Welfare migration ed enti religiosi
Antonio Ingoglia
Professore Associato di Diritto Ecclesiastico e Canonico, Università degli Studi di Palermo
Welfare migration ed enti religiosi
Sommario: 1. Il sistema di accoglienza e di integrazione dei migranti: tra welfare statale e welfare comunitario. - 2. Il ruolo degli enti ecclesiastici e delle associazioni non profit d’ispirazione religiosa nei processi di assistenza in genere (o prima accoglienza). - 3. Forme di assistenza (a medio termine) in favore di immigrati irregolari. - 4. Pratiche di integrazione (o post-accoglienza): la cessione in uso di edifici di culto dismessi. - 5. Alcune conclusioni.
1. Il sistema di accoglienza e di integrazione dei migranti: tra welfare statale e welfare comunitario
Il tema dell’accesso al welfare da parte dei soggetti migranti è ancora di difficile inquadramento. Già il fatto che l’utilizzo del termine welfare migration sia molto recente nel linguaggio dei giuristi e degli economisti può fare riflettere[1]. Il nodo di fondo è quello del riconoscimento dei così detti diritti sociali, che per sé spettano ai cittadini in base alla nazionalità, anche agli stranieri immigrati. Si è infatti indotti a ritenere che non possano godere di tali diritti coloro che, essendo privi della qualifica di cittadini dello Stato ospitante, non hanno concorso a finanziarle[2].
A ben vedere i diritti sociali, in quanto garantiscono l’accesso e la fruibilità a servizi essenziali - legati all’assistenza sanitaria, all’esigenza abitativa, all’istruzione ed ad altre necessità di rilevanza sociale - non possono non essere ricondotti a diritti universali e fondamentali delle persone, in maniera sganciata dal presupposto dello status derivante dalla cittadinanza. Il punto, tuttavia, non è sempre così scontato e di fatto talora la condizione legale di immigrato o richiedente asilo limita l’accesso alle prestazioni sociali che invece sono garantite indistintamente a quanti risultano essere in possesso di cittadinanza[3].
In presenza di questi problemi, acuiti da una crisi sistemica della fiscalità, nella gran parte degli Stati europei, la garanzia minimale dei diritti sociali agli stranieri giunti a seguito delle più recenti ondate migratorie si è venuta realizzando attraverso un sistema di welfare migration, basato per lo più su ragioni umanitarie riconosciute in via generale da accordi e convenzioni internazionali[4]. Un sistema che almeno in Italia, diversamente da quanto avviene nei paesi connotati dal monopolio statale in campo assistenziale, risulta integrato oltre che da soggetti pubblici, anche da attori privati, rappresentati questi ultimi per lo più da enti con finalità solidaristiche, non esclusi quelli ecclesiastici che si contraddistinguono, com’è noto, anche per la natura morale e caritativa della mission loro propria[5]. Il loro contributo, come si andrà dicendo, risulta in taluni casi essenziale in quanto, a differenza dei soggetti pubblici, la cui azione è spesso inceppata da complessi meccanismi burocratico - amministrativi, tali enti sono in grado, non solo nella fase del soccorso o della prima accoglienza, di provvedere più agevolmente, stante la loro maggiore flessibilità e la tradizionale dedizione nei confronti delle fasce e dei soggetti più deboli, alle esigenze dei beneficiari.
Quel che, nell’ambito del presente contributo, si intende indagare è in primo luogo il ruolo che nel sistema “allargato” di assistenza – comprendente pure gli enti religiosi e di ispirazione confessionale - questi ultimi svolgono, anche nell’ottica del valore costituzionale di sussidiarietà[6], nei confronti degli immigrati sulla base della normativa che regola la materia dell’accoglienza (di primo e medio termine); indi ci si occuperà delle best practice che tali enti sono in grado di realizzare nella fase dell’integrazione (obiettivo del lungo periodo), con particolare riguardo a quelle pensate per venire incontro alle esigenze di gruppi di immigrati appartenenti ad una medesima tradizione religiosa, le cui modalità positive sono determinate in piena autonomia dagli enti in parola.
2. Il ruolo degli enti ecclesiastici e delle associazioni non profit d’ispirazione religiosa nei processi di assistenza in genere (o prima accoglienza)
In un contesto di welfare migration caratterizzato dalla compresenza degli attori del così detto “privato sociale”[7], la funzione svolta dagli enti ecclesiastici delle diverse confessioni religiose e dalle associazioni non profit di ispirazione confessionale, rappresenta un punto di osservazione particolarmente interessante delle dinamiche dell’assistenza in genere alle persone migranti che giungono nel nostro Paese.
Si rende utile, in particolare, analizzare alcune prestazioni che gli enti ecclesiastici e confessionali offrono soprattutto nella fase della prima accoglienza, ossia quella che segue immediatamente la identificazione degli stranieri all’interno degli hotspot, nel contesto del binario costituito dalla normativa vigente, i cui tratti salienti, per la verità, sono l’eccessiva frammentarietà ed eterogeneità degli interventi previsti, i quali si distinguono, oltre che per il tipo di accoglienza (primo o secondo), anche per il livello territoriale (nazionale o locale), nonché per la natura degli enti gestori (pubblico o privato sociale)[8].
