pure, per ragioni in parte differenti, nei paesi di stampo più apertamente multiculturalista[33].

Si tratta, peraltro, di tendenze non estranee al nostro sistema penale, di talché non è superfluo ribadire la repulsa della «laicità come “ideocrazia”»[34] e l’accoglimento invecedella necessaria «laicità del principio giuridico di laicità»[35]. Anche prescindendo da queste preoccupazioni, deve riconoscersi che la distanza tra l’approccio culturale e quello securitario è meno marcata di quanto appare, non solo perché le loro radici attingono a una medesima carenza identitaria di fondo[36], che cerca compensazione nel diritto penale[37], ma altresì perché entrambi seguono la dissimulazione che sempre caratterizza la legislazione simbolica, in cui «i destinatari reali della norma sono diversi da quelli proclamati, col risultato della duplicazione (uno manifesto e uno latente) sia dei messaggi e sia dei destinatari», e «le funzioni latenti della norma giungono a prevalere su quelle manifeste»[38].

Nei casi delle norme in esame, la mancata tenuta del rapporto tra fattispecie di divieto e valori invocati[39] smaschera la presenza di una comune scaturigine di intolleranza (quasi che lo scopo sia «togliere dalla vista l’altro»[40]), variamente associata a paura inaccettata[41] per fatti nei confronti dei quali la portata preventiva delle norme è pressoché nulla[42]. Non solo la legislazione simbolica privilegia ed enfatizza «la funzione espressiva e di messaggio, a prescindere dalla sua reale attitudine pragmatica a incidere positivamente sui fenomeni»[43], ma è stato segnalato «il rischio per il diritto penale di volgersi alla protezione di un inafferrabile “sentimento” di sicurezza, anziché di diritti, situazioni, interessi, o condizioni di sicurezza allocate in procedure, regole, cautele o strumenti»[44]. È appena il caso di sottolineare che i ricorrenti esempi di armi o esplosivo nascosti sotto il burqa (nessuno, sinora, relativo al mondo occidentale, dove un simile abbigliamento, lungi dal nascondere, attira piuttosto l’attenzione[45]) non sono pertinenti, giacché è chiaro che le armi non sono nascoste sotto il velo, ma sotto l’abito, che per quanto ampio resterebbe comunque immune da divieti. Non è peraltro plausibile che un terrorista in procinto di farsi esplodere esiti a mostrare il volto, se è stata pronunciata una specifica fatwa che autorizza le attentatrici suicide a rinunciare del tutto all’hijab laddove ciò sia necessario alla riuscita della missione[46]. Ciò varrebbe peraltro, pur tralasciando di interrogarsi in merito alla configurabilità penalistica di un’offesa al bene della “laicità”[47], anche per gli altri interessi asseritamente in gioco, quali la tutela della libera espressione femminile, come ribadisce ampia letteratura a sostegno dell’uso del velo nella sua dimensione di scelta espressiva e libera o quale condizione facilitante un accesso alla vita pubblica magari cauto e graduale, ma comunque rispettoso della propria identità culturale di provenienza[48].

Ancora una volta dimostra la sua efficacia diagnostica – anche con riguardo alla duplice declinazione del principio di offensività[49] – la verifica del rispetto di quei vincoli di realtà che dovrebbero legare il sedicente ermeneuta locale, così come ogni politico[50] e legislatore[51], nonché ogni interprete giudice del merito[52] o «custode del nomos»[53], ma anche ogni giurista che, a qualsiasi titolo, proponga il proprio (sotto ogni altro aspetto liberissimo) contributo al panorama dottrinale[54]. Non a caso, l’Europa arranca nel disancorare le decisioni legislative o giudiziarie relative al velo dal fenomeno islamico, esponendosi ad accuse di discriminazione[55].

In questo quadro, taluno potrebbe reputare curioso che nel contesto italiano, che avrebbe potuto “avvantaggiarsi” di una legislazione emanata in tempi non sospetti, si registrino manifestazioni di impegno a dettagliarne l’interpretazione nel senso nella non applicabilità, pur senza propugnare l’abrogazione di previsioni che, nate in tempi del sospetto non così dissimili dagli attuali[56], prestano il fianco a continui tentativi di forzature, in alcuni casi suggellate dalla definitività del giudicato[57].

A prescindere dalla natura delle specificità della situazione nazionale, di cui la Lombardia costituisce una sezione frattale significativa, la pur discontinua attivazione di anticorpi efficaci sembra comunque modularsi (anche) secondo una scalarità funzionale, in cui la vita del diritto sul territorio, magari in applicazione di norme apparentemente marginali, gioca un ruolo non irrilevante.

 

III. “Zoom out”: punti di osservazione

Per meglio valutare l’ipotesi dianzi formulata, possono osservarsi le manifestazioni del diritto ai valori estremi della scala, non senza chiedersi se norme contravvenzionali o addirittura provvedimenti extrapenali[58] che su queste eventualmente incidono possano inscriversi nel paradigma – forse ancora inesausto e in ogni caso certamente diacronico[59] – del cd. diritto penale del nemico. Questo, infatti, è tradizionalmente individuato in reazioni scalarmente notevoli dell’ordinamento a fronte di violazioni gravissime delle regole di convivenza, tali da configurare veri e propri attacchi alla collettività nella sua dimensione giuridica e organizzata[60]. Nondimeno, i casi in esame, benché relativi a norme minori, applicate a comportamenti poco o per nulla lesivi del patto sociale, ne condividono numerosi tratti caratteristici[61], che si presentano, per così dire, in “scala ridotta”.

 

III.1. Riduzione dell’offensività a sospetto d’autore per assimilazione.

