La dittatura di Quinto Fabio Massimo
Lorenzo Franchini
Professore associato di Diritto romano, Università Europea di Roma
La dittatura di Quinto Fabio Massimo
SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. La prima dittatura di Fabio. - 3. La dittatura del 217 a.C. – 3.1. La questione dell’elezione popolare di dictator e magister equitum - 3.2. Natura e funzioni dell’incarico dato a Fabio - 3.3. Le incombenze di carattere religioso - 3.4. La complessa vicenda dei rapporti tra Q. Fabio Massimo ed il magister equitum M. Minucio Rufo - 3.5. Il problema del riscatto dei prigionieri - 3.6. Riflessioni integrative e finali.
1. Premessa
L’epoca della quale ci occuperemo, in questo scritto, riveste, come si sa, un’importanza cruciale nell’esperienza della Roma antica. Dal punto di vista storico generale, occorre dire che, fino alla conclusione della prima guerra punica, Roma era stata potenza eminentemente regionale, ma ora, nella seconda metà del III secolo, si avvia a diventare, pur tra inenarrabili difficoltà, e dovendo superare prove durissime, potenza di portata mondiale, con tutte le implicazioni che questo avrà sulla sua civiltà e cultura[1]. Dal punto di vista giuridico-costituzionale, sebbene non si possa ancora parlare di crisi dell’assetto istituzionale da tempo consolidato, bisogna tuttavia riconoscere che determinate concezioni, di matrice non sempre autoctona, cominciarono a penetrare nella riflessione dei contemporanei, ponendo per esempio il problema - anche, come vedremo, in rapporto agli istituti che ci accingiamo ad affrontare - della legittimazione democratica del potere, senza eccezioni di sorta[2].
Di quel periodo, Q. Fabio Massimo Verrucoso è una delle più grandi personalità, fin troppo conosciuto perché sia qui necessario soffermarsi ad illustrarne, nel suo complesso, e ben al di là della sua dittatura, le doti e le imprese che resero il suo nome tale da essere tramandato ai posteri[3]. Ci limiteremo dunque ad alcune rapide considerazioni preliminari, così da poter affrontare presto il tema che più strettamente interessa.
Sul piano militare, sono ben note le sue caratteristiche di stratega, che gli valsero il soprannome di Cunctator e che lo affermarono come l'unico generale romano in grado, con la sua tattica di guerriglia, di fronteggiare la furia di Annibale nei primi anni della seconda guerra punica[4].
Sul piano politico, è anzitutto opportuno ricordare che egli, a parte la dittatura, rivestì ovviamente le più alte cariche: in particolare, fu console nel 233, 228, 215 (suffectus), 214 e 209, censore nel 230, princeps senatus nel 209 e nel 204[5]. Ma anche a prescindere dall’esercizio di funzioni specifiche, va detto che Fabio Massimo, fino alla morte, occorsa nel 203[6], fu da tutti considerato il campione dell'aristocrazia e dei suoi valori di pietà e di prudenza, l’esponente di punta di un vero e proprio partito politico, identificabile con la fazione conservatrice del senato[7]. Paradossalmente, furono proprio le gravi sconfitte inflitte da Annibale ai Romani a partire dal 218 a segnare il culmine della potenza di Fabio e del suo ascendente sull'opinione pubblica, l'abbandono della politica aggressiva dei Cornelii e la duratura affermazione di una linea conforme ai suoi orientamenti[8].
Ma c’è un altro piano, connesso al precedente, sul quale Fabio si fece onore, e che sarebbe un grave errore trascurare, anche ai fini della piena comprensione di alcune delle iniziative da lui intraprese come dittatore: ci riferiamo al piano religioso. Patrizio di famiglia, augure fin dal 265[9], quand'era ancora molto giovane, nel 216 il Temporeggiatore ottenne anche il pontificato[10]: il doppio sacerdozio, segno di grande distinzione presso l'aristocrazia romana, molto ricercato, raramente accordato, lo collocava, in quest’ambito, una spanna al di sopra degli altri[11]. La politica di Q. Fabio Massimo fu sempre quella propria di un grande leader religioso, che vantava molti alleati tra i sacerdoti e che anche per questo poteva efficacemente contrastare le mosse dei suoi avversari, ritenuti meno scrupolosi di lui nel salvaguardare la pax deorum, senza la quale la repubblica - a fortiori, in quelle durissime fasi di guerra - non sarebbe certo potuta sopravvivere[12].
2. La prima dittatura di Fabio
La più famosa dittatura di Q. Fabio Massimo, della quale per lo più ci occuperemo nelle pagine seguenti, è quella del 217. Tuttavia risulta che anche in precedenza egli avesse occupato la magistratura in questione; ma sulla materia esiste un forte dissenso tra gli studiosi.
A nostro avviso, sulla base di un riscontro attento delle fonti pertinenti, è lecito con certezza affermare quanto segue.
Fabio rivestì quella carica già prima dell’inizio della seconda guerra punica[13], ma si trattò di una dittatura imminuto iure[14], forse comitiorum habendorum causa[15].
Tutto ciò avvenne nel periodo per il quale mancano i Fasti, e d’altronde prima del 218, anno a partire dal quale possiamo invece avvalerci della terza decade dell’opera liviana: ossia nel triennio ricompreso fra il 221 ed il 219[16] (mentre la data esatta è, come vedremo, discussa).
In quei frangenti un dittatore - da alcuni identificato nello stesso Fabio Massimo, da altri in un suo ipotetico predecessore - dovette dimettersi, insieme al suo magister equitum C. Flaminio[17], a causa di una auspicatio sfavorevole, precisamente avvenuta in occasione della nomina di quest’ultimo da parte del primo, ed a seguito dell’interpretazione data dagli auguri, del cui collegio il Verrucoso faceva parte e su cui esercitava una certa influenza[18], di un signum consistente nell’improvviso squittio di un topo.
Oltre a questo, altro può essere sostenuto, ma con la consapevolezza che gli argomenti utilizzati avranno sempre alcunché di congetturale[19], stante la grave contradditorietà reciproca delle testimonianze di Valerio Massimo e Plutarco, in merito all’identità del dictator che ebbe come suo magister Flaminio, e cioè Fabio Massimo secondo l’un autore e Minucio secondo l’altro.