Nello specifico, malgrado la suddetta eterogeneità, l’attività degli enti a connotazione religiosa nella suddetta fase presenta alcuni elementi distintivi trasversali alle diverse esperienze osservabili, alcuni dei quali riguardano l’assistenza immediata, e altri invece soddisfano l’esigenza di un alloggio che è peraltro precondizione per avere accesso alle procedure di valutazione del diritto alla protezione internazionale e ad altre prestazioni essenziali di tipo umanitario.
In tale prospettiva, la dimensione economico-finanziaria relativa alla copertura dei costi di gestione di tali interventi, è elemento essenziale alla loro concreta realizzazione, costituendo, oltre a tutto, il presupposto imprescindibile al perseguimento della attività di assistenza e beneficienza svolta dagli enti ecclesiastici da interpretarsi comunque in termini secondari e collaterali rispetto al loro fine specifico di “religione e di culto”[9].
Circa gli interventi degli enti ecclesiastici promananti dalla Chiesa cattolica in tali settori è opportuno innanzitutto segnalare che la copertura dei costi sostenuti nell’erogazione delle prestazioni, è resa possibile, ora attingendo alle risorse derivanti dal gettito dell’otto per mille e destinate per espressa disposizione normativa alla “assistenza ai rifugiati”, ora ai fondi ordinari a carico del FNPSA (Fondo Nazionale per le Politiche e i Servizi dell’Asilo) ai quali essi accedono previa selezione pubblica. Quanto poi alla loro tipologia, sebbene tali interventi siano per lo più diretti ad azioni di prima assistenza degli immigrati richiedenti asilo nel nostro paese, essi concorrono anche a garantire, d’intesa con le singole Prefetture, l'accoglienza degli stranieri extracomunitari ai quali sia stata già notificata la decisione della commissione territoriale sulla propria domanda di protezione internazionale e che si apprestano dunque ad uscire dai CPA (Centri di Primo soggiorno e Accoglienza) o dai CARA (Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo), per il periodo intercorrente tra la richiesta del permesso di soggiorno ed il suo materiale ottenimento[10].
Sulla stessa linea anche alcuni enti delle confessioni minoritarie, tra cui le Diaconie valdesi hanno attivato dei progetti di accoglienza per richiedenti asilo definiti CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), immaginati al fine di sopperire alla mancanza di posti nelle strutture ordinarie di accoglienza o nei servizi predisposti dagli enti locali, in caso di arrivi consistenti, all’interno dei quali si prevedono taluni servizi minimi garantiti come la mediazione linguistica e culturale, ma anche orientamento e accompagnamento all’inserimento lavorativo, oltre che a quello abitativo e sociale[11]. Anche in tali casi le risorse finanziarie messe in campo provengono, oltre che dai fondi ministeriali destinati alle politiche di accoglienza ed integrazione, anche dalla ripartizione della quota del finanziamento pubblico spettante alla Chiesa valdese, la cui destinazione è rivolta, ai sensi dell’art.4 dell’Intesa del 25 gennaio 1993, per “interventi sociali, assistenziali, umanitari in Italia e all’estero”[12].
Altri interventi sono invece diretti a soddisfare, anche se non in via esclusiva, l’esigenza abitativa dei migranti giunti da poco in Italia, come quelli organizzati dalla Chiesa avventista attraverso l’Agenzia avventista per lo sviluppo e il soccorso, riconosciuta anche come O.n.g., la quale propone agli immigrati soluzioni abitative differenti secondo le diverse situazioni ed i differenti stadi del percorso di inserimento sociale.
Analogamente, sempre nel campo degli interventi alloggiativi, vanno richiamate le iniziative che le Diocesi e le Parrocchie cattoliche hanno messo in campo in risposta all’appello formulato dall’attuale Pontefice di offrire ospitalità ai soggetti migranti fino a che essi non ricevano la risposta alla propria richiesta di protezione internazionale, che potrà consentire a costoro di entrare in uno dei progetti dello SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) o di decidere le tappe successive del proprio percorso migratorio.
Alquanto articolati, in merito, risultano i criteri direttivi dettati dalla C.E.I. nel 2015 “per ampliare la rete ecclesiale dell’accoglienza a favore delle persone richiedenti asilo e rifugiate che giungono nel nostro Paese, nel rispetto della legislazione presente e in collaborazione con le Istituzioni civili”. Essi hanno sviluppato un percorso di inserimento abitativo che prevede distinte soluzioni in relazione alle situazioni specifiche che debbono essere di volta in volta adottate, stabilendo in linea di massima che in ciascuna Diocesi si individui “l’ente capofila dell’accoglienza” (una fondazione di carità, una cooperativa di servizi o comunque oppure un istituto religioso o un’associazione o cooperativa sociale d’ispirazione cristiana) il quale “abbia le caratteristiche per essere accreditato presso la Prefettura e partecipi ai relativi bandi di gara per l’accoglienza dei cittadini stranieri”[13].
