Una lettura attraverso quattro chiavi interpretative. Nota a Thomas Casadei, Gianfrancesco Zanetti (a cura di), Manuale multimediale di Filosofia del
Claudia Severi*
Una lettura attraverso quattro chiavi interpretative.
Nota a Thomas Casadei, Gianfrancesco Zanetti (a cura di), Manuale multimediale di Filosofia del diritto,
Giappichelli, Torino, 2022, pp. 496**
English title: A Reading through four Interpretive Keys. Note to Thomas Casadei, Gianfrancesco Zanetti (edits), Manuale multimediale di Filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 2022, pp. 496
Sin dalle prime righe dell’introduzione vengono esplicitati i criteri che hanno guidato i due Autori nella progettazione e realizzazione del Manuale: in primo luogo, di centrale rilevanza sono i contesti, poiché “le categorie giuridiche non crescono in un vacuum”(p. XII); in secondo luogo, le narrative e le interpretazioni (p. XIII) rivestono un’importanza cruciale, poiché rapportarsi con la filosofia del diritto implica andare oltre l’analisi filologica e sistematica dei testi dei vari autori indagandone le finalità e gli interrogativi di fondo, alla luce delle esperienze storiche in cui sono stati elaborati; in terzo luogo, i soggetti e in particolare il loro sguardo sul diritto è – a volerlo vedere - rilevante: decidere di assumere lo sguardo, ad esempio, delle donne, degli indigeni, delle masse proletarie o degli schiavi, cambia la modalità di percepire la realtà.
Coerentemente con tale prospettiva, un aspetto senz’altro innovativo del Manuale è rappresentato, oltre che dalle mappe concettuali, dalle immagini e dal “domandario” reperibili nell’“appendice” disponibile on line, dai nove Focus di approfondimento, tramite i quali vengono affrontate questioni riguardanti specifici contesti culturali, o alcune fasi storiche che gli Autori ritengono cruciali nell’evoluzione storica della riflessione sul diritto e sulle istituzioni. Più precisamente: L’eredità di Atene e Gerusalemme. Filosofi e profeti (pp. 28-34); Uno sguardo verso la Cina (pp. 35-42); La mezzaluna islamica (pp. 87-94); Il repubblicanesimo italiano: una tradizione sui generis (pp. 95-110);Indie/America: i dilemmi del “Nuovo mondo” (pp. 168-180); Schiavitù e colonialismo: il diritto e la “linea del colore” (pp. 253-268); Uno sguardo imprevisto sul diritto: il femminismo giuridico (pp. 344-356); Le guerre mondiali, i totalitarismi e la difficile sfida dei diritti umani (pp. 415-428); Corpi, soggetti, reti: una mappa (sommaria) delle sfide del presente (pp. 487-495).
Del resto, il Manuale multimediale di filosofia del diritto, mira a “favorire la curiosità verso autori ritenuti “classici” e, al contempo, verso mondi o narrazioni poco conosciuti […]” (p. XIV), rivolgendosi non ai soli studiosi già avvezzi alla materia, bensì in particolare a studenti e studentesse di Giurisprudenza, nonché a persone interessate ai temi dell’attualità, per i quali la filosofia del diritto può certamente costituire uno strumento per una comprensione più profonda degli avvenimenti sociali e globali(cfr. pp. XI-XVI).
Nel corso della trattazione è possibile identificare alcuni concetti-chiave che, seppur con accezioni differenti, ricorrono più volte, legando come un fil rouge gli autori presenti nel Manuale.
I concetti in questione sono estremamente numerosi e non è possibile esaminarli tutti esaustivamente in questa sede. Pertanto, sulla base di alcune chiavi interpretative (che comunque potrebbero essere senz’altro considerate parziali), ci si concentrerà su alcuni aspetti specifici: la concezione della legge, la nozione di libertà, la religione (e le sue possibili funzioni) e, infine, l’idea di giustizia.
