fbevnts A minimal note about the incipit of D. 50.12.14

Una minima postilla a proposito dell’incipit di D. 50.12.14

23.10.2021

Paolo Lepore

Professore associato di Istituzioni di diritto romano,

Università degli Studi dell’Insubria

 

Una minima postilla a proposito dell’incipit di D. 50.12.14*

 

English title: A minimal note about the incipit of D. 50.12.14

DOI: 10.26350/18277942_000047 

                                                                                                                                                    

Sommario: 1. L’oggetto e le finalità dell’indagine. 2. L’‘attualità’ della lettura dell’incipit di D. 50.12.14 proposta da Basile Eliachevich secondo la quale in età traianea le pollicitationes a una res publica, aventi a oggetto un opus, sarebbero state vincolanti solo previa ‘inchoatio operis’. 3. Il tentativo di desumere da D. 50.12.13pr. argomenti a sostegno della lettura dell’incipit di D. 50.12.14 proposta da Basile Eliachevich: considerazioni critiche. 3.1. Argomenti logico testuali desumibili da D. 50.12.3pr. in ordine al carattere originario del duplice e contrapposto regime connotante le pollicitationes ob honorem (comunque vincolanti per il promittente) e quelle non ob honorem (vincolanti solo previa ‘inchoatio operis’). 3.2. Il valore e il significato ascrivibili all’ad perficiendum che ricorre nell’incipit di D. 50.12.14 - a) Indicazioni desumibili dalla seconda parte di D. 50.12.14, nonché, conformemente, da D. 50.12.8 e da D. 50.12.3pr. - b) Due, alternative proposte di lettura.

 

1. L’oggetto e le finalità dell’indagine

 

Questo breve studio intende proporre una rilettura in chiave esegetica dell’incipit di D. 50.12.14 (Pomponius libro sexto epistularum et variarum lectionum). Il frammento, tratto dal sesto libro delle “Epistole e delle varie letture” di Sesto Pomponio, all’interno del titolo ‘De pollicitationibus’ del Digesto di Giustiniano – comunemente considerato la sedes materiae della pollicitatio rivolta a una res publica[1]– riveste una specifica rilevanza; in esso è, infatti, dato identificare, allo stato delle fonti, il ‘momento’ più risalente della regolamentazione in tema di ‘rei publicae polliceri[2].

Si tratta della constitutio divi Traiani che Sesto Pomponio richiama (ex constitutione divi Traiani) e alla quale riferisce il fatto di avere sancito – a carico di chi avesse promesso a una res publica (in aliqua civitate), in rapporto a un honor (honoris causa[3]), riguardante la propria persona o quella di un terzo (sui alienive), la realizzazione di un opus (opus facturum), e a carico del di lui erede (tam ipse quam heres eius) – l’obbligo (obligatus est) di perficere (ad perficiendum) quanto promesso[4]: Si quis sui alienive honoris causa opus facturum se in aliqua civitate promiserit, ad perficiendum tam ipse quam heres eius ex constitutione divi Traiani obligatus est.

Vale puntualizzare che nei termini appena riferiti l’incipit di D. 50.12.14 rispecchia il tenore letterale tradito dal Digesto di Giustiniano[5]. Rispetto ai sospetti manifestati dalla dottrina specialistica in merito alla ‘genuinità’ del periodo iniziale e, di riflesso, alle complesse questioni interpretative che hanno indotto diversi autori a cogliere nel testo ora l’intervento di un glossatore postclassico ora quello di un compilatore giustinianeo, ho, infatti, ritenuto di confermare, seppure in forma implicita, le diverse ragioni di ordine logico e di carattere testuale che, in altra sede[6], mi hanno indotto a ritenere genuino, quantomeno nella sostanza, l’incipit di D. 50.12.14 e, di riflesso, a rigettare le proposte di eliminazione e/o di sostituzione avanzate (vale richiamare come siano stati ritenuti non genuini e, in quanto tali, da espungere, nell’ordine: il pronome dativo alienive, la formula tam quam heres eius e le espressioni verbali ad perficiendum e obligatus est[7]; queste ultime – si è sostenuto – sarebbero state inserite in sostituzione, rispettivamente, di ad faciendum, la prima[8], e di tenetur, la seconda[9])[10].

Peraltro, proprio muovendo dall’assunzione del carattere genuino dell’incipit di D. 50.12.14 e, in particolare, dalla riferibilità a Pomponio e, mediatamente, alla costituzione traianea dell’obbligo in capo al pollicitator e al di lui heres di opus perficere (ad perficiendum), mi ritengo, per così dire, sollecitato e legittimato a svolgere una rinnovata lettura del brano, la quale, nel fondarsi sugli elementi dimostrativi e sugli esiti interpretativi e ricostruttivi a cui ero già giunto in merito al testo in parola, intende meglio precisarli e supportarli attraverso la valorizzazione di nuovi argomenti e di ulteriori indicatori di carattere logico-testuale.

 

2. L’ ‘attualità’ della lettura dell’incipit di D. 50.12.14 proposta da Basile Eliachevich secondo la quale, in età traianea, le pollicitationes a una res publica, aventi a oggetto un opus, sarebbero state vincolanti solo previprevia ‘inchoatio operis’

 

Rispetto alle finalità dimostrative enunciate in chiusura del precedente paragrafo, sono dell’avviso che si presti a fungere da rilevante e oggettivo fattore di legittimazione il modo in cui, ancora di recente, in seno alla dottrina specialistica, si è sostenuto che dall’incipit di D. 50.12.14, meglio dalla costituzione dell’Imperatore Traiano richiamata da Pomponio, sarebbe dato evincere lo status giuridico originario del ‘rei publicae polliceri’, in forza del quale la pollicitatio honoris causa sarebbe risultata giuridicamente vincolante solo una volta che fosse stata avviata la realizzazione dell’opus che ne costituiva l’oggetto; diversamente, ove, cioè, a questo non fosse stato (ancora) dato inizio, un eventuale inadempimento da parte del pollicitator (o del di lui erede) non avrebbe comportato alcuna conseguenza sul piano giuridico, dal momento che la promessa non sarebbe stata, di per sé, vincolante[11].

Prima di svolgere alcune considerazioni critiche in merito a questa lettura – e, quindi, alla possibilità di riferire (già) all’età traianea (a. 98-117) e ancora ai tempi di Sesto Pomponio[12], un regime del ‘rei publicae polliceri’ in forza del quale le pollicitationes operis, quelle ob honorem decretum vel decernendum[13](ossia ‘motivate’ dall’intervenuta assunzione, da parte dello stesso pollicitator o di un soggetto terzo a costui ‘legato’, di un honor o dalla prospettiva di ‘favorire’ tale eventualità) al pari di quelle non ob honorem (del tutto avulse, cioè, dalla suddetta ‘motivazione’ e, del pari, non connotate da altra iusta causa) avrebbero vincolato il promittente solo a seguito del cominciamento della relativa prestazione – ritengo opportuno precisare come la prima, compiuta enunciazione della stessa risalga a Basile Eliachevich.

A tale autore si deve, infatti, in forma primigenia, la seguente sottolineatura: “le texte de Pomponius [D. 50.12.14] … fait penser qu’au début (sous Trajan), la pollicitation d’un opus, meme ob honorem, n’était génératrice d’une obligation que coeptum opus (ad perficiendum inchoaverit). C’était seulement les constitutions postérieures qui reconnurent la pollicitation d’un opus ob honorem comme obligatoire par elle-meme”[14]. Queste parole – e con esse l’elezione dell’impiego, da parte di Pomponio, di perficere (ad perficiendum) a elemento probante del fatto che la realizzazione dell’opus, oggetto della pollicitatio honoris causa considerata da D. 50.12.14 (e per relationem di quella disciplinata dalla constitutio divi Traiani), era stata avviata e, di riflesso, del fatto che, ancora ai tempi di Pomponio, proprio da tale circostanza sarebbe dipesa la vincolatività giuridica della promessa, per cui l’obbligo del pollicitator e, qualora costui fosse morto, del di lui erede, sarebbe stato circoscritto a ultimare quanto incominciato – sono state riprese, pressoché alla lettera, e sono state condivise (anche in tempi recenti) da diversi studiosi.

Tra costoro vi è stato, per un verso, chi, nella prospettiva di precisare il riferimento di Eliachevich alle “constitutions postérieures qui reconnurent la pollicitation d’un opus ob honorem comme obligatoire par elle-meme”, ha ritenuto di poter identificare il provvedimento che, ‘superando’ la constitutio divi Traiani, avrebbe reso giuridicamente vincolante il ‘rei publicae polliceri’ a prescindere da qualsiasi ‘inchoatio operis’, in un rescritto dell’Imperatore Antonino Caracalla, richiamato da Ulpiano in D. 50.12.1pr.[15]; per altro verso, chi ha, per così dire, ‘dilatato’ la portata temporale dell’affermazione di Eliachevich, assumendo che il regime secondo cui l’obbligatorietà del ‘rei publicae polliceri’, anche di quello ob honorem, sarebbe sorta (solo) nel momento in cui l’opera promessa fosse stata iniziata, si sarebbe mantenuto sino all’età postclassica[16].