Va, dunque, rilevato come i processi di prima accoglienza siano divenuti un campo di azione sempre più rilevante per gli enti confessionali e non profit d’ispirazione religiosa, anche se l’insieme di questi interventi delinea un quadro disorganico che risente della caotica stratificazione di strutture, per lo più introdotte sotto la spinta di fattori emergenziali, e di centri di spesa nei quali si articola ad oggi il sistema di assistenza primaria dei flussi migratori. Il che concorre, tra l’altro, ad avallare nell’opinione pubblica l’idea, non sempre fondata, che sia necessario limitare gli interventi socio-assistenziali in favore dei migranti, specialmente in un periodo in cui tutto il sistema del welfare continua a soffrire di scarse risorse.
3. Forme di assistenza (a medio termine) in favore di immigrati irregolari
Particolarmente nella sua definizione di welfare sussidiario[14], il sistema di protezione sociale in favore dei migranti si giova di soggetti che sono in grado di far fronte alle minori prestazioni garantite dal “pubblico” riguardo soprattutto ad assistenza medica e sanitaria. Sotto questo profilo, non si può prescindere dal ruolo vitale che gli ambulatori ed i dispensari di ispirazione confessionale svolgono nell’assicurare a medio termine copertura agli immigrati irregolari o privi di idoneo permesso di soggiorno, i quali sono peraltro soggetti, più di altre categorie, a rischio di marginalizzazione nell'accesso ai servizi sanitari pubblici.
A limitare, infatti, tale accesso concorrono, tra altri fattori, da un lato, la garanzia circoscritta prevista dall’art. 35, co. 3 del T.U. sull’immigrazione in favore degli stranieri «non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno», la quale copre prevalentemente “le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali ancorché continuative per malattia”[15]; dall’altro, la condizione di estrema precarietà economica di tali soggetti, ai quali diventerebbero proibitive, a causa della loro onerosità, i servizi di medicina specialistica che il sistema sanitario nazionale copre solo in parte.
Di fronte all’emergere di tali necessità, incentivate “dalla dismissione da parte dello Stato dei suoi tradizionali compiti”[16], si è fatta strada l’istituzione di appositi ambulatori promossi da enti convenzionati con le Aziende sanitarie allo scopo di fornire, oltre all’assistenza medica di base, anche le prestazioni specialistiche più richieste a titolo totalmente gratuito. Di solito, tali ambulatori sono gestiti da associazioni religiose non profit, enti ecclesiastici ed O.n.g., che stipulano con la struttura pubblica una convenzione o un protocollo di intesa in cui vengono definiti i tempi e le modalità di erogazione del servizio, ma ad essi si affiancano talora anche ambulatori non convenzionati gestiti autonomamente da enti di volontariato, sganciati dal sistema di assistenza sanitaria regionale[17].
Questo modello è anche all’origine dello sviluppo dei dispensari che, affiancandosi ai precedenti presidi, assicurano agli immigrati irregolari che risultano impossibilitati ad acquistare autonomamente le medicine di cui necessitano, quei farmaci che permettono loro di curare le patologie da cui risultano affetti. Il tutto al fine di sopperire alla cronica carenza di fondi pubblici da destinare alle prestazioni sanitarie e alla conseguente tendenza a contenere anche gli esborsi relativi ai costi della farmaceutica di base in favore dei soggetti in condizioni più disagiate.
Ci si può chiedere se interventi di questo tipo presentino qualche rischio dal punto di vista delle prestazioni erogate. Risulta abbastanza chiaro che il loro scopo, al di là delle differenti versioni, è quello “di svolgere una funzione complementare, in quei settori dove altrimenti la domanda sanitaria rimarrebbe disattesa”[18] che tuttavia presenta delle oggettive differenze a seconda che essi siano gestiti da strutture di volontariato “convenzionate” con il servizio pubblico o da altre che rispondono unicamente alla logica del servizio gratuito a beneficio della comunità di immigrati. Nel primo caso, infatti, il regime di “convenzione” tende ad assicurare agli enti non profit di volontariato un regime di finanziamento delle prestazioni sanitarie compatibili con gli standard correnti, ossia con quelli erogati da enti pubblici con analoga finalità, laddove invece nel secondo caso tali prestazioni possono risultare talora di efficacia non tempestiva e meno adeguata rispetto a quella assicurata da questi ultimi.
4. Pratiche di integrazione (o post-accoglienza): la cessione in uso di edifici di culto dismessi
Un punto problematico, ancorchè non legato alle prestazioni di welfare, riguarda l’attenzione che le politiche sociali di integrazione (o post-accoglienza)[19] riservano al soddisfacimento di esigenze specifiche connesse all’esercizio delle pratiche cultuali da parte delle comunità di migranti. Com’è noto, l’esercizio di tali pratiche è anche strettamente collegato alla strumentalità e alla disponibilità di edifici e locali entro cui svolgere i riti della propria confessione. Di fatto, la mancanza di tali spazi crea diffuse situazioni di disagio e limita in modo molto pesante il diritto a professare la propria fede religiosa, specialmente in quei casi in cui le affiliazioni confessionali risultano diverse da quella propria della maggioranza dei cittadini del paese ospitante[20].