La scelta riguardo al primo aspetto scaturisce dall’affermazione secondo cui la storia della filosofia del diritto “può essere concepita […] come una storia della nozione di legge” (p. 81): sin dal primo capitolo, dedicato al mito di Antigone – che può essere ritenuta l’origine della filosofia del diritto – emerge un concetto di diritto naturale, caratterizzato da norme non scritte ma assolute e universali, che si pone in conflitto con norme umane poste dal potere sovrano (cfr. pp. 1-8). È nella prospettiva di Antigone che si suole individuare la genesi delle dottrine del giusnaturalismo.
Aristotele (384 – 322 a.C.) – che, a posteriori, può essere certamente considerato un giusnaturalista – ha posto come pilastro della sua polis ideale il governo – proprio – della legge (cfr. pp. 24-25) e così anche Cicerone (106 a.C. – 43 a.C.) nel De Republica (III, 6) afferma che “La vera legge è la retta ragione, in armonia con la natura, diffusa in tutti gli uomini, invariabile, eterna” e ribellarsi ad essa avrebbe lo stesso significato di un rifiuto della propria natura umana (cfr. p. 46).
Nello stesso solco di riflessioni si colloca anche Tommaso d’Aquino (1225-1274), secondo cui esiste una lex aeterna – che è la razionalità dell’universo, retto da Dio – e una lex naturalis. Tra le due non esiste una differenza qualitativa, bensì quantitativa, di estensione, poiché la legge naturale è una porzione di legge eterna – voluta da Dio – che l’uomo può comprendere e che può poi, convertirsi in humana, o per via di determinazione, o attraverso il modo della conclusione. Come è noto, infine, un’ultima accezione di “legge” data da Tommaso d’Aquino è quella di divina, che non si occupa, come quelle appena richiamate, della vita naturale dell’uomo, bensì di quella soprannaturale e ha come scopo la salvezza delle anime (cfr. pp. 63-65).
Marsilio da Padova (1270-1342), dal canto suo, elabora un’idea innovativa di legge: secondo la sua teorizzazione, essa corrisponde con la volontà del legislatore, che ha come obiettivo non una legge eterna ma il “giusto”, che chi è al potere deve custodire. In particolare, al termine “legge” può essere attribuita una pluralità di declinazioni: “inclinazione naturale sensitiva verso qualche azione o passione”; “ogni forma esistente nella mente, dalla quale derivano le forme delle cose prodotte dall’arte”; “la regola che contiene i moniti per gli atti umani” (p. 81).
Con una scelta che ha effetti potentissimi, svincola la legge da qualsiasi giudizio morale Niccolò Machiavelli (1469-1527), inserendola all’interno del mondo delle regole tecniche – descrittive, generali, sempre valide – come strumento nelle mani del Principe, che ne fa uso per consolidare e aumentare la forza dello Stato (cfr. pp. 113-116).
In una riflessione collocabile entro l’orizzonte normativo, la regola tecnica di Machiavelli può essere confrontata con l’accezione di regola regolativa di Thomas Hobbes (1588-1679) e con quella di regola costitutiva di Giambattista Vico (1688-1744). Per Hobbes, infatti, la legge è in primo luogo regola regolativa, che attraverso un linguaggio prescrittivo istituisce comandi e sanzioni, mostrando una stretta afferenza alla dimensione penalistica del diritto. Per Vico, al contrario, la norma giuridica è regola costitutiva, che permette la creazione di istituzioni, quali a titolo esemplificativo il matrimonio, la famiglia, o il seppellimento. Per tale ragione, la regola costitutiva di Vico “preesiste all’oggetto regolato, ed è condizione di esistenza e di pensabilità dell’ente regolato” (p. 184).
Sulla relazione tra linguaggio descrittivo e linguaggio prescrittivo si inserisce la celebre “legge di Hume” scaturita dall’interpretazione di un celebre passo di David Hume (1711-1776).
Nel Trattato sulla natura umana, infatti, egli esprime l’idea secondo la quale non si possa passare dall’essere al dover essere, dal Sein al Sollen. In altre parole “Un numero enorme […] di proposizioni di linguaggio descrittivo non costituisce un tesoro dal quale sia possibile spremere deduttivamente la più semplice proposizione in linguaggio prescrittivo. […] Non si può dedurre il valore dal fatto, perché rappresentano due ambiti differenti e separati.” (p. 164).
