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Balzac e la “realtà” del diritto

27.02.2018

Tommaso Gazzolo

Dottore di ricerca in Storia della cultura giuridica europea, Università degli Studi di Genova

 

Balzac e la “realtà” del diritto*

 

Sommario: 1. Un realismo per perdita di realtà - 2. Reale e realtà del diritto - 3. Logica del debito - 4. “Descrivere” la realtà; 5. Diritto(e)letteratura.

 

1. Un realismo per perdita di realtà

«Balzac incalza tanto più da presso il mondo quanto più se ne allontana, creandolo. L’aneddoto secondo il quale nei giorni della rivoluzione di marzo volse le spalle alle vicende politiche e andò al suo scrittoio dicendo “Torniamo alla realtà” (Kehren wir zur Wirklichkeit zurück), lo descrive con fedeltà, anche se è inventato»[1]. Questa osservazione di Adorno delinea, forse meglio di ogni altra, il senso del “realismo” balzachiano, di quello che ancora il testo citato definisce come un «realismo per perdita della realtà»[2], Realismus aus Realitätsverlust.

E’ proprio perché la realtà – intesa come referenza esterna al testo, come ciò che è già dato, che sussiste già, indipendente, prima del testo – è radicalmente messa in questione dalla scrittura balzachiana, che quest’ultima non avrà altro compito che il “ritrovarla”, inventarla, produrla: non si tratta, cioè, di dire qualcosa, ma di fare qualcosa, ossia di portare il linguaggio a creare una nuova realtà, un senso che prima non esisteva. Per questa ragione, il linguaggio letterario non è regolato dalle norme di nessuna conformità esterna. Esso non è, cioè, né vero né falso, non può essere verificato, controllato, perché non si riferisce, propriamente, ad alcunché che stia al di fuori di esso. Esso non presuppone, in definitiva, un “ordine”, una “misura” indipendente da esso, alla quale dovrebbe conformarsi. Secondo una bella espressione di Macherey: «la Parigi della Comédie Humaine è un oggetto letterario solo in quanto è il prodotto del lavoro di uno scrittore, e non lo precede […]. La Parigi di Balzac non è una espressione della Parigi reale»[3].

Come definire, allora, il “realismo” balzachiano? E come rileggere l’insistenza con la quale – come più volte è stato sottolineato – Balzac torna a più riprese sul mondo del diritto, sul nuovo ordine dei rapporti sociali e giuridici proprio del code civil? E’ evidente che non potremo accontentarci di leggere il testo balzachiano cercando in esso una “rappresentazione” o una “descrizione” dei rapporti giuridici del tempo (come ha ricordato Merleau-Ponty, «non basta dire che Balzac si sia proposto di capire la società del suo tempo. Descrivere il tipo del commesso viaggiatore, fare un “anatomia dei corpi insegnanti”, magari fondare una sociologia, non era un compito sovrumano»[4]). E ciò, se non altro, perché quel realismo in cui la realtà è persa, vale anche per il diritto, per il modo in cui Balzac “attacca” e incalza il code civil

Ciò, certamente, non significa che, in Balzac, tutto non passi per l’analisi dei rapporti sociali, economici, giuridici che caratterizzano la società borghese, per i «tormenti che il passaggio al sistema produttivo capitalistico» significarono «per tutte le categorie del popolo»[5], per le trasformazioni, inevitabili ma progressive dalla società feudale a quella borghese. Non si scrive che in condizioni date e determinate (condizioni letterarie, sociali, economiche, giuridiche, etc.). Ma se una certa “rappresentazione” del diritto, della realtà del diritto in un determinato contesto storico e sociale, condiziona l’andamento del testo, la sua leggibilità, la scrittura non si farà che sovvertendo proprio quella realtà, secondo una strategia che cercheremo, nelle pagine seguenti, di mostrare.

 

  1. Reale e realtà del diritto

A “sorvolare” un romanzo, il suo intrigo, la sua progressione, non si va mai da nessuna parte. Sono i particolari, sempre, che contano. Inutile sarebbe, del resto, ogni tentativo di “introdurre” questo o quel testo di Balzac o, a maggior ragione, il “carattere” di uno o più dei suoi protagonisti. L’ invenzione del «principio del ritorno dei personaggi», il quale fa funzionare i romanzi della Commedia Umana sempre attraverso meccanismi di rinvio, effetti di ritorno, serie di trasformazioni, rende impossibile dar conto di uno di essi: il testo che leggiamo, infatti, si trasforma a seconda del numero degli altri che dovremo ancora leggere[6]. Non è mai possibile dire di aver letto “un romanzo” di Balzac, perché esso continua a cambiare con le letture degli altri suoi romanzi, ed a seconda dell’ordine della nostra lettura cambiano le storie stesse, la successione temporale, i “caratteri” ed i “tipi”, etc. Lukács scrive benissimo, da questo punto di vista, che la Commedia umana è come il circolo di circoli hegeliano[7].

Per cominciare a spiegare come il “realismo” di Balzac opera sulla “realtà” del diritto, inizieremo dall’analisi di un passo tratto da La donna di trent’anni:

Noi donne siamo più maltrattate dalla civiltà che dalla natura. La natura ci impone pene fisiche che voi non avete mitigate, e la civiltà ha sviluppato in noi i sentimenti che voi  tradite di continuo. La natura sopprime gli esseri deboli, e voi li condannate a vivere, li condannate all’infelicità. il matrimonio, istituzione sulla quale poggia, oggi, la società fa sentire a noi sole il suo peso: all’uomo la libertà, alla donna i doveri. Noi dobbiamo dedicarvi tutta la nostra vita, e voi soltanto rari momenti della vostra. L’uomo fa la sua scelta, mentre noi dobbiamo sottometterci ciecamente. Oh, signore, a voi posso dir tutto. Ebbene, il matrimonio, com’è inteso oggi, mi sembra una prostituzione legale.

Sarà sempre possibile, e necessario, individuare – come si è accennato – le condizioni di produzione del testo, ma sempre allo scopo di distinguerle dalla produzione stessa. Condizioni, si aggiunga, che saranno sempre plurali e cristallizzate in una serie di «codici» che organizzano la leggibilità del passo in esame. Potrà allora essere ritrovato un codice «retorico» che riguarda le regole sociali che disciplinano i modi e lo stile dei discorsi che le donne possono tenere in società: il linguaggio della donna sposata sarà, in questo senso, reso possibile da una retorica che lo disciplina, che regola ciò che può/deve/non può dire e come lo può o non può dire, diverso dal linguaggio retorico che sarebbe proprio del marito, o di una ragazza in età da matrimonio, e così via. Nell’esempio, poiché l’interlocutore è un anziano prete, un curato, un «confidente», la disciplina retorica cambia rispetto a come la donna potrebbe parlare al proprio marito o al proprio amante: «Oh, signore, a voi posso dire tutto» (à vous je puis tout dire). Siamo nell’ordine del discorso della confessione, dunque, che avrà anch’esso una sua disciplina propria.  

Questa «confessione» sarà, a sua volta, organizzata attraverso un codice«ideologico»,che organizza tutta una serie di opposizioni su cui è costruito il discorso: civiltà / natura, uomo / donna, fisico/sentimento (ossia: corpo/anima); vita / morte; libertà / dovere. E’ il discorso ideologico del tempo che viene assunto, come tale, da Balzac. E’ il discorso dell’oggi, di quell’oggi che la protagonista pronuncia. Il quale, più che una funzione deittica – più che codificare informazioni relative al tempo – assolve anch’esso ad una funzione “ideologica”: quella di giudicare il presente, di creare una opposizione “ieri / oggi”, e quindi svolgendo implicitamente il tema – reazionario e presente in tutta l’opera di Balzac – della nostalgia per il passato (sono i temi ricorrenti di Balzac: cattolicesimo romantico, idealizzazione della società aristocratica dell’antico regime, etc.).