Si tratta di un settore in cui negli ultimi anni si è fatto evidente il protagonismo degli attori del welfare, per così dire “allargato”, i quali risultano più di altri impegnati ad offrire opportunità di inclusione sociale ai migranti, limitando anche il disagio derivante dalla carenza di ambienti e strutture adeguate per lo svolgimento dei loro riti religiosi. L’esempio paradigmatico è dato dalla riallocazione in favore di gruppi di ortodossi, provenienti da Paesi dell’Est europeo e in generale dal Medio Oriente, di chiese ed edifici di culto di proprietà di enti ed istituzioni della confessione religiosa cattolica, già dismessi o non più in uso[21]. Di tali gruppi fanno parte, in particolare, greci, russi, egiziani, etiopi, eritrei e specialmente romeni, diventati di gran lunga la più numerosa comunità di fede ortodossa sul territorio italiano.
Il dispositivo attraverso il quale si è mirato a soddisfare le istanze di tali comunità di migranti, agevolato dal particolare impegno ecumenico del cattolicesimo romano, risulta dunque dalla concessione in esclusiva di edifici una volta destinati al culto, anche se non mancano situazioni di coabitazione e di uso contemporaneo con le comunità cattoliche. La materia si trova disciplinata nel contesto del “Vademecum per la pastorale verso gli orientali non cattolici” varato dalla Conferenza episcopale italiana nel 2009, e in seguito integrato da ulteriori disposizioni di specificazione e di dettaglio promananti dai singoli vescovi di alcune diocesi italiane. Le condizioni che rendono possibile l’uso esclusivo sono indicate al paragrafo n.68 del predetto documento, in base al quale “Se il Vescovo diocesano ritiene opportuno concedere chiese cattoliche a una comunità orientale non cattolica, scelga preferibilmente edifici sacri non in uso”; e sempre nello stesso paragrafo si precisa che “La concessione sia di norma formalizzata mediante un contratto di comodato per un tempo non superiore a 19 anni” e che il comodatario si impegni a che “l’edificio sacro o il locale siano mantenuti in modo idoneo e decoroso, secondo le proprie norme liturgiche”. Tuttavia, come s’è detto, non mancano ipotesi di utilizzo comune, il che può avvenire, secondo la previsione del paragrafo successivo, “Qualora il vescovo diocesano abbia dato l’autorizzazione perché eccezionalmente gli orientali non cattolici, per mancanza di luoghi propri, celebrino in un luogo di culto cattolico attualmente in uso”.
Vi è da chiedersi se in entrambi i casi descritti, l’utilizzo dell’edificio da parte di comunità di immigrati ortodossi venga a confermare la destinazione al culto impressa ab imis allo stesso, o non faccia invece venir meno l’originaria destinazione prevista dall’art.831, cc.1 e 2 del Codice civile. In proposito, non sfugge che il decreto canonico con cui il vescovo diocesano concede in comodato d’uso a fedeli ortodossi l’edificio appartenente ad enti e istituzioni ecclesiastiche a lui soggette si riferisce a modalità del tutto compatibili con la loro finalità di utilizzo, e rientra pertanto fra gli atti che concernono la variazione temporanea e non definitiva della sua destinazione, comunque in deroga al principio generale di cui al paragrafo n.128 dell’Istruzione in materia amministrativa promulgata dalla CEI nel 1999[22] .
La questione è diversa con riguardo alle ipotesi, che pure non mancano, di riallocazione di edifici di culto già appartenenti ad istituzioni ed enti cattolici mediante cessione degli stessi alle comunità islamiche, poiché in tali casi la devoluzione è preceduta dalla sottrazione alla originaria destinazione attraverso la riduzione ad uso profano con decreto vescovile. Tra i casi più significativi degli ultimi anni va ricordato quello riguardante la moschea ricavata nella chiesa di San Paolino di Nola, scelta per il suo orientamento verso la Mecca, e ceduta alla Regione Siciliana dalla Diocesi di Palermo dopo che la stessa era stata ritenuta non più destinata al servizio liturgico[23].
Le quali esperienze risultano assai lungimiranti, specie se raffrontate alle disposizioni restrittive emanate da talune regioni italiane proprio sul cambiamento della destinazione d’uso di immobili da adibire ad attività rituali islamiche, che tuttavia sono incorse nella disapprovazione del giudice delle leggi, il quale le ha ritenute incostituzionali nella parte in cui impongono requisiti differenziati e più stringenti per la predetta confessione[24].