 

3. Il tentativo di desumere da D. 50.12.13pr. argomenti a sostegno della lettura dell’incipit di D. 50.12.14 proposta da Basile Eliachevich: considerazioni critiche

 

Vale, sin da ora, osservare come gli ‘indicatori’ che ostano alla possibilità di ritenere la constitutio divi Traiani, richiamata da Pomponio nel periodo iniziale di D. 50.12.14, rappresentativa dello status giuridico ‘originario’ del ‘rei publicae polliceri’ – status in forza del quale, tutte le pollicitationes, quale ne fosse il ‘carattere’, avrebbero vincolato il pollicitator, nonché, eventualmente, i di lui eredi (solo) se e in quanto si fosse avuto un principio di esecuzione dell’opus promesso – siano diversi e come siano sia interni al dettato di D. 50.12.14 sia esterni a esso, ossia desumibili da altre fonti.

Prima di passare a considerarli occorre richiamare come non sia mancato chi ha ritenuto di trarre elementi a sostegno della correttezza della lettura dell’incipit di D. 50.12.14 risalente a Basile Eliachevich dal dispositivo di D. 50.12.13pr. (Papirius Iustus libro secundo de constitutionibus): Imperatores Antoninus et Verus Augusti rescripserunt opera exstruere debere eos, qui pro honore polliciti sunt, non pecunias pro his inferre cogi.

L’interpretazione tradizionale assume che il principium, tratto dal secondo libro del de constitutionibus di Papirio Giusto, avrebbe, sulla scorta di un precedente rescriptum degli Imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero (Imperatores Antoninus et Verus Augusti rescripserunt), fatto divieto alla res publica – che fosse stata destinataria di una pollicitatio pro honore[17] e avente a oggetto un opus – di costringere il promittente a prestare, in luogo dell’opus, il corrispondente valore in denaro (opera exstruere debere eos non pecunias pro his inferre cogi).

Peraltro, muovendo da tale, diffusa e consolidata lettura, vi è stato chi ha ritenuto di cogliere nel dispositivo di D. 50.12.13pr. l’enunciazione, seppure implicita, della regola secondo cui, quantomeno, sotto l’imperatore Traiano, “l’obbligo giuridico vero e proprio [a dare realizzazione alla prestazione promessa] sarebbe sorto [anche nel caso di pollicitationes ob honorem/pro honore/honoris causa] solo ove la costruzione dell’opera fosse stata intrapresa”[18].

A dire il vero, non mi riesce di cogliere in forza di quale nesso logico l’antitesi posta da D. 50.12.13pr. tra l’opera exstruere debere e il [non] pecunias pro his inferre cogi – per cui il debere avrebbe individuato nell’opera exstruere ciò a cui il pollicitator sarebbe stato obbligato (cogi), di contro, in forma negativa (non), avrebbe significato la non coercibilità del pecunias pro his inferre – si presti a essere intesa quale attestazione, seppure indiretta, del fatto che la vincolatività della pollicitatio pro honore sarebbe dipesa dall’inizio dell’opus promesso[19].

Nel vietare alla res publica di pretendere, in luogo dell’opus promesso, il versamento dell’equivalente in denaro (questo – come si è detto – sarebbe il valore da ascrivere all’espressione [non] pecunias pro his inferre cogi, la quale, quindi, avrebbe costruito il rapporto tra l’inferre pecunias e l’exstruere opera in modo specifico, definendo la misura del primo attraverso il valore dei secondi), ritengo che D. 50.12.13pr. non avrebbe fatto altro che sancire l’obbligo per chi avesse promesso un opus di exstruere, ossia di darvi esecuzione.

Circa, poi, il sorgere di tale obbligo, D. 50.12.13pr. non avrebbe posto alcuna condizione ulteriore rispetto al carattere pro honore della pollicitatio.

In altri termini, la ratio sottesa alla statuizione: opera exstruere debere eos, qui pro honore polliciti sunt, non pecunias pro his inferre cogi sarebbe stata quella di prevenire e/o di fare cessare, regolamentandoli, i conflitti che sarebbero potuti sorgere tra la res publica e il promittente in merito alla ‘finalizzazione’ da dare alla pollicitatio e, in una prospettiva più generale, a garantire il carattere libero del ‘rei publicae polliceri’, per cui al pollicitator non si sarebbe potuto impedire di dare esecuzione in forma specifica alla prestazione promessa. Egli, quindi, sarebbe stato legittimato a ‘respingere’ la pretesa della res publica maggiormente interessata a ricevere il controvalore pecuniario dell’opus promesso.

In tale statuizione, più esattamente nella perentorietà che connota la locuzione exstruere debere, non ritengo possibile cogliere alcun riferimento all’inchoatio operise, di riflesso, non mi sembra che gli Imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero e allo stesso modo Papirio Giusto intendessero ascrivere alcuna rilevanza sul piano giuridico a tale circostanza. Per costoro, la pollicitatio, quantomeno quella pro honore e avente a oggetto un opus, avrebbe vincolato il promittente a prescindere dal fatto che fosse iniziata l’esecuzione della relativa prestazione.

 

3.1. Argomenti logico testuali desumibili da D. 50.12.3pr. in ordine al carattere originario del duplice e contrapposto regime connotante le pollicitationes ob honorem (comunque vincolanti per il promittente) e quelle non ob honorem (vincolanti solo previa ‘inchoatio operis’)

 

Gli esiti della ‘lettura’ interpretativa di D. 50.12.13pr. che ha occupato il precedente paragrafo, laddove li si condivida, fanno sì che l’ad perficiendum (ex constitutione divi Traiani) che ricorre nell’incipit di D. 50.12.14 resti da solo – almeno secondo l’ipotesi formulata da Basile Eliachevich e ripresa, in forma adesiva, da altri autori – ad attestare la subordinazione, perlomeno nei decenni ricompresi tra il regnum di Traiano e gli anni in cui svolse la sua attività di giurista Sesto Pomponio, della cogenza della pollicitatio (anche di quella ob honorem) alla inchoatio operis.

In effetti, tutte le altre fonti concernenti il ‘rei publicae polliceri’ (a partire dagli restanti passi giurisprudenziali ricompresi in D. 50.12), forniscono costante attestazione di come le pollicitationes ob honorem, laddove avessero avuto a oggetto un opus (tali, come si è visto, sarebbero stati, rispettivamente, la natura e l’oggetto della pollicitatio disciplinata dalla constitutio divi Traiani richiamata da Pomponio), fossero, di per sé, vincolanti per il promittente, a prescindere, quindi, dall’inizio della relativa prestazione; al tempo stesso, di come la cogenza delle pollicitationes non ob honorem derivasse, per l’appunto, dal fatto che fosse intervenuta l’inchoatio operis.

Costituisce estrinsecazione elettiva di questo duplice e contrapposto regime D. 50.12.3pr. (Ulpianus libro quarto disputationum): Pactum est duorum consensus atque conventio, pollicitatio vero offerentis solius promissum, et ideo illud est constitutum, ut, si ob honorem pollicitatio fuerit facta, quasi debitum exigatur. sed et coeptum opus, licet non ob honorem promissum, perficere F> promissor eo cogetur, et est constitutum[20].

Nel frammento ulpianeo l’impiego, in antitesi, delle espressioni ob honorem e non ob honorem, per cui (solo) alle pollicitationes aventi quale ‘causa’ l’assunzione di un determinato honor sarebbe stato riconosciuto carattere vincolante (quasi debitum exigatur), mentre l’obbligatorietà delle promesse non ob honorem sarebbe stata subordinata al cominciamento dell’opus oggetto della relativa prestazione (sed et coeptum opus, licet non ob honorem promissum, perficere F> promissor eo cogetur, et est constitutum), risulta, espressamente, posta in relazione con la definizione e, al tempo stesso, con la natura giuridica della pollicitatio rivolta a una res publica (quale si desume, per l’appunto, dalla definizione), ossia con il fatto che essa si identificava con l’offerentis solius promissum (in contrapposizione al pactum espressione di duorum consensus atque conventio[21]).

La proposizione consecutiva ideo illud est constitutum – nel ‘legare’, non solo sul piano sintattico grammaticale, ma anche su quello logico, la definizione di pollicitatio, enunciata nella parte iniziale di D. 50.12.3pr. e la sottolineatura che, immediatamente, segue, concernente la necessità di distinguere, rispetto ai presupposti di vincolatività (nei termini appena richiamati), le pollicitationes ob honorem da quelle non ob honorem (aventi a oggetto la realizzazione di un opus) – stante il valore ‘conclusivo’ che la permea, finisce, inevitabilmente, per identificare la ‘causa’ di tale regime differenziato tra le due tipologie di pollicitatio proprio con l’essenza giuridica della pollicitatio, quale risulta esplicitata dalla locuzione offerentis solius promissum, ossia con il carattere di promessa unilaterale della stessa.