 Dal momento, però, che ciò che qui interessa è il rapporto con il diritto, occorre soffermarsi sul codice propriamente «giuridico» che è individuabile nel passo. Il testo, diremmo, funziona, produce il proprio senso, soltanto facendo circolare al suo interno un certo discorso giuridico, che è il discorso del code civil sul matrimonio, “come è inteso oggi” (tel qu’il se pratique aujourd’hui).  E’ questo discorso che costituisce tutta una serie di posizioni, di rapporti, di status sociali e di “ruoli” nel romanzo di Balzac: le relazioni, ad esempio, tra moglie e marito, in questo romanzo, sono determinate, nel loro sviluppo all’interno della storia, anche a partire dalla nuova regolamentazione del matrimonio che è presente nel codice civile[8].

Naturalmente, il discorso giuridico non smette di corrispondere con altri discorsi interni al testo: quello morale, quello politico, quello retorico, e così via. Si potrebbe notare, ad esempio, il suo combinarsi con quello retorico, nel passo che abbiamo letto: nell’opposizione uomo/donna, civiltà/natura, ciò che è dalla parte dell’uomo e della civiltà parla sempre un linguaggio giuridico. Sono tutti termini di diritto quelli della serie: l’uomo tradisce (vous trompez. Tromper, non trahir,  ossia tradire la fiducia, ma “tradire” nel suo senso propriamente giuridico, che traduce immediatamente l’espressione consilium fraudis, l’intenzione fraudolenta), condanna (vous condamnez), l’uomo stabilisce doveri (devoirs).  Ma tutti questi codici – ivi compreso quello giuridico – consentono al testo di produrre un nuovo discorso, di produrre un nuovo senso che, in essi, non è presente, non è disponibile, non è in alcun modo presentabile.

Leggiamo: «il matrimonio mi sembra essere una prostituzione legale (me semble être une prostituion légal)». C’è una rottura, improvvisa, rispetto alle significazioni rese possibili dal codice giuridico: questa affermazione, questo “senso”, non può essere-detto, non può essere pensato all’interno di quel tipo di discorso, di quelle regole per formare e concatenare frasi che sono codificate nel discorso del diritto. E’ come se il discorso del diritto venisse innestato, attivato, fatto circolare nel testo, fino ad un punto-limite, fino al punto in cui si produce uno scarto, in cui si crea un nuovo senso, quella “nuova” realtà che definiremo, da qui in avanti, il «reale» - ma su ciò, torneremo più avanti. Il discorso giuridico viene dunque sì rappresentato, ma spinto fino al punto in cui si buca, in cui viene preso in un concatenamento nuovo, trascinato verso un discorso del tutto incomprensibile per il diritto stesso, quello dell’equivalenza tra matrimonio e prostituzione.

Sposarsi è prostituirsi. Occorre fare molta attenzione. Non è una frase che Balzac inventa, a rigore. Il «senso» è “nuovo” non perché lo scrittore inventi necessariamente  parole nuove o sia il primo a servirsi di una certa espressione. L’idea che il matrimonio sia una prostituzione legale è già presente sia nel discorso femminile rivoluzionario (ricorre già in Mary Wollstonecraft, Défense des droits de la femme, del 1792) sia in quello anarchico che si forma proprio nello stesso periodo in cui Balzac scrive il romanzo[9]. Ma in Balzac essa ha un senso del tutto nuovo, egli la inventa davvero, perché lascia che venga prodotta dal testo stesso, dalle sue “leggi” interne, dal suo funzionamento. E’ una strategia che consiste nel sapere provocare corrispondenze, rotture, contraddizioni tra differenti discorsi e codici che attraversano la trama del testo, per far sì che, ad un dato punto – e nell’incontro con altri codici (ideologico, retorico, morale, etc.) – il discorso giuridico (il discorso del diritto, tutta la disciplina legale del matrimonio che circola nel testo) si rompa, si spezzi, si “rovesci”.

Se rileggiamo il passo, vediamo che è proprio quell’ “oggi”, pronunciato due volte in poche righe, che attiva tutte quelle opposizioni di cui abbiamo parlato (civiltà-natura, uomo-donna, libertà-dovere). E’ così che il discorso del diritto, in qualche modo, viene spinto troppo avanti, diremmo, fino ad una nuova definizione legale – una vera e propria definizione codicistica, giuridica, se ci pensiamo, ma totalmente fuori dalla logica del diritto, del code civil: «il matrimonio è una prostituzione legale» (questa definizione non smetterà, poi, di circolare in tutti i testi della Commedia umana, la si trova continuamente, perché è come un nuovo senso trovato, scoperto, creato, che solo attraverso l’opera può continuare a vivere ed essere riprodotto e che permette di costruire il senso di tutta una serie di altri testi di Balzac).    

E’ necessario capire a fondo questo punto. Non è, qui, Balzac che dà un giudizio sul matrimonio, che esprime la propria opinione personale, intervenendo dall’esterno sul romanzo, sul testo che sta scrivendo. E’, piuttosto, il testo stesso che si costruisce, lungo una strategia, solo per spingersi verso un limite estremo del linguaggio (in questo caso: del linguaggio giuridico), a partire dal quale quel linguaggio si trova del tutto rovesciato, aggredito, contestato, preso al suo interno da un fuori che ne inverte il senso, che lo fa ondeggiare, fino a divenire un altro linguaggio.

E’ questo il punto: portare il linguaggio del diritto, il linguaggio (giuridico) del matrimonio, fino ad un punto, ad una soglia, in cui esso finisce per negarsi, perché produce l’improducibile, perché è costretto ad una definizione che lo contraddice, in cui il matrimonio si identifica con il suo opposto, ossia la prostituzione (qui, certo, occorrerebbe riaprire un discorso su come, giuridicamente, si assista proprio nell’età napoleonica ad un nuovo disciplinamento della prostituzione. E si dovrebbe vedere proprio come il code civil insista sulla specularità tra moglie e prostituta, modello e devianza). 

Cominciamo allora a capire meglio cosa può significare “realismo”, e cosa significhi la produzione del «reale». Nel passo che abbiamo letto, Balzac fa esattamente questo: produrre il reale della realtà, ossia far sì che la realtà del diritto finisca per mostrare il diritto reale. Il diritto, nella sua realtà, separa matrimonio e prostituzione, produce e riproduce continuamente questa separazione, la codifica, la regola, la disciplina. Ma il “reale” di questa realtà, ossia ciò che permette a questa realtà di essere così come è, come si presenta, è l’identità tra matrimonio e prostituzione, ed è questa identità che quella stessa separazione produce e riproduce nella realtà. Soltanto nella scrittura letteraria il discorso giuridico produce ciò che lo rende reale. Al di fuori della letteratura, infatti, il discorso giuridico non potrebbe mettere in frasi– non ha il linguaggio per farlo, gli “mancano le parole” – l’identità tra matrimonio e prostituzione, che pure è il reale delle norme che oppongono la moglie alla prostituta, che regolano il diritto di famiglia, la disciplina dei rapporti tra coniugi.