A tal proposito è opportuno sottolineare che, da un’analisi che va oltre la lettura filologica dell’opera– appoggiata dall’interpretazione di importanti studiosi – è possibile affermare che la famosa legge attribuita a Hume, a ben vedere, non sia stata enunciata intenzionalmente dal filosofo scozzese con la volontà di affermare un cambio di paradigma. Verosimilmente, Hume non intendeva affatto enunciare una legge logica fondamentale. Tuttavia il tema che lo rese celebre – che peraltro mai riprese altrove – ha posto le basi per le posizioni metaetiche dell’emotivismo e del non-cognitivismo, elaborate secondo diverse prospettive da numerosi filosofi del diritto e della morale (da Hans Kelsen a Richard M. Hare, nonché, in Italia, da Norberto Bobbio a Uberto Scarpelli, da Gaetano Carcaterra a Silvana Castignone, da Sergio Cotta a Francesco D’Agostino)– nonché per diverse riflessioni filosofiche di stampo positivista, che si distanziano di gran lunga dal giusnaturalismo e dall’idea di contratto sociale.
Montesquieu (1689-1755), dal canto suo, si allontana dalle più comuni prospettive di matrice giusnaturalistica, poiché concepisce la legge come descrittiva, “un rapporto costante fra variabili fenomeniche” (p. 194). In particolare, egli individua due diverse tipologie di leggi: positive e naturali. Più precisamente, di queste ultime ne rintraccia cinque: la prima, in ordine di importanza, è quella che, segnando in noi un’idea di Creatore, ci dirige verso di lui; la seconda è fondamentale per la sopravvivenza di ogni essere umano, poiché si configura come la costante ricerca di pace da parte dell’uomo; la terza riguarda il bisogno di nutrirsi; la quarta e la quinta concernono il bisogno sessuale e quello di vivere in società (cfr. p. 194).
Di altro taglio è la distinzione operata da Thomas Paine (1737-1809), tra leggi fondamentali – la Costituzione prima di tutte – e leggi ordinarie. Più precisamente, la legge fondamentale è incarnata dalla Costituzione, una legge superiore, sulla cui base poggia l’intero ordinamento e il governo. Quest’ultimo verrà istituito in ottemperanza a quanto decretato all’interno della Costituzione (cfr. p. 236).
Karl Marx (1818-1883) invece, riconduce la legge alla critica della concezione volontaristica del diritto, poiché – in base alla sua prospettiva – ricondurre il diritto ad una volontà libera equivale a ricondurlo, appunto, alla legge, dotando in questo modo il legislatore di una discrezionalità politica, che di fatto non ha (cfr. p. 283). In questo solco si colloca anche il pensiero di Carl Schmitt (1888-1985), secondo il quale la legge è priva di contenuto politico, e si configura dunque solamente come un istituto formale, perché frutto di una procedura, non espressione della volontà, né del re, né del popolo (cfr. pp. 360-361).
John Austin (1790-1859) poi –sulla scorta della lezione di Jeremy Bentham (1748-1832) – identifica la legge in un comando, rivolto stabilmente ad una generalità di consociati, passibili di una sanzione – un male – nel caso di non osservanza della norma (cfr. pp. 315-316).
Se per Rudolf von Jhering (1818-1892) le norme, i concetti, “esistono a causa della vita” (p. 326) e hanno dunque un radicamento storico e culturale, Hans Kelsen (1881-1973), al contrario, teorizza l’esistenza di una Grundnorm: la “norma fondamentale” da cui discende l’ordinamento, che non è posta dal legislatore, bensì presupposta (cfr. pp. 372-373), e distingue nettamente la “norma giuridica” dalla “legge naturale”, sostenendo che alla prima si debba applicare il principio di imputazione, mentre alla seconda il principio di causalità (cfr. pp. 370-372).