Tuttavia, poichè non tutti i gruppi di migranti appartengono a tradizioni religiose diverse da quelle già presenti e radicate nel Paese ospitante, alle loro esigenze religiose provvedono le rispettive confessioni mediante la condivisione di spazi comuni o con l’istituzione di apposite strutture di carattere “pastorale”, dalle Parrocchie alle Cappellanie su base etnica e linguistica, nelle quali gli immigrati sperimentano un contesto sociale accogliente, ed un senso di appartenenza religiosa, che essi stentano talora a rinvenire nelle grandi comunità[25]. Questi fedeli, per lo più cattolici di varia provenienza, utilizzano le chiese (molto spesso parrocchiali) e le cappelle messe a disposizione dalla Chiesa cattolica, ma ciò vien fatto anche per membri di altre confessioni cristiane da parte della Chiesa battista o da quella avventista, rendendo evidente il ruolo che le diverse comunità religiose di fatto esercitano per promuovere un processo di integrazione condivisa, pur in un quadro di rispetto dei profili identitari.
5. Alcune conclusioni
L’insieme dei peculiari interventi di carattere sociale ed assistenziale fin qui analizzati testimonia una volta ancora la continua e crescente incentivazione delle forme sussidiarie di welfare poste in essere dagli enti confessionali e no profit, in conseguenza della crisi del sistema di welfare pubblico, divenuto oggi insostenibile per complessi motivi. Tali enti, specialmente quelli impegnati nell’erogazione di servizi sociosanitari, dimostrano spesso di saper intervenire per rispondere alle esigenze proprio in un settore nel quale si registra una maggiore vulnerabilità della popolazione immigrata.
Più in generale, è dato in molti casi di osservare interventi incisivi degli enti del volontariato religioso in diversi settori rispetto ai quali il welfare pubblico ha subito un ridimensionamento, vuoi per l’esigenza di contrarre la spesa pubblica, e la conseguente copertura dei costi per sostenerlo, vuoi per la inefficienza dimostrata talora dalle istituzioni pubbliche a ciò deputate.
Tuttavia, è certamente fattore di confusione la scarsa chiarezza normativa che accompagna gli interventi assistenziali di questi enti e l’esplicazione della loro specifica identità. Le previsioni legislative in materia, infatti, rivelano la complessità di un sistema normativo che via via si è venuto arricchendo di nuove disposizioni e che non sempre agevola il protagonismo degli enti a connotazione religiosa. Tali enti scontano infatti la presenza di norme di diritto speciale (contenute nel Concordato e nelle Intese) e di norme di diritto comune concernenti la loro attività nel settore del “privato sociale” non sempre tra loro coerenti[26].
La farraginosità e la frammentarietà dei meccanismi giuridici, per lo più di carattere emergenziale, che presiedono alle politiche di accoglienza ed integrazione degli immigrati, contribuiscono poi ad aumentare ulteriormente tale confusione. Basti pensare, come si è rimarcato, alla numerosa gamma di organismi in cui si articola l’accoglienza dei migranti, differenziati oltre che per la diversa condizione giuridica dei migranti (richiedenti asilo, rifugiati, in possesso di permesso di soggiorno, irregolari), anche per gli obiettivi (prima o seconda accoglienza), per l'approccio (assistenzialista o progettuale), e per la tipologia dei servizi erogati (abitativi o sanitari).
Resta perciò la difficoltà per tutti quegli enti a connotazione religiosa che operano nei settori dell’accoglienza e della integrazione, di muoversi in un tale groviglio di meccanismi, che spesso ne ostacolano la indiscussa capacità solidaristica, la quale talora va oltre i tradizionali ambiti della assistenza e beneficenza in quanto, come s’è avuto già modo di rilevare, copre non solo bisogni materiali ma anche spirituali, connessi alle esigenze confessionali dei soggetti migranti.
Si pone pertanto sempre più l’esigenza di individuare, da parte degli organi pubblici strumenti normativi meno disorganici, volti a riordinare la caotica sovrapposizione di enti ed organismi che le legislazioni emergenziali in ambito migratorio hanno determinato, nella consapevolezza che si tratta di un fenomeno che, nonostante le politiche di contenimento, è destinato a divenire strutturale.
[1] Il termine welfare migration, di recente introduzione, è tutt’altro che un concetto chiaro e ben distinto. Sul punto cfr. E.Carmel - A.Cerami - Th.Papadopoulos, Welfare and migration in the new Europe, Londra 2011; nonché M.Bommes - A.Gedes, Immigration and welfare, Challenging the borders of the welfare state, Routdlege, New York 2005; S.Busso - E.Gargiulo - M.Mannocchi, Multiwelfare, Le trasformazioni dei welfare territoriali nella società dell’immigrazione, Torino 2013; C.Saraceno, Il Welfare, Bologna 2013.
[2]Per un riferimento principale cfr. T.Marshall, Cittadinanza e classe sociale, Torino 1977. Sulla limitazione delle prestazioni sociali in assenza del requisito della cittadinanza si v. le osservazioni di E. Spinelli (Welfare e immigrazione: i diritti di accesso e fruibilità dei servizi socio-sanitari. Alcuni nodi critici, in www.associazionetolba.org) secondo cui “I diritti sociali come il lavoro, l’assistenza sanitaria, la casa, l’istruzione, i servizi sociali, possono essere in discussione per gli stranieri immigrati proprio in quanto non cittadini dello Stato in cui risiedono. Nel contesto di questo complesso processo, la cittadinanza in se stessa crea ulteriori disuguaglianze con la designazione di non membri e connessi a status di parziale appartenenza, identificata da alcuni sociologi come motivazione delle limitazioni poste all’accesso da parte degli immigrati ai diritti sociali, di conseguenza al Welfare del paese dove risiedono”.