L’ideo non rappresenta, quindi, un termine ‘neutro’, nel momento in cui mette in relazione sul piano sintattico-grammaticale la definizione di pollicitatio con la classificazione/distinzione bipartita del ‘rei publicae polliceri’ in ob honorem e non ob honorem, finisce per costituire tra i due elementi anche e soprattutto un legame di ordine logico. L’‘ideo’ viene, cioè, a instaurare, tra l’offerentis solius promissum” e l’illud est constitutum, ut una sorta di rapporto tra ‘causa’ ed ‘effetto’, sostanziandosi la ‘causa’ nella particolare natura giuridica della pollicitatio ossia con il carattere unilaterale della stessa (a fronte della natura bilaterale del pactum) ed esplicitandosi l’‘effetto’ nella regolamentazione giuridica conseguitane (et ideo illud est constitutum), basata sulla distinzione tra pollicitationes ob honorem e pollicitationes non ob honorem. Ma tale ‘causa’, ossia il carattere unilaterale del ‘rei publicae polliceri’, rappresenta (l’insieme delle fonti non offre ragioni per dubitarne) una specificità originaria della pollicitatio[22]; in quanto tale, indirettamente, presuppone e, al tempo stesso, comporta che la medesima risalenza si debba ascrivere alla distinzione delle pollicitationes in ob honorem e non ob honorem e, di riflesso, al regime differenziato di vincolatività, per cui le prime sarebbero state di per sé obbligatorie, mentre le seconde solo previa ‘inchoatio operis’. Non vi sarebbe, quindi, ‘spazio’ per ipotizzare un diverso, preesistente regime in cui la cogenza (anche) delle pollicitationes ob honorem sarebbe derivata dall’inizio dell’esecuzione dell’opus promesso.

 

3.2. Il valore e il significato ascrivibili all’ad perficiendum che ricorre nell’incipit di D. 50.12.14.

 

a) Indicazioni desumibili dalla seconda parte di D. 50.12.14, nonché, conformemente, da D. 50.12.8 e da D. 50.12.3pr.

 

Il quadro normativo che è stato possibile derivare da D. 50.12.3pr. ritengo sia, di per sé, sufficiente a respingere la lettura secondo cui la costituzione traianea richiamata da Pomponio in apertura di D. 50.12.14, nel riconoscere il carattere vincolante del ‘rei publicae polliceri’ correlato all’assunzione di un honor, avrebbe, però, subordinato il concretizzarsi dello stesso all’avvio della realizzazione dell’opus oggetto della promessa e ciò sia con riguardo alla persona del pollicitator sia rispetto a quella del di lui erede (ad perficiendum tam ipse quam heres eius … obligatus est).

Vale, comunque, sottolineare che tale ipotesi (considerata – come si è visto – l’impossibilità di trarre argomenti a conferma della stessa da D. 50.12.13pr.[23]) si fonda, essenzialmente, sul convincimento che l’espressione verbale ad perficiendum – che nell’incipit di D. 50.12.14 esprime il contenuto e l’estensione dell’obbligo (obligatus est) che, ex constitutione divi Traiani, rispetto all’opus promesso, avrebbe gravato la persona del pollicitator o, eventualmente, quella del di lui erede – costituisca, di per sé, sicura evidenza del fatto che l’opus in parola aveva già avuto un principio di esecuzione.

In effetti, tra le diverse accezioni di perficere vi è quella di ‘portare a termine’, di ‘completare’; tra l’altro, connotato datale significato e, quindi, dalla funzione di esprimere la necessità di ‘esaurire’ una prestazione già iniziata, perficere ricorre all’interno di D. 50.12 in più passi.

È, innanzitutto, il caso del perficeret e del perficere che, sempre in riferimento a un opus oggetto di una pollicitatio ob honorem, sono adoperati da Pomponio nella seconda parte di D. 50.12.14.

La riferibilità a entrambe le forme verbali del significato di ‘ultimare’, di ‘completare’ quanto già iniziato si desume, con assoluta evidenza, dalle sottolineature: opus inchoaverit, id opus facere instituerat, opus fieri coeptum est, che ‘accompagnano’, rispettivamente, la prima perficeret[24], la seconda e la terza perficere[25] (merita, peraltro, evidenziare come per definire la ‘misura’ della promessa al momento della formulazione della stessa Pomponio impieghi, opportunamente, il verbo facereopus facturum – ricorrendo a perficere all’atto di precisare e di ‘circoscrivere’ l’obbligo gravante sull’heres del pollicitator, nell’eventualità che costui, dopo avere dato inizio all’opusatque inchoaverit –, fosse deceduto, per l’appunto, priusquam perficeret).

Tali sottolineature non lasciano dubbio alcuno in ordine al valore da ascrivere a perficeret e a perficere (a dire il vero, sulla scorta di una precedente costituzione dell’Imperatore Antonino Pio o dell’Imperatore Marco Aurelio[26], all’heres pollicitatoris sarebbe stata concessa la facoltà di scegliere se portare a termine l’opus incominciato dal suo dante causa – aut perficere id – o il versare alla res publicasi ita malle[n]t – una parte dell’eredità ricevuta: un quinto l’heres qui extraneus est, un decimo l’heres qui ex numero liberorum est[27]).

Analoghe considerazioni valgono per il [opus proscaeni …] perficiat, per il perficere [opus] e per il [si opus] perfici che ricorrono in successione nel dispositivo di D. 50.12.8 (Ulpianus libro tertio de officio consulis). Anche in questo caso, al pari di quanto si è appena visto a proposito della seconda parte di D. 50.12.14, il valore di perficere si evince da un indicatore ‘esterno’. Si tratta dell’inciso quod tandem adgressus fuerat; questo, per il fatto di essere riferito a un proscaenium che tale Statius Ruffinus aveva promesso alla res publica di Gabi, porta, inevitabilmente, ad ascrivere alle tre ‘forme’ di perficere impiegate da Ulpiano in riferimento a tale opus, il significato di ‘portare a compimento’ il proscenio[28].

Il medesimo quadro interpretativo ritorna all’interno della già richiamata avversativa sed et coeptum opus, licet non ob honorem promissum, perficere F> promissor eo cogetur, et est constitutum di D. 50.12.3pr.[29]. Essa, nel momento in cui subordina l’efficacia giuridica del ‘rei publicae pollicerinon ob honorem e concernente un opus, al fatto che quest’ultimo fosse stato fatto oggetto di un principio di esecuzione (coeptum opus), lascia, chiaramente, intendere che l’obbligo di perficere avrebbe significato per il promissor la necessità di ultimare quanto già iniziato.

Peraltro, in questi casi si ha forte e costante l’impressione che il giurista (Pomponio in D. 50.12.14, Ulpiano in D. 50.12.8 e in D. 50.12.3pr.) abbia avvertito l’insufficienza del solo perficere a esprimere il fatto che l’esecuzione dell’opus, oggetto della pollicitatio, era stata iniziata e che, quindi, abbia ritenuto necessario ‘apporre’ al verbo, così da specificarne e da esplicitarne l’effettivo significato, le sottolineature: opus inchoaverit, id opus facere instituerat, opus fieri coeptum est (in D. 50.12.14), quod tandem adgressus fuerat (in D. 50.12.8), coeptum opus in D. 50.12.3pr. Queste, col dare atto dell’intervenuto inizio dell’esecuzione dell’opus promesso, sarebbero risultate ostative rispetto alla possibilità di ascrivere a perficere, in rapporto al contesto in rilievo, il più generico significato di ‘eseguire completamente’, di ‘portare a compiuta realizzazione’ un opus la cui esecuzione non era ancora stata avviata; di contro, avrebbero ‘imposto’ di riferire alla forma verbale il valore di ‘portare a conclusione’ un opus già iniziato.

Talvolta, poi, l’assenza di sottolineature, concernenti l’intervenuta inchoatio operis, identiche o assimilabili a quelle che ricorrono nella seconda parte di D. 50.12.14, in D. 50.12.8 e in D. 50.12.3pr. risulta, per così dire, ‘giustificata’ e, al tempo stesso, ‘compensata’ dalla specifica evidenza del contesto in cui perficere risulta calato, che ‘impone’ di riferire al verbo il valore di ‘completare’, di ‘portare a termine’ una prestazione (quella, per l’appunto, riversata nella pollicitatio) già iniziata.

È il caso di D. 50.12.1.5 (Ulpianus libro singulari de officio curatoris rei publicae): Denique cum columnas quidam promisisset, imperator noster cum divo patre suo ita rescripsit F>: ‘Qui non ex causa pecuniam rei publicae pollicentur, liberalitatem perficere non coguntur. sed si columnas Citiensibus promisisti et opus ea ratione sumptibus civitatis vel privatorum inchoatum est, deseri quod gestum <coeptum edd.> est non oportet’.