La tesi tradizionale[20] è che il passo plutarcheo sarebbe viziato da un errore e che Μινικίου starebbe in realtà per Mαξίμου, dato che il Temporeggiatore è l’unico, tra i due, ad aver con sicurezza occupato una dittatura precedente al 217, in un anno che andrebbe a quel punto individuato nel 221, giacché in quello successivo Flaminio occupò la carica di censore[21], non cumulabile con altre[22].
La tesi che principalmente si contrappone[23] a quella sopra illustrata si fonda sul presupposto, a nostro avviso condivisibile, che Q. Fabio non avrebbe potuto nominare come proprio collaboratore un avversario politico, qual era Flaminio[24]: avrebbe potuto farlo invece M. Minucio, di una cui dittatura in età pre-annibalica si avrebbe anzi conferma in un’iscrizione[25]. Entrambi però sarebbero stati costretti a rinunciare alla carica per le manovre del Verrucoso che, sfruttando la sua amicizia con gli auguri, avrebbe propiziato la sostituzione di sé medesimo a Minucio.
Ora, anche senza voler entrare nella questione assai complessa relativa ai consoli che avrebbero dovuto provvedere alla dictio di un simile dictator e poi del suo autorevole sostituto[26], ed al ruolo che in ciò potrebbe aver giocato l’opinione pubblica[27], non ci sembra che quest’ultima impostazione possa essere condivisa in toto, sia perché la testimonianza dell’epigrafe sopra ricordata è difficilmente riferibile ad un dittatore comitiorum habendorum causa[28], sia perché, se già prima del 217 si fosse verificato uno scontro politico fra Fabio e il suo futuro magister equitum Minucio[29], e per di più in merito all’esercizio di una dittatura, certo le fonti concernenti la vicenda del 217 ce ne avrebbero riferito come precedente significativo, anziché limitarsi a ricordare, molto laconicamente, che quella era la seconda volta che il (solo) Verrucoso occupava la carica[30].
E’, secondo noi, la prima delle due impostazioni che merita di essere riconsiderata in modo innovativo, tenendo conto di alcuni giusti rilievi formulati dai sostenitori della seconda. Il senato potrebbe aver assunto la decisione, frutto di una sorta di compromesso politico[31], di indicare ai consoli il nome di Fabio[32], esponente dell’aristocrazia conservatrice, come dittatore incaricato di presiedere i comizi, con l’accordo che questi nominasse magister equitum il forte esponente di una fazione avversa, qual era il democratico Flaminio. Q. Fabio, già molto autorevole, ma evidentemente non ancora a tal punto da indurre i patres a rivedere senz’altro la propria posizione, nel complesso a lui non gradita, avrebbe fatto, per così dire, buon viso e cattivo gioco: una volta dictus dittatore, non avrebbe impedito agli auguri di rilevare un vizio di carattere religioso nella nomina di Flaminio[33], che d’altronde, al contrario di lui, non era sicuramente noto per la sua pietas[34]: ciò, senza considerare il fatto che, secondo quel che ci riferisce Plinio[35], l’occentus soricum era un signum sfavorevole tra i più comuni, e non certo inventato lì per lì. Ne derivò, inevitabilmente, anche per la pressione forse esercitata dai ceti popolari[36], la necessità che ambedue, e non solo Flaminio, lasciassero la carica e fossero sostituiti: ma questo rischio il nostro lo avrà, con ogni probabilità, calcolato e accettato in partenza.
3. La dittatura del 217 a.C.
3.1. La questione dell’elezione popolare di dictator e magister equitum
Secondo la testimonianza di Livio[37], confermata da diverse altre fonti[38], dopo la grave sconfitta del lago Trasimeno, essendo morto un console ed essendo l’altro lontano e irraggiungibile, si sarebbe fatto ricorso al popolo al fine di creare sia il dittatore che il suo magister equitum, con una procedura, ben differente dalla dictio consolare, che era priva di precedenti[39].
Si tratta in realtà di una quaestio da lungo tempo disputata dalla dottrina, in tutte le sue implicazioni, non chiarite dalle fonti disponibili: chi abbia convocato i comizi, quali comizi, che cosa abbiano essi esattamente deliberato, chi abbia provveduto ad un’eventuale successiva nomina. Qui ci auguriamo di poter fornire un qualche originale contributo al dibattito, anche senza dedicare una trattazione estesa ad alcuna di quelle problematiche, ché questo sarebbe possibile solo in una sede monografica, diversa dalla presente.
Innanzi tutto, si consideri il fatto che anche il diritto pubblico romano aveva, a suo modo, carattere giurisprudenziale[40]: esso, oltre che sulle leggi, si fondava sui precedenti, discussi e risolti dagli esperti (in primis, senatori e sacerdoti, ma non soltanto)[41]. Talvolta può aiutarci a gettare luce su una vicenda passata il modo - più o meno controverso, ma magari meglio documentato - in cui una questione analoga risulta essere stata affrontata in frangenti successivi. Ebbene, in rapporto al nostro caso è indispensabile tenere presente che sette anni dopo si interpellò di nuovo il popolo per la scelta della coppia dittatoria, come ancora ci riferisce Livio, in 27.5.14-18[42]. Più precisamente da questo passo apprendiamo che, nel 210, fu il senato a stabilire che, nel creare il dittatore comitiorum habendorum causa, il console M. Valerio Levino dovesse attenersi alla designazione fatta dal popolo, da lui convocato o dal pretore, oppure in alternativa dalla plebe, come in effetti avvenne, data la resistenza opposta dal console stesso[43]. Alla nomina del dittatore, individuato in Q. Fulvio Flacco[44], dovette poi addirittura procedere l’altro console Claudio, giacché Valerio si era allontanato allo scopo di intralciare ulteriormente la procedura; la dictio del magister equitum, individuato in P. Licinio Crasso[45], spettò formalmente, come di consueto, al dittatore, ma col medesimo vincolo della preventiva indicazione delle tribù.