L’anticipazione di tutela, marcatissima nel caso del velo, connota in realtà entrambe le fattispecie sino a renderle qualificabili come residue ipotesi di reati di sospetto[62]. In questa cornice, si è posto l’interrogativo sulla natura del giustificato motivo, qui come in altri casi ricostruita come causa di inesigibilità[63] – una soluzione comparativamente mortificante per il motivo religioso – oppure qualificata come causa di giustificazione[64] – un’opzione che avrebbe il merito di ribadire, per il tramite del diritto riconosciutogli[65], la qualifica di persona in capo al soggetto agente, ma al tempo stesso sarebbe votata all’elaborazione di esimenti di valenza generale, ancorché non codificate, ridondantemente richiamate in parte speciale, e presupporrebbe la condotta tipica come offensiva, benché giustificata – o, infine, considerata potenzialmente operante già sul piano della tipicità, intesa come «individuazione dell’offesa al bene giuridico»[66]. Quest’ultima soluzione pare preferibile, con una precisazione: la funzione del “giustificato motivo” non solo non sembrerebbe qui valorizzare una preponderanza in termini di libertà o diritti, ma nemmeno si dispiegherebbe sul piano del fatto, in senso stretto e oggettivo, quanto piuttosto con riferimento alla delimitazione di un elemento inespresso della fattispecie, tutto racchiuso a livello soggettivo, ossia la presunzione di intenzioni offensive.

Si presentano, infatti, qui, situazioni in cui la pericolosità intrinseca degli oggetti è nulla, come nel caso della copertura del volto, o solo potenziale e consentita, come nel caso delle armi improprie[67], di talché la soglia di pericolo che giustifica – se giustifica – l’anticipazione della tutela penale è attinta solo qualora il porto dell’oggetto sia accompagnato da circostanze di fatto, relative al contesto e al soggetto, tali da ritenere plausibile che questi sia in procinto di trasformare quell’oggetto in arma, facendone uso, appunto, improprio. È appena il caso di ricordare che entrambe le disposizioni di cui si discorre sono nate in un periodo storico in cui caschi da motociclista e catene senza annesse motociclette, nonché tubi di ferro e chiavi inglesi nelle tasche non già di meccanici d’officina ma di studenti universitari politicamente impegnati, benché non costituenti armi in sé, avevano una carica evocativa di violenza che veniva immediatamente percepita e troppo spesso confermata dai fatti.

Trasponendo in norma la massima di esperienza su cui basa la propria scelta, il legislatore ne cela la carenza di fondamento scientifico, la natura meramente possibilistica e il cuore essenzialmente psicologico del sospetto da cui muove. Al tempo stesso, però, riconosce un limite alla sua generalizzata attribuzione di intenti nei casi in cui sussista una ragionevole spiegazione alternativa[68], il giustificato motivo, che non deve essere in sé esercizio di un incomprimibile o particolarmente meritevole diritto, ma solo mostrare una plausibilità sufficiente per superare, nel caso concreto, la massima di esperienza (qui, di polizia) su cui la norma si fonda e  che postula come verosimili le intenzioni aggressive.

Si ripete nella costruzione di queste fattispecie la medesima struttura che di altre percorre l’accertamento abduttivo: valorizzazione dell’intuizione colpevolista secondo l’íd quod plerumque accidit temperata dall’apertura a ipotesi alternative, da dimostrarsi volta per volta, in un sostanziale rovesciamento dell’onere probatorio[69] che nel caso in esame include il rischio non solo della mancata prova o della tardiva invocazione, ma anche dell’interpretazione giuridica sfavorevole. L’affidamento riposto dal legislatore nel senso comune dà quindi corpo normativo alla logica del sospetto una volta per tutte, prestandosi a sottrarre poi alla confutazione, nei singoli casi concreti, la generalizzazione fondante.

Per molto tempo e, in buona parte dei casi, anche tuttora, il meccanismo ha funzionato: non c’è ragione di dubitare che la difficoltà nel rinvenimento di pronunce relative ad aste acuminate sorreggenti labari d’onore in occasione di commemorazioni civili dei caduti, coltelli da pane con annessi salami e baguettes in cestini da picnic, mazze da baseball recate in prossimità del figlio adolescente in tenuta sportiva o ancora passamontagna e occhialoni integrali da ghiacciaio indossati ai piedi delle piste innevate sia attribuibile a una molto opportuna “selezione all’origine”, tale che nessuna di queste ipotesi sia mai stata mai portata all’attenzione della giurisprudenza. I recenti fatti di attentato realizzati lanciando furgoni contro la folla porrebbero diversamente un problema di polizia e di amministrazione giudiziaria di dimensioni immani, dovendosi valutare (e poi eventualmente scriminare) come porto di armi improprie tutte le occasioni di conduzione di autoveicoli.

Sotto questo profilo, l’intero dibattito sul fattore religioso o culturale in termini di diritti confliggenti pare un macroscopico equivoco (felix culpa, quanto alla dottrina, nella misura in cui propizia pagine ricche di sensibilità su questi temi; non così invece per la giurisprudenza che condanna). In effetti, nessuno si sente in dovere di argomentare, in termini peraltro di preponderanza rispetto alla sicurezza pubblica, circa un diritto costituzionale al diletto sportivo per giustificare il porto di mazze da golf o in merito a un diritto fondamentale alla salubrità del desinare per il già ipotizzato porto di coltelli da picnic. Nessuno disquisisce se tali diritti incontrino i limiti dell’ordine pubblico e del buon costume, semplicemente perché non esiste alcuna norma che, prevedendoli, li possa al contempo limitare. Si potrebbe argomentare che anche i riferimenti alle regole relazionali e ai valori della civiltà occidentale[70], oltre che “suonare amari” per gli immigrati pacifici[71], siano di per sé fuori luogo, perché a ben vedere il motivo giustificante potrebbe non essere nemmeno approvato dall’ordinamento: taluno potrebbe dotarsi di una sacca completa di bastoni da golf al solo fine di entrare inosservato nella club house e poi, depositatele all’ingresso, ingiuriare con ogni epiteto un rivale in amoreiscritto al circolo e colàconvivialmente riunito con amici e consoci. Qualora si consideri il giustificato motivo come causa di giustificazione, quindi inoperante nell’esempio immaginato, si dovrebbe derivarne che non si tratta solo di illecito civile, bensì di reato, ex art. 4 L. 110/75. Non pare conclusione inoppugnabile.