Dalla lettera del frammento si apprende che alcune colonne erano state promesse (si tratta di una pollicitatio non ex causa) ai Citienses, ossia, verosimilmente, agli abitanti della città di Cizio, situata nell’isola di Cipro[30](cum columnas quidam promisisset). Gli imperatori Settimio Severo e Antonino Caracalla, investiti della questione, avrebbero disposto con un rescritto (imperator noster cum divo patre suo ita rescripsit) che, qualora l’opus promesso avesse avuto inizio (opus inchoatum est) a spese della res publica o di privati (sumptibus civitatis vel privatorum), non si sarebbe dovuto ‘dismetter(n)e’ la realizzazione (deseri quod gestum edd.> est non oportet). Nello statuire ciò i due Augusti avrebbero, altresì, richiamato il caso di chi, sempre non ex causa, pecuniam rei publicae pollicetur. Rispetto a tale circostanza – secondo quanto riferito da Ulpiano – Settimio Severo e Antonino Caracalla avrebbero sancito che liberalitatem perficere non coguntur.

L’esigenza di riferire a perficere il significato di ‘portare a termine’ quanto già in parte eseguito e, di riflesso, di assumere che, anche nell’eventualità di parziale corresponsione della somma di denaro promessa, non sarebbe sorto alcun obbligo giuridico, per cui il pollicitator non sarebbe stato tenuto a liberalitatem perficere ritengo tragga legittimità e verosimiglianza, innanzitutto, dal modo in cui l’ipotesi di pecuniam polliceri è da Ulpiano richiamata in contrapposizione a quella concernente la promessa di colonne. Rispetto a tale promessa – è quanto il giurista sembra maggiormente interessato a rimarcare – la circostanza che, a spese della res publica o di privati, terzi rispetto al pollicitator, fosse stata avviata la realizzazione dell’opus (opus ea ratione sumptibus civitatis vel privatorum inchoatum est) avrebbe comportato la coercibilità della pollicitatio. A prescindere dal fatto che le columnae, oggetto diretto della pollicitatio, identificassero l’opus coeptum o, piuttosto, ne costituissero un elemento costitutivo, rappresentassero, cioè, una parte di una più articolata costruzione – il punto è controverso[31] – una volta che l’opus fosse stato iniziato – sancisce Ulpiano – non avrebbe dovuto e potuto essere ‘abbandonato’ (deseri quod gestum <coeptum edd.> est non oportet).

Ora, sembra legittimo e logico credere che il giurista, all’atto di mettere in relazione tale fattispecie con quella rappresentata da una pollicitatio non ex causa avente a oggetto il conferimento alla res publica di una somma determinata di denaro e, al tempo stesso, di rimarcare, in forma di contrapposizione (non a caso ricorre la congiunzione avversativa sed), come, a differenza della prima, la seconda fattispecie non sarebbe stata foriera dell’obbligo giuridico di liberalitatem perficere, assumesse che entrambe, oltre che per il fatto di concernere pollicitationes ‘prive’ di iusta causa (nel caso della pollicitatio di certa pecunia ricorre l’espressa qualificazione non ex causa; quanto alla pollicitatio di columnae la medesima connotazione sembra derivabile a silentio, ossia dall’assenza di qualsiasi riferimento in positivo all’honor o ad alia iusta causa), erano accomunate dal riguardare pollicitationes le cui prestazioni erano state fatte oggetto di parziale esecuzione.

Sarebbe stata proprio tale circostanza, ‘denunciata’, in modo esplicito, solo rispetto alla pollicitatio columnarum (et opus sumptibus civitatis vel privatorum inchoatum est), ma, verosimilmente, connotante entrambe le promesse, a essere, per così dire, messa sotto la lente di ingrandimento da Ulpiano.

Il giurista avrebbe, infatti, inteso evidenziare come, in un caso, laddove, cioè, oggetto della pollicitatio sine causa fosse stato un opus, dall’inchoatio operis sarebbe derivata la vincolatività del ‘rei publicae polliceri’; di contro, nel momento in cui quest’ultimo avesse avuto a oggetto dare certam pecuniam, il fatto che una parte di tale somma fosse stata corrisposta alla res publica, non avrebbe comportato la coercibilità giuridica della pollicitatio (sine causa).

In buona sostanza, Settimio Severo e Antonino Caracalla (stante il richiamo operato da Ulpiano) avrebbero ‘valutato’ in modo opposto, l’‘inchoatio operis’ e l’‘inchoatio solutionis pecuniae’: dalla prima sarebbe derivato per il promittente l’obbligo a proseguire e a ultimare la prestazione iniziata, non altrettanto dalla seconda.

L’interesse da assumere come prioritario – è quanto mi sembra abbiano voluto sancire i due Augusti (e, al contempo, abbia inteso sottolineare il giureconsulto) – doveva essere quello che l’assetto urbanistico e monumentale della res publica non avesse a subire pregiudizio dall’iniziativa del singolo promittente, più esattamente, che il suolo cittadino non rimanesse ingombrato da costruzioni iniziate e lasciate a metà. Il vincolo per il pollicitator di portare a compimento gli ‘opera inchoata’ avrebbe dato risposta a siffatte esigenze. Ove queste non fossero intercorse, ossia qualora l’esecuzione parziale della prestazione promessa si fosse esaurita nel ‘solvere pecuniam’ (quantomeno, trattandosi di una pollicitatio non ex causa, ossia di una promessa, che, diversamente da quelle ob honorem vel ob aliam iustam causam, non sarebbe stata, di per sé, obbligatoria), non sarebbe sussistito neppure l’obbligo di ultimare la prestazione e, quindi, liberalitatem perficere non coguntur.

Vale, altresì, osservare come, a ‘suggerire’ il valore da ascrivere al perficere, che ricorre in D. 50.12.1.5, all’interno della frase: Qui non ex causa pecuniam reipublicae pollicentur, liberalitatem perficere non coguntur, vi sia il modo in cui questa figura collocata all’interno di un contesto ‘dominato’ dall’elencazione (è difficile dire se, quantomeno nella prospettiva ulpianea, da considerarsi esaustiva) delle diverse ipotesi di ‘coepisse’ (coepisse sic accipimus) riferite a un opus, e, in quanto a queste ultime, giuridicamente assimilabili, di ‘quasi coepto opere’.

Dal configurarsi di tali ipotesi Ulpiano avrebbe fatto discendere la vincolatività delle pollicitationes sine causa vel non ex causa e, quindi, l’obbligo per il pollicitator di perficere l’opus oggetto della promessa.

L’elenco muove dalle fattispecie di ‘coepisse’ direttamente ascrivibili all’agire del pollicitator (par. 3[32]). Dopo avere menzionato il gettito delle fondamenta (si fundamenta iecit F>), lo sgombero di un’area (vel locum purgavit), Ulpiano considera, allo stessa stregua (magis est), l’eventualità che il promittente abbia domandato e ottenuto la destinazione di un determinato sito (et si locus illi petenti destinatus est ut coepisse videatur), per concludere che parimenti configura un inizio di prestazione l’intervenuta predisposizione ‘in publico’ di quanto necessario, si fosse trattato di materiale o di denaro (item si apparatum sive impensam in publico posuit).

L’esplicazione delle diverse tipologie di ‘coepisse’ risulta, poi, completata attraverso la menzione, svolta nei parr. 4 e 5, di altre, due fattispecie, sulla seconda delle quali (par. 5) si è già avuto modo di soffermarsi[33]. Ad accomunarle vi sarebbe stata l’impossibilità (stante Ulpiano) di riconnettere il relativo ‘coepere opus’ al promittente; entrambe tali fattispecie avrebbero, infatti, configurato (nella prospettiva ulpianea), un’ipotesi in cui ‘ipse [il pollicitator] non coepit’ (sed si non ipse coepit). Nel fare riferimento a una pollicitatio avente a oggetto una somma di denaro ad opus, ossia destinata a finanziare in tutto o per una quota la realizzazione di una determinata opera pubblica, la prima fattispecie, esplicata dal par. 4, avrebbe, infatti, fatto discendere la vincolatività della stessa dall’inizio dell’esecuzionedell’opus non da parte del promittente o del di lui erede bensì da parte della res publica[34]. In questo caso il pollicitator sarebbe stato, comunque, obbligato a prestare la somma promessa ad opus. La circostanza in parola, il fatto, cioè, che la res publica avesse incominciato a opus facere, per quanto non potesse ritenersi configurare un vero e proprio coepere opus, avrebbe, comunque – è il pensiero di Ulpiano – integrato un’ipotesi al coepere opus giuridicamente assimilabile (stante la locuzione utilizzata dal giurista, un ‘quasi coepto opere’), in quanto tale idonea a fare sì che il pollicitatur fosse obbligato a corrispondere la somma promessa ad opus.