Cerchiamo di precisare ancora meglio, un’ultima volta. Il diritto può separare la moglie dalla prostituta, può costituire un regime giuridico del matrimonio – della famiglia, delle relazioni tra coniugi – interamente costruito attraverso la distinzione tra due tipi di donna (la sposa e la prostituta), soltanto producendo l’ identificazione tra la moglie e la prostituta. Si tratta di un doppio movimento:

(a) da una parte, è soltanto il discorso giuridico che permette di separare la sposa dalla prostituta: è soltanto attraverso il diritto, il suo discorso, che la “femmina” può divenire una «donna coniugata», e quindi sposa fedele, angelo del focolare, madre affettuosa, etc. – solo il diritto le permette, in qualche modo, di non rimanere sempre nel rischio di non potersi distinguere da una donna “facile”, da una libertina – da una prostituta, in definitiva;

(b) dall’altra parte (ma è la stessa parte), si può divenire «donna coniugata» soltanto attraverso una logica dello scambio: il diritto non conosce altra logica che quella della ripartizione, della distribuzione (non solo di beni, ma, anche e soprattutto, di “posizioni”). Bisogna assicurare la possibilità di una serie di scambi – e Arnaud ha detto benissimo: il matrimonio, per il code civil, è una «dazione simultanea in vista di una prestazione a beneficio di un gruppo sociale, la famiglia». In questo modo, diremmo, l’unico modo che la “femmina” ha di divenire una «donna coniugata» è lo scambio: ma in questo modo non compie altro, che un atto di prostituzione.

E’ come se il discorso giuridico non riuscisse mai ad assicurare realmente la separazione tra matrimonio e prostituzione, perché producendo e riproducendo tale separazione non fa che continuamente presupporla ed affermarla. Non si tratta – questo è un punto essenziale – di denunciare il diritto come realtà ideologica, come se vi fosse, dietro di esso, un’altra realtà. Il discorso del diritto è reale, proprio perché è ideologico, e viceversa. Non c’è un’altra “realtà” del diritto, nascosta ed occultata dalla prima. Si tratta di un’operazione diversa: spingere il discorso del diritto fino al punto in cui esso stesso produce ciò che lo rende reale: la realtà della separazione tra matrimonio e prostituzione – ossia: ciò che la rende possibile come discorso e come norma giuridica e sociale – è che il matrimonio è una prostituzione, che sposandosi una donna non fa altro che prostituirsi. Balzac non intende semplicemente “denunciare” un’ingiustizia sociale. Fa molto di più. E’ un visionario, Balzac, come diceva Baudelaire, nel senso che costringe quella che chiamiamo “realtà” a divenire davvero reale soltanto attraverso il testo, la scrittura.

 

3. Logica del debito

Possiamo allora tentare di approfondire il problema di come la letteratura possa essere pensata come il reale di quella realtà che è il diritto. Ciò tenendo conto, però, che la differenza tra realtà e reale è sempre senza-differenza, perché il reale non consiste in una realtà altra e diversa, non indica un’altra realtà rispetto a quella che chiamiamo “realtà”- la sola realtà esiste. Nessun “mondo dietro al mondo”, diremo.  Nell’esempio che si è già visto, è solo l’identità tra la moglie e la prostituta a rendere possibile al diritto di costituirsi come la realtà della loro differenza. Solo la realtà esiste, dunque, ma solo il reale si effettua, ossia costituisce, con il suo movimento, la realtà stessa.

Al fine di precisare ed approfondire la nostra tesi fondamentale, tenteremo, qui di seguito, l’analisi di una pagina di Papà Goriot, nella quale Rastignac, il giovane di provincia che vuole “arrivare”, parvenir, fare ingresso nei salotti dell’aristocrazia parigina, è costretto ad indebitarsi di continuo. Il rapporto creditore-debitore costituisce una struttura attanziale essenziale del racconto balzachiano, nella misura in cui le relazioni tra i personaggi vengono definite attraverso le posizioni che di volta in volta essi occupano come creditori o debitori[10]. Cerchiamo di restare su un punto particolare. Veniamo al passo, cominciamone la lettura:

I giovani sono tutti sottoposti quasi tutti ad una legge in apparenza inesplicabile, ma la cui ragione proviene dalla loro stessa giovinezza e da quella specie di furia con la quale si lanciano al piacere (plaisir). Ricchi o poveri, non hanno mai denaro per le necessità della vita, mentre ne trovano sempre per i loro capricci (caprices).

Di che tipo di legge si tratta? Legge en apparance inexplicable, che dipende, scrive Balzac, dalla giovinezza, dalla sua furia per il piacere. Qui si apre tutta una analisi possibile. Questa non è, si dirà, una legge giuridica, quanto piuttosto una legge sociale, o meglio ancora, è una legge in quanto definisce il piano simbolico che struttura il piacere nella società parigina (il piacere, da questo punto di vista, è al contempo ciò che attiva il ricorso al credito e ciò che è necessariamente mediato dal credito stesso). Ma noi cerchiamo di spostarci, di vedere in che modo questa “legge” funzioni, in realtà, proprio sul piano giuridico. In forza di essa, si realizza una certa distribuzione del denaro: indipendentemente dalla ricchezza o dalla povertà di partenza, diremo, questa legge rende sempre poveri per far fronte alle necessità, sempre ricchi per far fronte ai capricci.

Vediamo come essa ridetermina, pertanto, le relazioni ricchezza/povertà, necessità/capricci, secondo una struttura particolare,  in corrispondenza con le strutture espresse dal code civil, con il codice giuridico. Dal punto di vista del discorso giuridico, non vi è distinzione tra ricchi e poveri. Giuridicamente, infatti, ricchezza e povertà non danno luogo a status differenti: la posizione “iniziale” dei due soggetti è sempre di parità, ed i loro scambi sono sempre pensati a partire da una perfetta simmetria. Pure, quella stessa disciplina giuridica, poi, nel momento in cui regola gli scambi, i rapporti tra creditore e debitore, il sistema delle garanzie (pegno, ipoteca, etc.), non fa che assicurare la ri-produzione e la stabilizzazione di quella differenza iniziale che negava, che rimuoveva.

Tutto ciò si può, semplicemente, leggere secondo la nota contrapposizione tra eguaglianza formale / sostanziale (come scriveva Anatole France, la legge tratta i ricchi e i poveri allo stesso modo, perché proibisce al ricco come al povero di dormire sotto i ponti, di chiedere la carità per la strada e di rubare del pane). A noi, però, interessa, il movimento inverso, che imprime la “legge inesplicabile” di cui parla Balzac. Qui si parte dalla rigida opposizione tra ricchi e poveri – non si negano le differenze: riches ou pauvres, non c’è alternativa, non c’è che questa linea di distinzione. Eppure questa non è semplicemente una lettura dei rapporti reali, oggettivi, che sarebbero “occultati” dal discorso giuridico. Balzac parte da qui, ma spinge questa distinzione lungo un movimento – che egli ci dice dettato dalla ricerca del piacere – tale per cui ricchezza e povertà si confondono, si annullano. Tutti sono poveri, non hanno denaro, per le necessità della vita. Tutti sono ricchi, trovano continuamente risorse e denaro, per i capricci.

