Trasparenza del mercato, tutela del consumatore e green washing
Gabriella Marcatajo*
Trasparenza del mercato, tutela del consumatore
e green washing**
English title: Market transparency, consumer protection and green washing
DOI: 10.26350/18277942_000104
Sommario. 1. Trasparenza del mercato e abuso di fiducia del consumatore: verso il mercato unico sostenibile. - 2. I green claims ed il greenwashing: il marchio di qualità ecologica e l’ecologismo di facciata. - 3. I sistemi di tutela e le pratiche commerciali scorrette. - 4. La Proposta di Direttiva sul Greenwashing. - 5. Obbligo di conformità al contratto e nuovi rimedi a tutela dei consumatori.
1. Trasparenza del mercato ed abuso di fiducia del consumatore: verso il mercato unico sostenibile.
Quello dell’abuso di fiducia dei consumatori costituisce, oggi, il tema centrale nelle politiche di trasparenza e correttezza del mercato. Se il trend normativo europeo, diretto alla costruzione di un mercato unico, si basa, fin dal suo sorgere, su una politica di trasparenza volta a rimuovere le asimmetrie informative nel settore dei contratti business to consumer[1], il passo successivo, strumentale all’ulteriore obiettivo del mercato unico sostenibile, non può che reclamare la verificabilità della correttezza, della veridicità e della completezza delle informazioni ricevute. Da tempo, ormai, l’Unione europea ha ribadito che l’obiettivo della sostenibilità, quale limite intrinseco e parametro di legittimità conformante l’attività economica in una prospettiva personalista di solidarietà intergenerazionale [2], va raggiunto attraverso il coinvolgimento delle forze del mercato[3], chiamando in causa gli strumenti regolatori del diritto privato, primo fra tutti l’informazione[4].
Nell’Agenda 2030 si evidenzia come la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema passi non solo attraverso la riaffermazione delle libertà individuali fondamentali, ma richieda di funzionalizzarle alla promozione dei diritti sociali, coinvolgendo l’intera rete di relazioni tra soggetti e beni[5].
La protezione del consumatore diviene in questa ottica capitolo centrale della politica di sostenibilità ambientale, laddove questa si avvale delle forze del mercato, imprese e consumatori, quali strumenti necessari al raggiungimento dell’obiettivo. Ancora una volta il diritto dei consumatori diviene intraneo a politiche di regolazione del mercato[6] ed, in particolare, alla conformazione del mercato all’obiettivo della sostenibilità[7]. La regolazione del mercato si colora di un nuovo obiettivo e chiama nuovamente il diritto dei consumatori a conformarsi, valorizzando l’informazione come strumento volto ad incoraggiare pratiche sostenibili[8].
L’opzione non esclude a priori la protezione di valori etici sottesi alle scelte di sostenibilità del consumatore, laddove questi sia culturalmente orientato ed educato ad effettuare le sue scelte di consumo in base a ragioni di ordine etico[9], tra le quali rilevano, in particolare, quelle relative al rispetto di standard di impatto ambientale. Un tale sistema virtuoso richiede, tuttavia, che l’informazione possa svolgere correttamente il suo ruolo nell’attivazione delle forze di mercato, per evitare che si verifichi un abuso di fiducia del consumatore. Nella prospettiva del mercato unico sostenibile l’abuso di fiducia del consumatore reclama, allora, strumenti correttivi idonei al ripristino del corretto funzionamento del mercato concorrenziale anche sul piano della sostenibilità[10]. La fiducia del consumatore diviene un valore da proteggere, non in sé, quanto in funzione alle logiche del mercato[11], laddove il suo abuso impedisce che la concorrenzialità si giochi sul piano della sostenibilità. In questa direzione, la previsione di sistemi di certificazione che attestino la verità, la comparabilità e la verificabilità delle informazioni diffuse diviene indispensabile, pur se non bastevole. Il rischio di un surplus informativo che vanifichi il risultato raggiunto, rivoltandosi come un boomerang a danno del consumatore, non è poi così improbabile. L’eccesso di protezionismo informativo finisce, infatti, col tradire, il più delle volte, l’obiettivo iniziale, laddove non sia gestito correttamente, se è vero che il consumatore, travolto da un ammasso di carte da leggere per poi firmare, rinuncerà ad informarsi, compromettendo il suo ruolo di arbitro del mercato. Pur tuttavia, ancor più pericoloso rimane, tutt’oggi, il rischio opposto, di una eccessiva da semplificazione informativa, che tradisca un marketing di facciata perché non sorretto da una politica informativa seria e corretta. L’abuso di fiducia del consumatore si determinerà, infatti, non solo in forza di un surplus ingestibile di informazioni, ma, ancor più surrettiziamente, a causa di slogan stereotipati capaci di nascondere un vuoto sostanziale di tutela. Il consumatore, confidando in delle etichette vuote, orienterà le sue scelte senza alcun idoneo supporto informativo. Una tale situazione si verifica, in particolare, nel mercato dei prodotti verdi dove il marketing ambientale affidato a dichiarazioni stereotipate sembra celare politiche commerciali scorrette, assai pericolose per il raggiungimento degli obbiettivi di sostenibilità perseguiti dal mercato.
Uno dei problemi maggiormente rilevanti oggi nella politica ambientale è quello riguardante la trasparenza del mercato dei prodotti green. Se è vero che il successo di una politica efficiente di sostenibilità ambientale dipende dal mercato e dalle sue forze propulsive, in grado di orientare le scelte dei consumatori verso offerte sostenibili, un ruolo fondamentale in questa partita gioca l’informazione ed il marketing ambientale, i c.d. green claims. Il rischio di un ecologismo di facciata che, dietro il paravento di etichette verdi, attraverso l’uso di formule standard, mascheri un vuoto di tutela, è alle porte. In altri termini, alto è il rischio che la sostenibilità divenga per le aziende una semplice strategia di marketing. L’attenzione deve ricadere, allora, sul problema della verificabilità o, meglio, della certificazione delle informazioni fornite, piuttosto che sul loro numero. A divenire centrale in una politica di informazione seria ed efficace è cioè la qualità, non anche la quantità delle informazioni diffuse. In ambito di marketing ambientale, come cercheremo di dimostrare, quel che rileva in termini di ingannevolezza del messaggio pubblicitario, non è tanto la veridicità dell’informazione in sé, quanto piuttosto la precisione. L’informazione, se anche vera, ma vaga e generica, è capace di disorientare le scelte del consumatore, compromettendo gravemente l’obiettivo della sostenibilità. Il fenomeno, noto come green washing o ecologismo di facciata, come vedremo, si pone in una prospettiva peculiare rispetto al tema generale della pubblicità ingannevole, pone domande diverse e reclama risposte diverse. Nel mercato dei prodotti green il consumatore non è in grado di comprendere i termini della comparazione, non essendoci gli strumenti adatti per certificare in modo uniforme le caratteristiche in competizione in termini di impatto ambientale. La difficoltà consiste nell’assenza di parametri certi e verificabili da parte del consumatore per misurare realmente l’impatto ambientale di un prodotto rispetto a quelli concorrenti. Da qui la necessità di una normativa ad hoc, capace di cogliere le specificità del marketing ambientale e del c.d. green washing rispetto alla pubblicità ingannevole in generale. In questa direzione sembrano muoversi, peraltro, le recenti iniziative della Commissione europea. In particolare, la Risoluzione 2020/2021 del 25 novembre 2020, sul tema “verso un mercato unico più sostenibile per le imprese ed i consumatori”[12] e la proposta di Direttiva che modifica le direttive 2005/29/CE e 2011/83/UE, per quanto riguarda la responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell'informazione.
Le riflessioni che seguono, pertanto, muovendo da quell'opzione ermeneutica che ravvisa nella tutela della trasparenza il filo conduttore che lega i molteplici interventi comunitari a tutela del consumatore[13], individuano nel mercato dei prodotti verdi, un settore a rischio di un marketing fuorviante, in grado di compromettere il ruolo del mercato nella politica di sostenibilità ambientale. Che sia possibile una ricostruzione unitaria della normativa consumeristica in termini di tutela della trasparenza lo si può facilmente dedurre, senza voler entrare tuttavia nel merito della questione, alla luce di quella che concordemente viene individuata come una delle principali ragioni degli interventi comunitari.
È ormai fin troppo noto che la politica consumeristica debba essere inquadrata nella prospettiva di creazione del mercato unico[14], sia in quanto capitolo decisivo del processo di ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri, in un’ottica di uniformazione delle «regole del gioco»[15], sia quale misura di accompagnamento della politica economica, in grado di introdurre meccanismi correttori di fronte alle insufficienze, alle lacune e agli squilibri cui il mercato può andare soggetto[16]. Ora è evidente che perché il sistema concorrenziale garantisca una effettiva sostenibilità a tutela del consumatore è necessario che quest'ultimo sia in grado di valutare e comparare le diverse offerte presenti sul mercato. L'effettività della tutela viene a dipendere cioè dal livello di informazione e di istruzione dei consumatori[17]. Le potenzialità protettive del mercato presuppongono il suo effettivo ripristino e, dunque, una preventiva opera di educazione e di informazione dei suoi utenti, quale premessa indispensabile per il suo corretto operare. Certo, un'analisi che voglia essere realistica induce ad essere cauti al riguardo. Attualmente bisogna prendere atto, almeno per quel che riguarda l'esperienza italiana, che il consumatore comincia ad essere recettivo dinanzi a campagne pubblicitarie svolte su questo piano. Viene in rilievo l’emersione nel mercato del fenomeno del consumo etico, che negli ultimi anni sembra cresciuto a tal punto da indurre gli operatori commerciali ad orientare le scelte di produzione sulla base dell’impatto sociale ed ecologico della propria attività. Cresce cioè il numero di consumatori, definiti consumatori etici, quali portatori di interessi complessi che trascendono i meri bisogni materiali della “nuda vita”, per i quali l’ atto di consumo è un atto assiologico e deve rispondere a determinate considerazioni etiche come quelle del rispetto di determinati standard di protezione ambientale, sulla base della convinzione che le loro scelte individuali di acquisto possano contribuire ad un mercato più giusto ed equo, disposti per questo a pagare anche un prezzo più alto per avere beni che assicurino questa corrispondenza[18]. Il percorso tracciato dal legislatore euro unitario accorda probabilmente eccessiva fiducia nelle capacità taumaturgiche del mercato e potrebbe risultare forse eccessivamente ottimista, ma segue comunque una linea coerente[19]. La tutela del consumatore deve passare cioè attraverso il ripristino del mercato, divenendo al contempo funzione ed effetto della tutela del mercato[20]. Se questa è la ratio degli interventi comunitari a protezione del consumatore, è evidente il rischio di una informazione fuorviante per il successo della politica consumeristica, laddove un marketing di facciata sia in grado di vanificare gli obiettivi di tutela, compromettendo il ruolo del consumatore quale arbitro del mercato. In quest’ottica particolarmente delicato è il settore dei prodotti green ed il ruolo dei c.d. green claims.
2. I green claims, il marchio di qualità ecologica e l’ecologismo di facciata
Per “green claims” o “environmental claims” si intendono nel lessico giuridico le affermazioni volte a creare nel consumatore la convinzione che il prodotto, il servizio o anche solo l’imballaggio offerto producano un ridotto impatto ambientale rispetto a prodotti o servizi concorrenti. Sulla stessa linea si collocano i c.d. marchi verdi, come “biodegradabile”, “ecosostenibile”, “ecocompatibile”, “a ridotto impatto ambientale”, “eco friendly”, i quali attirano la scelta del consumatore, in quanto diretti a suggerire in lui l’impressione che i prodotti dagli stessi contrassegnati siano caratterizzati da un alto livello di sostenibilità ambientale[21]. In tal modo, tanto i green claims, quanto i marchi verdi, saranno in grado di condizionare il mercato, influenzando le scelte del consumatore nella direzione dagli stessi indicata, verso acquisti reputati, in base a quelle informazioni, maggiormente sostenibili.
Il ruolo giocato dai green claims diviene, quindi, fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità ambientale, se è vero che questi richiedono il coinvolgimento del mercato e delle sue forze propulsive. Una tale esigenza è stata avvertita dalle autorità competenti europee che, sin dai primi passi mossi nella elaborazione delle politiche ambientali, hanno sottolineato l’importanza del ruolo svolto dal mercato[22] e la necessità di garantire che i green claims siano veritieri, affidabili, verificabili e comparabili, al fine di evitare che si determini il fenomeno noto come greenwashing ovvero del marketing fuorviante[23]. Per greenwashing, termine che letteralmente andrebbe tradotto come “lavaggio in verde” e, il cui significato attuale è “sostenibilità di facciata”, si intende generalmente la pratica di comunicare all’utente, in modo non veritiero o fuorviante, caratteristiche ambientali o sostenibili di prodotti o servizi in realtà inesistenti o non esattamente corrispondenti alla descrizione fatta[24]. L’origine della parola greenwashing, si fa risalire, notoriamente, all’ambientalista statunitense Jay Westerveld, che nel 1986, utilizzò questo termine per descrivere criticamente il comportamento proprio di alcune catene alberghiere. In particolare, alcune catene alberghiere per indurre i clienti a ridurre al minimo il consumo di asciugamani, puntavano pretestuosamente sull’impatto ambientale del lavaggio della biancheria, quando invece le reali motivazioni sottese a tale esortazione erano per lo più di natura economica. In un articolo comparso negli anni Novanta su “Home and Family”, Westerveld descriveva la pratica del greenwashing, richiamando le seguenti caratteristiche: 1) omessa informazione, cioè le aziende fanno leva su aspetti dei prodotti apparentemente sostenibili, e sebbene non dichiarino il falso, omettono di fornire informazioni utili a rilevare l’impatto ambientale di tali prodotti; 2) assenza di prove, ossia i professionisti affermano che un prodotto è green in mancanza di informazioni che possono essere sostenute da chiare evidenze o certificazioni credibili di terze parti; 3) affermazioni approssimative, cioè poco definite o talmente vaghe che il loro significato viene probabilmente equivocato dai consumatori; 4) attribuzione di caratteristiche non esclusive per il prodotto pubblicizzato, bensì valide per l’intera categoria dei prodotti; 5) affermazioni ambientaliste false[25]. Una tale pratica si è rivelata sin da subito un pericoloso ostacolo al raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità ambientale. L’Unione europea ha, quindi, promosso piani di azione volti a coinvolgere imprese e consumatori nel raggiungimento di obiettivi di salvaguardia ambientale, attraverso diversi strumenti. Si è stabilito, così, nel 2011, con “La Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse”, l’obiettivo per il 2020 di: “incoraggiare adeguatamente i cittadini e le autorità pubbliche a scegliere i prodotti più efficienti dal punto di vista delle risorse, grazie a segnali di prezzo corretti e informazioni chiare in materia ambientale”[26]. In tal senso i consumatori avrebbero dovuto essere indirizzati verso le scelte realmente sostenibili, attraverso una seria politica di informazione. Il coinvolgimento del mercato nella battaglia per la sostenibilità ambientale viene a fondarsi, per un verso, sulla previsione di incentivi a favore delle imprese sostenibili e la diffusione dei green claims per premiare la produzione sostenibile, per altro verso, sulla statuizione di regole dirette a garantire la trasparenza e la correttezza del mercato. La trasparenza del mercato dei prodotti verdi richiederà, pertanto, di verificare l’affidabilità dei green claimsper evitare che gli stessi diventino fattori distorsivi della concorrenza, compromettendo la reale competitività del mercato. La veridicità, comparabilità e verificabilità delle dichiarazioni ambientali diviene, quindi, l’obiettivo primario del legislatore europeo e nazionale nella costruzione di una politica ambientale orientata alla sostenibilità. A questo fine si rendono “necessari strumenti efficaci per proteggerli da informazioni sull’ambiente e sulla salute fuorvianti e infondate”. In quest’ottica, risultano vietate, per esempio, tutte le affermazioni vaghe e generiche o quelle che, ingannando il consumatore, sono volte a suggerire in lui la falsa impressione che quel prodotto sia il solo a possedere quei requisiti di sostenibilità, a dispetto dei prodotti concorrenti. Il ruolo svolto dalle informazioni verso decisioni più sostenibili, sarà efficacemente svolto, solo nella misura in cui le informazioni siano affidabili, comparabili e verificabili, neutralizzando il rischio del c.d. “greenwashing”. Diversamente, il coinvolgimento del mercato nella battaglia della sostenibilità ambientale non potrà che rivelarsi fallimentare. Il quadro normativo euro-unitario ha così previsto un sistema diretto a proteggere i consumatori da dichiarazioni non veritiere, non affidabili, non verificabili e non comparabili, attraverso la statuizione di precise regole, rigorosi divieti e la previsione di sistemi di certificazione in grado di garantire la veridicità dei green claims. In questa direzione si colloca innanzitutto il marchio di qualità ecologica. Con il Regolamento (CE) n. 66/2010 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2009, relativo al marchio di qualità ecologica dell'Unione europea (Ecolabel UE) vengono stabilite le norme per l'istituzione e l'applicazione del sistema del marchio di qualità ecologica dell'Unione europea (Ecolabel UE), a partecipazione volontaria. (art. 1). Secondo il considerando 5: “Il sistema del marchio Ecolabel UE si inserisce nella politica comunitaria relativa al consumo e alla produzione sostenibili, il cui obiettivo è ridurre gli impatti negativi del consumo e della produzione sull'ambiente, sulla salute, sul clima e sulle risorse naturali. Il sistema è inteso a promuovere, attraverso l'uso del marchio Ecolabel UE, i prodotti che presentano elevate prestazioni ambientali. A tal fine, è opportuno prescrivere che i criteri ai quali i prodotti devono conformarsi per potersi dotare del marchio Ecolabel UE siano basati sulle migliori prestazioni ambientali ottenute dai prodotti nel mercato comunitario. Tali criteri dovrebbero essere semplici da capire e da applicare ed essere basati su dati scientifici che tengano conto degli sviluppi tecnologici più recenti. Essi dovrebbero essere orientati al mercato e limitarsi agli impatti ambientali più significativi dei prodotti durante il loro intero ciclo di vita”[27]. In base all’art. 6 i criteri del marchio Ecolabel UE sono basati sulla prestazione ambientale dei prodotti, tenendo conto dei più recenti obiettivi strategici della Comunità in ambito ambientale. Essi definiscono i requisiti ambientali che un prodotto deve rispettare per potersi dotare del marchio, sono determinati su base scientifica e considerando l'intero ciclo di vita dei prodotti”[28]. Nella medesima prospettiva si collocano i provvedimenti relativi al settore energetico e le informazioni concernenti il relativo consumo di energia[29]. |
In questa direzione la Risoluzione 2020/2021 (INI) al punto 6, “Diritti dei consumatori e lotta alla obsolescenza programmata”, invita la Commissione a mettere a punto una “strategia di ampia portata che prevede misure che differenzino le categorie di prodotti e tengano conto dell’evoluzioni tecnologiche e del mercato, al fine di sostenere le imprese e promuovere modelli di produzione e di consumo sostenibili”, e stabilisce, alla lettera c, che tale strategia includa misure volte a “rafforzare il ruolo del marchio di qualità ecologica dell’UE al fine di aumentarne l’utilizzo da parte dell’industria e sensibilizzare i consumatori”. Occorre, dunque, verificare se, per quanto riguarda l’ordinamento italiano, il sistema offra strumenti sufficienti ed efficaci per realizzare una politica di informazione trasparente e corretta, aggirando il rischio di un marketing di facciata, in grado di compromettere gli obiettivi di tutela. Per quanto riguarda il sistema italiano, sulla scia di quello euro - unitario, duplice appare la linea di intervento seguita dal legislatore, da una parte la tutela dalle pratiche commerciali scorrette, dall’altra, come vedremo, quella dell’obbligo di conformità al contratto.