Diversamente – e, forse, più persuasivamente – si potrebbe invece sostenere che la funzione dell’argomentazione relativa al picnic o al gioco del golf non abbia la funzione di giustificare motivatamente (soccorre qui anche la sintassi della disposizione), bensì quella di motivare giustificatamente il porto, ossia di chiarirne il motivo e così rendere implausibile il sospetto circa le intenzioni di uso improprio[72]. La stessa cosa potrebbe dirsi per i ceri di Gubbio, la cui potenziale attitudine offensiva è innegabile, o di un pesantissimo turibolo colmo di carboni ardenti: non se ne accetta il porto in processione in ottemperanza al diritto di manifestazione della propria fede (e in quel caso, sarebbe davvero discriminatorio negare il medesimo trattamento al pugnale del sikh[73]), ma perché si riconosce che il motivo di chi lo reca non è verosimilmente quello di utilizzarlo come maglio contro i passanti.

Quando un oggetto non è di per sé indicativo di intenti aggressivi, indovinare i motivi del soggetto che lo porta dipende dal contesto storico, geografico e, per così dire, “antropologico” in senso lato. Si tratta, di conseguenza, di un giudizio mutevole: la giurisprudenza sulla balestra[74] lo insegna. Quanto sia poco opportuno fondare una fattispecie di reato su generalizzazioni mutevoli e dipendenti dal contesto, non è concetto necessitoso di ulteriore insistenza. In ogni caso, finché la previsione penale resiste, è innegabile la rilevanza (sotto questo profilo, non già sotto quello dei diritti) del fattore culturale: “si sa” cosa fanno i chierici e i golfisti, gli alfieri e gli sciatori, qualcuno potrebbe eccepire che “non si sa bene” cosa fanno i Sikh.

Sul punto, tuttavia, le pronunce sono tutte ineccepibili: il kirpan non è naturalmente destinato a offendere, non è in genere prodotto, né indossato a quello scopo, come ampia tradizione circa il valore simbolico e risalente esperienza di porto pacifico dimostrano. È arma impropria, come il cero di Gubbio o la mazza da golf, e improprio ne sarebbe l’uso offensivo. Nulla, peraltro, lascia pensare a un’intenzione di uso improprio nei casi concreti, in cui solo l’effettiva appartenenza religiosa motiva, ossia spiega plausibilmente, il porto (qualche sospetto potrebbe semmai nascere qualora il medesimo pugnale fosse indossato non già da un sikh, ma da un autoctono agnostico maldestramente travestito da indiano).

Spezzata la connessione con il bene giuridico, essendo carente anche il mero tramite della concreta messa in pericolo e non risultando applicabile nel caso di specie alcuna regola di esperienza in cui rinvenire il pericolo astratto (recte, presunto), l’asse della “tutela remota”[75] si sposta dal fatto al tipo d’autore[76], anche se la sfocatura che caratterizza la norma simbolica[77] ne permette lo slittamento verso tipi di autore diversi dall’originario e, anzi, verso tipi meramente contigui, o molto genericamente affini per provenienza (non occidentale), religione (non cristiana) o cultura (non nota), al “tipo” di cui pure – con ragioni non sempre solide e sempre poco idonee a sostenerne la rilevanza penale – si presume la pericolosità.

La sicurezza oggetto di attenzione, giacché di tutela pare poco acconcio parlare, è solo quindi quella percepita, con ciò superando le stesse disposizioni originarie, volte a contrastare, per quanto anticipatamente, situazioni di violenza reali (e non già certo a prevenire spaventi in danno di signore milanesi per incontri con katanghesi in tenuta da corteo, ma, per il resto, completamente innocui). Si perviene così, per il tramite carico di pregiudizi della percezione comune, a un progressivo allargamento dell’ambito di “inimicizia”, in cui la “pericolosità d’autore” viene fatta coincidere con la provenienza, la religione o la cultura. Se il nemico è colui che infrange il bisogno di «sicurezza cognitiva»[78], un’esigenza legata alla debolezza identitaria[79], il diritto penale del nemico si alimenta dell’allarme[80] (un’infezione, peraltro, cronicamente latente nel sistema penale[81]) e rafforza, magnificandola nell’omologazione ascrittiva[82], la percezione dell’appartenenza contrapposta[83]. Un asserito “diritto alla sicurezza”, che si pretende legittimare in chiave precauzionale l’espansione della “diffidenza attiva”, fagocita progressivamente i normali ambiti relazionali[84]. Del resto, in assenza di questa assimilazione, nei casi in esame parrebbe mancare qualsiasi traccia quanto meno di un tradizionale requisito soggettivo del nemico, ossia il durevole rifiuto dello status di cittadino[85]. La stessa traslabilità dell’applicazione allo straniero portatore di cultura altra di una norma creata per il dissidente interno, la crescente frammentazione della cittadinanza e l’ubiquitarietà della logica del sospetto[86] – anche in contesti colposi o di minima pericolosità – inducono a riflettere sulla domanda «e chi è il nemico»[87]? La specularità rispetto alla domanda evangelica circa il prossimo[88] suggerisce la risposta: il nemico è colui di cui non si è disposti ad avere compassione, lo “spersonificato” di cui non si tollera la prossimità. In altre parole, ciò che contraddistingue il nemico non è davvero la sua intrinseca pericolosità o la sua unilaterale decisione di abbandonare per sempre il contratto sociale, bensì proprio la reazione che suscita nell’ordinamento[89].