Ora, anche a prescindere dalle circostanze concrete da cui la vicenda prese le mosse, occorre notare come essa si collochi nel periodo di crisi definitiva dell’istituto della dittatura, tradizionalmente intesa[46], segnato da dispute molto accese, che rilevano sul piano politico ancor prima che su quello giuridico-costituzionale[47]. Lo stesso tentativo di rendere la magistratura sostanzialmente elettiva va inquadrato nella movimentata temperie dell’epoca, durante la quale si ritenne necessario adottare analogo accorgimento financo per un sacerdozio, come il pontificato massimo[48]. Di tutto questo si deve tener conto nell’esaminare il caso del 217, avendo piena consapevolezza del fatto che allora ogni problematicità sarà stata esasperata dalla gravissima situazione in cui la repubblica era venuta a trovarsi, con la necessità di eleggere un dittatore optima lege[49], e non imminuto iure, allo scopo di fronteggiare un nemico esterno geniale e spietato, e di far questo senza compromettere in modo irreparabile la stabilità del quadro politico interno. La soluzione trovata, destinata a rivelarsi - come vedremo - ben presto precaria, fu quella di scegliere come dictator Q. Fabio Massimo, leader del partito conservatore, tornato in auge dopo le sconfitte militari riportate dai capi dei due partiti avversari, scipioniano e democratico[50], ai quali sembra che fosse però legato M. Minucio Rufo[51], scelto non a caso come magister equitum al fine di garantire equilibrio[52].
Sul piano giuridico, dal successivo episodio del 210 possono trarsi spunti su quel che era, o era diventato, in materia, norma da tutti accolta e su quel che ancora era, probabilmente, controverso. Certamente vigente era considerata tuttora la regola della competenza consolare alla dictio del dittatore e della competenza dittatoria alla nomina del magister equitum[53], insieme alla competenza del senato a sovrintendere, con i propri pronunciamenti, su tutta l’operazione[54]. In qualche modo consolidata sembra anche la facoltà che - in caso di impossibilità, materiale o giuridica[55], di uno o di entrambi i consoli di procedere alla dictio - un soggetto munito di ius agendi cum populo, o cum plebe, venisse incaricato di far designare da una qualsiasi delle assemblee le due persone da nominare[56]. Pare altresì indiscusso il principio che di tale formale nomina, alla fine, ci fosse ancora bisogno[57]. Con l’avvertenza che molto - praticamente tutto il resto - restava dunque controvertibile ed incerto, proviamo a spiegare un po’ più esattamente come, per ipotesi, le cose saranno andate, nel 217, per fungere da precedente ad una situazione così delineatasi.
L’incidenza che ebbe il senato, con i propri provvedimenti, nel far sì che dopo la morte di Flaminio il leader dell’aristocrazia tradizionale assumesse la carica di dittatore, con Minucio collega, risulta confermata dalle fonti[58].
E’ espressamente attestato anche il motivo per cui alla dictio dictatoris non poté provvedere il console superstite, Cn. Servilio Gemino: perché si trovava lontano, né si poteva agevolmente comunicare con lui, essendo l’Italia occupata dal nemico[59]. Data l’emergenza aspettare non era consigliabile.
Si decide allora di far indicare la coppia dittatoria dal popolo. Alla luce di quanto detto sopra, non è dirimente stabilire quale precisamente fosse l’assemblea e chi la presiedesse. Ma dato che si parla di popolo[60], e non di plebe, sembra non esservi alternativa ai comizi, centuriati o tributi[61], e al praetor urbanus, M. Emilio[62], che ora le fonti ci mostrano comprensibilmente[63] molto attivo, nel presiedere anche il senato[64] e nell’esercitare altre funzioni[65]. Si osservi che si tratta di una mera designazione, e non formalmente di un’elezione[66], sebbene poi sia passata alla storia come tale (anche perché tale nella sostanza era): non sono pertanto obiettabili, contro questa ipotesi, considerazioni rilevanti dal diritto augurale[67], secondo le quali un pretore, così come non poteva presiedere i comizi consolari, non poteva farlo neppure per quelli con cui si volesse eleggere un dittatore[68]. L’idea poi che fosse stato indetto l’interregnum - da taluno[69] fondata sulla locuzione interregni causa con la quale si descrive nei Fasti la dittatura di Fabio, e sulla quale torneremo in seguito[70] -, allo scopo di far eleggere il dictator, non ci pare accettabile, sia perché nelle fonti non si fa menzione alcuna di un interré sia perché la prassi costituzionale romana impediva di farvi ricorso quando uno dei due consoli era ancora vivo[71].
Al termine si sarà dovuta effettuare la dictio, dell’uno e dell’altro, non potendosi ritenere l’iter concluso con la mera indicazione popolare[72]. Ciò, quantunque della dictio del dittatore le fonti non facciano, per il 217, espressamente cenno, se si eccettua un passo plutarcheo[73], di solito del tutto trascurato[74], in cui, nel riferire la nomina del magister equitum da parte di Fabio, si utilizza lo stesso verbo ἀποδείκνυμι anche per la nomina che ebbe quest’ultimo[75]. Alla dictio del dittatore sarebbe stato, come si è detto, ordinariamente competente il console, e non è irragionevole sostenere che, in teoria, si sarebbe potuto aspettare il suo rientro a Roma o comunque in un luogo in cui fosse di nuovo possibile interloquire con lui[76]. Ma tale era l’urgenza militare, e così forti le spinte politiche, a sancire con la nomina di Fabio e Minucio gli accordi raggiunti[77], che non si poté fare a meno di stringere i tempi, come dimostra la circostanza che il Verrucoso risulterà nel pieno esercizio delle sue funzioni ben prima che Servilio Gemino rientri in scena[78]. Chi allora provvede alla dictio è secondo noi, verosimilmente, ancora il pretore urbano. E’ vero che non ne aveva, in condizioni normali, il potere[79]. Ma qui si tratta di capire se quella prerogativa, potenzialmente inerente all’imperium di un magistrato, fosse a lui riconoscibile o meno in mancanza dei consoli, al pari di molte altre facoltà ordinariamente esercitate da questi: data l’elasticità dell’imperium, i cui limiti si descrivono solo in negativo[80], la risposta da dare ad un simile quesito, non senza il conforto di qualche spunto nelle fonti[81], è a nostro avviso affermativa, tanto più che vi era stata una delibera popolare ad autorizzare Emilio[82]. Né ostano, a nostro avviso, impedimenti di diritto augurale, tali da vietare al pretore di trarre gli auspici per la nomina di un collega maior, quale era rispetto a lui il console[83], perché invece il dittatore tale non era nei confronti di alcuno dei magistrati ordinari, console compreso, il quale poteva infatti nominarlo pur avendo, anch’egli in fin dei conti, una potestas minor rispetto a quella dittatoria[84]. D’altronde Q. Fabio Massimo, membro del collegio augurale, noto per la sua pietas, subito chiamato a ripristinare, da dittatore, la pax deorum infranta da Flaminio, console inauspicato[85], avrà certo usato ogni premura per evitare qualsiasi inconveniente tale da rendere irregolare la sua nomina[86]; tanto più, dopo il precedente problematico rappresentato, proprio da questo punto di vista, dalla sua prima dittatura, se si accetta la ricostruzione da noi sopra proposta.