3. I sistemi di tutela e le pratiche commerciali scorrette
L’informazione ambientale fuorviante o green washing costituirà, innanzitutto, pratica commerciale scorretta. Ebbene, quanto alla disciplina delle pratiche commerciali scorrette, l’attuale quadro normativo è dato dalla normativa contenuta nel codice del consumo, che ha recepito la direttiva 2005/29[30], così come modificata dalla direttiva 2019/2101 CE[31] che ha introdotto un nuovo art. 11 bis sui rimedi individuali[32] ed il codice di autodisciplina pubblicitario che si colloca tra le iniziative autodisciplinari promosse nell’ambito International Organization for Standardization (ISO)[33]. A partire dal 2014, il codice contiene una disciplina specifica per i green claims. L'art.12 del CA prevede che “La comunicazione commerciale che dichiara o evoca benefici ambientali o ecologici deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell'attività pubblicizzata si riferiscono le prestazioni dichiarate. Si tratta di una norma volta a proteggere i consumatori green dal pericolo di messaggi fuorvianti, perché ambigui, poco chiari o troppo generici o comunque non verificabili. I consumatori, per poter svolgere correttamente il loro ruolo di arbitri del mercato dei prodotti green, dovranno essere in grado di comparare le diverse offerte del mercato, sulla base di dati veritieri, chiari ed affidabili. Gli stessi consumatori, proprio perché particolarmente sensibili ai temi della sostenibilità ambientale, vengono tutelati cioè dal rischio di essere indotti a scegliere un prodotto etichettato come ecologico o green o a impatto zero, sulla base di caratteristiche inesistenti o esistenti in quantità minime o comunque presenti in tutti i prodotti della stessa tipologia. Lo scopo della norma, in sostanza, è quello di far sì che la diffusione e pubblicizzazione di politiche di investimento ambientale promosse dalle imprese avvenga in modo chiaro e trasparente, proteggendo il consumatore da messaggi fuorvianti[34]. In quest'ottica, in Italia, la Giuria ha più volte giudicato ingannevoli, ai sensi dell'art.12 CA, diverse campagne pubblicitarie, volte a valorizzare i benefici ambientali di prodotti ingiustamente presentati come green. Le pronunce dimostrano, chiaramente, la linea seguita dagli organi di autodisciplina nel perseguire l’ingannevolezza dei messaggi pubblicitari diretti a promuovere le campagne di sostenibilità ambientale, minacciando la correttezza e la trasparenza del mercato. Vanno bandite le informazioni green, laddove generiche, vaghe, inutilmente denigratorie, impropriamente comparative o volte ad ingenerare la falsa convinzione dell’esclusività di una determinata proprietà benefica in termini di sostenibilità. Vanno, dunque, ritenute affidabili le informazioni fondate su dati certi, concreti, veritieri, dimostrabili, verificabili e comparabili[35].
Quanto al codice di consumo, l’ Articolo 6 della Direttiva 2005/29 CE, riguardante le pratiche commerciali scorrette nei rapporti tra professionista e consumatore, definisce come pratica commerciale ingannevole: “una pratica commerciale che contenga informazioni false e sia pertanto non veritiera o in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, inganni o possa ingannare il consumatore medio, anche se l’informazione è di fatto corretta, riguardo a uno o più dei seguenti elementi e in ogni caso lo induca o sia idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”. Com’ è noto, le pratiche commerciali sleali falsano il comportamento economico del consumatore, determinando il fallimento del mercato. La distorsione delle scelte economiche del consumatore provoca, infatti, distorsioni della concorrenza e, il professionista che agisce in modo sleale sottrae opportunità commerciali ai concorrenti che rispettano le regole[36]. Attualmente non è prevista una disposizione specifica relativa alle informazioni ambientali, c.d. green claims, ma dottrina e giurisprudenza sono sempre state concordi nell’estendere la disciplina ivi prevista per le informazioni pubblicitarie anche a quelle ambientali, laddove queste presentino i requisiti di ingannevolezza ivi previsti[37]. La direttiva è stata, quindi, applicata anche ai green claims, al fine di vietare ai professionisti l’uso di asserzioni ambientali in modo sleale per i consumatori. Sulla base dei principi formulati, in particolare, dagli articoli 6 e 7[38], l’uso di “dichiarazioni ecologiche”, non viene scoraggiato, ma piuttosto si incentivano i professionisti ad investire nelle prestazioni ambientali dei prodotti in maniera leale e corretta, vietando ai concorrenti di presentare asserzioni ambientali ingannevoli. In tal modo i professionisti sono tenuti a presentare le loro dichiarazioni ecologiche in modo chiaro, specifico, accurato ed inequivocabile, al fine di assicurare che i consumatori non siano indotti in errore. Ai sensi dell’articolo 12 della direttiva, i professionisti dovrebbero disporre di prove a sostegno delle loro dichiarazioni, in caso di contestazione ed essere pronti a fornirle alle autorità di vigilanza competenti in modo comprensibile[39].
In questa direzione, al fine di agevolare comportamenti conformi alla Direttiva, nel 2012 la Commissione europea ha costituito un Gruppo multilaterale sulle asserzioni ambientali[40], il cui obiettivo è quello di proteggere i consumatori da affermazioni ambientali fuorvianti e sostenere la fornitura di informazioni pertinenti e credibili a tutela, sia dei consumatori, che delle imprese. Scopo dell’iniziativa è quello di aggirare il rischio di greenwashing e di proteggere la concorrenza leale delle imprese nel mercato green, facilitando le imprese nel proposito di comunicare al mercato gli investimenti compiuti a tutela dell’ambiente. Il Gruppo, nel 2013, ha presentato un Report sulle diverse problematiche esistenti nei diversi contesti nazionali, dove si è rilevato il problema delle certificazioni e la mancanza di una comune metodologia per la misurazione delle prestazioni ambientali, relativamente ai prodotti o alle organizzazioni[41]. Successivamente, nel 2016 è stata redatta una Guida dai Sevizi della Commissione per l’attuazione della Direttiva 2005/29/CE. Sulla base di tale Guida, viene stabilito che, in base agli articoli 6 e 7, i professionisti hanno l’obbligo di presentare le dichiarazioni ecologiche in modo chiaro, specifico, accurato e inequivocabile, per fare in modo che i consumatori non siano indotti in errore. Vengono così reputate ingannevoli tutte le informazioni ambientali fondate su indicazioni di benefici ambientali vaghi o generici, come ad esempio “amico dell’ambiente” o a “basso impatto ambientale”. Le asserzioni ambientali devono fornire, quindi, informazioni puntuali riguardo alla natura e alle caratteristiche principali del prodotto, a qualsiasi dichiarazione o simbolo riportato su di esso, al prezzo o al modo in cui è stato calcolato e, in ultimo rispetto alla necessità di manutenzione, ricambio, sostituzione o riparazione. Altresì, viene considerata ingannevole un’asserzione ambientale che ometta di fornire informazioni fondamentali di cui il consumatore medio necessita per prendere una decisione consapevole di natura commerciale, ad esempio, procurando in modo ambiguo le informazioni relative alle caratteristiche principali del prodotto. In base al disposto dell’art. 12, i professionisti devono disporre di prove a sostegno delle loro dichiarazioni ed essere pronti a concederle alle autorità di vigilanza competenti, qualora le stesse siano state contestate. L’onere della prova spetta al professionista, il quale per dimostrare l’esattezza delle asserzioni ambientali è tenuto a dare prove, non soltanto attendibili e generalmente riconosciute, ma anche che tengano conto dei metodi e dei risultati scientifici più recenti.
Sulla base delle disciplina attualmente in vigore può, quindi, affermarsi che i green claims saranno giudicati ingannevoli laddove contenenti informazioni false e siano pertanto non veritieri o in qualsiasi modo, anche nella loro presentazione complessiva, ingannino o possano ingannare il consumatore medio, anche se l’informazione sia di fatto corretta, riguardo a uno o più degli elementi elencati e in ogni caso lo inducano o siano idonei a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso. In questa direzione sembrano muoversi i più noti interventi in tema di green washing[42]. In Italia la prima sentenza in tema di greenwashing è quella pronunciata il 25 novembre 2021 dal Tribunale di Gorizia[43] che ha accolto, con ordinanza cautelare, il ricorso d’urgenza presentato da Alcantara S.p.A. nei confronti del competitor Miko S.r.l. in materia di greenwashing. Dopo diversi interventi promulgati dal Giurì di Autodisciplina Pubblicitaria e dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, i giudici hanno accolto il ricorso presentato da Alcantara, brand italiano specializzato in tessuti ad alto contenuto tecnologico per il rivestimento di autoveicoli, contro l’azienda Miko, che opera nel medesimo settore e realizza un rivestimento concorrente. I claims ambientali contestati da Alcantara “la prima microfibra sostenibile e riciclabile”, “100% riciclabile”, “amica dell’ambiente”, “scelta naturale” e “microfibra ecologica” costituirebbero pratiche scorrette in quanto fondati su assunti non veritieri, trovando smentita nella stessa composizione e derivazione del tessuto, atteso che risulta difficile supporre che possa essere considerata una “fibra naturale”. Analogamente per quanto riguarda il messaggio relativo alla riciclabilità totale (100%) del tessuto al termine del ciclo di utilizzazione e di coloranti naturali, trattandosi, secondo l’accusa, di informazione non verificata né verificabile. Il tribunale di Gorizia, dopo aver affermato che “la sensibilità verso i problemi ambientali è oggi molto elevata e le virtù ecologiche decantate da un’impresa o da un prodotto possono influenzare le scelte di acquisto del consumatore”, ha precisato che le dichiarazioni ambientali “verdi” devono essere caratterizzate da chiarezza, veridicità e accuratezza. Infatti, secondo studi dell’Unione Europea, la metà dei consumatori controlla le informazioni presenti sulla confezione per sapere se il prodotto sia ecologico o meno e gran parte di essi ha difficoltà a capire quali prodotti sono veramente eco-friendly. Le etichette ambientali non devono, quindi, essere fuorvianti, per assicurare ai consumatori una corretta comunicazione ambientale. Si richiama, pertanto, l’art. 169 TFUE: il quale prevede che «al fine di promuovere gli interessi dei consumatori ed assicurare un livello elevato di protezione dei consumatori, l’Unione contribuisce a tutelare la salute, la sicurezza e gli interessi economici dei consumatori nonché a promuovere il loro diritto all’informazione, all’educazione e all’organizzazione per la salvaguardia dei propri interessi». Si menzionano, poi, l’art. 12 TFUE, secondo il quale l’Unione, nel definire ed attuare altre politiche o attività deve sempre tenere in considerazione le esigenze connesse alla tutela dei consumatori; e l’art. 38 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la quale ribadisce la protezione dei consumatori accordata dall’UE, affermando che nelle politiche europee deve essere garantito sempre il massimo livello di protezione degli individui. Muovendo dall’assunto secondo cui una pubblicità ingannevole, “è un messaggio promozionale idoneo ad alterare apprezzabilmente le decisioni commerciali dei consumatori a cui è rivolto, facendogli assumere un comportamento che altrimenti, non avrebbe tenuto, o avrebbe assunto con condizioni diverse”, secondo il tribunale, un concetto fondamentale per valutare la pubblicità è l’effetto aggancio" sul consumatore[44]. Con riferimento specifico alla pubblicità “ambientale”, il tribunale sottolinea come la giurisprudenza autodisciplinare ritiene che questa possa fare riferimento implicitamente o esplicitamente: alla relazione tra prodotto e ambiente; alla promozione di uno stile di vita eco-compatibile, alla presentazione di un'immagine aziendale caratterizzata dall'impegno ambientale. E ciò, mediante l'utilizzo di dichiarazioni ambientali “verdi” che devono essere chiare, veritiere, accurate e non fuorvianti, basate su dati scientifici presentati in modo comprensibile. Sulla base di queste premesse il Tribunale ha riconosciuto la genericità dei messaggi ambientali utilizzati per il prodotto “Dinamica” , ordinato a Miko di astenersi dalla diffusione diretta e indiretta dei messaggi pubblicitari contestati osservando come, ai sensi del disposto dell’art. 6 c.a., “chiunque si avvale della comunicazione commerciale deve essere in grado di dimostrare, a richiesta del Giurì o del Comitato di Controllo, la veridicità dei dati, delle descrizioni, affermazioni, illustrazioni e la consistenza delle testimonianze usate” e che la chiarezza, la veridicità e l’accuratezza scientifica sono i principi alla base di una comunicazione ambientale corretta (art. 12 del c.a).