L’impossibilità di riferire l’avvio della realizzazione dell’opus al promittente avrebbe caratterizzato anche la fattispecie disciplinata – sulla scorta di un precedente rescritto degli Imperatori Settimio Severo e Antonino Caracalla (imperator noster cum divo patre suo ita rescripsit) – dal par. 5 di D. 50.12.1. Come si è già evidenziato, essa avrebbe riguardato una pollicitatio sine causa avente a oggetto delle colonne[35], la cui obbligatorietà sarebbe discesa dal fatto che, a spese della res publica o di privati, terzi rispetto al pollicitator, fosse stata avviata la realizzazione dell’opus (et opus ea ratione sumptibus civitatis vel privatorum inchoatum est). Anche in questo caso l’inchoatio operis non sarebbe stata ascrivibile al pollicitator, non ipse coepit; la cosa, però, secondo Ulpiano, non avrebbe ostato al sorgere del carattere vincolante della promessa, con conseguente obbligo a perficere, ossia a completare quanto era stato iniziato, dal momento che, anche in questo caso, sebbene non si configurasse un vero e proprio ‘coepisse’, si sarebbe, comunque, ‘integrato’ un ‘quasi coepto opere’.

 

Tornando all’incipit di D. 50.12.14, a questo punto può quasi apparire superfluo rimarcare come Pomponio utilizzi l’ad perficiendum in forma, per così dire, ‘neutra’, ossia ‘avulsa’ da qualsiasi sottolineatura del tipo di quelle che connotano la seconda parte dello stesso D. 50.12.14, nonché D. 50.12.8 e D. 50.12.3pr., sottolineature atte a definire, specificandolo, il significato da ascrivere a perficere.

Quanto, poi, al contesto di riferimento, esso mi sembra ostare alla possibilità di riferire all’espressione verbale il valore di ‘portare a termine’ l’opus promesso honoris causa.

Si è rimarcato come l’attribuzione di tale significato sia al perficeret, impiegato da Pomponio all’interno dell’avversativa sed si quis ob honorem opus facturum se civitate aliqua promiserit atque inchoaverit et priusquam perficeret, decesserit, sia al perficere presente nella frase heres eius extraneus quidem necesse habet aut perficere id aut partem quintam patrimonii relicti sibi ab eo, qui id opus facere instituerat, si ita mallet, civitati, in qua id opus fieri coeptum est, dare, appaia necessitata a fronte delle sottolineature opus inchoaverit, id opus facere instituerat e id opus fieri coeptum est.

Sono propenso a cogliere proprio nel ricorrere di tali puntualizzazioni in riferimento all’opus oggetto della pollicitatio un importante indizio in ordine all’impossibilità di riferire l’ad perficiendum di cui nell’incipit di D. 50.12.14 a un opus già ‘inchoatum’ e, quindi, di ascrivere al gerundivo il significato di ‘dovere completare’, di ‘dovere portare a termine’, nonché, in ultimo, di assumerlo (la proposta – lo si è visto – è stata formulata da diversi autori) quale probante indicatore del regime giuridico che, in forza della costituzione dell’Imperatore Traiano, richiamata da Pomponio, avrebbe connotato, sino alla metà del II sec. d.C., tutte le pollicitationes, non importa se ob honorem o non ob honorem, la vincolatività giuridica delle quali sarebbe stata, per l’appunto, subordinata all’avvio della realizzazione dell’opus che ne costituiva l’oggetto.

Laddove, infatti, si assumesse tale ipotesi interpretativa e, di riflesso, l’equivalenza di significato tra l’ad perficiendum dell’incipit di D. 50.12.14 e i due perficere utilizzati nella seconda parte del passo, proprio le formule: opus inchoaverit, id opus facere instituerat e id opus fieri coeptum est finirebbero, per costituire una sorta di anomala e reiterata superfetazione, di cui il giureconsulto si sarebbe reso colpevolmente autore.

Ciò in quanto l’accezione specifica che avrebbe connotato l’ad perficiendum (di ‘ultimare’ un opus già iniziato) avrebbe dovuto, logicamente, ‘riverberarsi’ (all’interno della sequenza argomentativa di Pomponio) sui due impieghi del medesimo verbo (perficeret e perficere) presenti nel prosieguo di D. 50.12.14. Rispetto a questi ultimi, l’attribuzione del significato di portare a termine l’opus coeptum si sarebbe dovuta desumere, per così dire, per derivazione, all’interno di un rapporto di continuità, proprio dal precedente ad perficiendum, il quale avrebbe, inevitabilmente, fatto ricadere sui successivi perficeret e perficere il valore specifico, che a esso sarebbe stato proprio, di ‘ultimare’ e, del pari, l’idea che l’esecuzione dell’opus, oggetto della pollicitatio honoris causa, fosse stata avviata. Al fine di esprimere in termini di assoluta evidenza tale quadro tecnico-giuridico Pomponio non avrebbe, quindi, dovuto avvertire la necessità di ricorrere alle puntualizzazioni opus inchoaverit, id opus facere instituerat e id opus fieri coeptum est. Il fatto che, invece, egli abbia ritenuto di impiegarle, per l’appunto, per esplicitare che l’esecuzione dell’opus promesso era stata avviata, sembra, piuttosto, suggerire che non ritenesse possibile ascrivere all’ad perficiendum l’attitudine, in forma di ‘autosufficienza’, a veicolare l’informativa in parola. Si ha, cioè, l’impressione che il giurista avesse ben presente l’inidoneità dell’ad perficiendum a qualificare i due, successivi utilizzi di perficere, nella prospettiva di ‘proiettare’ su di essi il significato di ‘portare a termine’ quanto (ossia l’opus) già iniziato. Proprio per questo motivo – all’atto di focalizzare lo ‘sguardo’ sulla (sola) persona dell’heres pollicitatoris (da notare che, invece, l’ad perficiendum, stante l’endiadi tam ipse quam heres eius, figura, unitariamente, riferito sia al pollicitator sia ai di lui heres) e di ‘quantificare’ (anche sulla scorta delle ‘novità’ introdotte da una precedente costituzione di Antonino Pio o di Marco Aurelio) l’obbligo che sarebbe a loro derivato dalla pollicitatio ob honorem, concernente un opus, formulata dal loro dante causa, e il fatto che l’inchoatio operis (da parte del pollicitator) dovesse fungere da presupposto necessitato rispetto al costituirsi di tale obbligo – Pomponio ha ritenuto necessario fare ricorso alle sottolineature in parola. Solo in questo modo – sembra logico ipotizzarlo – per il giureconsulto sarebbe stato possibile fornire compiuta evidenza del fatto che gli eredi del promittente sarebbero stati tenuti (solo) laddove si fosse trattato di ‘completare’ l’opus promesso dal loro dante causa e sempre da costui (già) iniziato: “… inchoaverit et priusquam perficeret, decesserit …”.

Stando così le cose, nella prospettiva argomentativa di Pomponio, il ‘passaggio’ operato dall’avversativa sed si quis ob honorem opus facturum se civitate aliqua promiserit atque inchoaverit et priusquam perficeret, decesserit tra la fattispecie e il quadro applicativo connotanti l’incipit di D. 50.12.14 e la fattispecie e il quadro applicativo presi dal giurista a riferimento nella parte rimanente del testo, non sarebbe stato ‘segnato’ – unicamente dal modo in cui l’attenzione si sarebbe venuta, per così dire, a ‘concentrare’ sulla (sola) persona dell’heres pollicitatoris (in luogo dell’iniziale tam ipse [pollicitator] quam heres eius), rispetto al quale sarebbe stata prevista la possibilità di scegliere tra il perficere l’opus incominciato dal de cuius e il corrispondere alla res publica un quinto (nel caso degli heredes extranei) o un decimo (nel caso dei liberi) del patrimonio ereditario. A connotare il passaggio in parola sarebbe stato soprattutto il modo in cui, a differenza dell’incipit, il prosieguo di D. 50.12.14 avrebbe avuto riguardo a una pollicitatio (ob honorem e operis) la cui prestazione si sarebbe assunto essere stata fatta oggetto di un principio di esecuzione da parte del pollicitator. A rilevare sarebbe stato, quindi, in ultimo, il diverso presupposto di vincolatività del ‘rei publicae polliceri’ – individuato ed esplicitato dalle sottolineature opus inchoaverit, id opus facere instituerat e id opus fieri coeptum est – rispetto alla persona dell’erede del pollicitator e, di riflesso, il diverso significato da ascrivere alle forme verbali perficeret e perficere rispetto al precedente ad perficiendum.

 

b) Due, alternative proposte di lettura

 

Il grado di verosimiglianza dell’ipotesi interpretativa appena formulata ritengo si presti a essere ‘misurato’ in rapporto alla possibilità di riconoscere all’ad perficiendum dell’incipit di D. 50.12.14, rispetto al contesto in rilevo, un significato alternativo a quello di (doversi) ‘portare a termine’, di (doversi) ‘completare’ quanto già iniziato (nel caso di specie l’opus oggetto della pollicitatio honoris causa), che, in forza delle apposizioni opus inchoaverit, id opus facere instituerat e id opus fieri coeptum est è – come si è visto – doveroso ascrivere al perficeret e al perficere, che ricorrono nel prosieguo del testo.

In tale prospettiva, sono convinto che un’utile ‘chiave di lettura’ possa desumersi da D. 50.16.139.1 (Ulpianus libro septimo ad legem Iuliam et Papiam): ‘perfecisse aedificium is videtur, qui ita consummavit, ut iam in usu esse possit.