E’ una nuova opposizione (necessità / capricci) che ora definisce quella tra ricchezza e povertà. Non: “se sei ricco, allora potrai permetterti di soddisfare anche i tuoi capricci”. Ma: “se soddisfi i tuoi capricci, allora sei ricco; e quando vorrai invece soddisfare le tue necessità, allora ti ritroverai povero”. Andiamo avanti nella lettura:

Prodighi in tutto ciò che si ottiene a credito, sono avari in tutto quello che si paga in contanti (à l’instant même), e sembrano vendicarsi di ciò che non hanno, dissipando tutto quanto possono avere. Così, per porre nettamente la questione, uno studente tiene più (prend bien plus de soin) al cappello che al vestito. L’enormità del guadagno fa del sarto essenzialmente un creditore, mentre la modicità del prezzo fa del cappellaio uno degli esseri più intrattabili fra coloro coi quali egli è costretto a contrattare.

Iniziamo a vedere gli effetti che la nuova opposizione necessità/capriccio determina per quanto riguarda il credito. Si è avari con chi si deve pagare in contanti – ma qui vuol dire: immediatamente, sul momento, statim quidem debetur (altri traducono: «tutto ciò che dev’essere pagato subito») –, ed a cui si deve una modica cifra. Il debito nei confronti del cappellaio potrebbe essere saldato con poco – è un pagamento facile –, ma non lo si soddisfa mai. Ma proprio perché vuole essere pagato immediatamente, il cappellaio non è un creditore, non viene considerato come qualcuno a cui si devono dei soldi. Il sarto è invece essentiellement créditeur, e proprio perché non viene pagato, perché ci si indebita con lui fino al punto di non poterlo pagare, ma sempre senza doverlo pagare, perché egli dà credito, rinvia al futuro il proprio saldo.

Vediamo come il credito fa funzionare il tempo, ridetermina i rapporti temporali. Ciò che richiede di essere pagato immediatamente, è semplicemente dovuto, è cioè un debito già passato, e dunque incapace di produrre nuovi rapporti, nuove relazioni, di strutturare l’azione. Per questo il cappellaio è soltanto “intrattabile”, non è neppure, in senso stretto, un creditore. Lo è invece il sarto, e lo è proprio perché il credito che può vantare – e che fa di lui appunto “essenzialmente un creditore” – è tale solo perché è in rapporto con l’avvenire, con il futuro. C’è un primato dell’avvenire sul presente, nella misura in cui è il futuro – il debito non ancora dovuto – a determinare il presente, a consentire a Rastignac di dissipare tutto ciò che può avere. Ma questo vuol dire anche: il credito, il creditore, è colui che permette a Rastignac di progettare il proprio avvenire[11].

C’è, qui, un movimento tipico di Balzac: indebitarsi per non avere più debiti, fare talmente tanti debiti da rendere impossibile soddisfarli e, dunque, fino al punto da non “avere” realmente neppure un debito. Soltanto un indebitamento infinito consente di avere creditori, ma di non avere debiti. E’ questo rinvio continuo, questa separazione temporale tra avere-a-credito e restituzione-del-debito, che consente a Rastignac di agire (e dunque al romanzo di scriversi)[12]. Quanto più ci si indebita, dunque, tanto meno si è debitori, si direbbe. Ciò che, invece, impedisce l’azione, che blocca l’ “ispirazione” – dirà più avanti Balzac – è il debito di poco valore, contratto per una necessità, per un bisogno, e non per capriccio. E’ cioè il debito per come pensato dall’ordine borghese, dal code civil. Il debito come debitum, come ciò che è dovuto, come ciò che si pensa pertanto al passato, come abbiamo visto. Leggiamo ancora un passo:

Una necessità banale (vulgaire), debiti contratti per bisogni soddisfatti (besoins satisfaits), non gli ispiravano più alcuna idea geniale. Come la maggior parte di coloro che hanno conosciuto questa vita rischiosa, aspettava sempre l’ultimo momento per saldare crediti considerati sacri secondo i borghesi (créances sacrées aus yeux des bourgeois), come faceva Mirabeau, il quale pagava il conto del fornaio soltanto quando gli veniva presentato sotto la forma draconiana di una cambiale.

Ancora si noti notare la differenza temporale. Il debitum, cioè che è dovuto, è tutto rivolto al passato: debito contratto per bisogni già soddisfatti. Il credito, invece, l’ottenere-a-credito, è rivolto non a bisogni, ma a capricci, e a capricci che non sono soddisfatti, ma sempre ancora da soddisfare. Il capriccio – poiché è dell’ordine del piacere, e non della necessità (come invece il bisogno) – non ha un oggetto determinato, non è qualcosa che possa essere soddisfatto, ma si dà soltanto in un rinvio continuo, è qualcosa che è continuamente rinviato. Esempio: vincere al tavolo da gioco per procurarsi denaro per comprare un gioiello per impegnarlo in cambio di denaro per il tavolo da gioco[13]. Il capriccio non ha alcun oggetto. Esso, diversamente, è produttivo: produce le possibilità dell’ azione romanzesca (Rastignac che si reca al Monte di Pietà, Rastignac al tavolo da gioco, e così i suoi incontri, le sue avventure, etc.).

Rastignac non ha soldi per pagarsi il vitto e l’alloggio, ma ne ha sempre per acquistare a caro prezzo orologi e catene d’oro da impegnare successivamente. Cominciamo dunque a vedere come questi rapporti di debito / credito che vengono a strutturare tutta le serie di azioni che Rastignac compirà nel corso del romanzo funzionino secondo una logica che ridetermina quella del discorso giuridico che pure la rende possibile (non ci sono debiti o crediti se non per il diritto). Portalis aveva distinto le obbligazioni assunte «per il bizzarro desiderio di abbandonarsi ai capricci della fortuna» (come quelle contratte al tavolo da gioco) da quelle meritevoli di protezione da parte della legge, quelle fondate su «causes sérieuses», assunte per motivi utili e ragionevoli. L’obbligazione dev’essere seria, assunta per far fronte ad interessi razionali ed a necessità della vita quotidiana. C’è dunque una morale (borghese) del debito che attraversa il discorso giuridico sul debitore, ed è questo primo discorso che permette alle norme, ai singoli precetti (che si presentano come “neutrali” dal punto di vista ideologico) di funzionare ri-producendo nella sua fissità le relazioni ricchi / poveri, creditori / debitori.

Rastignac, in questo senso, è un personaggio difficile, sfuggente. L’avventuriero, colui che vuole “arrivare”, e che sfida Parigi: A noi due, dirà proprio alla fine di Papà Goriot, rivolto alla città. Egli tuttavia non contesta le regole giuridiche ma, diversamente, le “spinge” fino al punto in cui esse producono ciò che le rende reali. Cerchiamo di rivedere, allora, questa operazione, mediante la quale si sovverte la distinzione tra ricchezza e povertà, ossia quella distinzione che il discorso giuridico nega come punto di partenza (soggetto di diritto) per poi però produrla ed affermarla come effetto del funzionamento delle regole giuridiche (come dire: “se sei povero, è perché ti sei indebitato”, e non: “ti sei indebitato perché sei povero”). Le relazioni debito/credito, in Rastignac, hanno invece come punto di partenza la distinzione, già data, ricchi/poveri (ricchi o poveri), ma la spingono subito lungo una nuova distinzione, quella tra necessità e capricci, che la redistribuisce e produce questa “legge inesplicabile”: più ci si indebita, più si è ricchi; meno si deve pagare, minore è il debito, più si è poveri. La ricchezza consiste nell’indebitarsi, la povertà nel non farlo o nel tentare di non farlo.