In definitiva, relativamente ai prodotti green il rischio rimane, pur sempre, quello di abusare della fiducia dei consumatori nelle informazioni contenute nelle c.d. "etichette verdi", laddove queste non soddisfino i requisiti legali di affidabilità, completezza, veridicità e chiarezza. Lo stesso Green Deal, pubblicato dalla Commissione nel 2019, afferma che "le informazioni, purché affidabili, comparabili e verificabili, svolgono un ruolo importante nel consentire agli acquirenti di prendere decisioni più sostenibili, riducendo il rischio di marketing ambientale fuorviante"[45]. Il funzionamento ed il successo del mercato green presuppone, chiaramente, una politica strumentale svolta attraverso una politica di educazione del consumatore, orientandolo verso scelte green che siano realmente consapevoli, perché fondate su dati veritieri. Perché un tale risultato si raggiunga è necessario, quindi, che i sistemi di verificabilità delle informazioni siano certi, omogenei ed affidabili. Il problema si traduce, allora, in quello dell’attendibilità e dell’uniformità dei sistemi di certificazione. Questione centrale diviene, dunque, quella relativa alla mancata o non completa uniformazione dei sistemi di certificazione. In Europa sono stati adottati, infatti, diversi sistemi di certificazione che compromettono la concorrenzialità del mercato dei prodotti verdi. Attualmente se ne contano 457. È evidente, allora, come in questo contesto il mercato dei prodotti verdi, difficilmente potrà essere concorrenziale. Il vero problema sta, quindi, nell’efficienza degli strumenti di politica di informazione ambientale ed appare, in sostanza, quello dei sistemi di verificabilità delle informazioni ambientali. Manca ancora una completa armonizzazione delle metodologie che si reputano necessarie a suffragare l’esistenza di specifici vantaggi ambientali. In questa direzione la Commissione europea ha avviato una serie di iniziative dirette a promuovere l’adozione di un sistema unico di certificazione armonizzato, incoraggiando le autorità nazionali ad adottarlo[46].
4. La Proposta di Direttiva sul Greenwashing
Ebbene, tali risultati trovano, oggi, forma compiuta, in una modifica diretta della direttiva 2005/29. Lo scorso 30 marzo, la Commissione europea ha emanato una nuova Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, che modifica le direttive 2005/29/ce e 2011/83/UE, per quanto riguarda la responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell'informazione. La proposta, si legge nella relazione, “mira a rafforzare i diritti dei consumatori modificando due direttive che ne tutelano gli interessi a livello di Unione: la direttiva sulle pratiche commerciali sleali (direttiva 2005/29/CE) e la direttiva sui diritti dei consumatori (direttiva 2011/83/UE) 2. Più specificamente la proposta mira a contribuire a un'economia dell'UE circolare, pulita e verde, consentendo ai consumatori di prendere decisioni di acquisto consapevoli e, quindi, contribuire a una maggiore sostenibilità dei consumi. Mira altresì a contrastare le pratiche commerciali sleali che distolgono i consumatori da scelte di consumo sostenibili. Migliora infine la qualità e la coerenza dell'applicazione delle norme dell'UE in materia di tutela dei consumatori”. Si tratta di una delle iniziative previste nella nuova agenda dei consumatori e nel piano d’azione per l’economia circolare, che dà seguito al Green Deal europeo. Dare ai consumatori la possibilità di scegliere e offrire loro soluzioni meno onerose, si afferma, “è un elemento centrale del quadro strategico in materia di prodotti sostenibili. In questa direzione la Commissione ha considerato opportuno introdurre nella normativa dell'Unione in materia di tutela dei consumatori norme specifiche volte a contrastare le pratiche commerciali sleali, che impediscano ai consumatori di compiere scelte di consumo sostenibili, quali le pratiche associate all'obsolescenza precoce dei beni, le dichiarazioni ambientali ingannevoli (“greenwashing”), i marchi di sostenibilità o gli strumenti di informazione sulla sostenibilità non trasparenti e non credibili. La garanzia che le dichiarazioni ambientali siano eque permetterà ai consumatori di scegliere prodotti che siano effettivamente migliori per l'ambiente rispetto ai prodotti concorrenti. Sarà così incoraggiata la concorrenza spingendo verso prodotti più ecosostenibili, con conseguente riduzione dell'impatto negativo sull'ambiente. (Considerando1). In particolare, le nuove norme vengono introdotte, sia mediante modifica degli articoli 6 e 7 della direttiva 2005/29/CE, relativi alle pratiche commerciali che, in base a una valutazione delle circostanze del caso, sono da ritenersi ingannevoli e quindi vietate, sia mediante modifica dell'allegato I della stessa direttiva, con l'aggiunta di pratiche ingannevoli specifiche da considerarsi sleali in ogni caso e quindi vietate. (Considerando 2). Al fine di dissuadere i professionisti dall'ingannare il consumatore per quanto concerne l'impatto ambientale, viene proposta poi la modifica dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2005/29/CE, aggiungendo l'impatto ambientale o sociale, all'elenco delle caratteristiche principali del prodotto rispetto alle quali le pratiche del professionista possono essere considerate ingannevoli in base a una valutazione delle circostanze del caso. (Considerando 3). Si precisa, inoltre, al considerando 4, che le dichiarazioni ambientali, in particolare quelle relative al clima, fanno riferimento alle prestazioni future ai fini della transizione alla neutralità in termini di emissioni di carbonio o alla neutralità climatica oppure di un obiettivo analogo, entro una determinata data, dando l'impressione che acquistando i loro prodotti i consumatori contribuiscano a un'economia a basse emissioni di carbonio. Pertanto, ai fini dell'equità e della credibilità di tali dichiarazioni, viene modificato l'articolo 6, paragrafo 2, della direttiva 2005/29/CE, vietando quelle che “in base a una valutazione delle circostanze del caso, non risultano corroborate da impegni e obiettivi chiari, oggettivi e verificabili fissati dal professionista.
Viene poi aggiunta alle pratiche specifiche oggetto dell'articolo 6, paragrafo 2, della direttiva 2005/29/CE, un'altra pratica commerciale potenzialmente ingannevole, “quella di pubblicizzare come vantaggi per i consumatori caratteristiche che sono in realtà pratica comune nel mercato rilevante. Inoltre, si prende atto che tra le tecniche di marketing più diffuse, v’è il raffronto dei prodotti in base ai rispettivi aspetti ambientali o sociali, anche attraverso l'impiego di strumenti di informazione sulla sostenibilità. Affinché il raffronto non inganni il consumatore, recita il 6 considerando, “è opportuno modificare l'articolo 7 della direttiva 2005/29/CE per imporre che al consumatore siano fornite informazioni sul metodo di comparazione, sui prodotti raffrontati e sui fornitori di tali prodotti, così come sulle misure predisposte per tenere aggiornate le informazioni. I consumatori dovrebbero così essere messi in grado di prendere decisioni di natura commerciale più consapevoli quando utilizzano tali servizi. Il raffronto dovrebbe essere oggettivo, in particolare grazie alla comparazione di prodotti che svolgono la medesima funzione, all'impiego di un metodo comune e di assunti comuni e al raffronto fra caratteristiche rilevanti e verificabili dei prodotti.
Quando all’esibizione di marchi di sostenibilità, vengono vietati laddove non basati su un sistema di certificazione, trasparente e credibile o non stabiliti da autorità pubbliche includendo tali pratiche nell'elenco di cui all'allegato I della direttiva 2005/29/CE. Nei casi in cui l'esibizione di un marchio di sostenibilità comporti una comunicazione commerciale che suggerisca o dia l'impressione che il prodotto abbia un impatto positivo o nullo sull'ambiente oppure sia meno dannoso per l'ambiente rispetto ai prodotti concorrenti, anche tale marchio di sostenibilità deve essere considerato una dichiarazione ambientale. Il considerando 9 prevede, ancora, il divieto di dichiarazioni ambientali generiche in assenza di un'eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali pertinenti alla dichiarazione, con la modifica dell’allegato I della direttiva 2005/29/CE. Vengono indicati come esempi di dichiarazioni ambientali generiche: "rispettoso dell'ambiente", "ecocompatibile", "eco", "verde", "amico della natura", "ecologico", "rispettoso dal punto di vista ambientale", "rispettoso dal punto di vista del clima", "che salvaguarda l'ambiente", "rispettoso in termini di emissioni di carbonio", "neutrale in termini di emissioni di carbonio", "positivo in termini di emissioni di carbonio", "neutrale dal punto di vista climatico", "efficiente sotto il profilo energetico", "biodegradabile", "a base biologica" o asserzioni analoghe, oltre alle asserzioni più ampie quali "consapevole" o "responsabile" che suggeriscono o danno l'impressione di un'eccellenza delle prestazioni ambientali. Tali dichiarazioni ambientali generiche, si precisa, dovrebbero essere vietate laddove non venga dimostrata l'eccellenza delle prestazioni ambientali o se la specificazione della dichiarazione non sia fornita in termini chiari ed evidenti tramite lo stesso mezzo, quale il medesimo annuncio pubblicitario, la confezione del prodotto o l'interfaccia di vendita online. Ad esempio, si precisa, “l'asserzione "biodegradabile" riferita a un dato prodotto sarebbe una dichiarazione generica, mentre affermare che "l'imballaggio è biodegradabile mediante compostaggio domestico entro un mese" sarebbe una dichiarazione specifica non soggetta a questo divieto”. L'eccellenza delle prestazioni ambientali dovrà, pertanto, essere dimostrata mediante la conformità al regolamento (CE) n. 66/2010 del Parlamento europeo e del Consiglio 22 o a un sistema di assegnazione di marchi di qualità ecologica riconosciuto ufficialmente negli Stati membri o alle migliori prestazioni ambientali per un aspetto ambientale specifico in conformità di altre normative dell'Unione applicabili, quali una classe A, ai sensi del regolamento (UE) 2017/1369 del Parlamento europeo e del Consiglio 23. Le prestazioni ambientali d'eccellenza dovrebbero essere rilevanti ai fini della dichiarazione.
Un'ulteriore pratica commerciale ingannevole che dovrebbe essere vietata in ogni caso e, quindi, aggiunta all'elenco di cui all'allegato I della direttiva 2005/29/CE, è “quella di formulare una dichiarazione ambientale concernente il prodotto nel suo complesso quando in realtà riguarda soltanto un determinato aspetto[47]. Ulteriori requisiti sulle dichiarazioni ambientali dovranno poi essere stabiliti in normative specifiche dell'Unione. Tali requisiti nuovi contribuiranno all'obiettivo del Green Deal 25 di consentire agli acquirenti di prendere decisioni più sostenibili e ridurre il rischio di greenwashing attraverso informazioni attendibili, comparabili e verificabili. Le modalità attraverso cui queste informazioni guidano i consumatori verso scelte d’acquisto sostenibili potrebbero essere inserite sulla confezione oppure nella descrizione del prodotto nel rispettivo sito web. In ogni caso, tali dati devono essere somministrati in modo chiaro e comprensibile, prima dell’acquisto[48].
Viene così previsto un potenziamento della protezione dei consumatori contro affermazioni ambientali inaffidabili o false, di fatto introducendo il divieto di greenwashing e obsolescenza pianificata. La proposta sembra, infatti, ampliare l’elenco delle caratteristiche del prodotto in merito alle quali il professionista non può trarre inganno il consumatore. E non solo, con la modifica della direttiva sulle pratiche commerciali sleali, vengono aggiunte nuove pratiche all’attuale elenco di quelle vietate, cioè la c.d. “black list” (lista nera). Le nuove pratiche includeranno, quindi, quella di: a)formulare dichiarazioni ambientali generiche o vaghe come “rispettoso dell’ambiente”, “verde” o “eco”, che danno erroneamente l’impressione di un’eccellenza delle prestazioni ambientali; b) formulare una dichiarazione ambientale riguardante il prodotto nel suo complesso e non soltanto un determinato aspetto; c) esibire un marchio di sostenibilità avente carattere volontario che non è certificato da terze parti o stabilito dalle autorità pubbliche.
Una tale normativa sembra così raccogliere le indicazioni già emergenti dall’interpretazione coraggiosa delle norme esistenti, valorizzando ulteriormente lo strumentario ivi previsto.
5. Obbligo di conformità al contratto e nuovi rimedi a tutela dei consumatori
Guardando, ora, al secondo fronte di tutela, quello contrattuale del difetto di conformità, particolarmente significative risultano le modifiche introdotte alla direttiva sulla vendita di beni di consumo, laddove una informazione ambientale fuorviante può integrare, come prospettato, oltre che una pratica commerciale scorretta, violazione dell’obbligo di conformità al contratto. Com’è noto, nei contratti di vendita di beni di consumo, il venditore ha l’obbligo di consegnare al consumatore beni conformi al contratto e ciò avuto riguardo anche alle dichiarazioni contenute nell’etichettatura e financo nella pubblicità[49]. Appare chiaro come laddove il bene venduto non presenti i requisiti di sostenibilità dichiarati nel contratto, nell’etichettatura o nella pubblicità, si avrà violazione dell’obbligo di conformità al contratto ed il consumatore avrà diritto ai rimedi previsti per il difetto di conformità al contratto. Si profila l’emersione del consumatore c.d. etico, il quale effettuerà le sue scelte anche in ragione del rispetto di alcuni parametri etici nel processo di produzione, introdotti da norme di pubblico, tra i quali rilevano quelli in materia di tutela ambientale[50].