Laddove si consideri che il termine opus, utilizzato in rapporto al ‘rei publicae polliceri’, risulta identificativo proprio di opere architettoniche, di costruzioni pubbliche, di interesse e di utilizzo collettivi[36], appare del tutto verosimile ipotizzare che, attraverso l’ad perficiendum, Pomponio, nell’incipit di D. 50.12.14, intendesse esprimere un concetto prossimo se non identico al iam in usu esse che in D. 50.16.139.1 – nella prospettiva ulpianea – esplica, quasi in forma definitoria, la formula ‘perfecisse aedificium[37].

Appare, cioè, del tutto legittimo ritenere che il giureconsulto volesse riconnettere all’espressione verbale la funzione di esplicitare l’esito ultimo, il risultato definitivo a cui avrebbe dovuto, necessariamente, essere volto l’agire del pollicitator ed, eventualmente, quello del di lui erede: portare a esatto compimento l’opus promesso in modo che esso iam in usu esse possit.

Pomponio, quindi, tramite l’assunto posto in apertura di D. 50.12.14 non avrebbe inteso esprimere in modo tecnico la precisa identificazione dei presupposti giuridici di validità e di cogenza del ‘rei publicae polliceri’ (ob honorem e avente a oggetto un opus) rispetto alle persone del pollicitator e del di lui erede, piuttosto, all’interno di una dimensione, per così dire, ‘metagiuridica’, avrebbe dato rilievo alla più generica e atecnica (sotto il profilo giuridico) enunciazione di come sia il primo sia il secondo (tam ipse quam heres eius) dovessero assumersi obbligati, ex constitutione divi Traiani, a dare piena realizzazione all’opus, nel rispetto di quanto era stato dichiarato al momento della formalizzazione della promessa.

Vale, altresì sottolineare – il dato sembra altamente indicativo, in quanto va nella direzione di confermare la ‘lettura’ in corso – come il panorama epigrafico in tema di ‘rei publicae polliceri’ offra più di un esempio in cui perficere risulta impiegato in un’accezione, per così dire, ‘accrescitiva’ e ‘perfettiva’ rispetto a quella propria di verbi quali struere, exstruere, erigere.

A rilevare sono, nello specifico: le sottolineature a solo struendam et perficiendam e erexit et omni cultu perfecit, che in CIL. VIII.12058 = Eph. V.1206 esprimono la concreta finalizzazione dell’aedem promiserat, di cui tale Caius Clodius Saturninus si era reso autore a beneficio della res publica di Muzuc[38]; la formula extruxit perfecit, che in ILAlg. I, 2121 = BCTH. (1919), p. 67 precisa, in termini di concreta realizzazione, l’‘esito ultimo’ della pollicitatio ob flamonium perpetuum di un teatro, che tale Marcus Gabinius Sabinus aveva rivolto alla comunità di Madaura[39].

Ritengo, peraltro, sussista la possibilità di fare oggetto l’ad perficiendum del periodo iniziale di D. 50.12.14 di un’ulteriore lettura interpretativa. Questa, al pari di quella appena illustrata, anche alle luce delle considerazioni fin qui svolte, appare connotata da maggiore verosimiglianza rispetto a quella secondo cui nelle intenzioni di Pomponio e prima ancora dell’Imperatore Traiano la proposizione finale doveva significare l’avvenuto inizio dell’esecuzione dell’opuspollicitatus’ e con esso, in via ‘mediata’, il fatto che la pollicitatio honoris causa avrebbe assunto carattere vincolante solo una volta che fosse stato dato inizio alla relativa prestazione, per cui sia il promittente sia il di lui erede sarebbero stati obbligati solo previa ‘inchoatio operis’.

Appare, infatti, pienamente legittimo e persuasivo assumere quale ‘referente’ sintattico-grammaticale dell’ad perficiendum non (come, comunemente, si ritiene) l’opus oggetto della pollicitatio honoris causa, bensì, in modo diretto, quest’ultima. Di riflesso, risulta ugualmente plausibile attribuire a perficere il significato (peraltro, ugualmente tipico) di ‘mantenere fede alla promessa’.

Del resto, in tale accezione il verbo ricorre già in Plaut., Asin. 122: [moriri sese misere mavolet,] quam non perfectum reddat quod promiserit e in Ter., Andr. 631: post ubi tempus promissa iam perfici e, più in generale, è di uso frequente nelle fonti letterarie[40].

Nulla osta, quindi, alla possibilità di assumere che tramite il gerundivo nell’incipit di D. 50.12.14 Pomponio non intendesse fornire esatta e tecnica esplicitazione dei differenti presupposti di validità e di cogenza del polliceri ob honorem operis in relazione al pollicitator e ai di lui successori, bensì esprimere in forma unitaria come sia il primo sia i secondi dovessero assumersi obbligati ex constitutione divi Traiani a mantenere fede a quanto promesso (e, di conseguenza, a dare compiuta esecuzione e piena realizzazione all’opus).

Il carattere non assoluto, ossia subordinato all’inchoatio operis, del ‘teneri’ da parte degli heredes pollicitatoris avrebbe trovato esplicitazione solo nel prosieguo di D. 50.12.14, in forza delle sottolineature opus inchoaverit, id opus facere instituerat e id opus fieri coeptum est, apposte, per l’appunto, la prima a perficeret, la seconda e la terza a perficere.

 

 

Abstract: The paper proposes an exegetical reinterpretation of the incipit of D. 50.12.14 (Pomponius libro sexto epistularum et variarum lectionum), with a view to defining the legal regime outlined in relation to the ‘rei publicae polliceri’ by the constitutio of the Emperor Trajan referred to by Pomponius.

 

Keywords: pollicitatio, perficere, honoris causa (ob honorem), opus.

* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] V., per tutti, F. Regelsberger, Streifzüge im Gebiet des Zivilrechts. vol. II. Die Pollicitation und das Versprechen eines Beitrags zu einem gemeinnützigen Zweck, in Festgabe der Göttinger Juristen-Fakultät für R. von Jhering zum fünfzigjährigen Doktor-Jubiläum am 6. August 1892, Leipzig 1892 (rist. anast. Aalen 1973), p. 43 ss., secondo il quale, a volere essere corretti, la rubrica di D. 50.12 avrebbe dovuto essere la seguente: De pollicitationibus in civitatem factis.

[2] La dottrina è unanime nel riconoscere alla legislazione imperiale un ruolo preponderante nella definizione del regime giuridico del ‘rei publicae polliceri’. In effetti, da tale normativa la giurisprudenza post-adrianea risulta avere derivato e argomentato la gran parte delle soluzioni e delle deduzioni da applicarsi all’istituto. In particolare, in D. 50.12 sono ben dieci i frammenti nei quali si richiamano precedenti costituzioni, talvolta tramite un generico rinvio, rispettivamente alle constitutiones et veteres et novae (v. D. 50.12.1) e alle principales constitutiones (v. D. 50.12.11) o a quanto precedentemente constitutum (v. D. 50.12.3), il più delle volte, in termini meno vaghi, esplicitando gli Augusti autori delle medesime (v. D. 50.12.1, D. 50.12.6, D. 50.12.7, D. 50.12.8, D. 50.12.9, D. 50.12.12, D. 50.12.13, D. 50.12.14, D. 50.12.15; sempre nel Digesto di Giustiniano, ma al di fuori di D. 50.12, tra i passi che disciplinano in modo diretto il ‘rei publicae polliceri’, rinviano a precedenti costituzioni imperiali: D. 4.2.9.3 e D. 30.41.5. Il quadro della normativa imperiale sull’istituto è completato da una costituzione del Codex Iustinianus, ascritta all’iniziativa dell’Augusto Zenone: CI. 8.12(13).1.1.

[3] La locuzione honoris causa (sui alienive) è stata assunta dagli interpreti, nessuno escluso, quale sinonimo della più tecnica e ricorrente ob honorem. Per una bibliografia selezionata sul punto mi permetto di rinviare a P. Lepore, «Rei publicae polliceri». Un’indagine giuridico-epigrafica. 2a ed., Milano 2012, p. 70 nt. 17.

[4] In questo modo l’Imperatore Traiano – è il convincimento della dottrina pressoché unanime – avrebbe segnato il riconoscimento del carattere vincolante del ‘rei publicae polliceri’, determinando l’assunzione a istituto giuridico di un fenomeno che, peraltro, già nel I secolo a.C. aveva trovato accoglienza e si era sviluppato nella prassi amministrativa (meglio nelle prassi amministrative) delle numerose e differenziate realtà municipali, quale espressione vivida dello spirito di munifica socialità e liberalità che risulta avere permeato l’ultimo secolo dell’età repubblicana.

[5] Nella versione del Corpus iuris civilis, vol. I, ed. Th. Mommsen, P. Krüger, 22a ed., Berlin 1973; lo stesso dicasi per gli altri passi del Digesto di Giustiniano riferiti nel lavoro.

[6] P. Lepore, «Rei publicae polliceri» cit.