[3] Cfr. L. Zanfrini, Introduzione alla sociologia delle migrazioni, Urbino 2016, p.151.
[4] Per quanto concerne l’Italia, il Decreto legislativo 286/98 (T.U. immigrazione) prevede all’art. 2, co. 1 che “Allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti”. In particolare, all’assistenza per ragioni umanitarie si riferiscono oltre alla Convenzione di Ginevra, la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, le Convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro, nonché i principi vincolanti affermati in materia dalle Corti internazionali di giustizia, a partire dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. In proposito, C. Saraceno, Il Welfare..., cit., p.38 ss.
[5]In argomento, oltre a M. C. Folliero, Enti religiosi e non profit tra welfare state e welfare community. La transizione, Torino 2002, p.7 ss., anche A. Fuccillo, Dare etico, Agire non lucrativo, liberalità non donative e interessi religiosi, Torino 2008, p. 15 s., nonché Id., Società di capitali, enti religiosi e dinamiche interculturali, in Esercizi di laicità interculturale e pluralismo religioso, Torino 2014, p.1 s.
[6]Come rileva P. Consorti (Legislazione del Terzo settore, Le norme su non profit, il volontariato, la cooperazione sociale ed internazionale, Pisa 2005, p.), “Nel nostro campo il principio di sussidiarietà significa che gli interventi tipici del Terzo settore devono essere appannaggio dei livelli associativi di base, e lo Stato deve intervenire solo nel caso di fallimento di questo livello di base”. Sull’estensione del principio di sussidiarietà orizzontale anche agli enti ecclesiastici cfr., in particolare, M.C. Folliero, Enti religiosi e non profit tra welfare state e welfare community... , cit., p.13; nonché G. D’Angelo, Repubblica e confessioni religiose tra bilateralità necessaria e ruolo pubblico, Contributo alla interpretazione dell’art.117, comma 2, lett. c ) della Costituzione, Torino 2012, p.80 ss.; P. Consorti, Il volontariato fra Stato e Chiesa, in Il volontariato a dieci anni dalla legge quadro, a cura di L. Bruscuglia - E. Rossi, Milano 2001, p.279 ss.
[7]Per le analisi e le spiegazioni sul concetto, sulle origini del welfare “allargato” e sulle cause che hanno portato al welfare mix o communty cfr., soprattutto, C. Saraceno, Il Welfare... , cit., p.15 ss.; in particolare, sul ruolo del Terzo settore nel welfare mix cfr. U. Ascoli, Il welfare futuro, Roma 1999; U. Ascoli – E. Pavolini, Le organizzazioni di Terzo settore nelle politiche socio-assistenziali in Europa: realtà diverse a confronto, in Stato e Mercato, 1999, p.441 ss.; E. Pavolini, Le nuove politiche sociali, Bologna 2003.
[8] Per una analisi del sistema dei centri di accoglienza, limpidamente definito anche come un "guazzabuglio", cfr., G. Schiavone, Il diritto d'asilo in Italia dopo il recepimento nell'ordinamento delle normative comunitarie. Uno sguardo d'insieme tra il de iure e il de facto,in Mondi Migranti, 2009, p. 24 ss. Sempre in tema, specialmente, E.Ghizzi Gola, L'accoglienza dei richiedenti e titolari di protezione internazionale in Italia, Aspetti giuridici e sociologici, in www. L’altro diritto/unifi.it, 2015; nonché A. Stuppini, Tra centro e periferia: le politiche locali per l’integrazione, in C. Saraceno, N. Sartor, G. Sciortino (a cura di), Stranieri e disuguali. Le disuguaglianze nei diritti e nelle condizioni di vita degli immigrati, Bologna 2013, p.61 ss.
[9]Sul carattere collaterale delle attività di assistenza o “del Terzo settore” svolte dagli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti promananti alla Chiesa cattolica cfr, A.Fuccillo, Giustizia e religione, Torino 2011, p. 17; nonché M.Ferrante, Enti ecclesiastici e organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS), in Il diritto ecclesiastico, 1996, p.573 ss.
[10]Una rassegna completa di tali interventi in G.Di Tora, La Chiesa non è una “dogana”, in XXX Rapporto Caritas -Migrantes, 2015, Todi, 2016, p.2 ss.
[11] Sulle iniziative intraprese dai valdesi a sostegno dei migranti cfr., anche, G.Paba - G.Perrore, A room whitout a view, in F.Lo Piccolo (a cura di), Nuovi abitanti e diritto alla città, Un viaggio in Italia, Firenze 2013, p.262.