La normativa, di recente, è stata modificata dalla Direttiva 771 del 2019, che ha introdotto, in luogo del sistema di presunzioni di cui all’art. 2 della direttiva 1999/44/CE, due distinti profili di conformità, rispettivamente soggettivo (art. 6) e oggettivo (art 7), con spunti significativi in tema di sostenibilità[51]. Si tratta, si fa notare in dottrina[52], di una conformità “di seconda generazione”, che va incontro ad una sorta di sdoppiamento connaturato alla presenza dell’elemento digitale, una conformità “di durata”, non identificabile in un momento temporale definito, che si contrappone ad una “conformità istantanea”, “di prima generazione”, intercettabile al momento specifico e puntuale della consegna. In particolare, dal punto di vista della sostenibilità, quale parametro di conformità al contratto, in base alla nuova formulazione dell’art. 129 del codice di consumo, così come modificato dal Dlgs 170 del 2021, tra i requisiti soggettivi, è richiesto che il bene abbia “a) la corrispondenza alla descrizione, al tipo, alla quantità e alla qualità contrattuali; inoltre, la funzionalità, la compatibilità, l'interoperabilità e le altre caratteristiche previste dal contratto di vendita”; e, tra i requisiti oggettivi di conformità, che il bene deve “d) essere della quantità e possedere le qualità e altre caratteristiche, anche in termini di durabilità, funzionalità, compatibilità e sicurezza, ordinariamente presenti in un bene del medesimo tipo e che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi, in base alle dichiarazioni pubbliche rese dal venditore, o da altri, compreso il produttore, in particolare nella pubblicità o nell'etichetta. (Art. 129 lett. a e d. Codice di consumo). Viene cioè sicuramente in rilievo il requisito oggettivo della durabilità del bene, laddove il venditore è obbligato a fornire a consumatore un bene che abbia la durabilità ragionevolmente attendibile in beni del medesimo tipo. Si afferma così un concetto di conformità di durata, che si consolida nel richiamo a tale qualità tra i requisiti oggettivi di conformità, sulla base di una ragionevole aspettativa di vita media che il consumatore matura, tenuto conto della natura del bene e delle dichiarazioni fatte dal o per conto del venditore, anche nella pubblicità o nell’etichettatura[53]. La ragionevole aspettativa, quindi, si osserva in dottrina[54], viene descritta in maniera più dettagliata che in passato, perché la normalità del bene è da considerare “anche” – e quindi: non solo – in termini di durabilità, funzionalità, compatibilità e sicurezza, parametri che non comparivano nella dir. 1999/44/CE e può rilevare sicuramente in relazione al rispetto degli standard di sostenibilità ambientali, quali, per esempio, quelli in tema di durabilità del prodotto. In questo senso, il considerando 32 della Direttiva 771/2019 precisa, chiaramente, che “assicurare una maggiore durabilità dei beni è importante per raggiungere modelli di consumo più sostenibili e un’economia circolare”[55]. Deve, allora, condividersi l’opinione di chi individua, tra le ragionevoli aspettative del consumatore, anche quelle di aver acquistato un prodotto che non sia il risultato di un processo di fabbricazione che abbia violato certe norme imperative di diritto pubblico, sottolineando come la ragionevolezza della presunzione stia proprio “nel rilevare come il rispetto di diritti umani, la dignità del lavoro, e il rispetto dell’ambiente siano standard elementari che compongono il bagaglio culturale minimo del consumatore medio, anche in forza di campagne pubblicitarie e messaggi promozionali che in maniera sempre più diffusa lavorano in questa direzione”. In tal senso il riferimento alle ragionevoli aspettative del consumatore varrebbe quale strategia interpretativa per rispondere in termini rimediali alle violazioni di normative[56]. In sostanza, sulla base dell’art. 129 lett. d, la durabilità del bene ragionevolmente attendibile dal consumatore va valutata sulla base delle dichiarazioni pubbliche fatte dal venditore, contenute nella pubblicità e nell’etichettatura, con la conseguenza che la pubblicità o etichettatura fuorviante, in merito alla durabilità del bene, in termini di sostenibilità, quale ipotesi di greenwashing, potrà certamente attivare i rimedi contrattuali ivi previsti contro tale violazione. L’assenza nel bene consegnato delle caratteristiche di sostenibilità pubblicizzate varrà quale violazione dell’obbligo contrattuale di conformità al contratto, attivando i rimedi individuali, anche contrattuali, integrando il greenwashing un’ipotesi di inadempimento contrattuale[57]. In questa direzione la risoluzione del Parlamento europeo del 25 novembre 2020 sul tema "Verso un mercato unico più sostenibile per le imprese e i consumatori" (2020/2021(INI)) afferma che la Commissione: “considerando che è necessario contrastare le dichiarazioni ingannevoli in materia ambientale e far fronte alle pratiche di "verniciatura verde"("greenwashing") con metodi efficaci, che stabiliscano tra l'altro come comprovare tali dichiarazioni; considerando che la pubblicità incide sui livelli e sui modelli di consumo; che la pubblicità potrebbe aiutare le imprese e i consumatori a effettuare scelte informate e sostenibili; accoglie con favore il nuovo piano d'azione della Commissione per l'economia circolare e la volontà dichiarata di promuovere prodotti durevoli e più facilmente riparabili, riutilizzabili e riciclabili, sostenendo nel contempo i consumatori in questa transizione”. In base poi al successivo art. 130, così come modificato dalle recenti disposizioni, oggi rubricato, in luogo di “diritti del consumatore”, “obblighi del venditore e condotta del consumatore”, si prevede che il venditore non sia vincolato alle dichiarazioni pubbliche nel caso in cui dimostri, in via alternativa, che: a)non conosceva tale dichiarazione né poteva conoscerla usando l’ordinaria diligenza, b) la dichiarazione è stata corretta - prima della conclusione del contratto - usando le stesse modalità con cui è stata resa, c) la dichiarazione non ha influenzato il consumatore nell’acquisto del bene. Si comprende allora chiaramente il ruolo assunto dalla pubblicità, in grado di far arretrare il vincolo contrattuale del venditore alle dichiarazioni ivi contenute. Il venditore sarà contrattualmente vincolato alle dichiarazioni pronunciate ancor prima della conclusione del contratto, nella misura in cui queste giochino un ruolo fondamentale nella scelta del consumatore e per la formazione di un consenso consapevole. Il consumatore, vittima di informazioni ingannevoli sulle qualità ambientali di un prodotto, avrà a disposizione così un ventaglio di rimedi individuali, in grado di incidere sulla efficacia del contratto. Ai sensi dell’art. 13 della Direttiva 2019/771, in caso di difetto di conformità del bene, il consumatore avrà diritto al ripristino della conformità (e potrà scegliere tra riparazione o sostituzione) o, in subordine, potrà richiedere una riduzione proporzionale del prezzo o la risoluzione del contratto. Tuttavia, il venditore sarà obbligato ad eseguire il ripristino della conformità secondo il rimedio scelto dal consumatore (riparazione o sostituzione) a meno che questo non presenti costi sproporzionati considerando anche il valore del bene in assenza del difetto, l’entità del difetto e la possibilità per il consumatore di esperire il rimedio alternativo. La considerazione della sostenibilità, quale requisito di conformità al contratto, consentirà pertanto l’attivazione dei rimedi previsti dall’ art. 13 della direttiva 2019/771, primo fra tutti quello riparatorio, che risponde, notoriamente, a logiche di sostenibilità, pur se, come si osserva in dottrina[58] in una logica di sostenibilità il legislatore avrebbe potuto spingersi oltre, prevedendo la sua gerarchizzazione rispetto alla sostituzione, per un verso, e introducendo la valutazione della sostenibilità nel test di proporzionalità, per altro verso. In quest’ottica, la risoluzione del Parlamento europeo (2020/2021(INI)), in termini di strategia in materia di riparazione, invita la Commissione a istituire un "diritto alla riparazione" per i consumatori per far sì che le riparazioni divengano sistematiche, efficienti in termini di costi e allettanti, tenendo conto delle specificità delle diverse categorie di prodotti, sulla falsariga delle misure già adottate per diversi elettrodomestici nell'ambito della direttiva sulla progettazione ecocompatibile:[59]” In tutti i casi il consumatore vittima di greenwashing potrà sicuramente contare su un risarcimento del danno che sia effettivo. In questo senso, si osserva in dottrina, il greenwashing, potrà generare una responsabilità di tipo extracontrattuale attivabile dal greenholder, per violazione di norme di ordine pubblico di rango costituzionale, se non di norme di legge ordinaria come quelle contenute nel codice di consumo.
Al fine di rafforzare la protezione dei diritti del consumatore sul fronte rimediale, la recente direttiva 2019/2161/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, ha introdotto, poi, nel testo della direttiva 2005/29, subito dopo l’art. 11, l’art. 11 bis, intitolato ai rimedi, che così dispone: “1. I consumatori lesi da pratiche commerciali sleali devono avere accesso a rimedi proporzionati ed effettivi, compresi il risarcimento del danno subito dal consumatore e, se pertinente, la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto. Gli Stati membri possono stabilire le condizioni per l’applicazione e gli effetti di tali rimedi. Gli Stati membri possono tener conto, se del caso, della gravità e della natura della pratica commerciale sleale, del danno subito dal consumatore e di altre circostanze pertinenti. 2. Detti rimedi non pregiudicano l’applicazione di altri rimedi a disposizione dei consumatori a norma del diritto dell’Unione o del diritto nazionale.». Dalla lettura dei “considerando” si conferma la volontà di garantire un livello elevato di protezione tramite un’efficace applicazione del diritto in materia di tutela e protezione dei consumatori, aumentando la consapevolezza e la conoscibilità del quadro normativo e prevedendo sanzioni effettive, proporzionate, dissuasive e uniformi, insieme a rimedi efficaci e concreti per i consumatori[60]. In base delle considerazioni svolte, in ordine all’applicabilità di tale disposizione anche alle informazioni ambientali ingannevoli, non dovrebbero esservi dubbi. In tal modo la lotta al fenomeno del greenwashing potrà richiedere valersi di rimedi efficaci e proporzionali, contrastando l’azione del professionista responsabile di un marketing fuorviante. In questa direzione, la Risoluzione 2020/2021(INI) sottolinea la necessità di mezzi di ricorso semplici, efficaci e applicabili sia per i consumatori che per le imprese; ricorda che i consumatori di tutta l'UE dovrebbero essere informati in merito ai propri diritti e ai mezzi di ricorso di cui dispongono; chiede che, nell'ambito del programma per il mercato unico del quadro finanziario pluriennale (QFP), si finanzino misure volte a colmare la carenza di informazioni e a sostenere le iniziative di associazioni di consumatori, imprese e relative all'ambiente; ritiene che gli Stati membri debbano svolgere campagne di informazione intese ad aumentare la protezione e la fiducia dei consumatori, in particolare tra i gruppi vulnerabili, e invita la Commissione a fornire ai consumatori informazioni adeguate sui loro diritti attraverso lo sportello digitale unico; evidenzia che le PMI, le microimprese e i lavoratori autonomi necessitano di un sostegno specifico, tra cui finanziario, per comprendere e applicare i loro obblighi giuridici in materia di protezione dei consumatori”.
Novità significative provengono, peraltro, dalla recente direttiva 2020/1828/UE sulle azioni rappresentative e tutela degli interessi collettivi dei consumatori, che prevede la possibilità per i consumatori lesi da pratiche commerciali scorrette e non solo, di esperire congiuntamente rimedi inibitori e risarcitori di tutela collettiva e individuale. Come rilevano i primi due considerando, “la globalizzazione e la digitalizzazione hanno accresciuto il rischio che un ampio numero di consumatori sia danneggiato dalla stessa pratica illecita. Le violazioni del diritto dell’Unione possono arrecare pregiudizio ai consumatori. L’assenza di mezzi efficaci per ottenere la cessazione delle pratiche illecite e il risarcimento delle perdite subite dai consumatori ostacola la fiducia di questi ultimi nel mercato interno. (2) L’assenza di strumenti efficaci per l’applicazione della normativa dell’Unione a tutela dei consumatori potrebbe inoltre comportare distorsioni della concorrenza leale tra professionisti che commettono violazioni e professionisti rispettosi della normativa operanti a livello nazionale o transfrontaliero. Tali distorsioni possono ostacolare il corretto funzionamento del mercato interno”. La fiducia dei consumatori viene, quindi, rafforzata da meccanismi procedurali per azioni rappresentative volte ad ottenere provvedimenti inibitori e risarcitori efficaci e efficienti, permettendo loro di esercitare i propri diritti e contribuendo a realizzare una concorrenza più leale. (cons. 7). In tal modo si tenta di superare gli inconvenienti insiti nell’esperimento di rimedi individuali, “quali quelli relativi all’incertezza in merito ai propri diritti e ai meccanismi procedurali disponibili, la riluttanza psicologica ad agire e il saldo negativo tra costi relativo ai benefici attesi dall’azione individuale”, offrendo loro un mezzo efficace ed efficiente di tutela degli interessi collettivi. (Cons 9). Ciò consentirebbe, peraltro, di raggiungere l’obiettivo ambizioso di “garantire il necessario equilibrio tra migliorare l’accesso dei consumatori alla giustizia e fornire adeguate garanzie per i professionisti al fine di evitare l’abuso del contenzioso, che ostacolerebbe indebitamente la capacità delle imprese di operare nel mercato interno” (Cons 10). Ai sensi dell’art. 4 della direttiva, le azioni rappresentative previste dalla direttiva dovranno essere intentate da enti legittimati designati a questo scopo dagli Stati membri. Le azioni rappresentative saranno dirette ad ottenere provvedimenti inibitori o risarcitori dinanzi ai loro organi giurisdizionali o alle loro autorità amministrative anche con un’unica azione[61].
È agevole pensare che terreno elettivo di applicazione della nuova normativa possa essere proprio quello dei green claims, laddove le tutele collettive si rivelino particolarmente adeguate per rimediare alla diffusione di informazioni fuorvianti relative alle caratteristiche green dei prodotti offerti sul mercato, il cui effetto dannoso, difficilmente sarà diversificato. Diversamente, al consumatore che ritiene di aver subito un danno maggiore non converrà esperire l’azione collettiva. Uno dei limiti riconosciuti alle tutele collettive è, infatti, la necessità che il danno sofferto dai diversi consumatori sia omogeneo, che incida cioè in modo analogo nelle sfere giuridiche dei singoli consumatori che agiscono congiuntamente. In definitiva, le nuove norme sembrano introdurre un apparato di tutele idonee a fronteggiare in modo diretto le problematiche specifiche del consumatore green, agendo sul doppio fronte delle pratiche commerciali scorrette e del difetto di conformità. Appare evidente come in entrambi casi la tutela effettiva dal greenwashing reclami sistemi di certificazioni seri, affidabili e soprattutto uniformi. In questa direzione la Risoluzione 2020/2021, al considerando F, rileva come “secondo lo studio comportamentale pubblicato nel 2018 dalla Commissione, i consumatori sono pronti a impegnarsi per la realizzazione di un'economia circolare e hanno una probabilità tre volte maggiore di acquistare un prodotto etichettato come più durevole e riparabile, ma permangono alcuni ostacoli, tra cui l'asimmetria informativa; che per sensibilizzare i consumatori e assicurare una concorrenza equa tra le imprese sono necessarie informazioni chiare, affidabili e trasparenti sulle caratteristiche dei prodotti, tra l'altro in relazione alla durata di vita prevista e alla riparabilità; che le informazioni esistenti devono quindi essere migliorate, evitando nel contempo un sovraccarico di informazioni”[62].
Dunque, alla luce dei dati presenti, quella del consumatore c.d. etico, disposto cioè ad effettuare scelte di consumo in funzione di ragioni etiche, quali quelle di sostenibilità ambientale, si afferma nel diritto euro unitario come prospettiva plausibile, laddove venga incoraggiata e supportata da un sistema di rimedi adeguato. [63] In conclusione, quel che si rileva dalle considerazioni sopra svolte è che, al di là dei buoni propositi, il successo di una efficace politica di sostenibilità ambientale che coinvolga attivamente le forze del mercato nel perseguimento degli obiettivi di sostenibilità, richiede una seria politica di trasparenza e certificazione, supportata da un sistema di rimedi adeguato ed efficiente, in una prospettiva che sia il più possibile coerente ed uniforme all’interno dell’Unione europea. In sostanza, tutte le diverse iniziative dovrebbero essere coordinate verso l’obiettivo politico unitario diretto a trasformare i modelli di produzione e consumo nella direzione effettiva e non semplicemente declamata della sostenibilità[64]. In quest’ottica molte ancora le criticità che rimangano[65]. Maggiore coraggio sarebbe stato necessario per conformare il diritto dei consumatori all’obiettivo di sostenibilità, incoraggiando per esempio le pratiche sostenibili di riutilizzo, attraverso la gerarchizzazione del rimedio della riparazione, ma la strada intrapresa dalle istituzioni euro - unitarie sembra andare nella direzione giusta. L’obiettivo della sostenibilità ambientale non può che passare, in definitiva, dal rafforzamento della protezione dei consumatori contro un ecologismo di facciata che, abusando gravemente della loro fiducia, rischi di vanificare i risultati raggiunti.
Abstract (ENG): The paper proposes a reflection on market transparency policies in the frame of environmental sustainability. It’s a high risk that sustainability turns into a sort of marketing strategy of companies, with the phenomenon, well-known as “green washing”. The European legislator followed a double line of action: to protect the consumer from unfair commercial practices and to guarantee that the obligation of conformity with the contract is fulfilled. The protection of the “green consumer” results in a “plausible perspective”, as far as it is supported by a system of suitable remedies.
Keyword (ENG): Green claims, green washing, consumer protection, transparency, market, right of information.
* Università degli Studi di Palermo (gabriella.marcatajo@unipa.it).