3.2. Natura e funzioni dell’incarico dato a Fabio
Siamo qui tenuti a riproporre un problema, quello della natura e della finalità della carica della quale fu investito Q. Fabio Massimo nel 217, la cui soluzione sarebbe scontata - ossia, una dittatura vera e propria, optima lege, col compito di condurre le operazioni di guerra in una situazione di emergenza (rei gerundae causa) -, se non fosse per due testimonianze anomale, rinvenibili nelle fonti, che hanno suscitato vive discussioni tra gli studiosi.
Alludiamo essenzialmente ad un ben noto passo di Livio[87], in cui è lo stesso autore patavino ad avanzare dubbi sul carattere davvero dittatoriale dell’incarico, formulando l’ipotesi che si trattasse di pro-dittatura, e all’altrettanto nota iscrizione dei Fasti[88], che qualifica la dittatura fabiana come interregni causa.
Le due questioni debbono essere affrontate partitamente.
Riguardo a quella della natura della carica, va detto che Tito Livio, introducendo nella sua narrazione la digressione sulla pro-dittatura, cade in grave contraddizione con se medesimo[89], dal momento che proprio lui fino a quel punto aveva sempre parlato di dittatura tout-court, e così farà anche nel prosieguo. Le fonti alle quali lo storico augusteo per lo più attingeva per i fatti di cronaca metropolitana, ossia i resoconti degli annalisti[90], erano unanimi[91] nel presentare Fabio Massimo come un autentico dittatore, di tipo tradizionale (seppur eletto dal popolo[92]). Anche tutte le testimonianze di cui disponiamo noi oggi - abbiano esse carattere epigrafico[93] o letterario[94] - non lasciano adito a perplessità di sorta[95]. Soprattutto Livio e Plutarco riportano episodi da cui si evince che il Temporeggiatore si avvaleva, nella maniera più evidente e da tutti percepibile, delle sue prerogative di dictator in quanto tale: solo a titolo di esempio basti ricordare che si muoveva in pubblico con ventiquattro littori[96]; che imponeva agli altri magistrati di dismettere in sua presenza ogni segno del potere (ciò, con speciale riferimento al primo incontro con Servilio Gemino, avvenuto ad Ocricolo, ove Fabio inviò un messaggio al console affinché badasse bene a presentarsi a lui senza i littori)[97]; che si occupò direttamente dell’elezione del console suffectus, M. Atilio Regolo[98], cosa che un pro-magistrato non avrebbe avuto il potere di fare[99].
Il Cunctator era dittatore perché tale era stato dictus, ché altrimenti non avrebbe assunto le funzioni inerenti a quell’antica magistratura[100]. Ma è anche vero che egli, come già l’annalista Celio Antipatro aveva fatto rilevare[101], era il primo dittatore della storia romana ad essere stato scelto dal popolo: da qui gli scrupoli che, in modo sorprendente ed eccessivo, Livio si pone, e che certo risentono di discussioni figlie della sua epoca[102]. Esse già da diverso tempo animavano, come si sa, la dialettica politica e giurisprudenziale, e fondamentalmente vertevano sulla sovranità popolare e sull’imperium[103]: su quale fosse il contenuto di quest’ultimo, quali i limiti, se solo un magistrato eletto potesse esserne investito, o se anche un privato, un soggetto che del magistrato facesse le veci, in forza di una legge votata ad hoc[104]. Questioni simili avevano acquisito un rilievo cruciale, tanto che dalla risoluzione di esse in un modo o nell’altro dipese, come noto, l’evoluzione della repubblica in qualcosa di altro da sé[105]. Livio sembra non riuscire a sottrarsi agli strascichi di codeste polemiche[106] e, a fronte della notizia di un imperium di così ampia portata per la prima volta accordato a qualcuno a seguito di un pronunciamento popolare (che anche a noi, in verità, sembra già di carattere legislativo[107]), non può astenersi dalla congettura che quello non potesse essere un magistrato, secondo la miglior tradizione repubblicana, quasi che anche l’autore patavino dovesse guardarsi dal rischio di apparire di quella tradizione poco rispettoso[108]. Così facendo però egli non si comportava più da storico[109], perché ignorava i dati delle sue proprie fonti, quelli ai quali si stava, per altri versi, costantemente attenendo, e che gli davano coerentemente conferma di un fatto ben preciso: che Q. Fabio era un magistrato, un dittatore, al quale, al di là della previa designazione comiziale, erano stati attribuiti proprio quei poteri conosciuti dalla costituzione repubblicana, quella dignità e quelle prerogative anche esteriori, con quei ben noti limiti (soprattutto di durata di esercizio della carica). Certo, tutto si reggeva su un equilibrio[110] destinato a rivelarsi instabile, dato che sempre con legge, come vedremo[111], all’imperium del dittatore fu ben presto equiparato quello del magister equitum (altro fatto senza precedenti). Ma questo non autorizzava nessuno a negare al Temporeggiatore l’honos di dittatore.
Riguardo alle funzioni della dittatura del 217, è del tutto scontato, sulla base di una lettura complessiva delle fonti, che a Fabio fosse stato affidato il compito di fronteggiare il nemico esterno, ossia l’invasore cartaginese. Lo scopo di rem gerere, riferito alla guerra contro Annibale, trova anche, letteralmente, conferma in alcuni passi delle Storie liviane[112]. A fronte di ciò desta stupore che, come dicevamo, nei Fasti Q. Fabio Massimo sia menzionato come dictator ‘interregni causa’[113]. Tale locuzione, che non ha eguali per nessun’altra dittatura, è stata ritenuta assurda, priva di senso, e certamente frutto di un errore[114]. Anche noi non possiamo non dirci di quest’avviso, ove la si voglia intendere in senso rigorosamente giuridico, come sarebbe in effetti normale, in un contesto simile. Da questo punto di vista, i tentativi di giustificarla pienamente - così, salvaguardandola - ci paiono destinati ad insuccesso: si tratti di quello esperito da chi[115] la spiega in forza del ricorso che sarebbe stato fatto ad un interrex, che convocasse i comizi per l’elezione di Fabio, e poi lo nominasse dittatore, sia per le ragioni già esposte sopra[116], sia soprattutto per l’impossibilità di attribuire a quella espressione contenente un genitivo seguito da causa, tradizionalmente esplicativa dei compiti affidati ad un qualsivoglia dictator, una valenza diversa da quella finale[117]; o si tratti del tentativo esperito da chi[118] vede realmente nelle mansioni accollate al Cunctator quelle proprie di un interré, che in mancanza dei consoli tenga ufficialmente la repubblica (oltretutto, per sei mesi?).