[12]P. Gay, Le fonti di finanziamento delle chiese valdesi e metodiste, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2006, p.183 ss.
[13] Al riguardo, il Consiglio episcopale permanente, nella seduta del 12 ottobre 2015, ha emanato un Vademecum (Notiziario CEI, n.49, 2 dicembre 2015, p. 210 ss.) contenente una serie di “indicazioni per le diocesi italiane sull'accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati”. Tale iniziativa si pone, peraltro, in continuità con quella denominata “rifugio diffuso” attiva, dal 2009, a Torino in cui è coinvolto l’Ufficio Pastorale Migranti di Torino e con il progetto di accoglienza in famiglia in provincia di Parma (le esperienze di Torino e Parma sono anche i due progetti che al momento sono finanziati all’interno dello SPRAR) e anche con le esperienze di autogestione degli spazi, come si sta provando a fare nella Diocesi di Torino.
[14]Sulle dinamiche del welfare sussidiario cfr., soprattutto, L. Bocaccin, Terzo settore e partership sociali: buone pratiche di welfare sussidiario, Milano 2003; nonché S. Piazza, Le politiche della salute: normative nazionali e regionali, l’intervento del volontariato, in Servizi sociali, suppl. al n.3, 1995, p.14 ss.
[15] Sulla questione cfr., in particolare, S. Geraci, Immigrazione e salute: un diritto di carta? Viaggio nella normativa internazionale, italiana e regionale, Roma 1996; nonché S. Geraci -B. Martinelli, Il diritto alla salute degli immigrati: scenario nazionale e politiche locali, Roma 2002.
[16]M.C. Folliero, Enti religiosi e non profit, Tra welfare state e welfare community…, cit, p.67.
[17]Recenti rilevazioni statistiche dimostrano, ad esempio, che in talune regioni italiane, come la Lombardia, sono presenti solo ambulatori di volontariato tra i quali si distaccano l’Opera San Francesco e la struttura gemella dei Fratelli francescani; in Calabria, sono presenti ambulatori di volontariato convenzionati; in Liguria si incontrano ambulatori di volontariato e ambulatori presso strutture pubbliche; in Emilia Romagna sono presenti ambulatori pubblici e convenzionati; in Basilicata, l'unico accesso all'assistenza sanitaria è attraverso il pronto soccorso degli ospedali e degli altri presidi generali.
[18]A. Madera, Gli ospedali cattolici, I modelli statunitensi e l’esperienza giuridica italiana: profili comparatistici, v. II, Gli enti ospedalieri cattolici (Prospettiva comparatistica), Milano 2007, p.191.
[19]In generale, sul deficit normativo riguardante la fase della post-accoglienza si vedano le osservazioni di E. Ghizzi Gola, L'accoglienza dei richiedenti e titolari di protezione internazionale in Italia
Aspetti giuridici, loc. ult. cit., secondo cui “L'assenza di un piano nazionale sulla tematica ha sicuramente inciso negativamente sulla possibilità di colmare la grave lacuna. Si è visto come un passo nella giusta direzione dia stato compiuto con il D.lgs. n. 18/2014 che ha apportato modifiche al Decreto Qualifiche, in particolare all'art. 29, con riguardo alle norme concernenti l'integrazione dei titolari di protezione laddove prevede che il Tavolo di coordinamento nazionale instaurato presso il Ministero dell'Interno predisponga almeno ogni due anni un Piano nazionale che individui "le linee di intervento per realizzare l'effettiva integrazione dei beneficiari di protezione internazionale, con particolare riguardo all'inserimento socio-lavorativo, anche promuovendo programmi di incontro tra domanda e offerta di lavoro, all'accesso all'assistenza sanitaria e sociale, all'alloggio, alla formazione linguistica e all'istruzione, nonché al contrasto delle discriminazioni". Solo di recente è stato varato un "Piano nazionale d’integrazione dei titolari di protezione internazionale” (27.09.2017) che delinea l'articolazione del sistema di accoglienza e di inclusione, rimarcando “anche l’impegno di numerosi soggetti religiosi nel campo dell’accoglienza ai rifugiati”, come pure il “ruolo sociale delle comunità di fede degli immigrati in relazione ai processi di integrazione. I luoghi di culto, in particolare, svolgono funzioni complesse e articolate, di carattere religioso, sociale e culturale, politico ed economico. In alcuni di essi, ad esempio, vengono organizzati corsi di italiano per i nuovi arrivati, si forniscono informazioni di natura burocratico-amministrativa, si distribuiscono viveri e abiti alle persone più povere. È da rilevare anche l’impegno di numerosi soggetti religiosi nel campo dell’accoglienza ai rifugiati”.