** Il contributo è stato sottoposto a double blind review.
[1] Sul tema la letteratura è vastissima. Si permetta di rinviare a G. Marcatajo, Asimmetria informativa e tutela della trasparenza nella politica comunitaria di consumer protection: la risposta della normativa sulle clausole abusive, in Eur. dir. priv., 3 (2000), p. 751 ss. Più di recente si vedano i contributi di E. Minervini, Azione inibitoria e contratti dei consumatori, in Rass. dir. civ., 2 (2014), p. 618 ss.; Id., Il diritto del consumatore all’equità contrattuale, in Ragionevolezza e proporzionalità nel diritto contemporaneo, a cura di G. Perlingieri, A. Fachechi, II, Napoli, 2017, p. 745 ss.; M. Pennasilico, Metodo e valori nell’interpretazione dei contratti. Per un’ermeneutica contrattuale rinnovata, Napoli, 2011, p. 238 ss.; S. Pagliantini, voce Trasparenza contrattuale, in Enc. dir., Ann., V, Milano, 2012, p. 1280 ss.; Id., La trasparenza consumeristica tra «dottrina» della Corte ed equivoci interpretativi, in Eur. dir. priv., 3 (2019), p. 651 ss.; A. Albanese, Le clausole vessatorie nel diritto europeo dei contratti, in Eur. dir. priv., 3 (2013), p. 669 ss.; R. Alessi, Clausole vessatorie, nullità di protezione e poteri del giudice: alcuni punti fermi dopo le sentenze Jorös e Asbeek Brusse, in Jus civ., 7 (2013), p. 388 ss.; R. Senigaglia, Buona fede e trasparenza contrattuale nella disciplina dei consumi, Napoli, 2004, p. 141 ss.; Id., Accesso alle informazioni e trasparenza. Profili della conoscenza nel diritto dei contratti, Padova, 2007, p. 50 ss.; F. Rende, Informazione e consenso nella costruzione del regolamento contrattuale, Milano, 2012, p. 209 ss.; Id., Violazione di regole informative e rimedi a dieci anni dalle sentenze Rordorf, in Contr., 2 (2017), p. 201 ss.; A. D’Adda, Giurisprudenza comunitaria e «massimo effetto utile per il consumatore»: nullità (parziale) necessaria della clausola abusiva e integrazione del contratto, in Contr., 1(2013), p. 22 ss.; E. Battelli, Riflessioni sui procedimenti di formazione dei contratti telematici e sulla sottoscrizione «on line» delle clausole vessatorie, in Rass. dir. civ., 4 (2014), p. 1035 ss.; M. Faccioli, La garanzia di «un livello elevato di protezione dei consumatori» (art. 38 Carta di Nizza e art. 169 TFUE) alla prova della disciplina italiana delle clausole vessatorie: le clausole nulle «quantunque oggetto di trattativa» ex art. 36 comma 2 codice del consumo, in Jus civ., 1 (2015), p. 35 ss.; M.F. Campagna, Note sulla trasparenza del contratto, in Contr. impr., 4/5 (2015), p. 1036 ss.; A. Federico, L’integrazione del contratto e la giurisprudenza della Corte di Giustizia sulle clausole abusive, in Complessità e integrazione delle fonti nel diritto privato in trasformazione, Convegno in onore del prof. Vincenzo Scalisi, Messina, 27-28 maggio 2016, a cura di M. Trimarchi, A. Federico, M. Astone, C. Ciraolo, A. La Spina, F. Rende, E. Fazio, S. Carabetta, Milano, 2017, p. 297 ss.; G. D’amico, Mancanza di trasparenza di clausole relative all’oggetto principale del contratto e giudizio di vessatorietà. (Variazioni sul tema dell’armonizzazione minima), in G. D’amico, S. Pagliantini, L’armonizzazione degli ordinamenti dell’Unione europea tra principi e regole. Studi, Torino, 2018, p. 87 ss.; G. Perlingieri, Rilevabilità d’ufficio e sanabilità dell’atto nullo, dieci anni dopo, in Rass. dir. civ., 4 (2019), p. 1105 ss.; M. Farina, Unfair Terms and Supplementation of the Contract, in ERPL, 3 (2021), p. 441 ss.
[2] Sull’obiettivo della sostenibilità declinato nel principio di sviluppo sostenibile nella prospettiva personalista si rinvia a G. Marcatajo, La riforma degli articoli 9 e 41 della costituzione e la valorizzazione dell’ambiente, in Ambientediritto.it, 2 (2022), p. 8; Id., Ambiente e tutela individualeintergenerazionale, in The Cardozo electronic law bullettin, 1 (2020), p. 1 ss.; Id. La tutela dell’ambiente come diritto della persona, in Riv. giur. amb., 3 (2021), p. 611 ss.; Id., Il danno ambientale esistenziale, Napoli, 2016. Il principio trova espressione per la prima volta nel Rapporto Brundtland Il Report of the World Commission on Environment and Development: Our Common Future, 1987, disponibile al link https://sustainabledevelopment.un.org/content/documents/ 5987our-common-future.pdf (10 gennaio 2023). Sul tema vedi tra i contributi, E. Leccese, L’ambiente: dal codice di settore alla Costituzione, un percorso al contrario?, in Ambientediritto.it, 4 (2020); M. Pennasilico, Sviluppo sostenibile, legalità costituzionale e analisi ecologica del contratto, in Pers. Merc., 1 (2015), p. 42; Id., Economia circolare e diritto: ripensare la «sostenibilità», in Pers. e Merc., 1 (2021), p. 714 ss., D. Imbruglia, Mercato unico sostenibile e diritto dei consumatori, Pers. e Merc., 4 (2021), p. 189 ss.; G. Vettori, Diritti e coesione sociale. Appunti per il seminario fiorentino del giorno 8 giugno 2012, in Pers. merc., 1 (2012), p. 4; F. Capra-u. Mattei, Ecologia del diritto. Scienza, politica, beni comuni, Sansepolcro, 2017, p. 38 ss.; A. Quarta-u. Mattei, Punto di svolta. Ecologia, tecnologia e diritto privato. Dal capitale ai beni comuni, Sansepolcro, 2018, p. 19 ss.; M. Esposito, Beni comuni e dimensione sociale dell’appartenenza, in Circolazione e teoria dei beni, Incontro di studi dell’Associazione dei Dottorati di Diritto Privato (Lecce, 21-22 marzo 2019), a cura di E. Capobianco, G. Perlingieri, M. D’Ambrosio, Napoli, 2021, p. 43 ss., e ivi anche R.G. Bianco, I beni comuni nell’ordinamento vigente, p. 85 ss.; K. Bosselmann, The Principle of Sustainability: Transforming Law and Governance, New York, 2017, p. 75; E. Giovannini, L’utopia sostenibile, Roma-Bari, 2018, p. 46 ss.; G. Carapezza Figlia, Oggettivazione e godimento delle risorse idriche. Contributo a una teoria dei beni comuni, Napoli, 2008, p. 170 ss. Così F. Bertelli, Le dichiarazioni di sostenibilità nella fornitura di beni al consumo, Torino, 2022, p. 8, la quale sottolinea come “Muovendo dal valore universale della dignità della persona, la sostenibilità, sul piano più propriamente economico-giuridico, si concretizza nel principio dello sviluppo sostenibile, inteso come sintesi evocativa della necessità di perseguire bisogni intergenerazionali ancorati alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”. In ordine all’opzione personalista sposata dal nostro costituente, vedi per tutti G. Perlingieri, Profili applicativi della ragionevolezza nel diritto civile. Cultura giuridica e rapporti civili, Napoli, 2015; P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, 3a ed., Napoli, 2006, p. 715 ss.; Id., Individualismo e personalismo nella Carta europea, in Carta europea e diritti dei privati, a cura di G. Vettori, Padova, 2002, p. 333 s.; Id., I rapporti civilistici nell’interpretazione della Corte costituzionale, Napoli, 2007; S. Rodotà, Antropologia dell’“homo dignus”, in Riv. crit. dir. priv., 2 (2010), p. 547; Id., Dal soggetto alla persona, Napoli, 2007; F. Pedrini - P. Perlingieri, Colloquio su (Scienza del) Diritto e legalità costituzionale, in Rass. dir. civ., 3 (2017), p. 1127; V. Scalisi, Ermeneutica dei diritti fondamentali e principio “personalista” in Italia e nell’Unione europea, in Riv. dir. civ., 2 (2010), p. 145 ss.; Id. Categorie e istituti del diritto civile nella transizione al postmoderno, Milano, 2005, p. 493 ss.; A. Manzella, Dal mercato ai diritti, in A. Manzella, P. Melograni, E. Paciotti e S. Rodotà, Riscrivere i diritti in Europa, Bologna, 2001, p. 30 ss.; A. Barbera, La carta europea dei diritti e la Costituzione italiana, in Aa.Vv., La libertà e i diritti nella prospettiva europea, Padova, 2002, p. 117; G. Silvestri, Verso uno ius commune europeo dei diritti fondamentali, in Il ruolo della civilistica italiana nel processo di costruzione della nuova Europa, a cura di V. Scalisi, Milano, 2007, p. 62 ss. 14.; R. Di Raimo, Date a Cesare (soltanto) quel che è di Cesare. Il valore affermativo dello scopo ideale e i tre volti della solidarietà costituzionale, in Rass. dir. civ., 4 (2014), p. 1082 ss.; e in Id., Terzo settore e profili dell’iniziativa con scopo ideale, Napoli, 2018, p. 7 ss.; S. Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Roma-Bari, 2014, pp. 20 ss. e 84 ss.
[3] Dal Quinto programma d'azione per l'ambiente adottato il 18 marzo 1992, intitolato "Verso la sostenibilità" (Gazzetta ufficiale n. C 138 del 17/05/1993 p. 0001 – 0004, in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A41993X0517 (10 gennaio 2023)), la Commissione ha promosso nuovi strumenti di protezione dell'ambiente volti a coinvolgere le imprese in un processo di sensibilizzazione ambientale attraverso un sistema di “responsabilità condivisa”. Nel Sesto programma d'azione per l'ambiente 2002-2010 (COM/2001/0031 def. */, in https://eur-lex.europa.eu/IT/legal-content/summary/sixth-environment-action-programme.html (10 gennaio 2023)), la Commissione ha chiaramente individuato l'obiettivo principale della politica ambientale nell’indurre il mercato a lavorare per l'ambiente. Sono stati pianificati programmi di incentivi per le aziende con le migliori prestazioni ambientali, promuovendo prodotti e processi più verdi, incoraggiando l'adozione di eco-etichette che consentissero ai consumatori di confrontare prodotti simili sulla base delle prestazioni ambientali. Si trattava di garantire che i consumatori ricevessero informazioni affidabili sulle qualità dei prodotti per poter operare una scelta a favore di quelli più sostenibili. Nel Settimo programma d'azione del l'UE per l'ambiente, 'Vivere bene entro i limiti del nostro pianeta' nel 2013 (Decisione n. 1386/2013/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 novembre 2013, GU del 28.12.2013, L 354/171, in https://data.europa.eu/eli/dec/2013/1386/oj (10 gennaio 2023)), la Commissione ha individuato un nuovo concetto di benessere, che combina considerazioni ambientali e di mercato. In particolare, è stato sottolineato che un'adeguata combinazione di strumenti politici aiuterebbe gli operatori economici e i consumatori a comprendere meglio l'impatto ambientale delle loro attività e a gestirlo. Questi strumenti politici consistono, tra l'altro, in incentivi economici, strumenti guidati dal mercato, obblighi di informazione, nonché misure e strumenti volontari che coinvolgono le parti interessate a vari livelli. "Nel 2011, la "tabella di marcia verso un'Europa efficiente nell'uso delle risorse" (COM (2011) 571 def del 20/09/2011, in https://eurlex.europa.eu/legalcontent/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52011PC0874&frm=bg (10 gennaio 2023)) ha fissato l'obiettivo di: “incoraggiare adeguatamente i cittadini e le autorità pubbliche a scegliere i prodotti più efficienti in termini di risorse attraverso segnali di prezzo corretti e una chiara informazione ambientale” nel 2020, riconoscendo il ruolo chiave che il mercato interno potrebbe svolgere nel premiare prodotti efficienti sotto il profilo delle risorse. Nel 2012 l'Agenda europea dei consumatori (COM (2012) 225 def., https://ec.europa.eu/info/sites/default/files/nuova_agenda_dei_consumatori_scheda_informativa.pdf (10 gennaio 2023)), ha consacrato l'importante ruolo che i consumatori potrebbero svolgere per il successo di prodotti sostenibili, rendendo così questi prodotti più disponibili e accessibili, premiando le imprese in grado di offrire beni e servizi di qualità con un minore impatto ambientale. Per questo motivo, i consumatori avrebbero dovuto essere adeguatamente informati e "aiutati a identificare scelte veramente sostenibili". A tal fine, “erano necessari strumenti efficaci per proteggerli da informazioni fuorvianti e infondate sull'ambiente e la salute”. In questa direzione, la Commissione è intervenuta nel 2013 con una comunicazione specifica volta a contribuire alla costruzione del mercato unico dei prodotti verdi, al fine di migliorare l'informazione sulle prestazioni ambientali dei prodotti e delle organizzazioni (Bruxelles, 9.4.2013, COM (2013) 196 final, in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52013DC0196&from=EN (10 gennaio 2023)). Nel piano d'azione per l'economia circolare pubblicato nel 2020, intitolato Per un'Europa più pulita e competitiva, la Commissione ha nuovamente sottolineato l'importanza di informazioni affidabili. Il 2.12.2015 la Commissione ha pubblicato Closing the loop - EU action plan for the circular economy (COM (2015) 0614 final, in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX:52015DC0614 (10 gennaio 2023)). A quel primo documento in cui si auspica una “transition to a more circular economy”, sono di lì a poco seguiti due risoluzioni del Parlamento europeo, una prima, del 4 luglio 2017, su una vita utile più lunga per i prodotti: vantaggi per consumatori e imprese (2016/2272(INI)) e una seconda, del 31 maggio 2018 sull'attuazione della direttiva sulla progettazione ecocompatibile (2017/2087(INI)). Tutti i documenti citati sono disponibili in https://eur-lex.europa.eu (10 gennaio 2023). Alla fine del 2019, la Commissione ha poi pubblicato l’ European Green Deal (COM/2019/640 final, in https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/european-green-deal_it (10 gennaio 2023)) e quindi nel successivo 11 marzo 2020 dal titolo "A New Circular Economy Action Plan For a Cleaner and More Competitive Europe " (COM(2020)98 final, in https://www.eea.europa.eu/policy-documents/com-2020-98-final-a (10 gennaio 2023)). In detto ultimo documento, la Commissione ha corretto e aggiornato la propria politica di transizione “verso un’economia giusta, a impatto climatico zero, efficiente sotto il profilo delle risorse e circolare”. Nel 2020 viene infine emanata la Risoluzione del Parlamento europeo del 25 novembre 2020 sul tema "Verso un mercato unico più sostenibile per le imprese e i consumatori" (2020/2021(INI)), disponibile in https://www.europarl.europa.eu (10 gennaio 2023). La base normativa della risoluzione è rappresentata dall’art. 114 TFUE, che a sua volta richiama l’art. 26 TFUE a tenore del quale l’Unione adotta le misure destinate all’instaurazione o al funzionamento del 4.1. Regolazione del mercato e sostenibilità: continuità e discontinuità. Tra gli obiettivi dichiarati della risoluzione vi è quello di promuovere gli interessi dei consumatori e di assicurare loro un livello elevato di protezione (art. 169 TFUE), nonché quello di proteggere l’ambiente, la salute umana e le risorse naturali (artt. 191, 192, 193, TFUE). In essa si afferma:” la strategia per un mercato unico sostenibile dovrebbe combinare in modo equo, equilibrato e proporzionato i principi della sostenibilità, della protezione dei consumatori e di un'economia sociale di mercato fortemente competitiva; evidenzia che le eventuali misure normative dovrebbero essere basate su tali principi, essere efficienti in termini di costi dal punto di vista ambientale e andare a vantaggio sia delle imprese che dei consumatori per consentire loro di intraprendere la transizione verde nel mercato interno; sottolinea che le misure normative dovrebbero creare vantaggi competitivi per le imprese europee, evitare di imporre loro oneri finanziari sproporzionati, stimolare l'innovazione, incoraggiare gli investimenti nelle tecnologie sostenibili nonché rafforzare la competitività europea e, in ultima analisi, la protezione dei consumatori; rileva che tutte le misure normative previste dovrebbero essere accompagnate da valutazioni di impatto e dovrebbero sempre tenere conto dell'evoluzione del mercato e delle esigenze dei consumatori”;
[4] Scrive A. Zoppini, Diritto privato vs diritto amministrativo (ovvero alla ricerca di confini tra Stato e mercato), in Riv. cir. civ., 3 (2013), p. 521 s.: “Il sintagma Stato regolatore sottende, in particolare, l’opzione normativa che è al fondamento del mercato unico europeo e che si traduce in un preciso modello istituzionale, che ridefinisce la linea di confine tra lo Stato e mercato. Questo modello postula la scelta di conformare normativamente le attività dei privati, con l’obiettivo di preservare la dinamica concorrenziale ovvero di mimare, con la forza della norma imperativa, gli esiti d’un mercato che in concreto non esiste. (…) in termini di politica del diritto, l’opzione del diritto privato regolatorio prende con realismo atto che il diritto privato comunitario pone il suo nucleo aggregante e il suo perno sistematico nell’obiettivo di consentire il funzionamento del mercato unico, rimuovendo gli ostacoli che ad esso si frappongono. In tale logica, quelle regole e discipline esprimono una già conseguita coerenza e unità dogmatica e possono essere comprese e organizzate intorno a un principio finalistico e di effettività nel funzionamento del mercato unico”. Sull’argomento, più in generale, vedi L. Nivarra, Diritto privato e capitalismo. Regole giuridiche e paradigmi di mercato, Napoli, 2010; F. Cafaggi, Il diritto dei contratti nei mercati regolati: ripensare il rapporto tra parte generale e parte speciale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1 (2008), p. 95 ss.; G. Bellantuono, Contratti e regolazione nei mercati dell’energia, Bologna, 2009; G. Gitti (a cura di), L’autonomia privata e le autorità indipendenti, Bologna, 2006; G. Gitti-G. Villa (a cura di), Il terzo contratto, Bologna, 2008; M. Barcellona, L’interventismo europeo e la sovranità del mercato: le discipline del contratto e i diritti fondamentali, in Europ. dir. priv., 2 (2011), p. 329 ss; G. Conte, Diritto ed economia tra regole del mercato e prospettive assiologiche di valutazione, in Studi in onore di Giuseppe Benedetti, I, Napoli 2008, p. 425 ss.; A. Gentili, I contratti d’impresa e il diritto comune europeo, in Il diritto europeo dei contratti d’impresa. Autonomia negoziale dei privati e regolazione del mercato, a cura di P. Sirena, Milano, 2006, p. 94 ss., e i saggi nel volume curato da A. Plaia, Diritto civile e diritti speciali, Milano, 2008; G. Olivieri, Iniziativa economica e mercato nel pensiero di Giorgio Oppo, in Riv. dir. civ., 1 (2012), I, p. 509 ss.