Insomma, è difficile negare che - in base a quello che ad oggi sappiamo, in tema di costituzione romana - sul piano propriamente giuridico siamo in presenza di un’inesattezza. Ma ci pare strano che tutto sia dipeso da una mera disattenzione del lapicida, sfuggita per di più a chi avrebbe dovuto effettuare i controlli, prima che una testimonianza monumentale di così grande valore simbolico-politico, quale erano i Fasti, venisse ad essere definitivamente esposta al pubblico[119]. Molto probabilmente, secondo noi, si intese invece riconoscere alla dittatura fabiana, tramandata da lungo tempo come quella cui si dovette la salvezza stessa della repubblica in tempi quant’altri mai difficili[120], un quid pluris rispetto alle “normali” dittature rei gerundae causa: ossia l’aver gerito non solo la guerra, ma in un certo senso l’intera comunità, ed il suo destino, in un periodo di assoluta sostanziale vacanza di altri poteri, con particolare riferimento a quello dei consoli[121], che infatti non provvidero alla dictio di Fabio, tanto che spettò anzi a quest’ultimo ricomporne l’integrità collegiale (provvedendo, come si è detto, a far eleggere un suffectus)[122]. Insomma, uno speciale omaggio postumo che, sacrificando in gran parte la forma del diritto alla sostanza dell’intento celebrativo, si volle tributare al Temporeggiatore, e soltanto a lui, presentandolo come un dittatore “hors catégorie”, non riconducibile ad alcuna delle figure tradizionali[123].
3.3. Le incombenze di carattere religioso
Si è già detto della statura di grande leader anche religioso che Fabio Massimo rivestiva: egli, nel 217, era già augure da molti anni e, l’anno dopo, sarebbe divenuto anche pontefice[124]. L’esperienza da dittatore, dunque, non fece altro che rafforzare il suo prestigio in questo campo, avuto riguardo al modo in cui esercitò le sue funzioni.
Ora, su quali fossero, in generale, le implicazioni di carattere sacrale della dittatura non è nostro compito dilungare qui la nostra indagine[125]. Basti solo dire che il dictator (optima lege) era il più alto magistrato in carica e che il suo imperium era connesso all’auspicium[126]: quest’ultimo rilievo vale, in verità, anche per consoli e pretori, ma si rammenti che al dittatore si faceva ricorso in circostanze di emergenza, la quale, nell’ottica romana, sarà stata nella gran parte dei casi determinata dal venir meno della pax deorum[127]. Il dictator era pertanto tenuto a sbrigare le incombenze di ordine religioso esattamente come ogni altro magistrato munito di imperium, ma entro scenari che il più delle volte presentavano tratti di considerevole drammaticità[128].
Forse anche in ragione di questo si individuò, allora, proprio in Fabio Massimo l’“uomo della provvidenza”: perché tutte quelle sconfitte non potevano essere imputate a cause solo umane; in particolare, un disastro come quello del lago Trasimeno non poteva che essere dipeso dall’ira divina, provocata dall’empietà di Flaminio, che, eletto console, aveva trascurato sia gli auspici che i prodigi[129].
Non c’è dunque da stupirsi che il Verrucoso, appena entrato in carica, consulti subito il senato circa gli affari divini[130]: questi, nelle sedute senatorie, avevano normalmente la precedenza su tutti gli altri[131], ma adesso a maggior ragione. Ed è anche comprensibile che il dittatore insista particolarmente[132] affinché, facendosi interpellare i decemviri, custodi degli oracoli sibillini[133], venissero quanto prima prescritte le misure riparatorie più adatte ad una situazione divenuta così grave, come anche si evinceva dal verificarsi di taetra prodigia[134]. Numerose furono le cerimonie cui bisognava di conseguenza attendere[135], nel rispetto dei precetti rituali indicati dal collegio dei pontefici[136]; su alcune di esse è opportuno fermare qui la nostra attenzione, perché sembrano davvero attagliarsi a frangenti tanto straordinari, nei quali era in carica un dittatore, e per di più Fabio Massimo, uomo noto per la sua pietas. Colpisce per esempio l’offerta in voto di un tempio a Venus Erycina, alla quale, secondo i libri sibillini, avrebbe dovuto provvedere personalmente colui che in città detenesse il maximum imperium[137] (cosa che, prima di partire, farà appunto Fabio, non a caso appartenente ad una gens, la quale, come è stato rilevato in dottrina[138], era da sempre devota a Venere, Madre di Enea, in cui poteva essere senz’altro identificata la Afrodite di Erice, divinità greco-fenicia[139]). Colpisce anche la connessa offerta di un tempio a Mente[140], dea che personifica una virtù astratta, di cui il Cunctator si farà alfiere, in contrapposizione alla dissennatezza di Flaminio, nella conduzione della guerra[141]. Alquanto significativa è anche la promessa agli dei di un ver sacrum, antichissimo rito di origine italica che comportava il sacrificio di tutti i nuovi nati, fra gli animali, nella primavera di un certo anno[142]: per un adempimento così eccezionale, tale da gravare pesantemente su tutta la cittadinanza, si decise di fare di nuovo ricorso al popolo, che aveva appena eletto il dittatore; e sebbene Livio[143] ci riferisca che la convocazione dei comizi era stata resa necessaria da una decisione dei pontefici, adottata su richiesta del pretore Emilio, da Plutarco[144] sembra tuttavia ricavarsi che la rogatio in questione sia stata poi proposta all’assemblea da Fabio Massimo.
Ad ogni modo, in previsione dell’impegno bellico di Fabio, sarà poi lo stesso Emilio ad essere incaricato di curare l’esecuzione dei sacra[145]; ma non c’è dubbio che le linee essenziali di politica religiosa fossero state definite dal Verrucoso[146], che dà qui prova sia di devozione agli dei sia di notevole sagacia nel rasserenare gli animi, rassicurare la popolazione[147], senza peraltro cadere nell’eccesso opposto, quello del fanatismo superstizioso[148].