Il quadro si articola ulteriormente, quando dalla tradizionale bipartizione tra giusnaturalismo e giuspositivismo si passa alla tripartizione tra giusnaturalismo, giuspositivismo e giusrealismo – o, per meglio dire, come si suggerisce nel testo giusrealismi – americano e scandinavo.
Più precisamente, nel giusrealismo americano si collocano, come è noto, le riflessioni di personaggi quali Oliver Wendell Holmes jr. (1841-1935), John Dewey (1859-1952), (cfr. pp. 380-382), Roscoe Pound (1870-1964) e Karl N. Llewellyn (1893-1962).
Segnatamente al concetto di “legge”, questi ultimi due in particolare operano una distinzione decisiva tra “law in books” e “law in action” (il primo) e tra “paper rules” e “real rules” (il secondo). Secondo Pound, invero, il diritto si configura come un’“opera di ingegneria sociale” (p. 384), sicché la filosofia del diritto ha il compito di cercare il miglior modo in cui il diritto può soddisfare le necessità della società (cfr. pp. 384-386). Conformemente a questa prospettiva, Llewellyn asserisce che il diritto consiste in ciò che i giudici decidono nelle controversie (cfr. pp. 386-387).
Per quanto riguarda le origini del giusrealismo scandinavo, queste si possono ricondurre certamente allo svedese Axel Hägerström (1868-1939), secondo il quale le leggi rappresentano regole stabilite per gli organi dello Stato, che garantiscono determinati benefici agli individui (cfr. pp. 390-391).
A Hägerström si ispira Karl Olivecrona (1897-1980), affermando la tesi secondo la quale le leggi sono “imperativi indipendenti” o “impersonali”, ossia “modelli astratti”, capaci di influenzare il comportamento degli individui. Secondo il filosofo – nel cui solco di riflessioni si colloca anche Alf Ross (1899-1979) – le leggi non possono essere equiparate a comandi nel senso di atti di volontà, poiché la presenza di una persona che impartisce un ordine e un'altra a cui è rivolto è essenziale per definire un comando: nel caso del rapporto Stato – cittadini, questo manca, poiché l’attività dello Stato è compiuta da molteplici soggetti, nessuno dei quali è veramente autore del comando (cfr. pp. 392-394).
Entro un diverso orizzonte concettuale, le leggi convivono, nel solco della lezione di Montesquieu (cfr. pp. 405-408), in un rapporto di complementarità con il potere nell’orizzonte di Hannah Arendt (1906-1975), prefigurando lo spazio di congiunzione tra politica e libertà, ossia la possibilità per le azioni degli esseri umani in quanto soggetti politici. Così le leggi “garantiscono la preesistenza in un mondo comune, la cui continuità trascende i singoli inizi, e quindi una realtà che accoglie in sé tutte le nuove origini e ne è alimentata” (H. Arendt, Le origini del totalitarismo, [1951], trad.it. di A. Guadagnin, introduzione di A. Martinelli, con un saggio di S. Forti, Torino, Einaudi, 2015, p. 637) (cfr. pp. 407-408).
La legge nel pensiero di Lon L. Fuller (1902-1978), ancora, trova il suo caposaldo nelle “leggi naturali dell’ordine sociale”: con questa espressione si intende il pensiero – sostenuto da Fuller – secondo il quale la giustificazione del diritto non può essere ricercata né nel diritto positivo, né nel diritto naturale così come considerato nella sua concezione originaria, poiché è contemplata nessuna istanza metafisica del diritto. Il fondamento delle leggi non ha natura divina, bensì terrena: le leggi sono create dai cittadini per i cittadini (cfr. pp. 449-450).
Una cruciale concezione della “legge” emerge dall’opera di Herbert L.A. Hart (1907-1992), secondo il quale esiste una norma cosiddetta “di riconoscimento” – rule of recognition – che permette di individuare le norme primarie di obbligazione, nonché tutte le altre, configurando così il diritto non solo come mera coercizione (cfr. p. 461). Come si sottolinea nel volume, Hart può essere considerato l’ultimo grande filosofo del diritto tradizionale, al quale si deve The concept of law (1961), il testo che rappresenta “la più raffinata versione del giuspositivismo classico” (p. 470) e che influenza gli anni Settanta e successivi, nella scelta dei problemi e dell’approccio metodologico (cfr. p. 469-471).