[5] Così F. Bertelli, Le dichiarazioni di sostenibilità nella fornitura di beni al consumo, cit., 2022, p. 8.
[6] Scrive A. Zoppini, Diritto privato vs diritto amministrativo (ovvero alla ricerca di confini tra Stato e mercato), cit., p.524: “il paradigma concorrenziale smentisce l’idea dell’autonomia privata intesa nei termini di norme attributive e ricognitive d’un interesse finale, e quindi d’una libertà, consegnato integralmente alla valutazione dell’attore del mercato. Basti considerare che la nozione e l’interesse concorrenziale protetto postula il realizzarsi d’un fine esterno al rapporto contrattuale singolarmente considerato (e che può declinarsi, a seconda delle opzioni giuspolitiche e dei contesti economici, nei termini della tutela di piccoli produttori indipendenti, della tutela dei consumatori, del favorire e promuovere il dinamismo concorrenziale). La parità quale elemento ontologicamente costitutivo dei rapporti di diritto privato è oggi largamente revocata in discussione. (…) Nel porre rimedio alle asimmetrie informative o relazionali e correggere gli abusi dell’autonomia privata, la norma imperativa ristabilisce quell’assetto paritario che si predica(va) connaturato al diritto privato. La parità non è, dunque, a priori rispetto alla fattispecie e poi alla disciplina del rapporto, ma un risultato cui bisogna tendere per assicurare l’efficiente funzionamento del mercato.
[7] Vedi D. Imbruglia, Mercato unico sostenibile e diritto dei consumatori, cit., p. 501 s. F. Bertelli, Le dichiarazioni di sostenibilità nella fornitura di beni al consumo, cit., p. 4, che evidenzia “uno spostamento del baricentro della produzione normativa, la quale, pur riconoscendo la libertà di concorrenza, ne muta obiettivi e risultati, superandone una ricostruzione in termini esclusivamente individualistici”.
[8] D. Imbruglia, Mercato unico sostenibile e diritto dei consumatori, cit., p. 503, il quale muovendo dalla consapevolezza circa l’essere la protezione del consumatore “un qualcosa di flessibile e articolato a partire dall’obiettivo che si intende perseguire”, rileva come “la sostenibilità è un obiettivo di conformazione del mercato che il legislatore europeo si è dato, mentre la protezione del consumatore rileva quale strumento a cui il legislatore ricorre nella regolazione e conformazione del mercato”
[9] Sul punto vedi A. Quarta, Per una teoria dei rimedi nel consumo etico. La non conformità sociale dei prodotti tra vendita e produzione, in Contr. impr., 2 (2021), p.524 s.
[10] La Risoluzione 2020/2021 (INI) Risoluzione del Parlamento europeo del 25 novembre 2020 sul tema "Verso un mercato unico più sostenibile per le imprese e i consumatori" (2020/2021(INI)), disponibile in https://www.europarl.europa.eu (10 gennaio 2023), sottolinea “che un mercato unico ben funzionante rappresenta un potente strumento per le transizioni verde e digitale dell'UE, anche in relazione al suo ruolo in un'economia globalizzata; evidenzia che il completamento e l'approfondimento del mercato unico, tra l'altro attraverso l'efficace applicazione della legislazione esistente e la rimozione dei restanti ostacoli ingiustificati e sproporzionati, rappresentano una condizione essenziale per aumentare la sostenibilità della produzione e del consumo nell'UE; chiede una governance trasparente del mercato interno, unitamente a un monitoraggio più efficace e rafforzato; ritiene che il quadro giuridico di un mercato unico più sostenibile debba promuovere l'innovazione e lo sviluppo di tecnologie sostenibili, incoraggiare le imprese a effettuare la transizione verso modelli imprenditoriali più sostenibili e contribuire in tal modo a una ripresa economica sostenibile; (…) osserva che molti prodotti immessi sul mercato unico, in particolare quelli venduti da mercati online e importati da paesi non appartenenti all'UE, non rispettano la legislazione dell'Unione relativa ai requisiti di sicurezza e sostenibilità dei prodotti; invita la Commissione e gli Stati membri ad agire con urgenza per garantire parità di condizioni per le imprese dell'UE con concorrenti internazionali, nonché per garantire prodotti sicuri e sostenibili per i consumatori attraverso una migliore vigilanza del mercato e norme di controllo doganale equivalenti in tutta l'UE per le imprese sia tradizionali che online; ricorda che per assolvere a questo compito, le autorità di vigilanza dei mercati devono disporre di risorse finanziarie, tecniche, di informazione e umane adeguate in conformità del regolamento (UE) 2019/1020 e invita gli Stati membri a soddisfare dette esigenze e la Commissione a garantire la corretta attuazione del regolamento; sottolinea che l'interazione tra il sistema RAPEX e i mercati e le piattaforme online dovrebbe essere notevolmente potenziata”.
[11] Sul tema la letteratura consumeristica è generalmente concorde. Si vedano da ultimo tra molti S. Pagliantini, In memoriam delconsumatore medio, in Eur. e dir. priv., 1 (2021), p. 1; L. Nivarra, Tutela dell’affidamento e apparenza nei rapporti di mercato, in Eur. dir. priv., 3 (2013), 3, p. 847; A. Plaia, Profili evolutivi della tutela contrattuale, in Eur. dir. priv., 1 (2018), p.76;
[12] Risoluzione del Parlamento europeo del 25 novembre 2020 sul tema "Verso un mercato unico più sostenibile per le imprese e i consumatori" (2020/2021(INI)), cit.
[13] Vedi sopra, nota 1.
[14] Tale consapevolezza è ormai ampiamente consolidata in letteratura: vedi tra gli altri (nota 1) più di recente S. Pagliantini, In memoriam del consumatore medio, cit., p. 1; A. Plaia, Profili evolutivi della tutela contrattuale, cit., p. 76; L. Nivarra, Tutela dell’affidamento e apparenza nei rapporti di mercato, cit., p. 847; F. Denozza, Mercato, razionalità degli agenti e disciplina dei contratti, in Oss. dir. civ. comm., 1 (2012), p. 5. R. Caterina, Psicologia della decisione e tutela del consumatore, in Anal. giur. econ., 1 (2012), p. 67. E. Maitre-Ekern – C. Dalhammar, Towards a hierarchy of consumption behaviour, in Maastr. Journ. Eur. Comp. Law, 3 (2019), p. 394.
[15] Come è stato fin da subito rilevato in dottrina, “l'uniformazione del diritto dei contratti e delle obbligazioni - quale branca del diritto privato cui dare priorità nel cammino verso la completa unificazione legislativa non potrebbe avvenire senza una politica degli atti di consumo, considerato che i vari Stati membri manifestavano verso tale settore una diversa sensibilità di partenza, cosicché a Stati che non riconoscevano al consumatore una soggettività per certi versi differenziata dalla persona fisica, si col locavano altri i quali già avevano varato una più o meno organica normativa interna di consumere protection” (così, G. Alpa - G. Chinè, Consumatore (protezione del) nel diritto civile, Digesto, Discipline privatistiche, IV, Torino, 1997, p. 541 s.).
[16] Così come ricorda peraltro il Comitato economico e sociale nel noto pareresultema « il consumatore ed il mercato interno »del 24 novembre 1992, (G.u.c.e. 25-1-1993, n.C 19/22, in http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2005:157:0001:0015:IT:PDF(10 gennaio 2023)). In ordine alla funzione regolatoria del diritto privato afferma A. Zoppini, Diritto privato vs diritto amministrativo (ovvero alla ricerca di confini tra Stato e mercato), cit., p. 526: “Il diritto privato regolatorio non è inteso ad agevolare, nella logica della norma suppletiva, la relazione contrattuale, offrendo una soluzione sempre declinabile da una diversa scelta delle parti: al contrario, riscrive il contenuto negoziale, imponendo una regola aliena. Esso seleziona con la forza della norma imperativa, tra le possibili, le scelte capaci di garantire un’allocazione delle risorse che il mercato, nel caso specifico, non sarebbe in grado di assicurare ovvero previene e reprime gl’esiti inefficienti che derivano dai comportamenti che si discostano dai paradigmi concorrenziali. Tale insieme di regole si legge nell’ordito che disciplina i rapporti contrattuali tra imprese e, poi, tra imprese e consumatori; nei principî immanenti nell’ordinamento comunitario; nella disciplina dei mercati regolamentati, governati da autorità indipendenti; nelle regole di funzionamento del mercato unico”.
[17] Sul rilievo della razionalità limitata del consumatore nelle relazioni di mercato vedi, in particolare, F. Denozza, Mercato, razionalità degli agenti e disciplina del contratto, in Orizz. dir. comm., 1 (2012), p. 14 ss.; A. Zoppini, Le domande che ci propone l’economia comportamentale ovvero il crepuscolo del «buon padre di famiglia», in Oltre il soggetto razionale, a cura di G. Rojas Elgueta-N. Vardi, Roma, 2014, pp. 11 ss. spec. 15 ss. e 18 ss., Id., voce Contratto ed economia comportamentale, in Enc. dir., I tematici, I, Contratto, diretto da G. D’Amico, Milano, 2021, p. 316 ss.; V. Roppo, I paradigmi di comportamento del consumatore, del contraente debole e del contraente professionale nella disciplina del contratto, in Oltre il soggetto razionale, cit., p. 25 ss.; R. Caterina, Modelli di razionalità e incompletezza del regolamento contrattuale, ivi, p. 47 ss.; G. Grisi, Gli obblighi informativi quali rimedio dei fallimenti cognitivi, ivi, p. 59 ss.; A. GENTILI, Il ruolo della razionalità cognitiva nelle invalidità negoziali, ivi, p. 75 ss.; G. Rojas Elgueta, Fallimenti cognitivi e regolazione del mercato energetico, in Contr. impr., 1 (2016), p. 253 ss.; D. Caterino, Denominazione e «labeling» della società «benefit», tra marketing «reputazionale» e alterazione delle dinamiche concorrenziali, in Giur. comm., I (2020), p. 787 ss.
[18] A. Quarta, Per una teoria dei rimedi nel consumo etico. La non conformità sociale dei prodotti tra vendita e produzione, cit., p. 524.
[19] Considera inadeguata la normativa consumeristica, F. Bertelli, Le dichiarazioni di sostenibilità nella fornitura di beni al consumo, cit, p. 9. la quale, secondo l’autore, “continua a mirare al superamento di asimmetrie informative che, pur essendo prodromiche a fallimenti del mercato, rimangono inevitabilmente correlate alla singola pattuizione e alle finalità individuali che ne determinano il perfezionamento”. L’autore, muovendo dalla considerazione che la disciplina costituzionale e comunitaria imponendo di volgere l’iniziativa economica al raggiungimento di uno sviluppo sostenibile, trascende il riconoscimento della libertà della scelta individuale, “la quale deve orientarsi alla conservazione e al rispetto di bisogni non necessariamente riferibili al singolo e più ampiamente riconducibili alla collettività”, denuncia , ancor prima “l’insufficienza di un apparato normativo finalizzato alla tutela della concorrenza, a misura che la sua portata precettiva sia ridotta alla valorizzazione della pluralità competitiva delle imprese, intesa quale condizione necessaria e sufficiente per consentire al singolo la più ampia libertà decisionale ed assicurargli contestualmente l’ottenimento di un bene o di un servizio alle condizioni economico-monetarie più favorevoli”.
[20] Sulla ratio della politica consumeristica vedi da ultimo, D. Imbruglia, Mercato unico sostenibile e diritto dei consumatori, cit., p.503; S. Pagliantini, In memoriam del consumatore medio, cit., p. 1; A. Plaia, Profili evolutivi, cit., p. 76; H. Micklitz, Il consumatore: mercatizzato, frammentato, costituzionalizzato, cit., p. 859; L. Nivarra, Tutela dell’affidamento e apparenza nei rapporti di mercato, cit., p.847; Id., Diritto privato e capitalismo, Napoli, 2010, p. 101; R. Caterina, Psicologia della decisione e tutela del consumatore, cit., p. 67. Con riferimento al mercato sostenibile, E. Maitre-Ekern – C. Dalhammar, Towards a hierarchy of consumption behaviour, cit., p. 394.
[21] Vedi B. Pozzo, I green claims, l’economia circolare e il ruolo dei consumatori nella protezione dell’ambiente: le nuove iniziative della Commissione UE, in Riv. giur. amb., 4 (2020), p. 707 s.
[22] A partire dal Quinto programma d’azione in campo ambientale adottato il 18 marzo 1992, intitolato “Per uno sviluppo durevole e sostenibile”, cit., la Commissione promuoveva nuovi strumenti di salvaguardia dell’ambiente diretti a rendere le imprese partecipi di un processo di sensibilizzazione e coscienza ambientali, attraverso un sistema di “responsabilità condivisa”. Nel successivo Sesto programma d’azione in campo ambientale, 2002-2010, cit., la Commissione individuava chiaramente come principale scopo della politica ambientale quello di indurre il mercato a lavorare per l’ambiente. Le imprese venivano incoraggiate a collaborare attivamente, introducendo programmi premiali per le aziende con le migliori prestazioni ambientali, promuovendo prodotti e processi più verdi, incentivando l’adozione di marchi ecologici che permettessero ai consumatori di confrontare prodotti analoghi in base alle prestazioni ambientali. Ciò veniva previsto a condizione che i consumatori ricevessero informazioni affidabili sulle qualità dei prodotti al fine di poter effettuare una scelta a favore di quelli più sostenibili. Nel Settimo Programma d’azione dell’Unione in materia di ambiente “Vivere bene entro i limiti del nostro pianeta”, cit. nel 2013, la Commissione individuava una nuova concezione di benessere, coniugando le ragioni dell’ambiente con quelle del mercato. In particolare si sottolineava come “un’opportuna combinazione di strumenti politici aiuterebbe gli operatori economici e i consumatori ad acquisire una migliore comprensione dell’impatto ambientale delle loro attività e a gestirlo.
[23] Sul punto vedi F. Bertelli, Green claims tra diritti del consumatore e tutela della concorrenza, in Contr. e impresa, 1 (2021), p. 286 s.
[24] Così P. De gioia Carabellese – S. Davini, Derivati sostenibili, “greenwashing” e tutela legale; dallo “Stakeholder” al “greenstakeholder”, in Ambientediritto.it, 3 (2021), p. 16 s., i quali si occupano della tutela dell’investitore leso da informazioni fuorvianti sulla natura dell’investimento, con riferimento specifico al mercato dei derivati sostenibili. Affermano gli autori: “qualora il greenwashing incida sulle condizioni di offerta o collocamento di uno strumento o prodotto finanziario, l’investitore che a causa di quel tipo di irregolarità informativa, subisca un danno, potrà senz’altro azionare rimedi risarcitori contro chi ha emesso o distribuito il predetto strumento o prodotto (ed anche verso chi abbia certificato la bontà degli impegni ed obiettivi ecosostenibili esposti nei relativi documenti di offerta o sottoscrizione).
[25] A. Cobianchi, Comunicare la sostenibilità. Oltre il Greenwashing, Milano, 2022, p. 82.
[26] Nel 2012 l’Agenda Europea dei consumatori, in https://ec.europa.eu/info/topics/consumers_it (10 gennaio 2023), sanciva il ruolo importante che i consumatori potevano svolgere per il successo di prodotti sostenibili, rendendo così più disponibili e accessibili tali prodotti, premiando allo stesso tempo le imprese in grado di offrire beni e servizi di qualità con minore impatto ambientale.