[7] L’alienive – è stato osservato – sarebbe antitetico al sibi che in D. 50.12.1.1 (Ulpianus libro singulari de officio curatoris rei publicae) ricorre all’interno della formula si quidem ob honorem promiserit decretum sibi vel decernendum; il pronome dativo, si è precisato, circoscrivendo, dal punto di vista soggettivo, l’honor alla sola persona del pollicitator, seppure in modo indiretto, avrebbe significato l’impossibilità, per il diritto classico, di riferire la titolarità della causa pollicitationis a soggetti terzi rispetto al promittente. L’esplicita previsione in D. 50.12.14, accanto al sui honoris causa polliceri, dell’alieni[ve] honoris causa polliceri, lungi dal fotografare la ‘realtà di Pomponio’, rappresenterebbe, quindi, la manifestazione di un mutamento di disciplina, prodottosi in un momento successivo, non determinabile con esattezza, di cui i compilatori giustinianei avrebbero dato attestazione. Quanto alla formula: tam quam heres eius, essa, per il fatto di affiancare al pollicitator un secondo soggetto: il di lui heres, ugualmente tenuto a perficere opus (tam ipse quam heres eius), male si coordinerebbe – è stato sostenuto – con la terza persona singolare obligatus est; tale discrasia ne rivelerebbe il carattere compilatorio. Sul punto, anche per le opportune indicazioni di carattere bibliografico, v. P. Lepore, Ivi, p. 76 e s.

[8] L’utilizzo di perficere per esplicitare il contenuto del vincolo del pollicitator (tam ipse) e del di lui erede (quam heres eius), quale ricorre nel periodo iniziale di D. 50.12.14 (ad perficiendum), avrebbe rappresentato – è la conclusione cui sono giunti i più – un nonsenso logico. Perficere – è stato sostenuto – in diritto classico sarebbe stato utilizzato, in via esclusiva, in relazione a una prestazione già in parte eseguita (coepta, inchoata); considerarlo ‘genuino’ imporrebbe di assumere che Pomponio intendesse riconnettere l’obbligatorietà della pollicitatio considerata al cominciamento della relativa prestazione [al riguardo, v. infra]. Ma all’assunzione di tale soluzione osterebbero i riscontri desumibili da diversi luoghi della compilazione giustinianea; da essi emergerebbe, infatti, che le pollicitationes ob honorem (operis) – tale sarebbe stata quella disciplinata ex constitutione divi Traiani – diversamente da quelle non ob honorem, erano vincolanti per il promittente e per i di lui successori anche in mancanza dell’inizio della relativa prestazione [al riguardo, v. infra]. Stando così le cose, l’obbligazione ex constitutione divi Traiani avrebbe dovuto, necessariamente, riguardare il facere, ossia ricomprendere anche il coepere opus. Da qui, come si è richiamato nel testo, la proposta di diversi interpreti di considerare compilatorio l’ad perficiendum e di ‘leggere’ al suo posto ad faciendum. Sul punto anche per le opportune indicazioni di carattere bibliografico v. P. Lepore, Ivi, p. 77 ss. V. anche le considerazioni svolte infra.

[9] La specifica natura pubblicistica che connoterebbe il ‘rei publicae polliceri’, confinando l’istituto ai margini del diritto privato, avrebbe ostato a che in riferimento a esso fosse dato ricorrere a una terminologia propria del ius civile e, quindi, che, rispetto al conseguente vincolo giuridico si potesse usareil verbo obligari o il corrispondente sostantivo, obligatio. Il sintagma obligatus est, che ricorre nell’incipit di D. 50.12.14 non sarebbe, quindi, genuino; in luogo di obligari – si è affermato – Sesto Pomponio avrebbe impiegato il verbo teneri (tenetur). Sul punto anche per le opportune indicazioni di carattere bibliografico v. P. Lepore, Ivi, p. 81.

[10] Ad accogliere in blocco queste proposte di espunzione nonché le correlate proposte di modifica, resterebbe ben poco dell’‘attuale’ periodo iniziale di D. 50.12.14; quale espressione dell’originario tenore letterale del testo di Pomponio si avrebbe: Si quis sui honoris causa opus facturum se in aliqua civitate promiserit, ad faciendum ipse ex constitutione divi Traiani tenetur. Peraltro anche questa ‘versione’ – è stato da più parti osservato – identificherebbe solo nella ‘sostanza’ l’originario tenore dell’incipit di D. 50.12.14, in quanto le interpolazioni sarebbero state operate su un testo più ampio che sarebbe stato riassunto dai commissari di Giustiniano.

[11] Di tale avviso M. Huang, La promessa unilaterale come fonte di obbligazione. Dai fondamenti romanistici al prossimo Codice Civile Cinese, Napoli 2018, p. 29 e s.

[12] Sesto Pomponio risulta avere svolto la sua attività di giurista dall’età di Adriano (a. 117-138) sino ai primi anni dell’Impero di Marco Aurelio e di Lucio Vero (a. 160-169).

[13] L’espressione ricorre in D. 50.12.1.1 (Ulpianus libro singulari de officio curatoris rei publicae): Non semper autem obligari eum, qui pollicitus est, sciendum est. si quidem ob honorem promiserit decretum sibi vel decernendum vel ob aliam iustam causam, tenebitur ex pollicitatione: sin vero sine causa promiserit, non erit obligatus. et ita multis constitutionibus et veteribus et novis continetur.

[14] B. Eliachevitch, La personnalité juridique en droit privé romain, Paris 1942, pp. 179 nt. 92, 180 nt. 95.

[15]D. 50.12.1pr. (Ulpianus libro singulari de officio curatoris rei publicae): Si pollicitus quis fuerit rei publicae opus se facturum velpecuniam daturum, in usuras non convenietur: sed si moram coeperit facere, usurae accedunt, ut imperator noster cum divo patre suo rescripsit. V. M. Huang, La promessa unilaterale come fonte di obbligazione cit. p. 32 ss.

[16] V., in particolare, A. Guarino, Diritto privato romano, 11a ed., Napoli 1997, p. 981; Id., Ragguaglio di diritto privato romano, Napoli 2002, p. 341; v. anche B. Biondi, Istituzioni di diritto romano, 4a ed., Milano 1972, p. 471; J.L. Ramirez Sadaba, Gastos suntuarios y recursos económicos de los grupos sociales del Africa romana, in Estudios de Historia Antigua, vol. III, Oviedo 1981, p. 47; V. Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano, 14a ed., Napoli 1991, p. 357 e s.; F. Pastori, Elementi di diritto romano. Le obbligazioni, Milano 1988, p. 232; Id., Gli istituti romanistici come storia e vita del diritto, 3a ed., Bologna 1992, p. 1006; B. Goffaux, Entre le droit et la réalité: la construction publique dans les cités de l’Hispania romaine, in Les Études Classiques LXVI (1998), p. 348 nt. 47. In senso dubitativo si sono espressi E. Volterra, Istituzioni di diritto privato romano, Roma 1961, p. 547; A. Burdese, Gli istituti del diritto privato romano, Torino 1962, p. 422 e s.; Id., Manuale di diritto privato romano, 4a ed., Torino 1993, p. 494.

[17] In merito all’equivalenza di significato, nel contesto che qui rileva, ossia in riferimento al ‘rei publicae polliceri’, intercorrente tra l’espressione pro honore e la più consueta locuzione ob honorem v. P. Lepore, «Rei publicae polliceri» cit. p. 213 ss.; Id., Sul significato della locuzione ‘pro honore, in Scritti in onore di Generoso Melillo, a cura di Antonio Palma, II, Napoli, 2009, p. 629 ss., ora in P. Lepore, Saggi sulla promessa unilaterale, Milano 2019, p. 45 ss.

[18] Di diverso avviso sembra essere M. Huang, La promessa unilaterale come fonte di obbligazione cit. p. 28. L’Autrice ha ritenuto di riferire al rescriptum di Marco Aurelio e di Lucio Vero, richiamato da D. 50.12.13pr., la statuizione del divieto per il pollicitator di “versare denaro in luogo della costruzione dell’opera che era stata promessa”. Così argomentando, M. Huang mi sembra avere inteso ascrivere al provvedimento imperiale e, mediatamente al passo di Papirio Giusto, un diverso tenore normativo, a fronte del quale a rilevare sarebbe stato non tanto la ‘coazione’ esercitata dalla res publica sul pollicitator al fine di indurlo, per così dire, a ‘monetizzare’ la prestazione promessa, bensì il fatto che costui si fosse, autonomamente, determinato a corrispondere il valore in denaro dell’opus oggetto della pollicitatio.

[19] Una più ampia disamina di D. 50.12.13pr. ricorre nelle opere citate supra in nt. 17.