Come la prossimità, anche l’inimicizia è una condizione reciproca[90]: nemico è colui di cui lo Stato si rende nemico. E sembra categoria in continua espansione. L’analisi della costruzione delle fattispecie ha fornito significativi elementi a supporto dell’ipotesi dell’esistenza di un paradigma su diverse scale. A questo proposito, tuttavia, possono compiersi due ulteriori rilievi circa le ipotesi in esame.

 

III.2. Verifica dei profili sanzionatori come poligrafo della spersonificazione.

Una doverosa riflessione riguarda la previsione di una pena modesta o che tale può rendere un’accorta commisurazione: reazione, quindi, apparentemente lontana dal paradigma dell’inimicizia. Si potrebbe replicare che qualsiasi sanzione penale è eccessiva in assenza di offensività della condotta[91] e che nessuna pena è lieve per chi già fatica, a livello economico e sociale, a inserirsi in una collettività diversa da quella da cui proviene. Il profilo più pertinente al diritto penale del nemico, tuttavia, non consiste tanto nella gravità o nella sproporzione della pena, quanto nell’assoluta assenza di prospettazione rieducativa: se «la dinamica dell’esclusione del “nemico” abbandona (…) ogni pretesa rieducativa, precludendo all’outsider la stessa possibilità di azione e di scelta»[92], nel caso di specie la natura pecuniaria della pena, ab origine o per effetto di conversione, in assenza di una qualsiasi occasione di personalizzazione e anzi abbinata alla postulata irrilevanza del motivo giustificante, la trasforma in una sorta di tassa suntuaria sulla diversità, aggravata dallo stigma penale.

In termini generali, al di là della mitezza, ogni differenziazione degli strumenti può sostanziarsi in maggior efficacia[93] e la pena pecuniaria, di per sé, può rappresentare un utile contributo alla riduzione della risposta detentiva alla devianza[94]. Queste potenzialità non si sviluppano minimamente, tuttavia, laddove la pena pecuniaria si traduca in una rassegnata monetizzazione di una sanzione che, pur in diversa forma, resta sostanzialmente una mera inflizione di sofferenza senza alcuna dimensione progettuale, indifferente all’effetto sulla vita del singolo e al messaggio trasmesso alla collettività: in questo caso, la finalità rieducativa è del tutto assente.

Ebbene, anche se apparentemente lieve, una pena che esclude la finalità rieducativa nega sempre rilevanza alla conservata libertà del soggetto di autodeterminarsi verso il reinserimento nella collettività offesa[95]: considera il suo futuro già scritto e, anche in questo, nega la radice del suo essere persona[96]. Nelle ipotesi in esame, prescindenti da qualunque valutazione di effettiva pericolosità, è sottratta al soggetto la possibilità di dimostrare (per il passato) o apprendere (per il futuro) l’adeguatezza di una condotta – nel caso, vestimentaria – che resti culturalmente orientata benché secondo modalità inoffensive e compatibili con i valori dell’ordinamento di accoglienza, secondo gli schemi della composizione interculturale, e ancor di più mette è messo a rischio il suo apporto quale interlocutore della norma, eventualmente anche della norma violata[97].

In questo senso, ogni piega dell’ordinamento in cui la funzione rieducativa è denegata costituisce diritto penale del nemico e ogni ordinamento che richiede la funzione rieducativa della pena non può accordare al diritto penale del nemico alcuna legittimazione: il soggetto il cui potenziale nell’evoluzione (peraltro reciproca) tramite dialogo è negato diviene mero oggetto[98]. Nella logica del nemico, il trasgressore non è «interlocutore di un dialogo, bensì oggetto dineutralizzazione»[99]: «parla un altro idioma», «non solo non rispetta le regole semantiche (…) ma nemmeno le regole sintattiche», di talché «con il nemico non si instaura comunicazione»[100].

Interlocuzione e inimicizia sono, quindi, le alternative assiali su cui si dipana lo snodo evolutivo della multiculturalità. Proprio perché «la società moderna è fondamentalmente post-virtuosa», «non c’è consenso morale» e quindi «avvertiamo i limiti alla ricerca di un difficile riaggiustamento della comunicazione»[101], la comunicazione stessa sembra candidarsi a fulcro portante della gestione del trasgressore, tanto “minimo” quanto radicale: «o il miracolo di equilibrio che consente alla società di essere “possibile” (…) comporta il prezzo di una rinuncia alla comunicazione»[102]

In scala ordinaria, la negazione della comunicazione palesa al massimo grado l’incoerenza dello schema individuativo del nemico[103] e della pretesa simmetria della reazione statuale[104], nonché l’inaccettabilità già in linea di principio dell’intera teoria[105], che permane anche una volta smentite le contrazioni asseritamente descrittive della proposta[106] e filtrate le scorie lamentatamente emotive del dibattito[107]. Come è stato osservato, «il diritto penale del nemico non è un altro diritto penale, è altro dal diritto penale»[108], ossia, in sintesi, «non ha niente a che vedere con il diritto»[109].