[27] L’ambito di applicazione secondo quanto dispone il 6 considerando va esteso ulteriormente. Ai sensi dell’art. 5 “la Commissione istituisce un comitato dell'Unione europea per il marchio di qualità ecologica (CUEME) composto dai rappresentanti degli organismi competenti di tutti gli Stati membri di cui all'articolo 4 e dai rappresentanti delle altre parti interessate”.
[28] Nella determinazione di tali criteri sono presi in considerazione:
a) impatti ambientali più significativi, in particolare l'impatto sui cambiamenti climatici, l'impatto sulla natura e la biodiversità, il consumo di energia e di risorse, la produzione di rifiuti, le emissioni in tutti i comparti ambientali, l'inquinamento dovuto ad effetti fisici e l'uso e il rilascio di sostanze pericolose;b) la sostituzione delle sostanze pericolose con sostanze più sicure, in quanto tale ovvero mediante l'uso di materiali o di una progettazione alternativi, ogniqualvolta ciò sia tecnicamente fattibile;
c) le possibilità di ridurre gli impatti ambientali grazie alla durata dei prodotti e alla loro riutilizzabilità;
d) il saldo ambientale netto risultante dai benefici e dagli aggravi ambientali, compresi gli aspetti inerenti alla salute e alla sicurezza, durante le diverse fasi di vita dei prodotti;
e) ove opportuno, gli aspetti sociali ed etici, ad esempio facendo riferimento alle convenzioni e agli accordi internazionali in materia, quali le norme e i codici di condotta pertinenti dell'Organizzazione internazionale del lavoro (OIL);
f) i criteri stabiliti per altri marchi ambientali, specie per i marchi ambientali EN ISO 14024 di tipo I ufficialmente riconosciuti, a livello nazionale o regionale, qualora esistano per il gruppo di prodotti considerato, in modo da accrescere le sinergie;
g) per quanto possibile, il principio della riduzione degli esperimenti sugli animali. Sono stati emanati provvedimenti specifici per determinati tipi di prodotti che presentavano caratteristiche volte a dichiarare al consumatore una particolare attenzione per l’ambiente. E così nel caso dei prodotti biologici, il Regolamento (CE) 834/0735, in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/LSU/?uri=CELEX:32007R0834 (10 gennaio 2023)e il Regolamento (CE) 889/0836, in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:32008R0889 (10 gennaio 2023), disciplinano l’etichettatura e l’indicazione del metodo di produzione biologico Lo stesso tipo di tutela, diretta a facilitare i consumatori a fare una scelta consapevole al momento dell’acquisto, è prevista dal Regolamento (CE) 1222/2009, sull’etichettatura dei pneumatici in relazione al consumo di carburante e ad altri parametri fondamentali, che istituisce ???
[29] Nella determinazione di tali criteri sono presi in considerazione: a) impatti ambientali più significativi, in particolare l'impatto sui cambiamenti climatici, l'impatto sulla natura e la biodiversità, il consumo di energia e di risorse, la produzione di rifiuti, le emissioni in tutti i comparti ambientali, l'inquinamento dovuto ad effetti fisici e l'uso e il rilascio di sostanze pericolose;
[29] b) la sostituzione delle sostanze pericolose con sostanze più sicure, in quanto tale ovvero mediante l'uso di materiali o di una progettazione alternativi, ogniqualvolta ciò sia tecnicamente fattibile;
c) le possibilità di ridurre gli impatti ambientali grazie alla durata dei prodotti e alla loro riutilizzabilità;
d) il saldo ambientale netto risultante dai benefici e dagli aggravi ambientali, compresi gli aspetti inerenti alla salute e alla sicurezza, durante le diverse fasi di vita dei prodotti;
e) ove opportuno, gli aspetti sociali ed etici, ad esempio facendo riferimento alle convenzioni e agli accordi internazionali in materia, quali le norme e i codici di condotta pertinenti dell'Organizzazione internazionale del lavoro (OIL);
f) i criteri stabiliti per altri marchi ambientali, specie per i marchi ambientali EN ISO 14024 di tipo I ufficialmente riconosciuti, a livello nazionale o regionale, qualora esistano per il gruppo di prodotti considerato, in modo da accrescere le sinergie;
g) per quanto possibile, il principio della riduzione degli esperimenti sugli animali. Sono stati emanati provvedimenti specifici per determinati tipi di prodotti che presentavano caratteristiche volte a dichiarare al consumatore una particolare attenzione per l’ambiente. E così nel caso dei prodotti biologici, il Regolamento (CE) 834/0735, in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/LSU/?uri=CELEX:32007R0834 (10 gennaio 2023) e il Regolamento (CE) 889/0836, in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:32008R0889 (10 gennaio 2023), disciplinano l’etichettatura e l’indicazione del metodo di produzione biologico. Lo stesso tipo di tutela, diretta a facilitare i consumatori a fare una scelta consapevole al momento dell’acquisto, è prevista dal Regolamento (CE) 1222/2009, sull’etichettatura dei pneumatici in relazione al consumo di carburante e ad altri parametri fondamentali.
La Direttiva 1992/75/CEE del Consiglio, del 22 settembre 1992 concernente l’indicazione del consumo d’energia e di altre risorse degli apparecchi domestici, mediante l’etichettatura ed informazioni uniformi relative ai prodotti, GUCE L 297, 13.10.1992, in stabiliva, per la prima volta, l’obbligatorietà di un numero di informazioni relative al consumo di energia e di altre risorse essenziali (acqua, prodotti chimici o qualsiasi altra risorsa consumata da un apparecchio per il suo normale funzionamento) degli apparecchi domestici immessi sul mercato comunitario, al fine di indurre i consumatori a scegliere apparecchi più efficienti dal punto di vista energetico al momento dell’acquisto. Successivamente la materia è stata riformata dalla Direttiva quadro 2010/30/UE del Parlamento europeo e del Consiglio “concernente l’indicazione del consumo di energia e di altre risorse dei prodotti connessi all’energia, mediante l’etichettatura ed informazioni uniformi relative ai prodotti” (GU L 153, 18.6.2010, p. 1-12. poi sostituita dal Regolamento (UE) 2017/1369 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 4 luglio 2017 che istituisce un quadro per l’etichettatura energetica. Il Regolamento si applica ai prodotti connessi all’energia immessi sul mercato o messi in servizio e prevede l’etichettatura di tali prodotti e la fornitura di informazioni uniformi relative all’efficienza energetica, al consumo di energia e di altre risorse da parte dei prodotti durante l’uso, nonché informazioni supplementari sugli stessi, in modo da consentire ai clienti di scegliere prodotti più efficienti al fine di ridurre il loro consumo di energia. Analogamente la Direttiva 2010/31/UE sulla prestazione energetica nell’edilizia (in GU L 153/13 del 18 giugno 2010) che prevede l’obbligo di riportare sugli annunci a mezzo di comunicazioni commerciali un attestato di prestazione energetica volto a consentire ai proprietari e ai locatari di valutare e raffrontare la prestazione energetica degli edifici.
[30] Direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio («direttiva sulle pratiche commerciali sleali»), in GU L 149, 11.6.2005, p. 22-39.
[31] Direttiva (UE) 2019/2161 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 novembre 2019 che modifica la direttiva 93/13/CEE del Consiglio e le direttive 98/6/CE, 2005/29/CE e 2011/83/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per una migliore applicazione e una modernizzazione delle norme dell’Unione relative alla protezione dei consumatori.
32 Il considerando 16 così afferma: “Gli Stati membri dovrebbero garantire la disponibilità di rimedi per i consumatori danneggiati da pratiche commerciali sleali per eliminare tutti gli effetti di tali pratiche scorrette. L’adozione di un quadro ben preciso per i rimedi individuali faciliterebbe l’esecuzione a livello privato. Il consumatore dovrebbe poter ottenere il risarcimento dei danni e, se pertinente, una riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto, in modo proporzionato ed efficace. Agli Stati membri non dovrebbe essere impedito di mantenere o introdurre il diritto ad altri rimedi, come la riparazione o la sostituzione, per i consumatori danneggiati da pratiche commerciali sleali per garantire l’eliminazione totale degli effetti di tali pratiche. Agli Stati membri non dovrebbe essere impedito di stabilire le condizioni per l’applicazione e gli effetti dei rimedi per i consumatori. Nell’applicare tali rimedi si potrebbe tener conto, se del caso, della gravità e della natura della pratica commerciale sleale, del danno subito dal consumatore e di altre circostanze pertinenti, quali la condotta scorretta del professionista o l’inadempimento del contratto.
[33] In Italia, oltre alle regole di derivazione comunitaria, la regolamentazione delle pratiche commerciali sleali è prevista dal codice di autodisciplina pubblicitaria, emanato nel 1966 e ora nel 2020 nella sua edizione. L'articolo 1 stabilisce il principio secondo cui la pubblicità deve essere onesta, veritiera e corretta. Nel settore pubblicitario, il codice elaborato dalla International Chamber of Commerce (ICC) di Parigi, i codici di autodisciplina esistenti a livello nazionale, come in particolare quello italiano, hanno recepito negli ultimi anni specifiche indicazioni per fare si che i claims, che vantino delle specifiche qualità ambientali, siano verificabili. Vedi C. Alvisi - V. Guggino, Introduzione, in Autodisciplina Pubblicitaria. La soft law della pubblicità italiana, a cura di C. Alvisi - V. Guggino, Torino, 2020, p. 85, V. Di Cataldo, L’esperienza italiana dell’autodisciplina pubblicitaria, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa - Lezioni Magistrali, Napoli, 2013, p. 205, e M. Di Toro, Pubblicità ingannevole: Autorità Antitrust vs Giurì di Autodisciplina, in Consumatori, Diritti e Mercato, 2 (2009), 2, p. 90. Vedi B. Pozzo, I green claims, l’economia circolare e il ruolo dei consumatori nella protezione dell’ambiente: le nuove iniziative della Commissione UE, cit., p. 741 s.
[34] Tra le pronunce più significative, nel 2018, la Giuria ha, quindi, ritenuto il claim “completamente biodegradabile”, “fuorviante laddove non specifichi il significato da attribuire all'espressione” sulla base del criterio stabilito dalla normativa vigente ed, in particolare, dal Regolamento CE n. 648/2004, per il quale l'indicazione "completamente biodegradabile" era da intendersi come in grado di determinare una degradazione superiore al 60% in 28 giorni, mentre invece il consumatore sarebbe indotto a credere che “completamente” fosse sinonimo di “pienamente, al 100%” (Pronuncia n. 39/2018 Madel S.p.A. contro Real Chimica S.r.l. e contro Rai-Radiotelevisione Italiana S.p.A. e Publitalia '80 S.p.A.). In senso contrario, invece, nel 2020, dopo un lungo processo, la Giuria ha ritenuto conforme alle regole del Codice la pubblicità relativa all'acqua Uliveto, che vantava proprietà benefiche per le ossa grazie alla quantità di calcio in essa contenuta. Secondo la Giuria, queste proprietà erano scientificamente confermate e legittimamente considerate come finalizzate alla sensibilizzazione alla prevenzione, non alla promessa di effetti curativi. (Pronuncia n. 4/2020 del 11/2/2020 -Lete S.p.A. c. Co.ge.Di. International S.p.A. contro Acqua e Terme di Uliveto S.p.A.). Ed allo stesso modo, il Giurì ha ritenuto che la comunicazione commerciale relativa ad un prodotto alimentare spalmabile in cui si affermava “buono per il pianeta perché biologico e senza olio di palma” è conforme al Codice. Da un lato, la dicitura “senza olio di palma” trasmetteva informazioni veritiere sulla composizione del prodotto e potenzialmente rilevanti per il consumatore. D'altra parte, l'indicazione ambientale era legata al carattere biologico del prodotto, dimostrato ai sensi dell'art.6 del Codice. (Pronuncia n. 27/2020 del 22/7/2020 - Unione Italiana per l'Olio di Palma Sostenibile contro c. Rigoni di Asiago S.r.l.).Così anche nel 2021, il Giurì ha giudicato ingannevole la pubblicità del tonno in scatola mare aperto, nella misura in cui vantava l'esclusività del sistema di apertura delle lattine, con la seguente dicitura: “Solo Mare Aperto ha un'apertura facile e sicura”, non avendo l'inserzionista dimostrato che i sistemi di apertura dei concorrenti erano insicuri; come pure giudicava ingannevole l'affermazione “la verità è che nessuno ha un progetto come We Sea”, in quanto rivendicante una superiorità in termini di sostenibilità ambientale non supportata da alcuna prova. Il Giurì ha inoltre considerato i messaggi nel loro insieme contrari agli articoli 14 e 15, con particolare riferimento all'affermazione “Verità del tonno”, in quanto idonei a veicolare surrettiziamente nei consumatori il messaggio, al tempo stesso denigratorio e impropriamente comparativo, che nessuno dei concorrenti dica la verità quando rivendica la sostenibilità ambientale del proprio prodotto. Il messaggio, reputato ingannevole, affermava infatti:”La verità è che la pesca non è la stessa per tutti” - “La verità è che alcuni si prendono cura del mare responsabilmente” - “La verità è che il nostro tonno è certificato e proviene da una pesca sostenibile” - “La verità è che nessuno ha un progetto come We Sea” - “La verità è che usiamo il 100% della materia prima” - “La verità è che abbiamo un'apertura facile e sicura” - “tonno mare aperto”) Pronuncia n. 4/2021 del 23/2/2021 - Bolton Food S.p.A. v Mare Aperto Food S.r.l.).
[35] G. Cassano-A. Catricalà-R. Clarizia, Concorrenza, mercato e diritto dei consumatori, Torino, 2018, p. 8
[36] La ratio di tutela del consumatore e indirettamente della concorrenza rappresenta la chiave di lettura della disciplina in oggetto: «la presente direttiva tutela direttamente gli interessi economici dei consumatori e, quindi, indirettamente le attività legittime da quelle dei rispettivi concorrenti che non rispettano le regole previste e, pertanto, garantisce nel settore da essa coordinato una concorrenza leale» (Considerando n.8). Vedi A. Zoppini, Diritto privato vs diritto amministrativo (ovvero alla ricerca di confini tra Stato e mercato), cit., p. 520; Id., Autonomia contrattuale, regolazione del mercato, diritto della concorrenza, in Contratto e Antitrust, a cura di G. Olivieri-A. Zoppini, Roma-Bari, 2008, p. 3 ss., pubblicato anche, con talune modifiche, in C. Rabitti Bedogni-P. Barucci (a cura di), 20 Anni di Antitrust. L’evoluzione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, t. II, Torino, 2010, p. 1095.
[37] Vedi B. Pozzo, I green claims, l’economia circolare e il ruolo dei consumatori nella protezione dell’ambiente: le nuove iniziative della Commissione UE, cit., p. 723.
[38] Art. 6 Direttiva 2005/29/CE, Azioni ingannevoli: 1. È considerata ingannevole una pratica commerciale che contenga informazioni false e sia pertanto non veritiera o in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, inganni o possa ingannare il consumatore medio, anche se l’informazione è di fatto corretta, riguardo a uno o più dei seguenti elementi e in ogni caso lo induca o sia idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso: a) l’esistenza o la natura del prodotto; b) le caratteristiche principali del prodotto, quali la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, l’esecuzione, la composizione, gli accessori, l’assistenza post-vendita al consumatore e il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, la consegna, l’idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l’origine geografica o commerciale o i risultati che si possono attendere dal suo uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto; c) la portata degli impegni del professionista, i motivi della pratica commerciale e la natura del processo di vendita, qualsiasi dichiarazione o simbolo relativi alla sponsorizzazione o all’approvazione dirette o indirette del professionista o del prodotto; d) il prezzo o il modo in cui questo è calcolato o l’esistenza di uno specifico vantaggio quanto al prezzo; e) la necessità di una manutenzione, ricambio, sostituzione o riparazione; f) la natura, le qualifiche e i diritti del professionista o del suo agente, quali l’identità, il patrimonio, le capacità, lo status, il riconoscimento, l’affiliazione o i collegamenti e i diritti di proprietà industriale, commerciale o intellettuale o i premi e i riconoscimenti; g) i diritti del consumatore, incluso il diritto di sostituzione o di rimborso ai sensi della direttiva 1999/44/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 maggio 1999 su taluni aspetti della vendita e delle garanzie dei beni di consumo, o i rischi ai quali può essere esposto. 2. È altresì considerata ingannevole una pratica commerciale che, nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, induca o sia idonea ad indurre il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso e comporti: a) una qualsivoglia attività di marketing del prodotto, compresa la pubblicità comparativa, che ingeneri confusione con i prodotti, i marchi, la denominazione sociale e altri segni distintivi di un concorrente; b) il mancato rispetto da parte del professionista degli impegni contenuti nei codici di condotta che il medesimo si è impegnato a rispettare, ove: i) non si tratti di una semplice aspirazione ma di un impegno fermo e verificabile; e ii) il professionista indichi in una pratica commerciale che è vincolato dal codice.