Dopo Hart si assiste ad una sorta di dissolvimento delle classificazioni consolidate – giusnaturalismo, giuspositivismo, giusrealismo – non perché non esistano più, bensì perché alcuni autori non vi aderiscono, o perché le criticano, oppure ancora perché si occupano di nuove questioni (cfr. pp. 471-473).
Entro tale nuovo orizzonte, si colloca il focus conclusivo del Manuale, una “mappa (sommaria) delle sfide del presente” (pp. 487-492). Nuove questioni vengono qui affrontate– seguendo le linee emerse dalle teorie critiche del diritto (“linea del colore”, “linea del genere”, “linee coloniali”: pp. 488-490) ma anche i nuovi dilemmi posti dalla bioetica e dal biodiritto(pp. 487-488) –: l’attenzione si è spostata sui soggetti e la norma – la legge – viene concepita come fenomeno giuridico, che abita l’ordinamento al fianco di consuetudini, i burkeani manners, e principi costituzionali (cfr. pp. 487-489).
Insieme a quello di legge, un concetto-chiave che ricorre in numerosi contributi del Manuale è, come si accennava in precedenza, quello di libertà.
Secondo il pensiero di John Locke (1632-1704), essa costituisce un tratto fondamentale della persona umana, in quanto indispensabile alla conservazione della vita e proprio perché di quest’ultima nessuno dispone, se non Dio, allora non può essere in alcun modo passibile di rinuncia o alienazione (cfr. p. 152). Montesquieu, dal canto suo, ha una visione ‘gradualistico-quantitativa’ della libertà, poiché i governi possono essere più o meno liberi, salvaguardando più o meno lo Stato e i consociati dall’oppressione. Cosa intenda colui che è stato il Presidente del Parlamento di Bordeaux parlando di “libertà” è però un aspetto che vale la pena approfondire. Non esiste solamente la “libertà filosofica”, ossia la possibilità di ogni individuo di muoversi secondo i propri valori, ma altresì una libertà che si potrebbe definire “civile”, corrispondente alla possibilità di fare tutto ciò che è permesso dalle leggi. Infine, la più importante, è la “libertà politica”, che conferisce la “tranquillité d’esprit”, che fa sì che ogni cittadino non debba temere l’altro (cfr. pp. 195-196).
La libertà si lega in maniera inscindibile alla volontà nel pensiero di Jean-Jacques Rousseau (1712-1778). Egli afferma, infatti, che la natura dell’uomo è libera e tale deve rimanere, ma nel passaggio dallo stato di natura allo stato civile ciò permane solo se la volontà individuale corrisponde con la volontà generale. In altre parole, solo così può avvenire il passaggio da esseri umani liberi e uguali a cittadini liberi e uguali (cfr. pp. 205-206).
Nel pensiero di Immanuel Kant (1724-1804) la libertà “si presenta come ideale di diritto e ideale di giustizia; essa è, infatti, il fine a cui il diritto è ordinato dalla ragione e che esso attua coordinando le libertà dei singoli in modo che quella di ciascuno […] non leda quella di qualcun altro” (p. 216). Mettendo in primo piano l’autonomia dei soggetti e la loro sfera d’azione, la prospettiva politica di Kant può essere ricondotta ad una forma di liberalismo, che però non pone in secondo piano, come hanno sottolineato alcuni interpreti, l’importanza del rapporto dei soggetti con la comunità. In questo passaggio è opportuno introdurre il concetto di felicità al fine di completare la concatenazione kantiana autonomia – libera volontà – felicità, dove quest’ultima si configura come preferenze individuali e differenziate, che non compongono in alcun modo nessun ethos comune (cfr. pp.216-217).