Si ha notizia di altre successive incombenze di natura sacrale, a motivo delle quali il Temporeggiatore, in una fase molto delicata del suo mandato[149], venne addirittura costretto ad abbandonare le operazioni di guerra e a tornare a Roma. Le testimonianze all’uopo adducibili[150] non ci consentono di accertare in quali cerimonie esse esattamente consistessero[151], tanto che è stato non a torto sostenuto che in realtà si trattasse più che altro di un pretesto per mettere in discussione la strategia militare di Fabio[152], al cui comando, come si vedrà, si decise, proprio in quel frangente, di equiparare quello del magister equitum Minucio[153]. D’altronde, per indurre il nostro a rientrare davvero in città, quei sacra dovranno pur essere esistiti, e con caratteristiche tali da rendergli preferibile il farlo anziché il non farlo, per non mettere a rischio la sua reputazione di uomo pio (la quale, in questo caso, fu probabilmente strumentalizzata dai suoi avversari politici)[154]. Ebbene, la tesi secondo cui i riti in questione andrebbero individuati in culti privati, familiari o gentilizi[155], non ci trova concordi, sia perché le fonti sembrano direttamente alludere ad impegni di carattere pubblico[156] o ai quali il Cunctator era chiamato per via di determinazioni assunte dalla pubblica autorità, senatoria o sacerdotale che fosse[157], sia perché, più in generale, nella sfera dei sacra privata nessuna ingerenza di quel tipo sarebbe stata possibile, neppure da parte dei sacerdoti (questi, menzionati da Plutarco[158] al plurale, non erano mai collegialmente implicati nelle faccende private, delegando in particolare i pontefici soltanto un membro del loro collegio a dare ogni anno consigli ai patres familias che li richiedessero[159]). Si sarà quindi trattato di cerimonie di diritto sacro pubblico[160], decretate da un qualche collegio sacerdotale - la competenza in materia, lo ricordiamo, spettava ordinariamente ai pontifices[161] -, fatto consultare apposta dal senato, che ne avrà poi affidata la celebrazione a Fabio Massimo[162]. Questo può considerarsi abbastanza certo, ma la spiegazione non è ancora soddisfacente, visto che a Roma vi era pur sempre il pretore incaricato, come si è detto[163], della cura sacrorum in luogo del dittatore assente. Ci sembra allora inevitabile ipotizzare[164] che i riti in esame fossero di quelli per i quali, come all’inizio del semestre, era stata richiesta la partecipazione diretta del dictator, in quanto magistrato con l’imperium più alto, o qualcosa di molto simile[165]. Qualcosa, comunque, cui il Verrucoso non potesse per coerenza sottrarsi, ma in sé non così importante da non passare subito in secondo piano[166], a tutto vantaggio di ben altre questioni, di ordine politico-militare, la discussione delle quali, in presenza di Fabio, costituiva, inutile negarlo, il vero obiettivo di coloro che lo avevano fatto tornare in città.
3.4. La complessa vicenda dei rapporti tra Q. Fabio Massimo ed il magister equitum M. Minucio Rufo
Si è visto che la designazione popolare di Fabio Massimo e di Minucio Rufo, appartenenti a fazioni politiche contrapposte[167], rispettivamente a dictator e magister equitum, era il frutto di un compromesso politico, che aveva reso necessario il ricorso ad una procedura mai sperimentata prima. E sebbene formalmente, almeno secondo noi, tutto sia stato presto ricondotto, con la successiva dictio del dittatore e con la dictio da parte di quest’ultimo del magister equitum, nell’alveo dei tradizionali rapporti fra il comandante in capo ed il suo collaboratore - come anche chiaramente si evince dalla richiesta, fatta dal Verrucoso al senato, di essere esonerato dall’osservanza dell’antichissimo precetto che vietava al dittatore di salire a cavallo[168], dato che ogni competenza su quel reparto era stata un tempo davvero riservata al solo magister equitum[169] -, non c’è dubbio che Minucio, pur giuridicamente sottoposto a Fabio[170], tale nella sostanza non si sentisse fin da principio, perché pur sempre munito di un’investitura popolare diretta, alla quale erano sottesi degli accordi di cui egli era cosciente più di ogni altro[171].
Tutto ciò spiega l’atteggiamento assunto dal magister equitum durante le operazioni di guerra, fortemente critico nei confronti della strategia temporeggiatrice di Fabio Massimo ed assai autonomo da quest’ultimo[172]. Il dittatore si rendeva conto che la loro collaborazione, indispensabile per la salvezza della repubblica, si fondava su di un equilibrio molto fragile[173], ed è per questo che, stando alla testimonianza delle fonti, preferiva rivolgergli consigli, quasi preghiere[174], più che impartirgli ordini, come pur sarebbe stato in suo potere di fare, nonché di sanzionarne severamente gli atti di insubordinazione[175]. La situazione rimane in bilico per qualche tempo, finché il Cunctator, che aveva subito da Annibale la beffa di Casilino[176] e contro il quale si stavano in effetti diffondendo, in quella fase, sentimenti di un certo malcontento, non viene richiamato a Roma, come si è visto[177], formalmente per motivi religiosi, ma in realtà perché rendesse conto del suo operato. E’ a quel punto che, nei rapporti con Minucio, le cose precipitano.
In un clima concitato, caratterizzato da accese discussioni sia in senato che in piazza[178], entra in scena il tribuno della plebe M. Metilio, particolarmente solidale con Minucio, anche perché forse suo parente[179], il quale alza la soglia della polemica contro Fabio Massimo e la sua tattica di guerra[180]: tanto più che nel frattempo era arrivata a Roma la notizia della vittoria - invero alquanto effimera, ma la cui portata era stata artatamente esagerata per ragioni politiche - ottenuta dal magister equitum a Gereonio[181]. Tuttavia Rufo, ingaggiando combattimento con Annibale, aveva trasgredito ad un preciso dictum che, come tale, per una volta il dittatore gli aveva impartito[182], cosa per cui adesso Fabio minacciava di infliggergli una dura punizione (la quale, promanando da un dittatore, avrebbe avuto, come si sa, carattere definitivo)[183]. Allo scopo allora di consolidare la posizione di Minucio, sia tenendolo al riparo dalla repressione del suo superiore gerarchico[184], sia avvalorandone la diversa, e più aggressiva, strategia bellica, M. Metilio concepisce una proposta di legge: essa, che era stata inizialmente pensata come abrogativa dell’imperium di Fabio Massimo[185], consisterà invece nella equiparazione dei poteri del magister equitum a quelli del dictator[186], ciò che comunque non aveva precedenti nella storia costituzionale romana[187]. Il senato accorda il proprio consenso a questa modica rogatio[188], la quale verrà approvata dai concili della plebe. Sulla natura, il contenuto e gli effetti di tale provvedimento, ricordato come lex Metilia de aequando magistri equitum et dictatoris iure[189], non possiamo esimerci dall’appuntare, qui, la nostra attenzione.