Peraltro, le citate esigenze di conflittualizzazione rendono il diritto penale del nemico, già poco persuasivo sotto il profilo della prevenzione speciale[110], «disfunzionale anche in termini di generalprevenzione integratrice»[111], ammorbando quello stesso «paradigma interpersonale»[112] che dovrebbe segnare il limite e i modi della risposta al reato. Tristemente, occorre riconoscere che riflessioni simili si potrebbero compiere con riferimento ad amplissime porzioni del sistema penale attuale. Anche per quanto attiene all’impostazione delle politiche preventive e sanzionatorie, quindi, se nella diagnosi si prescinde dal requisito “dimensionale”, il paradigma del nemico si conferma essere un contaminante molto diffuso[113].

 

III.3. Crisi del legicentrismo (tendenzialmente) nazionale e compenetrazione delle fonti.

Un ultimo profilo può essere ancora qui, per quanto sinteticamente, valutato. Infatti, dal punto di vista della collocazione sistematica delle norme, anche l’affermazione secondo cui il diritto penale del nemico trova spazio nella legislazione speciale, per quanto confermata nel caso di specie, richiede qualche osservazione “su diversa scala”.

Per chiarezza, non si intende mettere in discussione la «funzione didascalica» del codice, «la sua presenza enunciativa e mediatrice di valori», la cui «forza di convincimento e di formazione (…) deriverà anche dalla compattezza della costruzione»[114], né negare che la legislazione speciale – soprattutto nelle forme emergenziali urgenti o delegate – accordi maggiore condiscendenza a pressioni mediatiche ed emotive[115], secondo la tendenza «barbara» a ricorrere al diritto penale come «prima ratio»[116] e al canone della rassicurazione simbolica in forma di lotta[117]. Al contrario, semmai, può rilevarsi come, anche nella legiferazione ordinaria[118] e a prescindere dalla destinazione sistematica delle riforme, l’impatto psicologico o politico di elementi estranei alla reale tutela dei valori in gioco può comprimere l’efficacia del dibattito parlamentare nel distillare le differenti istanze sociali nel rispetto dei principi dell’ordinamento, con quella meditabonda cautela[119]che dovrebbe accentuarsi proprio con riferimento all’uso dello strumento penalistico in presenza di riferimenti valoriali disomogenei[120]. E ribadire, soprattutto, come in nessun modo costituisca un rimedio alle eventuali carenze tecniche o contenutistiche della legge la sua integrazione in via amministrativa o nel cd. diritto giurisprudenziale.

Anche in questo caso, sovviene un cenno di diacronica similitudine: proprio gli anni Settanta cui risalgono le norme in esame sono stati individuati come l’esordio della crisi della riserva di legge, all’insegna di «orientamenti contingenti del quadro politico (…) inclini ad annacquare la dialettica maggioranza/opposizione, per favorire convergenze politiche molto ampie intorno a interventi normativi a carattere urgente di ispirazione e impulso governativi, in un clima generale di solidarietà nazionale imposto dal succedersi di diverse emergenze (mentre la ratio democratica sottesa alla riserva di legge avrebbe, appunto, dovuto in teoria suggerire un atteggiamento di diffidenza verso il potere normativo dell’esecutivo)»[121]: una pretesa unità solidale, in realtà, a fronte a una crisi di solidità e condivisione valoriale già interna al contesto sociale e politico nazionale.

Ecco, allora, un’ulteriore conferma di come la necessaria prudenza del legislatore (magari delegato), davanti alla disomogeneità delle istanze e cioè proprio nelle situazioni in cui dovrebbe accentuarsi e, partitamente, allontanarlo dal campo penale, tende invece a rarefarsi, assecondando tentazioni di criminalizzazione flessibile. Nascono così norme indeterminate, fortemente collegate al contesto, che rinunciano alla precisione della fattispecie per affidarsi al buon senso dell’interprete nel discernere i casi concreti: il riferimento al “giustificato motivo” ne è un esempio lampante.

Un effetto paradossale, tuttavia, è costituito dalla circostanza che norme siffatte, che poco tributano al tempo del dialogo nel momento della loro emanazione, si dimostrano poi incredibilmente longeve: l’emergenza si cronicizza e l’indeterminatezza diventa una virtù adattiva. La loro sopravvivenza viene a somigliare a un esperimento di diritto transtemporale e può sorprendere osservarne la vitalità in un ordinamento nel quale molte tradizionali disposizioni di legge, bene orientate e meglio costruite, sembrano nondimeno resistere solo con vistosa fatica all’atrofia o a snaturanti svuotamenti.

Come è noto, il quadro è composito: la perdita di centralità della legge[122] e il sovrapporsi delle fonti interne[123], esterne o atopiche[124], indirettamente e direttamente incidenti sul sistema penale, comprese le ricadute dogmatiche del perenne work in progress dell’ermeneutica giurisprudenziale[125], forte (o debole) di nuove figure di giudicanti[126], ingredienti peraltro tutti nel segno pressoché costante dell’inasprimento[127], si sommano a una persistente «erosione dall’interno della legalità statale»[128]. Le vicende esaminate, con il loro intersecarsi di interpretazioni, fonti locali e amministrative, ermeneutiche “di contesto” socio-culturale, rimandi alla giurisprudenza estera[129], sbilanciamento dell’attenzione dai diritti-garanzia (connotanti il modello della sicurezza dal diritto) ai diritti-pretesa (caratteristici del diritto per la sicurezza), rappresentano una miniatura eccezionalmente rappresentativa dalla complessità c.d. postmoderna.