Con Olympe de Gouges (1748-1793) e la Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne, la libertà non viene solo concettualizzata, ma diventa l’esercizio della libertà di espressione, attraverso l’uso della penna, che attesta, nero su bianco, la forza della parola. Si tratta di una libertà di espressione che assume le vesti di un diritto fondamentale per la possibilità di autodeterminare la propria vita, per gli uomini e, questa la grande rivoluzione per il contesto dell’epoca, per le donne. Tra le pagine dell’opera di de Gouges, libertà e giustizia si stringono, per “restituire tutto quello che appartiene agli altri” (così l’art. IV della Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne), gettando così i presupposti per tematizzare un ulteriore pilastro fondamentale del suo pensiero, ossia l’eguaglianza tra tutti gli esseri umani (cfr. pp. 242-246).
Il tema della libertà rimanda inevitabilmente al suo opposto, la condizione di schiavitù, ampiamente analizzata nel focus dal titolo Schiavitù e colonialismo: il diritto e la “linea del colore” (pp. 253-268). In tale contesto, fondamentali per l’abolizione della schiavitù furono sicuramente le petizioni di libertà, presentate a partire dagli anni Settanta del Settecento da schiavi afro-americani, che si appellavano al principio di libertà come diritto universale propugnato dai rivoluzionari (cfr. p. 262).
Un’accezione differente da quella solita intesa come potere dell’individuo di poter scegliere ciò che più preferisce, consiste nella “libertà situata” di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), secondo cui il soggetto è sempre, appunto, situato e pertanto la sua identità individuale non è prodotta puramente dalla sua iniziativa, ma presuppone degli “orizzonti di senso” che lo trascendono (p. 278).
La libertà costituisce, altresì, la “vera ossessione filosofica e politica” (p. 292) di Alexis de Tocqueville (1805-1859), che la considera un principio a cui il potere politico e la società devono opportunamente ispirarsi (cfr. p. 292).Nello stesso solco si pone John Stuart Mill (1806-1873) secondo il quale alla persona umana appartiene una zona di inviolabilità, che si poggia su tre pilastri: libertà di pensiero, di religione, di espressione; libertà di gusti, ossia di progettare la propria vita secondo il proprio carattere e le proprie inclinazioni; libertà di associazione (cfr. pp. 302-305).
La libertà – di concerto con il pluralismo – è anche uno dei capisaldi della già menzionata Arendt. Più precisamente, una particolare declinazione di libertà è fondamentale per comprendere la sua teoria: il riferimento è alla disobbedienza civile, la quale “si esprime come movimento partecipativo che si pone saldamente nel cuore della società, come una matura e piena espressione dell’impegno politico” (p. 411). Aspetto, questo, che ha precise ripercussioni sugli ordinamenti.
Infine, un riferimento rilevante, seguendo la via della libertà nell’indagare i fenomeni del diritto e i suoi dilemmi, può essere quello a Gustav Radbruch (1878-1949), secondo il quale il diritto individuale consiste nel diritto a fare il proprio dovere e perché questo sia possibile è necessaria, appunto, la libertà. L’ideale di giustizia presuppone quello di libertà e dunque, chi è preposto al ruolo di “fare giustizia” – giudici e giuristi – deve essere dotato del senso della libertà (cfr. pp. 433-439).
Un terzo possibile concetto-chiave del Manuale può essere individuato nel ruolo della religione e nelle sue funzioni in relazione al diritto.
Essa è sicuramente centrale nella prospettiva – fondamentalmente e costitutivamente teologica – di Agostino da Ippona (354-430), secondo il quale la religione era l’unica che potesse “donare un senso profondo e decisivo alla vita umana” (p. 56).
Completamente assorbita nella prospettiva politica, invece, è, paradigmaticamente, la religione nel pensiero di Niccolò Machiavelli, che non la considera un fine, bensì solamente un mezzo tecnico utilizzato per rinvigorire la forza di uno Stato. Per tale ragione, nella sua opera Il Principe, quella cristiana viene nominata solo al fine di criticarla, argomentando che quella latina pagana fosse invece più adatta a sostenere la durata e la grandezza di uno Stato (cfr. p. 116).