Occorre anzitutto notare che la legge in questione è più precisamente un plebiscito[190]. E’ vero che in alcuni passaggi si allude genericamente al popolo[191], anziché alla plebe; ma ciò è spiegabile in ragione del fatto che si tratta di fonti atecniche[192]. Inoltre, di fronte ad altri passi che chiaramente attestano l’attività in tal senso di un tribuno[193], e niente affatto quella di un magistrato (chi, fra l’altro, avrebbe potuto essere?)[194], non si vede perché debba ancora prendersi in considerazione la vecchia idea che propendeva per una legge centuriata, magari preceduta da un plebiscitum ex senatusconsulto[195]. A distanza di diversi decenni dall’entrata in vigore della legge Ortensia, una delibera adottata dai concilia plebis sarà stata certamente sufficiente di per sé, senza bisogno di essere integrata da quella di altri organi[196].
Noi non conosciamo il testo della lex Metilia. Ma appare indubbio che essa, pur contribuendo in modo significativo alla crisi della dittatura intesa di per sé[197] - ché di essa destrutturava profondamente l’assetto interno, tradizionalmente (ed eccezionalmente) ispirato al principio monocratico[198] -, disponeva in merito alla sola dittatura del 217, ossia ai rapporti fra quel dittatore, Q. Fabio Massimo, e quel magister equitum, M. Minucio Rufo[199].
Un primo importante effetto del provvedimento fu di elevare l’imperium di Minucio al livello di quello di Fabio, e non, si badi bene, di degradare il Cunctator, abbassandolo al livello del suo collaboratore: la quasi totalità delle fonti disponibili dà ragionevolmente adito a questa interpretazione[200], e la sola che sembra deporre in senso contrario, ossia Liv. 22.27.3[201], può essere a nostro avviso considerata significativa della situazione in cui, dal punto di vista esclusivo di Fabio, egli stesso aveva finito per trovarsi, sul piano politico più che giuridico[202]. Tali precisazioni, a ben vedere, rilevano innanzi tutto in merito ai rapporti di Minucio con i milites, con i cives, più che col Verrucoso: Rufo si sarebbe a sua volta potenzialmente avvalso, erga omnes, delle prerogative proprie di un dittatore, e non di un altro magistrato: il che era un portato niente affatto trascurabile della legge!
Altro effetto, certo connesso, ma di per sé distinto[203], era appunto quello inerente ai rapporti con Fabio Massimo, che ora sono di par potestas[204]. Non era astrattamente scontato che la aequatio iuris generasse una relazione di perfetta collegialità tra i due, che adesso risultano non affatto slegati, ma piuttosto legati alla pari, secondo il modello consolare romano. A questo sembra che ci si sia attenuti, stando alla testimonianza delle fonti[205], a tal segno che è senz’altro ipotizzabile persino la possibilità di un’intercessio reciproca[206]. Traiamo questa convinzione anche dalla circostanza che, per ovviare al rischio di paralisi che ne sarebbe derivato, Fabio e Minucio, proprio come erano soliti fare i consoli[207], abbiano subito cercato un accordo per esercitare il comando, trovandolo non nell’alternanza temporale (turno giornaliero o di altra periodicità), ma nella spartizione delle legioni (tramite assegnazione a sorte) e degli accampamenti[208]. Il fatto che, secondo quanto diversamente attestato, a tale soluzione fossero addivenuti a seguito dell’iniziativa presa dall’uno o dall’altro non interessa sotto l’aspetto giuridico: importa invece che una qualsivoglia soluzione fosse necessaria ai fini di una gestione, evidentemente collegiale, del potere[209].
Ma la questione più discussa è, come si sa, se Minucio Rufo abbia ufficialmente assunto anche il titolo, il nomen di dittatore, oppure sia rimasto investito della sola carica di magister equitum, pur con imperium equiparato nel senso sopra illustrato. La dottrina è decisamente divisa, soprattutto perché alcune fonti lo chiamano in effetti “dittatore”[210] (compresa la già ricordata iscrizione di cui a CIL I.2, 607 e VI.1, 284, nella quale è proprio Minucio a definire così sé medesimo)[211], mentre altre[212] (come gli stessi Fasti capitolini)[213] soltanto magister equitum, insistendo semmai sulla aequatio intesa in quanto tale[214]: di conseguenza vi è chi[215] ritiene quella minuciana del 217 una vera e propria dittatura, o co-dittatura, e vi è chi[216] recisamente lo nega, preferendo semmai imputare la succitata testimonianza epigrafica ad anni precedenti[217]. Quest’ultima operazione in particolare però, secondo noi, non è corretta, giacché, come si è detto in precedenza[218], difficilmente Minucio avrebbe potuto, prima dello scoppio della seconda guerra punica, essere nominato dittatore, anche solo comitiorum habendorum causa, in maniera tale da celebrare poi, mediante un’offerta votiva, un successo conseguito in battaglia. Questo avrebbe invece potuto farlo soltanto nel 217, dopo la vittoria di Gereonio[219], indicando se stesso nel modo in cui molti ormai, almeno di fatto, lo avranno certo percepito, ed anche chiamato, ossia dittatore[220]: egli, nel comportarsi così, in ogni caso non diremmo che propriamente “usurpasse” una qualche carica[221], anche se certo il temperamento del soggetto era alquanto ardimentoso ed auto-propositivo.