La preoccupazione non sembra potersi ridurre a nostalgica preferenza per le costruzioni geometriche ordinate e le gerarchie lineari: i fattori interagenti minacciano di produrre un contesto endemicamente oppositivo[130], rischio cui non si sottraggono certo le cause di giustificazione (non a caso invocate nelle pronunce in esame), già individuate come «la parte più dinamica dell’universo penale»[131] e congenitamente espressive di «un conflitto normativo, che presuppone la coesistenza, la sovrapposizione, la mescolanza, la competizione di differenti spazi di regolazione»[132]. Il problema, tuttavia, è molto più ampio: una situazione trasversale di conflitto[133] che il diritto a tratti si dimostra incapace di elaborare[134] e alla quale non può fare in alcun modo da contrappeso il misurarsi delle parti in sede giurisdizionale[135] o la misura aritmetica – ancora di potere e oppositiva, a prescindere dalla sede– della semplice deliberazione a maggioranza[136].

Alla «forza del diritto»[137] si affianca allora il «diritto del più forte», che incorpora avidamente i reciproci sospetti correnti tra i consociati come proprio nutrimento, mentre genera e alimenta un nuovo sospetto, ancor più corrosivo, che ne colonizza le coscienze: il «sospetto nei confronti del diritto», l’insidioso pensiero secondo il quale si afferma il proprio «essere nel diritto solo perché» – e nella misura in cui – «si detiene il potere su di esso»[138]. Dove il diritto dovrebbe cercare le potenzialità[139], la forza costruisce sulla debolezza[140]. In quest’ottica, al portatore di cultura altra non resta che sperarla un giorno prevalente. Anche in ciò, il diritto penale del nemico, in qualsiasi scala dimensionale, non solo dà corpo a una «crisi della legalità»[141], ma altresì a una crisi della giustizia come “capacità di dire qualcosa di giusto”[142] in risposta ai timori o alle ferite della collettività.

 

IV. Conclusioni: le opzioni di default come paradigmi scalari

I riscontri raccolti sono significativi, ma, proprio per questo, potenzialmente svianti. Certamente, la rappresentazione del nemico come potente e intriso di malevoli intenti si allestisce su una impalcatura che si può del pari calcare anche riducendo l’intollerato a piccolissimo[143] e privo di una propria volontà[144]. Il dubbio in merito alla possibile indifferenza della categoria del penale del nemico rispetto al requisito “dimensionale”, tuttavia, riposa in buona parte su convenzioni definitorie, dirimere le quali non rientra nei fini dell’indagine presente. È più semplice e più soddisfacente, quindi, per quanto meno di moda, ricorrere a un – peraltro agevolmente attingibile – paradigma critico di portata ancor più generale, applicabile senza difficoltà anche ai casi di specie: la prospettiva della contrapposizione[145] come modalità unica di relazione con l’altro, senza il quale altro il fenomeno giuridico non si darebbe[146].

In questo inquadramento, la ripetizione omotetica è ubiquitaria. L’assimilazione del diritto alla guerra[147] – che richiama l’idea hegeliana della storia come «sintesi di continue contrapposizioni»[148] e di cui pure il moderno diritto penale del nemico, con la sua attitudine contaminante, è espressione – replica su larga scala il paradigma “ludico” della risoluzione delle controversie, anche singolarmente intese, come tenzone agonale[149]. L’intera logica retributiva che tuttora intride la sanzione penale è stata ricondotta allo schema bellico o, più correttamente, al medesimo disegno che ha inteso rendere giustificabile razionalmente, quando non moralmente, la guerra: lo schema della giustizia fondato sul concetto di reciprocità ha agito come «moltiplicatore dell’ingiustizia» e, poiché laddove il giudizio negativo avalli l’azione negativa di rivalsa è «sempre reperibile un motivo per agire contro l’altro»[150], ha pure, «inevitabilmente e costantemente, prodotto nemici. Fino a rendere il nemico necessario per affermare la propria identità»[151].

Inoltre, il frutto patognomico della logica oppositiva è l’esclusione[152], che si mostra a livello tanto generale quanto capillare e può tanto precorrere quanto suggellare i tratti giuridici della catena schismogenetica[153]. Quanto al diritto penale del nemico, «così funziona. Escludere e incapacitare per il maggior tempo possibile»[154]: «in questo ambito risultano necessarie la separazione e l’esclusione»[155] e «dalla esclusione di fatto si passa alla esclusione normativa»[156]. Sul punto, non si manca di trasparenza: «è la società che decide chi è incluso in essa e chi no, e – per inciso – si dovrebbe supporre che il nemico di regola ben preferirebbe restare incluso»[157].

Se quindi occorre «demolire un dogma: il conflitto come cardine dei rapporti umani»[158], il disegno alternativo non può che svilupparsi lungo le linee di un paradigma altrettanto generale, non meno antico e di pari vocazione rivoluzionaria: l’inclusione[159], cui sembrano peraltro funzionali, pur nella loro complessità o criticità, alcuni concetti giuridici coinvolti nelle vicende da cui ha preso spunto la riflessione. Tra questi si annovera la natura componitiva dei beni giuridici: «prima di essere giuridici, infatti, i beni sono valori della vita degli uomini, valori che in buona parte seguono l’evoluzione della realtà, affermandosi quale composizione dei conflitti che insorgono nella società»[160]. Ancora, può ricordarsi il potere unitivo della verità, espressa anche nella dimensione più strettamente tecnica dell’offensività dai vincoli di realtà[161] già ricordati. Inoltre, milita in direzione inclusiva la sicurezza giuridica[162]come prima e imprescindibile dimensione della sicurezza[163], contro una pretesa «scissione tra lo scudo e la spada del diritto penale»[164]. Occorre sottolineare, peraltro, che ciò vale in termini di sicurezza reale, ma altresì di percezione della sicurezza da parte dei consociati: «per contenere la percezione dell’insicurezza e, dunque, per elevare la tolleranza alle perdite di identità sociale, un ruolo non meno importante delle variabili psicologiche e culturali è svolto dalla credibilità delle regole, giuridiche ed extragiuridiche, vigenti nella comunità di appartenenza. È soprattutto la percezione dell’oggettività di queste regole a conferire significato alle azioni dei soggetti e, soprattutto, a consentire loro di prevedere (e, dunque, di percepire come “innocue”) le condotte dei propri simili»[165].