[20]In argomento cfr., in particolare, R.Mazzola, La questione dei luoghi di culto alla luce delle proposte di legge in materia di libertà religiosa. Profili problematici, in V. Tozzi, G. Macrì, M. Parisi (a cura di), Proposta di riflessione per l’emanazione di una legge generale sulla libertà religiosa, Torino 2012, p. 196 ss.; nonché N. MARCHEI, Il diritto alla disponibilità degli edifici di culto, in S. Domianello (a cura di), Diritto e religione in Italia. Rapporto nazionale sulla salvaguardia della libertà religiosa in un regime di pluralismo confessionale e culturale, Bologna 2012, p.171 ss.; I. Bolgiani, Attrezzature religiose e pianificazione urbanistica: luci ed ombre, in Rivista telematica (www.statoechiese.it), 2011, p.1 ss.
[21]Sulla situazione di questi gruppi confessionali cfr., V. Parlato, Cattolicesimo e ortodossia alla prova, Interpretazioni dottrinali e strutture ecclesiali a confronto nella realtà sociale odierna, Soveria Mannelli 2010; nonché E.Morini, Gli ortodossi, Bologna 2002, Id., La chiesa ortodossa. Storia, disciplina, culto, Bologna 1996; R.Morozzo Della Rocca, Le chiese ortodosse. Una storia contemporanea, Roma 1997; B.Petrà, La chiesa dei padri. Breve introduzione all’ortodossia, Bologna 1998.
[22]“La chiesa deve essere nell’esclusiva disponibilità della persona giuridica competente per l’officiatura e pertanto non può essere oggetto di un contratto che attribuisca a terzi diritti, facoltà, poteri, possesso o compossesso sull’edificio di culto; non può essere bene strumentale di attività commerciale né può essere utilizzata in alcun modo a fine di lucro”. Sul detto principio cfr. G.P. Montini, La cessazione degli edifici di culto, in Quaderni di diritto ecclesiale, 2000, p. 282 ss.
[23] In generale, sulla riduzione ad uso profano degli edifici di culto cfr. C. Gullo, Brevi note sulla gravità della “causa” necessaria per ridurre la chiesa a uso profano, in Il diritto ecclesiastico, 1997, II, p. 7 ss.; nonché P. Cavana, Il problema degli edifici di culto dismessi, in www.Statoechiese.it (Rivista telematica), aprile 2009.
[24] La vicenda concerne le Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi, approvata nella seduta del 27 gennaio 2015, ora giudicate costituzionalmente illegittime, per violazione sia del principio di eguaglianza nella libertà di religione e di culto, che non ammette discipline restrittive solo per le confessioni senza intesa, sia del divieto per la legge regionale di entrate nel merito dei rapporti tra la Repubblica e le singole confessioni religiose. Al riguardo, cfr., G. Casuscelli, La nuova legge lombarda sull’edilizia di culto: di male in peggio, in Rivista telematica (www.Statoechiese.it), n.14, 2015, p. 1 ss.; A. Tira, La nuova legge regionale lombarda sull’edilizia di culto: profili di illegittimità e ombre di inopportunità, in OLIR (http://www.olir.it/newsletter/archivio/ 2015_02_27.html), p.1 ss.; A. Lorenzetti, La nuova legislazione lombarda sugli edifici di culto fra regole urbanistiche e tutela della libertà religiosa, in Quaderni costituzionali (Rivista on-line), 13 giugno 2015.
[25] Sulle iniziative messe in campo per venire incontro alle esigenze dei migranti appartenenti alla Chiesa Cattolica si v. le disposizioni previste dalla Istruzione “Erga migrantes” del 3 maggio 2004 , emanata dal Pontificio consiglio per la pastorale per i migranti e gli itineranti. In generale sull’assistenza ai migranti cattolici cfr.G.C. Tassello, Introduzione, in G.G. Tassello (a cura di), Enchiridion della Chiesa per le Migrazioni. Documenti magisteriali ed ecumenici sulla pastorale della mobilità umana (1887-2000), Bologna 2001, p. 21 ss.; vid. anche A. Negrini, La Santa Sede y el fenómeno de la movilidad humana, in “People on the move”, 34, 2002, nn. 88-89, p. 191 ss. Per una ricostruzione storica più dettagliata, cfr. G. Holkenbrink, Dierechtlichen Strukturen für eine Migrantenpastoral. Eine rechtshistorische und rechtssystematische Untersuchung, Vatikan 1995, p. 81 ss.; V. De Paolis, La Chiesa e le migrazioni nei secoli XIX e XX, in J. Otaduy, E. Tejero e A. Viana (a cura di), Migraciones, Iglesia y Derecho. Actas del V Simposio del Istituto Martín de Azpilcueta sobre «Movimientos migratorios y acción de la Iglesia. Aspectos sociales, religiosos y canónicos», Pamplona 2003, p. 15 ss.
[26] Sul punto cfr., in particolare, P. Consorti, Legislazione del terzo settore..., cit., p.30; nonché M. Parisi, Enti ecclesiastici e sistema integrato di interventi e servizi sociali, in G. Macrì-M.Parisi, V. Tozzi (a cura di), Diritto e religioni, Bari, 2013,p.192 ss.; cenni anche in M. Elefanti (a cura di), Non profit, Dalla buona volontà alla responsabilità economica, Milano 2011, p. 59 ss.
Ingoglia Antonio
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