Ma che senso ha questa legge? Non è un apparentemente assurda? Lo è solo se non riusciamo a leggere ciò che essa implica, e che è la stessa logica del discorso giuridico, che tuttavia Rastignac pensa “all’inverso”. Si tratta della logica dell’indebitamento[14] che permette al discorso giuridico di funzionare come ciò che assicura, nella società, la ri-produzione delle gerarchie e delle relazioni fisse e rigide secondo lo schema creditore: debitore = ricco: povero. Questa logica serve dunque a perpetuare l’indebitamento in funzione della riproduzione del controllo e del dominio del debitore, del “povero” (usiamo qui ancora i termini di Balzac).

E’ necessario capire questo punto essenziale. La “morale” di Rastignac e la morale giuridica, condividono questo principio, questa logica: il debitore non deve poter pagare i propri debiti. Egli è tale se si indebita sempre di più, e l’interesse dello stesso creditore (di chi è «essenzialmente creditore», come dice Balzac, e non del semplice “cappellaio”) non è quello di essere soddisfatto, ma di rendere il debitore sempre più debitore, sempre più “colpevole”. Per la morale giuridica, questo indebitamento infinito serve ad assicurare la “schiavitù” del debitore, ad assicurare che il debitore rimanga debitore, il povero rimanga povero. Proprio in quanto condivide questa logica, Rastignac tenta di “rovesciarla” per cercare di sfruttarla: più mi indebiterò, meno i miei creditori mi richiederanno la restituzione dei debiti.

Ma questo rovesciamento, in definitiva, non fa che “spingere” il discorso giuridico fino al punto in cui esso deve produrre, attraverso il testo letterario, la propria “realtà” – o, meglio, il reale della sua realtà. Anche in questo caso, come quello che si era già visto commentando il passo tratto da La Donna di Trent’anni, il reale del diritto si rivela essere l’antitesi della realtà del diritto:

            (a) realtà: “il debitore deve pagare quanto dovuto al creditore”;

            (b) reale: “il debitore non deve pagare i propri debiti” (logica dell’indebitamento).

            Ancora una volta, troviamo lo stesso effetto letterario: il testo letterario produce ciò che rende reale il diritto, e mostrando come ciò che rende il diritto una realtà sia il “rovescio” o l’inverso della sua realtà stessa. Il testo letterario, in altri termini, produce (perché non si dà prima di esso) ciò che rende possibile al diritto di essere ciò che è, la realtà che è (produce il suo “reale” – che non esiste mai, non coincide mai con la realtà). Ma se il reale è l’antitesi della realtà, come fa a renderla possibile? Ma esso è “antitesi” solo se non sappiamo leggere la realtà, comprenderla. In verità, il reale non dice che la stessa cosa della realtà.

Riprendiamo le due “affermazioni”: (a) realtà (code civil – tutto il sistema delle obbligazioni): il debitore deve pagare i propri debiti; (a’) reale: il debitore non deve pagare i propri debiti. Dicono la stessa cosa, a saperli leggere. La realtà, il diritto, infatti, dice proprio che il debitore deve pagare, ossia costituisce il debitore come colui che è obbligato. Ma allora, se paga, non è più obbligato, non è più debitore. Quindi la norma – la realtà, il code civil – , allora, dice proprio che il debitore non deve pagare per poter dover-pagare, per essere colui che deve-pagare i propri debitori (e quindi per essere il soggetto a cui la norma si rivolge, il suo destinatario). La condizione, dunque, affinché la norma esista è che il debitore non debba mai pagare i propri debiti. Ciò che la rende reale, il reale della sua realtà è esattamente questo. Se il debitore pagasse, il diritto – quella norma – cesserebbe di avere una realtà.  Non c’è dunque una “antitesi” tra reale e realtà. Dicono la stessa cosa. Ma solo il testo letterario consente di pensare questa stessa cosa, la fa-apparire, insegna a vederla[15].

Non si tratta, dunque, di contrapporre realtà e reale (non si tratta di ridurre la realtà ad una “false rappresentazione”). Esiste solo la realtà, ed il diritto non ha un’altra realtà rispetto a quella che appare. Il discorso è diverso: il diritto può avere quella realtà soltanto perché qualcosa le consente di essere reale.  Questo “qualcosa” è ciò che il testo letterario produce, mostra, svela, e che si rivela essere l’antitesi di quello che, poi, ci apparirà come realtà. Il diritto deve obbligare il debitore al pagamento proprio perché il creditore non vuole essere pagato, ma vuole che si fissi e si riproduca proprio l’obbligo di pagare, il dovere-di-pagare, il debito, e non la sua soddisfazione.  Il diritto prevede l’obbligo, per il debitore, di pagare il creditore proprio perché vuole che il debitore sia appunto obbligato, vuole che ci sia l’obbligo, e non la sua estinzione, la sua “soddisfazione”. 

La norma che stabilisce l’obbligo per il debitore di pagare proprio al solo fine di porre l'obbligo di non pagare. Ma questo ultimo obbligo non fa parte della realtà della norma (non è infatti mai posto dalla norma, non è mai un obbligo esistente). Anzi, è proprio quell’obbligo che la norma, nella sua realtà, non pone, quell’obbligo che essa non prevede, rifiuta, ponendo al suo posto un obbligo opposto (quello di pagare). Ma ciò, lo si ripete, va inteso correttamente. Non si tratta, di dire qualcosa di diverso da ciò che il diritto afferma (del tipo: “il diritto dice questo, ma la realtà è diversa”). Né di dire che il diritto soltanto in apparenza direbbe questo, ma in realtà dice un’altra cosa. Non è questo il punto. Al contrario: ciò che la scrittura letteraria “scopre” – diremmo impropriamente – è che la realtà della norma che prevede l’obbligo di pagare i propri debiti è resa possibile soltanto nella misura in cui quella stessa norma impone al debitore di non pagarli.  La letteratura avrebbe dunque questo compito: produrre ciò che è il reale di quella realtà, produrre ciò che rende reale quella stessa norma.

 

4. “Descrivere” la realtà

Attraverso gli esempi qui analizzati, credo sia possibile cominciare a rimettere in questione l’idea propria di alcuni degli studi di “diritto e letteratura”[16], secondo cui nei testi letterari si ritroverebbero “rappresentazioni” o “descrizioni” della realtà giuridica, del funzionamento di determinati istituti, dell’effettiva “realtà” del diritto, e così via. Si è cercato di mostrare quanto tutto ciò sia distante rispetto ad un autore “realista” come Balzac. Ma, più in generale, occorrerebbe precisare come queste tesi tradiscano una errata ed impropria concezione della “descrizione” letteraria.

Descrivere la realtà, infatti, non è un’operazione descrittiva. La descrizione, anzitutto, è sempre dell’ordine della produzione, anche quando essa, funzionando come «cornice ambientale»[17], attiva una certa metafora dello sguardo, della visione, della vista. Parafrasando Blanchot, si dovrà, infatti, dire: scrivere non è vedere[18]. Vedere è, infatti, cogliere immediatamente l’oggetto in un’unità spazio-temporale, laddove scrivere è proprio ciò che libera «dall’esigenza ottica», ciò che comincia mettendo “in fila indiana”, come osserva Ricardou, le cose: mentre un albero si vede sempre in un sol colpo, l’albero descritto è tale solo in una successione e in una durata, una frase dopo l’altra, un particolare dopo l’altro. Per questo se si volesse, allora, essere «realisti» in senso stretto, se si volesse cioè descrivere davvero un albero per come lo si vede, occorrerebbe, al limite, scrivere unicamente qualcosa del tipo: laggiù, c’è un albero. Niente altro[19].