Ugo Grozio (1583-1645), dal canto suo, difende l’idea di una religione universale, che si basi sulla rivelazione e la tradizione evangelica, teorizzando così un’unità religiosa dell’umanità, utile ad una duratura pace religiosa (cfr. pp. 121-122). Locke, d’altra parte, sostiene fortemente la libertà religiosa, dal momento che ritiene ragionevolmente che sia impossibile decidere quale sia la vera dottrina da seguire (cfr. p. 156). Più avanti nel tempo sarà Edmund Burke (1729-1797) a affermare il ruolo imprescindibile della fede, come una sorta di ‘mastice’ per tenere unite le credenze condivise, quei manners tanto cari alla classe aristocratica di cui era espressione nonché rappresentante nel Parlamento inglese. Nelle pagine di Burke, la religione si configura spesso come “un’assai nobile riserva di significati condivisi, indispensabili alla fioritura di un popolo; come un retaggio ancestrale ricevuto in eredità dai nostri progenitori, che dà forma alla nostra identità, come un insieme di valori condivisi che rinforzano il senso di un “noi” politico” (p. 223).
Un ultimo concetto-chiave che può mettere a fuoco è quello della Giustizia: per Platone (428/427-348/347 a.C.), giustizia è la virtù della polis in quanto tale, che si realizza nel momento in cui ognuno – filosofi, guerrieri, artigiani e contadini – adempie al proprio ruolo (cfr. p.10).
Collegata indissolubilmente alla fede per Agostino da Ippona (cfr. pp.53-54), con Dante Alighieri (1265-1321), la giustizia prende per mano la Volontà divina, o più precisamente, da quest’ultima dipende: qualsiasi cosa è buona, è giusta, se coerente con tale volontà (cfr. pp.70-75).
Secondo le tesi di Baruch Spinoza (1632-1677), d’altra parte, la giustizia deve necessariamente essere assicurata dal diritto, poiché gli esseri umani non sono naturalmente disposti a farsi guidare dalla ragione (cfr. p. 147); sotto questo aspetto, Kelsen ha sottolineato l’importanza di una giustizia costituzionale, fondamentale anche al fine di proteggere le minoranze (cfr. pp. 374-375).
Seguendo questo asse interpretativo non ci si può non confrontare con l’opposto della giustizia, l'ingiustizia, come si afferma prepotentemente nelle pagine di Friedrich Nietzsche (1844-1900), il quale considera quest'ultima un elemento intrinseco della vita (cfr. pp. 337-338), alla maniera di Trasimaco (p. 337).
In chiusura, le suggestioni che emergono dall’opera di Casadei e Zanetti si rivelano molteplici. I concetti fondamentali che permeano il Manuale sono indubbiamente più numerosi di quelli discussi analiticamente in questo contesto, abbracciando solo a titolo esemplificativo tematiche quali la volontà, l'eguaglianza, la cittadinanza, la felicità e la guerra. Tali temi vengono recepiti da chi studia la materia, anche grazie all’approccio didattico innovativo, che oltre alla lettura del testo, ha dotato gli studenti e le studentesse di mappe concettuali fruibili online. In un contesto educativo in continua evoluzione, l'integrazione di elementi multimediali rappresenta una tappa significativa verso una didattica più coinvolgente e partecipativa. Gli studenti e le studentesse – che sono i principali destinatari di questa opera, sebbene non gli unici – si trovano così al centro del processo di apprendimento, in cui le risorse multimediali si configurano come strumenti dinamici per stimolare la comprensione e la partecipazione attiva.
In definitiva, questo Manuale si presenta come uno strumento didattico che non solo trasmette conoscenze, ma si impegna attivamente nell'arricchire l'esperienza di apprendimento – abbinando strumenti coerenti con i nuovi bisogni educativi alla manualistica classicamente intesa – confermando gli studenti e le studentesse come protagonisti del proprio percorso formativo.
* Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia (claudia.severi@unimore.it)
** Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
Severi Claudia
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