Proseguendo, sembra possibile una lettura inclusiva delle ipotesi di giustificazione come garanzia di coerenza (ossia di concordia tra norme) dell’ordinamento e, al tempo stesso, come conferma del riconoscimento alla (anche perciò) persona che di quei diritti è titolare[166]. Esse sanciscono, peraltro, il «primato dell’ordinamento sul diritto penale»: anche rispetto alla condotta pur tipica, «l’intero ordinamento (…) entra in gioco fin da prima, fin da subito», postulando «la necessità permanente di un dialogo fra penale ed extrapenale»[167]. A tutto ciò si potrebbe aggiungere il profilo (meno tecnico, ma dalle ricadute tecniche evidenti) del riconoscimento della religione non solo come valore espressivo della libertà del singolo o come elemento della cultura del gruppo, ma altresì quale valore in sé, fattore propiziante l’integrazione, a livello individuale[168] e collettivo[169], e contributo irrinunciabile al «dispiegarsi del “potenziale di verità”» della democrazia plurale[170].

In questo e solo in questo[171], il sistema autoctono può seguitare a dimostrarsi ospitante rispetto agli ospitati: nel farsi carico di proporre e garantire luoghi e modalità di composizione di identità da sempre molteplici, senza né arroganza né falso pudore nel riconoscersene– sinora in maggior parte e comunque storicamente – tributario alle radici, proprie ma non esclusive, della secolarità e della religiosità occidentale[172] e, al tempo stesso, operandovi alacre in sollecita e paritaria fraternità[173].

Conflitto e inclusione, che dal medesimo terroir possono intrecciati germinare[174], si dimostrano paradigmi parimenti scalari, che un occhio volonteroso può cogliere a qualsiasi “densità di risoluzione” sia condotta l’analisi, come vere e proprie opzioni di default la cui interazione “disegna” il frattale in ogni suo dettaglio. Le similitudini prescindenti le dimensioni suggeriscono un collegamento organico necessario tra i diversi livelli, di talché come le norme marginali o le applicazioni quotidiane del diritto si alimentano dei principi generali e patiscono l’avvelenamento o il depauperamento che li colpisce[175], così l’ordinamento nel suo insieme soffre per ogni loro disapplicazione o snaturamento, fosse anche localmente delimitato o financo puntuale, e deve interrogarsi di fronte a queste evenienze in quanto sintomi su cui vigilare capillarmente[176] per porvi rimedio, ove possibile, con interventi di portata (anche) generale[177].

È questo il piano di consapevolezza su cui il modello frattale può rammentare al giurista la visione del diritto come un sistema in continua comunicazione, dove si reitera diffusivamente l’impronta di ogni singolo elemento, e l’imprescindibilità funzionale della parte vivente più prossima ai consociati, soprattutto per quanto attiene alla trasmissione e alla circolazione dei valori, “linfa” della convivenza civile. Come nelle felci, nei vasi sanguigni e nelle terminazioni nervose.

* Il contributo, sottoposto a double blind peer review, è destinato al volume V. Montani - A. Perego - A. Sammassimo (a cura di), Diritto e religione nella Lombardia multiculturale, in corso di pubblicazione, nell’ambito del progetto di ricerca su Diritto e religione nella Lombardia multiculturale (finanziamenti D1 dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano).

[1] Abbinando parametri cromatici a quelli numerici si ottengono immagini suggestive, che, indagate in scale differenti, rivelano una varietà di dettagli potenzialmente illimitata eppure sempre afferente alle formule impostate nelle opzioni di default: come per il diritto, si è parlato di un luogo di confine tra tecnica e arte.

[2] G. B. West et al., The Fourth Dimension of Life: Fractal Geometry and Allometric Scaling of Organisms, in Science, 1999, p. 284 ss.; G. A. Losa, The fractal geometry of life, in Riv. Biol., 2009, p. 29 ss.; B. Mandelbrot, The fractal geometry of nature, New York 1983.

[3] Come il verificarsi di terremoti (D. L. Turcotte, Scaling in geology: landforms and earthquakes, in Proc. Natl. Acad. Sci. USA, 1995, p. 6697 ss.), la dispersione di composti tossici nell’ambiente (JW. Kirchner et al., Fractal stream chemistry and its implications for contaminant transport in catchments, in Nature, 2000, p. 524 ss.; D. D. Clarke et al., Fractal travel time estimates for dispersive contaminants, in Ground Water, 2005, p. 401 ss.) o lo sviluppo di un tumore (R. Sedivy, Fractal tumours: their real and virtual images; in Wien Klin Wochenschr, 1996, p. 547 ss.; G. A. Losa - T. F. Nonnenmacher, Self-similarity and fractal irregularity in pathologic tissues, in Mod. Pathol., 1996, p. 174 ss.).