Se il titolo di dictator lo avesse anche formalmente acquisito, è - ribadiamo - in effetti difficile stabilire. Può darsi che, come è stato osservato[222], il tenore stesso della lex Metilia non fosse, in proposito, del tutto chiaro e che, per un caso privo di precedenti quale il nostro, essa fosse realmente suscettibile di interpretazioni diverse, da parte dei protagonisti di quella complessa vicenda; ma è anche vero che si era ancora in un’epoca in cui, in linea di principio, per essere investiti di un determinato honos magistratuale, era indispensabile essere eletti o nominati, e non, come si è visto[223], semplicemente designati a mezzo di una legge comiziale o addirittura di un plebiscito. In pratica, a nostro avviso, M. Minucio sarebbe diventato dittatore soltanto se un magistrato a ciò competente lo avesse, nel rispetto della decisione presa dalle tribù, dictus come tale: questa tesi è stata coerentemente sostenuta da un sia pur esiguo numero di studiosi[224], ed anche noi non escludiamo del tutto che qualcosa del genere possa essere successo. Nondimeno, ci pare alquanto improbabile che, esistendo già un dictator regolarmente dictus - Q. Fabio, seppur non presente, perché da poco riallontanatosi da Roma[225] -, ci si sia presi la briga di individuare di nuovo un magistrato che nominasse al Cunctator un collega dittatore, nella persona di colui che, secondo noi, da Fabio stesso era stato in precedenza nominato magister equitum… Sarebbe stato congruo, politicamente e forse non solo, ricorrere ad Atilio Regolo, consul suffectus, che il Verrucoso aveva appena fatto eleggere dai comizi[226]? Quasi certamente no. Sarebbe stato allora possibile, o addirittura lecito, rivolgersi di nuovo al pretore urbano, essendovi un console in carica a Roma[227]? La risposta da dare è a nostro giudizio ancora negativa.
E’ insomma preferibile pensare che quel potere straordinario, un imperium di natura dittatoria[228], sia stato con legge accordato ad un soggetto che, pur non essendo magari un privato, non rivestiva neppure la magistratura cui normalmente quella potestà era annessa, bensì una magistratura di grado inferiore, il magisterium equitum[229]: talché l’esatta qualifica di cui da allora in poi Minucio Rufo avrebbe potuto a rigore fregiarsi sarebbe stata quella di magister equitum pro dictatore, secondo una condivisibile opinione espressa in dottrina[230]. Il confine con la dittatura vera e propria era però molto sottile, tanto che molti, più o meno intenzionalmente, non lo avranno riconosciuto come tale, a maggior ragione perché si trattava di un caso senza precedenti, per il quale si dovevano operare dei distinguo cui nessuno era abituato. Un caso che, comunque sia, segnava un ulteriore passo avanti lungo la strada che, come si accennava sopra, più sarebbe stata battuta nella tarda repubblica, quella dell’attribuzione, con provvedimenti ad hoc, dell’imperium militare a personalità che, senza occupare una carica corrispondente, apparissero le più idonee ad esercitarlo per far fronte ad emergenze di natura bellica[231].
La soluzione indicata ci sembra la più probabile anche alla luce di un’altra valutazione, basata sulle fonti relative alla conclusione della vicenda del tormentato rapporto tra i due[232], le quali ci riferiscono di un Minucio Rufo che, salvato da Fabio mentre stava per andare incontro ad una rovinosa sconfitta, si pente del suo comportamento e dichiara di voler tornare sotto il potere del Temporeggiatore (sub imperium auspiciumque tuum redeo)[233]. Ora, può darsi che il resoconto degli antiqui auctores sia affetto, qui, da un’enfasi eccessiva, indotta dall’orientamento storiografico, per lo più filofabiano, che decisamente li ispira[234]; ma non ci spingeremmo ad ignorare queste testimonianze considerandole ridicole e inattendibili[235], né completamente irrilevanti dal diritto. Anzi, il fatto che Minucio si sia, di nuovo, volontariamente sottoposto a Fabio Massimo non può che essere ricondotto a due circostanze, entrambe estremamente interessanti dal nostro punto di vista: o i due colleghi, pur restando tali, e cioè alla pari, si accordano nel senso di un esercizio esclusivo da parte di Fabio dei supremi poteri di comando, fino alla scadenza del mandato[236]; o in alternativa Minucio formalmente rinuncia al beneficio della aequatio e torna a rivestire il ruolo, del tutto subordinato, normalmente connaturato al magisterium equitum. Come è intuibile, ambedue le eventualità si attagliano meglio ad una situazione in cui, per l’appunto, Rufo non fosse diventato proprio dittatore[237]: specialmente la seconda, in verità, che appare la più fedele ai testi[238] e che non si capisce perché debba ritenersi incompatibile coi principi del diritto costituzionale romano[239], che generalmente ammetteva l’abdicatio[240].
Tuttavia, ad un completo accoglimento di quest’ultima ricostruzione osta il rilievo che, al termine del semestre[241], i consoli, secondo Tito Livio[242], ricevano in consegna le legioni di Fabio e quelle di Minucio, menzionate separatamente[243], e che, secondo Polibio[244], essi depongano il potere in quanto dittatori uscenti[245].
3.5. Il problema del riscatto dei prigionieri
Tra i motivi per cui si era diffuso un certo malcontento verso il comportamento di Fabio, suscitando il disappunto degli stessi senatori, prima che il Cunctator fosse richiamato a Roma[246], vi fu anche un episodio che dobbiamo qui prendere in considerazione: lo scambio dei prigionieri con Annibale, al quale dovettero essere pagati quelli da lui restituiti in sovrappiù[247]. Il dittatore non ottenne, in ciò, la collaborazione del senato, e venne allora costretto a spendere i suoi soldi, ricavati fra l’altro dalla vendita di un fondo che il Cartaginese aveva maliziosamente evitato di devastare, per insinuare nell’animo dei Romani il sospetto di una connivenza del Temporeggiatore col nemico[248].
Della vicenda gli studiosi si sono per lo più occupati dal punto di vista dei rapporti fra dittatore e consesso senatorio in campo finanziario; ma essa è interessante anche per altri versi.
Occorre anzitutto osservare che tra Fabio Massimo ed Annibale era stato raggiunto un accordo (conventio, pactio)[249], che appunto prevedeva una permutatio alla pari dei captivi e, per il caso di sovrannumero da una parte o dall’altra, persino il quantum da versare per il riscatto di ognuno[250]. Si trattava di patti che, se conclusi da un generale romano dotato di imperium, con le modalità consuete - ossia, tradizionalmente, a mezzo di legati od araldi[251], nell’ambito di una tregua anche di poche ore[252] -, erano idonei ad impegnare la res publica come tale. Le fonti non ci consentono di dubitare che ciò valesse anche nel nostro caso (fidem publicam exsolvere; patria fidei inops)[253], tanto più che il dittatore, assai più dei consoli, era dotato di autonomia nella gestione della guerra[254], e quindi anche nella applicazione delle regole proprie del ius belli ac pacis[255]. Fabio, forse confidando nell’esistenza di un precedente prossimo - quello, risalente alla prima guerra punica, di cui fa menzione Livio[256] -, ritiene la questione pacifica ed evita di consultare il senato; ma mal