[20] Riguardo alle ragioni sia di ordine logico sia di carattere testuale che inducono a considerare erronei i sospetti manifestati dalla dottrina specialistica in merito alla ‘genuinità’ di D. 50.12.3pr. e a rigettare le connesse proposte di sostituzione (vale richiamare come siano state attribuite alla mano dei compilatori giustinianei l’uso di promissum in forma sostantivata e l’impiego di solius, nonché l’utilizzo di duo (duorum) e non anche di plus (plurium) in apposizione all’endiadi consensus atque conventio, così come, invece, si ha nella nota definizione, sempre ulpianea, di pactum formulata in D. 2.14.1.2 (Ulpianus libro quarto ad edictum): et est pactio duorum pluriumve in idem placitum consensus. Sul punto mi permetto di rinviare a P. Lepore, «Rei publicae polliceri» cit. praecipue p. 144 ss.

[21] In merito all’accostamento operato da Ulpiano in D. 50.12.3pr. dei termini consensus e conventio v. G. Melillo, Contrahere, pacisci, transigere. Contributi allo studio del negozio bilaterale romano, Napoli 1994, p. 152, il quale ha osservato che, “mentre consensus accentua l’esistenza di una ‘comune visione’, conventio accentua il requisito del verificarsi della convergenza tra le due parti”.

[22] V. P. Lepore, «Rei publicae polliceri» cit. praecipue p. 143 ss.

[23] V. supra par. 3.1.

[24]sed si quis ob honorem opus facturum se civitate aliqua promiserit atque inchoaverit et priusquam perficeret, decesserit F>.

[25] heres eius extraneus quidem necesse habet aut perficere id aut partem quintam patrimonii relicti sibi ab eo, qui id opus facere instituerat, si ita mallet, civitati, in qua id opus fieri coeptum est, dare: is autem, qui ex numero liberorum est, si heres exstitit, non quintae partis, sed decimae concedendae necessitate adficitur. et haec divus Antoninus constituit.

[26] Per le divere opinioni dottrinali sul punto v. P. Lepore, «Rei publicae polliceri» cit. p. 94 nt. 70.

[27] V. il brano riportato in nt. 25. Va sottolineato come non sia mancato chi ha ritenuto giustinianea tutta la locuzione aut perficere id aut, la quale si presenterebbe “mal collocata nel testo”, tant’è “che l’obbligo del perficere sembrerebbe accollato solamente … all’heres extraneus e non anche all’heres suus”; così si è espresso E. Albertario, La pollicitatio, Milano 1929 = Studi di diritto romano, vol. III, Milano 1933-1953, p. 275 e s.

[28] De pollicitationibus in civitatem factis iudicum cognitionem esse divi fratres Flavio Celso in hanc verba rescripserunt: ‘Probe faciet Statius Ruffinus, si opus proscaeni, quod se Gabinis exstructurum promisit, quod tandem adgressus fuerat, perficiat. nam etsi adversa fortuna usus in triennio, a praefecto urbis relegatus esset, tamen gratiam muneris, quod sponte optulit, minuere non debet, cum et absens per amicum perficere opus istud possit. quod si detractat, actores constituti, qui legitime pro civitate agere possint, nomine publico adire adversus eum iudices poterunt: qui cum primum potuerint, priusquam in exilium proficiscatur, cognoscent et, si opus perfici F> ab eo debere constituerint, oboedire eum rei publicae ob hanc causam iubebunt, aut prohibebunt distrahi fundum, quem in territorio Gabiniorum habet’.

[29] V. supra par. 3.1.

[30] Di tale avviso M. Talamanca, Gli ordinamenti provinciali nella prospettiva dei giuristi tardoclassici, in Istituzioni giuridiche e realtà politiche nel tardo impero (III-V sec. d.C.). Atti di un incontro tra storici e giuristi, Firenze 2-4 maggio 1974, a cura di G.G. Archi, Circolo toscano di diritto romano e storia del diritto, 4, Milano 1976, p. 144, nt. 142.

[31] V. infra nt. 35.

[32] Coepisse sic accipimus, si fundamenta iecit F> vel locum purgavit. sed et si locus illi petenti destinatus est, magis est, ut coepisse videatur. item si apparatum sive impensam in publico posuit.

[33] V. supra nel presente par.

[34] Sed si non ipse coepit, sed cum certam pecuniam promisisset ad opus rei publicae Mo.> contemplatione pecuniae coepit opus facere: tenebitur quasi coepto opere.

[35] Premesso che tra gli interpreti non è mancato chi ha ritenuto doversi identificare l’opus inchoatum (sumptibus civitatis vel privatorum”) con le columnae Citiensibus promissae [per una bibliografia selezionata sul punto mi permetto di rinviare ancora una volta a P. Lepore, «Rei publicae polliceri» cit. p. 185 nt. 86]; premesso, altresì, che la dottrina prevalente ha contro tale identificazione ha ritenuto di addurre le seguenti argomentazioni: a) le columnae non avrebbero identificato, propriamente, un opus; b) nel caso di specie non si sarebbe trattato di ‘facere’ o di ‘perficere’, bensì di ‘dare’, di ‘fornire’; c) quindi, non si sarebbe integrata una pollicitatio operis faciendi’ ma una pollicitatio rei’ (rispetto alla quale non avrebbe avuto senso impiegare il termine opus e le espressioni verbali ‘coepere’, ‘inchoare’ [per una bibliografia selezionata sul punto mi permetto di rinviare ancora a P. Lepore, Ibid.], mi preme osservare come sussistano ragioni, per così dire, di ‘coerenza interna’ a D. 50.12.1, più esattamente alla sequenza esplicativa rappresentata dai parr. 4 e 5, che fanno apparire, quantomeno, inverosimile l’identificazione delle columnae, oggetto della pollicitatio, con l’opus che ea ratione sumptibus civitatis vel privatorum inchoatum est e inducano, di contro, ad assumere che esse avrebbero rappresentato una parte, un ornamentum di un più ampio e articolato opus (principale). Si tratta, innanzitutto, del fatto che a un analogo rapporto di ‘strumentalità’ risulta conformata la fattispecie considerata e disciplinata dal precedente par. 4. Come si è visto, in D. 50.12.1.4, rispetto a una pollicitatio pecuniae ad opus, si prevede che, qualora la res publica contemplatione pecuniae avesse iniziato a realizzare l’opus (coepit opus facere), il promittente sarebbe stato tenuto (tenebitur) quasi coepto opere. Tra la somma di denaro e l’opus coeptum si configura, quindi, un rapporto di carattere funzionale, per cui la prima sarebbe stata promessa in vista del secondo e questo sarebbe stato iniziato, per l’appunto, contemplatione pecuniae. Pensare alle columnae, fatte oggetto di pollicitatio Citiensibus, quale ornamentum dell’opus (principale) sumptibus civitatis vel privatorum inchoatum, preluderebbe alla possibilità di instaurare tra i parr. 4 e 5 di D. 50.12.1 e le rispettive fattispecie un forte e preciso legame di carattere logico, nonché un altrettanto forte ed evidente legame di ordine sistematico. Ne conseguirebbero, infatti, le seguenti relazioni: 1) (pollicitatio di) pecunia ad opus [par. 4] – (pollicitatio di) columnae ad opus [par. 5]; 2) non ipse coepit sed res publica contemplatione pecuniae coepit opus facere [par. 4] – ea ratione sumptibus civitatis vel privatorum [opus] inchoatum est [par. 5], 3) tenebitur quasi coepto opere [par. 4] – deseri quod gestum edd.> est non oportet [par. 5].

[36] V. P. Lepore, Ivi, praecipue p. 389 ss.

[37] V. TLL, vol.X.1, s.v. perficio, col. 1366 e s.; A. Ernout - A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire des mots, retirage de la 4e édition augmentée d’additions et de corrections par J. André, Paris 2001, s.v. facio, p. 212. Cfr. anche R. Fiori, La definizione della ‘locatio conductio’. Giurisprudenza romana e tradizione romanistica, Napoli 1999, p. 165, nt. 128.

[38] Apollini Augus/to sac(rum)/ aedem quam C(aius) Clodius Satur/ninus duplicata summa hono/raria decurionatus sui et Clo/di Celeris fratris sui a solo / struendam et perficiendam / promiserat Clodia Macri/na c(larissima) f(emina) neptis eius super (sestertium) VI mil(ia) et / CCCC n(ummum) e[ius sum]mae honorariae / adiectis am[plius li]beralitate sua / (sestertium) V mil(ibus) et scesc[entis n(ummum)] ex sestertium X[II]/ mil(ibus) n(ummum) a solo [er]exit et o[mni cultu]/ perfecit cur[an]te r(ei) p(ublicae) EII[.]MO[---]/ sponte statuis marmo[reis exorna]/vit eademq(ue) dedicav[it l(ocus) d(atus) d(ecreto) d(ecurionum)].

[39] M. Gabinius Sabinus theatrum, / quo[d ob flamonium p(er)]/p(etuum) [promisit, add]itis de [sua / liberalitate (sestertium) … mil(ibus)/ n(ummum)], ex [(sestertium)] CCCLXXV mil(ibus)/ [n(ummum) extruxit], perfecit / [idemq(ue) cum suis dedicavit].

[40] V. i testi richiamati dal TLL, vol. X.1, s.v. perficio, col. 1365.

Lepore Paolo



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