E’ esattamente ciò che il realismo, come quello di Balzac, non fa: se deve dire la cosa attraverso una descrizione minuziosa, è proprio perché la “vista” è radicalmente messa in questione. La descrizione comincia proprio quando la realtà è persa, quando non si trova più un senso già dato nelle cose che vediamo, ed esso deve pertanto essere prodotto dal testo. La descrizione è possibile solo quando diventa necessario «descrivere il mondo con una precisione esagerata, appunto perché il mondo è diventato estraneo e non si lascia più mettere a portata di mano»[20]. La descrizione non ha nulla ha che fare, pertanto, con una riproduzione, rappresentazione di una realtà – o di un senso delle cose – già dato, che preesiste: se si presenta sempre come un effetto-dello-sguardo, essa non consiste, però, che nel produrre una certa invisibilità, poiché ciò che essa “descrive” non è mai ciò che si può vedere, ma ciò che è sottratto alla “vista” – al regime dello sguardo, ai suoi dispositivi – e che solo la scrittura può tentare di “ritrovare”[21].

Bisogna tuttavia sottolineare un secondo aspetto, riprendendo ciò che Barthes ha definito nei termini di «illusione referenziale». Il ricorso alla descrizione sembra, infatti, sempre funzionale a produrre un effetto-di-realtà, a produrre cioè l’illusione che il testo stia “rappresentando” una realtà che gli pre-esiste (quando, invece, la produce). L’attenzione per i “dettagli”, in particolare, serve a garantire un ordine del mondo che esiste prima del testo, che lo precede e lo giustifica. Vogliono dirci che la descrizione si sta riferendo immediatamente alle cose, che non siamo più nel racconto, ma nella pura referenza, nella possibilità di far vedere le cose che sono nella realtà.  Non possiamo, ora, soffermarci sulle tesi di Barthes, che sono in verità molto complesse. Ma, da questo punto di vista, possiamo afferma che la descrizione produce la realtà come ciò che è esterna ad essa, e per questo può illudersi di ritrovarla al di fuori di essa, al di fuori del testo – per quanto attraverso il testo. La descrizione produce, cioè, la realtà come effetto di realtà.

Occorre infine un’ulteriore precisazione. Questo «eccesso descrittivo», presente spesso nelle opere di Balzac, non funziona, in realtà, se non rendendo impossibile quell’illusione referenziale al quale esso sembrava mirare. Perché Balzac si obbliga a dire-tutto, a far proliferare una scrittura in cui tutto deve essere detto, in cui qualsiasi dettaglio, qualsiasi oggetto sembra in qualche modo avere il “diritto” di entrare nel racconto? Da cosa deriva l’esigenza di una descrizione sempre “in eccesso”, sempre spinta al di là di se stessa (una descrizione che non mira, in un certo senso, che alla propria impossibilità: è impossibile dire-tutto, bisognerà sempre fingere di averlo detto)? Nasce dall’impossibilità – che segna proprio la fine dell’idea di “rappresentazione” – che la letteratura trovi prima di sé ciò che deve-essere-detto. Dall’impossibilità, come Jacques Rancière ha osservato, di un ordine, di una serie di regole, di una gerarchia che preceda il testo e che gli fornisca prima i criteri di ciò di cui è meritevole parlare[22].

La “rappresentazione” è, in altri termini, possibile solo se si sa già, prima di scrivere, quali cose, azioni, oggetti meritino di essere raccontate. C’è un sapere che precede la scrittura e che stabilisce un certo regime di significatività: si parlerà o meno di un certo oggetto, o di una certa azione, a seconda che essa significhi o meno qualcosa in relazione a ciò che si deve dire.  Ora, con Balzac, tutto ciò viene meno. Le cose non significano “prima” – per dirla con Brecht: «nessun realista si accontenta di ripetere continuamente ciò che già si sa»[23]. O, meglio: non c’è più alcuna possibilità di rifarsi ad un ordine, ad una gerarchia, ad un sapere che ci dica di cosa dobbiamo e possiamo parlare. Adesso qualsiasi cosa è sullo stesso piano dell’altra. Tutti gli oggetti – che siano apparentemente banali, nobili, insignificanti – “devono” essere descritti proprio perché non c’è nulla che ci dica che lo “debbano” essere. Non c’è più una «realtà» che precede il testo, se con realtà intendiamo un mondo già ordinato, del quale sappiamo già cosa merita di essere detto, cosa ha il diritto di essere raccontato, nel quale sono già presenti saperi e discorsi che regolano la futura descrizione. 

Le cose, in Balzac, si fanno segni, la realtà si fa segno, perché il segno costituisce la realtà, perché essa non esiste prima del suo essere-segno e del segno che la indica, che la significa.  Si ritorna allora al punto essenziale: la descrizione è possibile solo a partire dalla perdita della realtà[24].

Se, ora, cerchiamo di leggere attraverso questi differenti livelli, possiamo sostenere che la descrizione produce la realtà solo a partire dalla negazione della realtà. Questi sono, a nostro avviso, i tre “principi” alla base dell’idea balzachiana di descrizione: (a) la descrizione è dell’ordine della produzione, e non della rappresentazione; (b) la descrizione produce la realtà come “effetto di realtà”; (c) la descrizione presuppone il venir meno della realtà. Diventa pertanto difficile pretendere di leggere nei testi di Balzac una “rappresentazione” del mondo del diritto, dei rapporti giuridici della società borghese. Balzac, piuttosto, produce il diritto nel contestarne e sovvertirne la “realtà”, come si è tentato di mostrare e nei termini sopra precisati.

 

5. Diritto (e) letteratura

Non è possibile, in tale sede, approfondire ulteriormente la relazione tra diritto e scrittura presente in Balzac, nei suoi testi, nel suo “realismo”. Appare però utile tentare, a partire da quanto si è visto con riferimento alla scrittura balzachiana, di ritornare a discutere sul rapporto tra diritto e letteratura, a cominciare dalla stessa possibilità di questa relazione, di questo rapporto tra due “ambiti” o “discipline” diverse.

Da una parte, non c’è letteratura, per definizione, se non come scrittura senza diritto, come sovversione del linguaggio interna al linguaggio, portarsi della scrittura al di là della sua normatività. Come Balzac mostra, rispetto al diritto la scrittura letteraria si costituisce sempre in una certa opposizione ad esso. Letteratura, dunque, come discorso senza-diritto, perché esiste davvero «un ambito in cui l’indiretto, il non-diritto, è in qualche modo di rigore: è, naturalmente, quello della letteratura»[25]. La letteratura sarebbe allora definita proprio come «quel dis-corso che per l’appunto è senza diritto, senza segni, illegittimo, non qualificato, di cattivo augurio e quindi osceno, sempre di delusione o di rottura, e al tempo stesso, superando ogni interdetto, è il più trasgressivo»[26]. Dall’altra parte, però, sembra non potervi essere letteratura se non attraverso il diritto, se non all’interno dell’attivazione di una serie di protocolli giuridici che giustificano e legittimano il diritto della letteratura, il diritto che la letteratura rivendica per sé, il suo diritto ad essere senza diritto. Non vi sarebbe, in altri termini, letteratura possibile se non all’interno di una strategia di rivendicazione (come tale sempre giuridica), di un discorso che legittimi il “diritto” della letteratura ad essere ciò che è. Anche per Balzac, in fondo, si tratta di rivendicare un diritto di dire tutto, diritto di descrivere la realtà nei suoi minimi dettagli.