[4] Cfr. R. W. Glenny et al., Applications of fractal analysis to physiology, in J. Appl. Physiol., 1991, p. 2351 ss.; S. S. Cross, Fractals in pathology, in J. Pathol. 1997, p. 1 ss.; A. Eke - P. Herman - L. Kocsis - L. R. Kozak, Fractal characterization of complexity in temporal physiological signals, in Physiol Meas, 2002, p. 1 ss.; esempi possono trovarsi nello studio del sistema cardiocircolatorio (G. Captur et al., The fractal heart - embracing mathematics in the cardiology clinic, in Nat. Rev. Cardiol., 2017, p. 56 ss.; S. Lorthois - F. Cassot, Fractal analysis of vascular networks: insights from morphogenesis, in J. Theor. Biol., 2010, p. 614 ss.) o nelle neuroscienze (A. Di Ieva et al., Fractals in the Neurosciences, Part I: General Principles and Basic Neurosciences, in Neuroscientist, 2014, p. 403 ss.; A. Di Ieva et al., Fractals in the Neurosciences, Part II: Clinical Applications and Future Perspectives, in Neuroscientist, 2015, p. 30 ss.; E. Fernández - H. F. Jelinek, Use of fractal theory in neuroscience: methods, advantages, and potential problems, in Methods, 2001, p. 309 ss.).

[5] Il modello frattale è stato applicato al sistema dei valori costituzionali (D. M. Braun, Constitutional Fracticality: Structure and Coherence in the Nation’s Supreme Law, in Saint Louis University Public L. Rev., 2013, p. 389 ss.), alle sfaccettature di una sentenza (D. A. H. Miller, Peruta, The Home-Bound Second Amendment, and Fractal Originalism, in Harv. L. Rev., 2013, 238 ss.), alla decisione di un caso come negoziazione di interpretazioni (A. Sandu, Constructive - Postmodern Approaches on the Philosophy of Law, in Postmodern Openings, 2010, p. 23 ss.), all’affermarsi di soggetti autorevoli ricorrentemente imitati nel sistema giudiziario (D. M. Katz - D. K. Stafford, Hustle and flow: A social network analysis of the american federal judiciary, in Ohio St. L. J., 2010, p. 457 ss., in particolare p. 462 e 500), nonché all’intero sistema dei precedenti (D. Post - M. B. Eisen, How Long is the Coastline of Law? Thoughts on the Fractal Nature of Legal Systems, in J. Leg. St., 2000, p. 545 ss.), alla modellizzazione connettivista delle decisioni giuridiche nelle applicazioni di intelligenza artificiale (D. Bourcier - G. Clergue, From a rule-based conception to dynamic patterns. Analyzing the self-organization of legal systems, in Artificial Intelligence and Law, 1999, p. 211 ss.). Per un’ampia rassegna della letteratura negli anni Novanta dello scorso secolo, J. B. Ruhl, Thinking of Environmental Law as a Complex Adaptive System: How to Clean Up the Environment by Making a Mess of Environmental Law, in Houston L. Rev., 1997, p. 933 ss., in particolare n. 15; ma cfr. già J. M. Balkin, The Crystalline Structure of Legal Thought, in Rutgers L. Rev., 1986, p. 1 ss.; Id., The Promise of Legal Semiotics, in Texas L. Rev., 1991, p. 1831 ss., sulla ricorrenza di schemi argomentativi simili in aree tematiche differenti; nonché, sulla scalarità del diritto e sulla distorsione derivante da una sua rappresentazione in scala singola, B. de Sousa Santos, Law: a map of misreading. Toward a postmodern conception of law, in J. L. Soc., 1987, p. 279 ss., p. 287 ss.

[6] Secondo questa visione, che ricostruisce il fenomeno legale come sistema adattivo complesso (J. B. Ruhl, Law’s Complexity: a Primer, in Georgia State University L. Rev., 2008, p. 887 ss.), il diritto esprime e genera modelli di evoluzione umana secondo modalità spiegabili in termini biologici e “molecolari” (H. Gommer, The biological essence of law, in Ratio Juris, 2012, p. 59 ss.; Id., Integrating the Disciplines of Law and Biology: Dealing with Clashing Paradigms, in Utrecht L. Rev., 2015, p. 34 ss.; Id., The Molecular Concept of Law, in Utrecht L. Rev., 2011, p. 141 ss.); caos, emergenze e catastrofi sono utilizzati come paradigmi delle risorse intrinseche alla common law, propugnando il superamento del “riduzionismo amministrativista” (J. B. Ruhl, Complexity theory as a paradigm for the dynamical law-and-society system: A wake-up call for legal reductionism and the modern administrative state, in Duke L. J., 1996, p. 849 ss.; Id., The fitness of law: using complexity theory to describe the evolution of law and society and its practical meaning for democracy, in Vanderbilt L. Rev., 1996, p. 1407 ss). Contra, J. Rudd, J.B. Ruhl’s “Law-and-Society System”: Burying Norms and Democracy Under Complexity Theory’s Foundation, in Wm. & Mary Envtl. L. & Pol’y Rev., 2005, p. 551 ss.

[7] S. H. Kellert, Extrascientific Uses of Physics: The Case of Nonlinear Dynamics and Legal Theoryin Philosophy of Science, 2001, p. 455 ss.; R. E. Scott, Chaos Theory and the Justice Paradox, in Wm. & Mary L. Rev.,1993, p. 329 ss.; A. M. Stumpff, The Law is a Fractal: The Attempt to Anticipate Everything, in Lo. U. Chi. L. J., 2013, p. 649 ss.

[8] Trib. Cremona, 19 febbraio 2009, n. 15, in Corr. mer., 2009, p. 399 ss.; su cui S. P. Bracchi, La “burqa” nelle aule di giustizia, in Fam. Pers. Succ., 2009, p. 11 ss.; nonché G. L. Gatta, Islam, abbigliamento re

Palavera Rosa



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