Come separare, allora, diritto e letteratura? Come tracciare una linea di separazione – la quale sarà già tolta non appena tracciata, per il semplice fatto di essere una linea che separa di diritto due “discipline”, due “saperi”, e che dunque assicura a ciascuna una legittimazione, un titolo ad essere ciò che pretende di essere? E ancora: come pensare il rapporto tra diritto e letteratura se risulta impossibile la loro stessa distinzione – in quanto ogni distinzione sarebbe già giuridica, sarebbe propria del diritto?  Non potremo mai, dunque, parlare di diritto e letteratura. Ma come pensare allora il rapporto tra due termini che non si danno prima – ed indipendentemente – dal loro rapportarsi, che possono essere separati e distinti soltanto in quanto non lo sono, soltanto nel tracciare una separazione senza separazione?

Non soltanto l’uno non è senza l’altro, ma, più propriamente: diritto (e) letteratura sono lo stesso, e questo stesso si lascia dire solo nella differenza, perché soltanto differendo essi dicono il medesimo.  Il nostro compito – il compito a cui dovrà prepararsi ogni studio di diritto/letteratura - sarà, allora, quello di pensare questa differenza-senza-differenza, questo essere lo stesso di diritto (e) letteratura Dovremo, in ultima istanza, prepararci dunque a pensare che, se non c’è letteratura senza il diritto, allo stesso tempo non c’è mai letteratura che non sia senza-diritto.

La riflessione dedicata a Balzac, forse, consente di avvicinarci ad una prima, possibile, riformulazione delle questioni sopra accennate. Balzac mostra, in fondo, che non c’è letteratura senza il diritto, perché è il diritto stesso che deve essere portato fino al suo limite, al suo “resto”, fino al suo essere senza-diritto.

In Balzac viene in fondo interrogato il senso della profonda sovversione che la scrittura, quella scrittura che diviene letteratura, svolge rispetto al diritto. Sovversione, si è detto, e non “trasgressione”, poiché tale ultima prospettiva non farebbe che ri-affermare il primato del diritto, il riferimento ad una norma come misura, parametro, a partire dal quale pensare la letteratura. Se essa sovverte, se essa spinge cioè il diritto sino al suo punto estremo, punto in cui esso si fa qualcos’altro da ciò che è, si fa forse “straniero” a se stesso, ciò avviene non in forza di una qualche “trasgressione”, di una “rivolta”, ma di un movimento più radicale. Un movimento che abbiamo tentato di delineare, di seguire, di “afferrare”, in qualche modo, attraverso la differenza (che è, si ricordi, senza differenza) tra realtà e reale in due “luoghi” del testo balzachiano, in cui la “sovversione” del diritto sembra passare per una scrittura che “dice” lo stesso del diritto, che non si pensa contro di esso, ma che, nello stesso, disfa la “realtà” del diritto medesimo. E’, forse, continuando a interrogare questo movimento, a non smettere di domandare dell’inseparabilità di diritto(e)letteratura, che si potrà giungere ad una nuova definizione di questa differenza senza differenza.


* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] Th.W. Adorno, Balzac-Lektüre, in Id., Noten zur Literatur, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1974, p. 144; trad. it. di E. De Angelis, Lettura di Balzac, in Th.W. Adorno., Note per la letteratura, Torino, Einaudi, 2012, p. 70.

[2] Th. W. Adorno, Balzac-Lektüre, p. 148; trad. it. cit., p. 74.

[3] P. Macherey, Per una teoria della produzione letteraria, trad. it. di P. Musarra e L.M. Cesaretti, Bari, Laterza, 1969, p. 61.

[4] M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne, in Id., Senso e non senso, trad. it. di P. Caruso, Milano, Il Saggiatore, 2016, p. 37.

[5] G. Lukács, Introduzione, in Id., Saggi sul realismo, trad. it. di M. e A. Brelich, Torino, Einaudi, 1976, p. 23.

[6] M. Butor, Balzac e la realtà, in Id., Repertorio. Studi e conferenze 1948-1959, trad.it. a cura di P. Caruso, Milano, Il Saggiatore, 1961, p. 94.

[7] Così osserva, in un passo splendido, G. Lukács, La polemica tra Balzac e Stendhal, in Id., Saggi sul realismo, cit., p. 99: «Ricordiamo: Vautrin, Rastignac, Nucingen, Maxim de Truilles e altri, figurano in Papà Goriot come personaggi drammatici, ma la loro vera realizzazione costituirà l’argomento di altri romanzi. Il mondo di Balzac è in realtà simile a quello di Hegel circolo che di soli circoli consiste».

[8] Cfr. H. Faillie, La femme et le code civil dans la comédie humaine d’Honoré de Balzac, Didier, 1968; A. Courteix, Balzac et la Révolution française. Aspects idéologiques et politiques, Paris, PUF, 1997; A. Peytel, Balzac juriste romantique, Ponsot, Paris 1950; T.J. Farrant, Le rôle des modèles judiciaires dans l'élaboration du discours balzacien, in «Cahiers de l'Association internationale des études francaises», 1992, 44, pp. 177-189; G. Rebuffa, Il trionfo del codice civile nella testimonianza di Honoré de Balzac, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», 1, 1992, pp. 65-88; S. Desan, The Family on Trial in Revolutionary France, Berkeley, University of California Press, 2006; N. Dissaux (a cura di), Balzac, romancier du droit, Lexis Nexis/Litec, Paris, 2012; M. Lichtlé, Balzac, le texte et la loi, Presses de l’Université Paris-Sorbonne, Paris, 2012.

[9] Cfr. F. Dupuis-Déri, Les anarchistes et la prostitution: perspectives historiques, in «Genre, sexualité & société» 9, 2013.

[10] Sul tema del “credito” in Balzac, si vedano i testi di A. Péraud, Le Crédit dans la poétique balzacienne, Paris, Garnier, 2012; Id. (a cura di), La comédie (in)humaine de l'argent, Le Bord de l'eau, 2013 ; M. Crouzet, L'argent romanesque, in «Romantisme», 40, 1983, pp. 115-118; A. Kremer-Marietti, Philosophies de l'argent au XIXe siècle, in «Romantisme», 40, 1983, pp. 7-18; P. Pellini, Il denaro. Appunti per la storia di un tema nelle letterature europee, in «Nuova Antologia», 2012, pp. 271-292.

[11] Si veda anche il seguente passo: «Il mondo gli apparteneva! Il sarto era già stato da lui chiamato, saggiato, conquistato. Vedendo il signor de Trailles, Rastignac aveva capito l’importanza dei sarti nella vita dei giovani. Aihmé!, non ci sono mezzi termini: un sarto o è un nemico mortale, o un amico procuratoci dal conto (donné par la facture). Quello di Eugenio era un uomo consapevole della paternità del proprio mestiere (la paternité de son commerce), e si considerava un anello intermedio (trait d’union) tra il presente e l’avvenire dei giovani. Perciò Rastignac, riconoscente, fece la fortuna di quest’uomo con una di quelle battute per le quali più tardi divenne celebre: «Un suo paio di pantaloni ha fatto concludere matrimoni da ventimila lire di rendita!».

[12] Si potrebbe dire che la letteratura – e ciò vale soprattutto per la scrittura di Balzac, anche dal punto di vista biografico – è possibile soltanto in un indebitamento infinito, in uno strano debito-senza-debito che lo scrittore continuamente contrae per poter continuare a scrivere. Non posso scrivere, non c’è scrittura senza indebitamento, senza un debito da sempre contratto, senza qualcosa da rendere, da restituire (dovremmo, qui, recuperare le analisi di Derrida,, ma anche l’idea di Barthes di una scrittura libera proprio dal debito borghese: «La scrittura non è stata forse, nei secoli, il riconoscimento di un debito, la garanzia di uno scambio, il sigillo d’una rappresentazione? Ma oggi la scrittura va dolcemente verso l’abbandono dei debiti borghesi, verso la perversione, l’estremità del senso, il testo…»). Ma, dobbiamo aggiungere, lo scrittore continua a scrivere solo per poter smettere di scrivere. Denaro per poter scrivere, scrivere per fare del denaro. Questo vale veramente per Balzac, come ricorda Zweig: «Lavora per redimersi dalla costrizione del lavoro, serve per liberarsi dalla servitù, e questo tragico paradosso diverrà d’ora innanzi la forma e la formula della sua esistenza. Continuerà il medesimo circolo vizioso: scrivere per non dover più scrivere; arraffar denaro, molto denaro, sempre più denaro, per non essere più costretto a pensare al denaro» (qui poi c’è anche tutto il tema della mercificazione del romanzo, dell’arte come merce, che non possiamo però affrontare). Per il rapporto scrittura-debito, si vedano perlomeno J. Derrida, Donare il tempo: la moneta falsa, Milano, R. Cortina, 1996; H. Bloom, L’ansietà dell’influenza, Milano, Feltrinelli, 1982; C. Sini, La scrittura e il debito. Conflitto tra culture e antropologia, Milano, Jaca Book, 2002.

[13] «Se, per procurarsi il denaro necessario al giuoco, Rastignac ben sapeva acquistare dal gioielliere orologi e catene d’oro pagati a caro prezzo con le vincite, e che poi portava al Monte d Pietà…».

[14] Sulla logica dell’indebitamento, rimando ai lavori di G. Deleuze-F. Guattari, sia L’Anti-Edipo che Millepiani, nonché al Nietzsche e la filosofia del solo Deleuze. Ma si può anche confrontare con le tesi di G. Agamben, Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell'economia e del governo, Neri Pozza, 2007 ed E. Stimilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, Macerata, Quodlibet, 2011.

[15] Questo è, se vogliamo, un tema costante di Balzac, che in Rastignac viene drammatizzato ma che nasce precisamente come tentativo di una parodia del code civil. Nel 1827, il giovane Balzac aveva pubblicato, in forma anonima, un pamphlet dal titolo L’arte di onorare i debiti e pagare i propri creditori senza scucire un centesimo, presentato come un vero e proprio Manuale di diritto commerciale, tutto incentrato sulla tesi: “Più hai debiti, più hai credito”, sull’idea che il credito «si fonda e si determina definitivamente sulla fedeltà alla risoluzione di non pagare mai i propri debiti». Ma, questo vorrei che riuscissimo a vedere, Balzac in realtà non fa che scoprire qui – ovviamente attraverso un “rovesciamento” parodico – la logica dell’indebitamento che costituisce il sistema giuridico (basterebbe questo brano: «Fate modo che più di ogni altra persona al mondo [i creditori] si interessino a preservare la vostra esistenza, che si preoccupino se avete l’influenza, fosse anche un banale raffreddore, e che tremino all’idea che vi possa venire una polmonite. Se, per puro caso, vi azzardaste a pagarli, o anche solamente a versar loro un acconto in denaro, perderebbero completamente interesse per voi»). Vediamo cosa qui si scopre: il diritto prevede l’obbligo, per il debitore, di pagare il proprio debito soltanto in quanto vuole sempre evitare che quest’obbligo venga mai adempiuto, perché altrimenti il debitore non sarebbe più sotto il controllo del creditore. Questa è la genialità di Balzac, che anticipa tutto ciò che si scoprirà soltanto più tardi (dovremmo pensare come in quel pamphlet anonimo, scritto “senza pretese”, scritto solo per metter su qualche soldo, si trovino intuizioni come questa: «la figura del creditore è vecchia quanto il mondo e che, dal momento in cui ci sono stati due uomini sulla terra, uno dei due è obbligatoriamente diventato il creditore dell’altro» - sembra di leggere Nietzsche, quando scopre che la relazione creditore/debitore precede, e non segue, lo scambio, perché il suo principio è l’asservimento infinito).     

[16] Per una introduzione alle più recenti ricerche di “diritto e letteratura” ed al filone cd. Law & Literature, si rimanda ai lavori – ed alla relativa bibliografia – di M.P. Mittica, Diritto e letteratura in Italia. Stato dell’arte e riflessione sul metodo, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», 1, 2009, pp. 3-29; Id., O che acontece além do Oceano? Direito e Literatura na Europa/ Cosa accade di là dall’Oceano? Diritto e letteratura in Europa, in «Anamorphosis»,1, n. 1, janeiro-junho 2015, pp. 3-36; A. Sansone, Diritto e letteratura. Una introduzione generale, Milano, Giuffré, 2001.

[17] Cfr., sul punto, P. Hamon, Introduction à l'analyse du descriptif, Paris, Hachette, 1981; P. Hamon, Cos’è una descrizione, in Id., Semiologia lessico leggibilità del testo narrativo, trad. it. Parma-Lucca, Pratiche, 1977, pp. 55-83.

[18] Cfr., sul punto, M. Blanchot, L’Entretien infini, Paris, Gallimard, 1969;trad. it. di R. Ferrara L’infinito intrattenimento. Scritti sull’insensato gioco di scrivere, , Torino, Einaudi, 1977.

[19] J. Ricardou, Un problema chiamato letteratura, in Id., L’ordine e la disfatta e altri saggi di teoria del romanzo, trad. it. di R. Rossi, Cosenza, Lerici, 1976, pp. 19-21.

[20] Th. W. Adorno, Balzac-Lektüre, cit., p. 148; trad. it. cit., p. 74.

[21] Questo punto ci consentirebbe di definire meglio il problema dell’analogia con la pittura, con l’immagine, che Balzac stesso spesso utilizza. Qui vi sarebbero due discorsi, almeno, da impostare: (1) da una parte, questa “analogia” con la pittura implica la tesi secondo cui la parte descrittiva potrebbe essere tranquillamente sostituita con una rappresentazione visiva (come osservava Paul Valery), perché, in fondo, si tratterebbe della stessa cosa: far-vedere direttamente le cose stesse; (2) dall’altra, però, Balzac stesso è consapevole che si tratta di un discorso “ideologico”, che presuppone ciò che abbiamo qui contestato. Presuppone l’idea, cioè, che la descrizione rappresenti le cose stesse quali sono facendole-vedere, regolandosi come uno sguardo, una vista. Ciò che è interessante – ma che non possiamo qui studiare – è allora il fatto che Balzac percepisca la realtà come un quadro. Dovremmo, cioè, rileggere e ridefinire l’analogia con la pittura: essa non significa che lo scrittore “copia” la realtà come fa il pittore dipingendo, ma significa che la realtà non è percepibile se non attraverso la sua messa-in-immagine. Ogni descrizione letteraria si illude di essere una vist

Gazzolo Tommaso



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