Art. 7 Direttiva 2005/29/CE, Omissioni ingannevoli: 1. È considerata ingannevole una pratica commerciale che nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, nonché dei limiti del mezzo di comunicazione impiegato, ometta informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno in tale contesto per prendere una decisione consapevole di natura commerciale e induca o sia idonea ad indurre in tal modo il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso. 2. Una pratica commerciale è altresì considerata un’omissione ingannevole quando un professionista occulta o presenta in modo oscuro, incomprensibile, ambiguo o intempestivo le informazioni rilevanti di cui al paragrafo 1, tenendo conto degli aspetti di cui a detto paragrafo, o non indica l’intento commerciale della pratica stessa, qualora non risultino già evidenti dal contesto e quando, in uno o nell’altro caso, ciò induce o è idoneo a indurre il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso. 3. Qualora il mezzo di comunicazione impiegato per comunicare la pratica commerciale imponga restrizioni in termini di spazio o di tempo, nel decidere se vi sia stata un’omissione di informazioni si tiene conto di dette restrizioni e di qualunque misura adottata dal professionista per mettere le informazioni a disposizione dei consumatori con altri mezzi. 4. Nel caso di un invito all’acquisto sono considerate rilevanti le informazioni seguenti, qualora non risultino già evidenti dal contesto: a) le caratteristiche principali del prodotto in misura adeguata al mezzo di comunicazione e al prodotto stesso; b) l’indirizzo geografico e l’identità del professionista, come la sua denominazione sociale e, ove questa informazione sia pertinente, l’indirizzo geografico e l’identità del professionista per conto del quale egli agisce; c) il prezzo comprensivo delle imposte o, se la natura del prodotto comporta l’impossibilità di calcolare ragionevolmente il prezzo in anticipo, le modalità di calcolo del prezzo e, se del caso, tutte le spese aggiuntive di spedizione, consegna o postali oppure, qualora tali spese non possano ragionevolmente essere calcolate in anticipo, l’indicazione che tali spese potranno essere addebitate al consumatore; d) le modalità di pagamento, consegna, esecuzione e trattamento dei reclami qualora esse siano difformi dagli obblighi imposti dalla diligenza professionale; e) l’esistenza di un diritto di recesso o scioglimento del contratto per i prodotti e le operazioni commerciali che comportino tale diritto. 5. Sono considerati rilevanti gli obblighi di informazione, previsti dal diritto comunitario, connessi alle comunicazioni commerciali, compresa la pubblicità o il marketing, di cui l’allegato II fornisce un elenco non completo. I considerando 39 e 40 della direttiva 2019/2161/Ce ha previsto che: “L’articolo 7, paragrafo 4, della direttiva 2005/29/CE stabilisce gli obblighi di informazione nel caso di un «invito all’acquisto» di un prodotto a un prezzo specifico. Tali obblighi di informazione si applicano già nella fase pubblicitaria” (..) e che: “Gli obblighi di informazione al consumatore ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 4, della direttiva 2005/29/CE includono le modalità di trattamento dei reclami da parte del professionista”.
[39] Art. 12 Direttiva 2005/29/CE, Organi giurisdizionali e amministrativi: allegazioni fattuali. Gli Stati membri attribuiscono agli organi giurisdizionali o amministrativi il potere, in un procedimento civile o amministrativo di cui all’articolo 11: a) di esigere che il professionista fornisca prove sull’esattezza delle allegazioni fattuali connesse alla pratica commerciale se, tenuto conto degli interessi legittimi del professionista e di qualsiasi altra parte nel procedimento, tale esigenza risulti giustificata, date le circostanze del caso specifico; e b) di considerare inesatte le allegazioni fattuali, se le prove richieste ai sensi della lettera a) non siano state fornite o siano ritenute insufficienti dall’organo giurisdizionale o amministrativo.
[40] Multistakeholder Group on Environmental Claims, reperibile sulla rete interconnessa.
[41] Environmental Claims, Report from the Multi-Stakeholder Dialogue, Helping consumers make informed green choices and ensuring a level playing field for business, Report presented at the European Consumer Summit 18-19 March 2013, reperibile sulla rete interconnessa.
[42] Nel famoso scandalo “Dieselgate” che ha visto il gruppo Volkswagen (VW) accusato dalla Federal trade Commission di aver ingannato i consumatori con il “diesel pulito”, per aver installato su circa undici milioni di automobili un software, il defeat device, che riportava erroneamente minori emissioni inquinanti, allo scopo di ingannare intenzionalmente chi aveva il compito di controllare la regolarità di tali emissioni, la frode perpetrata dalla casa automobilistica tedesca è stata denunciata dalle associazioni dei consumatori dinanzi all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. La pronuncia poi confermata dal T.a.r Lazio (TAR Lazio, Sez II, 27 dicembre 2016, n. 7872, in https://www.giustizia-amministrativa.it (10 gennaio 2023)) afferma che sussiste un onere informativo minimo imprescindibile a carico dei professionisti, che intendano ricorrere a vanti ecologici dei propri prodotti: essi devono presentarli in modo necessariamente chiaro, veritiero, accurato, non ambiguo, né ingannevole. L’attività dei professionisti coinvolti nel dieselgate – recita il provvedimento dell’Antitrust – «integra una violazione grave degli obblighi di diligenza professionale, ponendosi ben oltre il mancato rispetto del normale grado di competenza e attenzione che ragionevolmente ci si potrebbe attendere». Il Gruppo Volkswagen, secondo la pronuncia del Garante, attraverso specifici green claim, avrebbe influenzato il comportamento dei consumatori inducendo loro la convinzione di acquistare da «un produttore di autoveicoli che fa della tutela dell’ambiente uno dei suoi principali obiettivi e, verso la quale, nella consapevolezza di una particolare responsabilità sociale, è orientata la propria strategia produttiva». Analogamente nel caso ENI diesel l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha disposto una multa di 5 milioni di euro nei confronti di ENI, con l’accusa di greenwashing e pratica commerciale ingannevole in merito alla pubblicità “Eni Diesel+”; la decisione riguarda il messaggio, oggi dichiarato ingannevole, di un diesel bio, green e rinnovabile, che riduce le emissioni gassose fino al 40%.(AGCM, Delibera 20/12/2019, n. 28060, in https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2020/1/PS11400 (10 gennaio 2023).). L’ingannevolezza dei messaggi utilizzati nella campagna promozionale che ha riguardato il carburante “Eni Diesel+”, concerne l’affermazione del positivo impatto ambientale connesso al suo utilizzo, oltre alle asserite caratteristiche di tale carburante in termini di risparmio dei consumi e riduzioni delle emissioni gassose. Secondo l’Antitrust, tali vanti ambientali attribuiti al “Green Diesel” non sono risultati fondati. Sulla base degli elementi acquisiti veniva così deliberato che la pratica commerciale, realizzata dalla società ENI S.p.A., costituiva una pratica commerciale scorretta ai sensi degli artt. 21 e 22 del Codice del Consumo, vietandone la diffusione o continuazione.
[43] Trib. Gorizia, Sez. Un. Civ., del 25 novembre 2021 n. 712, in https://giuridica.net/tribunale-gorizia-sez-civile-sentenza-n-802016 (10 gennaio 2023).
[44] “In una comunicazione composta da più messaggi”, afferma, “l'interesse dell'operatore potrebbe essere quello di porre in particolare rilievo posizionale o grafico solo uno di essi, quello più positivo ed accattivante, così da catturare l'attenzione del consumatore, "al primo contatto". Il consumatore a quel punto, affascinato dal concetto veicolato, potrebbe decidere di acquistare immediatamente il prodotto/servizio, disinteressandosi degli altri messaggi che gli avrebbero consentito di formarsi una rappresentazione completa della realtà. Si tratta di una pubblicità ingannevole.
[45] Nella medesima direzione la Risoluzione 2020/2021 (INI), cit., nella quale si afferma: “che è necessario contrastare le dichiarazioni ingannevoli in materia ambientale e far fronte alle pratiche di "verniciatura verde" ("greenwashing") con metodi efficaci, che stabiliscano tra l'altro come comprovare tali dichiarazioni”; e che “la pubblicità incide sui livelli e sui modelli di consumo; che la pubblicità potrebbe aiutare le imprese e i consumatori a effettuare scelte informate e sostenibili”.
[46] Nel 2013 la Commissione interveniva con un’apposita Comunicazione finalizzata a contribuire alla costruzione del mercato unico dei prodotti verdi, al fine di migliorare le informazioni sulle prestazioni ambientali dei prodotti e delle organizzazioni. Nella Comunicazione la Commissione europea invitava, infatti, le autorità nazionali ad adottare il medesimo sistema di certificazione basato sull’intero ciclo di vita del prodotto, definendo due metodologie basate sull’analisi del ciclo di vita dei prodotti (Life Cycle Analysis). Veniva così prevista una misurazione armonizzata dell’impronta ambientale, rispettivamente, dei prodotti (Product Environmental Footprint, PEF) e delle organizzazioni (Organisation Environmental Footprint, OEF). La Commissione indicava i vantaggi di tali metodologie rispetto ad altri metodi esistenti, tra cui una chiara identificazione delle tipologie del potenziale impatto ambientale da prendere in considerazione; l’obbligo di valutare la qualità dei dati; l’introduzione di prescrizioni minime riguardo alla qualità dei dati; la previsione di istruzioni tecniche più precise per affrontare alcuni aspetti critici degli studi sull’ analisi del ciclo di vita. Con la contestuale Raccomandazione del 2013, la Commissione promuoveva l’utilizzo della Product Environmental Footprint (PEF) e della Organisation Environmental Footprint (OEF). Nel novembre dello stesso anno la Commissione avviava una fase pilota, volta a testare l’applicazione dei metodi relativi all’impronta ambientale dei prodotti e delle organizzazioni nelle norme di categoria e nelle norme settoriali. In questa prospettiva, si collocano le considerazioni contenute nel piano d'azione per l'economia circolare del 2015, in cui si evidenzia chiaramente come le scelte effettuate da milioni di consumatori possano influenzare positivamente o negativamente l'economia circolare; Come la molteplicità di etichette e dichiarazioni ambientali impedisce, il più delle volte ai consumatori dell'Unione di comprendere le differenze tra i vari prodotti, minando la loro fiducia, laddove le c.d. "etichette verdi" non sempre soddisfano i requisiti legali di affidabilità, accuratezza e chiarezza. Per questo motivo, le aziende che desiderano pubblicizzare le caratteristiche ecologiche dei loro prodotti dovrebbero essere tenute a fornire le dimostrazioni di supporto sulla base di una metodologia standard che valuti il loro effettivo impatto ambientale. A tal fine, nel piano d'azione per l'economia circolare pubblicato nel 2020, intitolato “Per un'Europa più pulita e competitiva”, 2020/2077(INI), inhttps://environment.ec.europa.eu/strategy/circular-economy-action-plan_en (10 gennaio 2023), la Commissione ha nuovamente sottolineato l'importanza di informazioni affidabili. L'iniziativa denominata "substantiating green claims" si basa sul presupposto che la fornitura di informazioni affidabili, comparabili e verificabili in relazione all'effettivo impatto ambientale dei diversi prodotti, servizi e organizzazioni sia essenziale per coinvolgere attivamente i consumatori nelle politiche ambientali europee. In questo senso l’esistenza di 457 diverse certificazioni ambientali volontarie, ottenute sulla base di criteri disparati, rischia di compromettere gravemente il raggiungimento degli obiettivi. Le autorità nazionali competenti possono vietare le indicazioni ambientali che ritengono fuorvianti per i consumatori solo sulla base di un'applicazione della vigente legislazione dell'UE e, in particolare, della direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali o sulla base di codici di autoregolamentazione pubblicitaria, o a seguito di azioni rappresentative intentate dagli Enti legittimati, secondo le recenti disposizioni introdotte dalla Direttiva 2020/1828/UE, richiedendo che gli inserzionisti, se del caso, sostengano le loro affermazioni con certificazioni appropriate, ma certamente non possono arrivare al punto di valutare le metodologie con cui tali certificazioni sono state ottenute. È per questo motivo che, come annunciato nel piano d'azione per l'economia circolare 2020, la Commissione intende ora proporre alle imprese di dimostrare le loro dichiarazioni ambientali, utilizzando i metodi dell'impronta ambientale dei prodotti e delle organizzazioni, secondo le metodologie proposte nella comunicazione del 2013 e sulle quali è già avvenuta una prima fase pilota.
[47] Il caso si verificherebbe quando, per esempio, un prodotto sia commercializzato come “realizzato con materiale riciclato” dando l'impressione che l'intero prodotto sia stato realizzato con materiale riciclato laddove in realtà questo è vero solo per l'imballaggio, afferma il Considerando 11.
[48] Al considerando 12, si precisa che il piano d'azione per l'economia circolare 24 rileva la necessità di definire le norme sulle dichiarazioni ambientali utilizzando metodi per misurare l'impronta ambientale dei prodotti e delle organizzazioni.
[49] Sul tema in generale della vendita di beni di consumo si A. Zaccaria - G. De Cristofaro, La vendita dei beni di consumo, Padova, 2002, p. 43; M. Girolami, I criteri di conformità al contratto fra promissio negoziale e determinazione legislativa nel sistema dell’art. 129 del codice del consumo, in Riv. dir. civ., 2 (2006), p. 280; R. Calvo, Dalla nozione mista di vizio all’art. 1519-ter c.c., in Le garanzie nella vendita di beni di consumo, a cura di M. Bin e A. Luminoso, Padova, 2003, p. 170; S. Mazzamuto, Il contratto di diritto europeo, Torino, 2017, 3a ed., p. 420. M. Faccioli, Profili comuni dei rimedi a tutela del compratore di beni di consumo, in La vendita di beni mobili, a cura di T. Dalla Massara, Pisa, 2020, p. 216; F. Bocchini, La vendita di cose mobili, Milano, 2004, p. 399; C. Iurilli, Autonomia contrattuale e garanzie nella vendita di beni di consumo, Roma, 2004; R. Fadda La riparazione e la sostituzione del bene difettoso nella vendita (dal codice civile al codice del consumo), Napoli, 2007, p. 206 s.; P. Mantovani, La vendita dei beni di consumo, Napoli, 2009, p. 31 s; G. De nova, La scelta sistematica del legislatore italiano, in L’acquisto di beni di consumo, a cura di G. Alpa, Milano, 2002, p. 7; E.M. Lombardi, Garanzia e responsabilita` nella vendita dei beni di consumo, Milano, 2010, p. 350 ss.; A. De Franceschi, La vendita di beni di consumo, in Il diritto della distribuzione commerciale, a cura di L. Di Nella, L. Mezzasoma e V. Rizzo, Napoli 2008, p. 321 ss.; S. Cherti, Le garanzie convenzionali nella vendita, Padova, 2004, p. 176 ss.; M. BIN, Per un dialogo con il futuro legislatore dell’attuazione: ripensare l’intera disciplina della non conformità dei beni nella vendita alla luce della direttiva comunitaria, in Contr. impr. Eur., La vendita di beni mobili, a cura di T. Dalla Massara (2000), p. 406; C.M. Bianca, Art. 130 (Diritti del consumatore), in La vendita dei beni di consumo, a cura di C.M. Bianca, Padova, 2006, p. 183 ss
[50] A. Quarta, Per una teoria dei rimedi nel consumo etico. La non conformità sociale dei prodotti tra vendita e produzione, cit., p. 535.
[51] Sulla Direttiva (UE) 2019/771 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 maggio 2019, relativa a determinati aspetti dei contratti di vendita di beni, che modifica il regolamento (UE) 2017/2394 e la direttiva 2009/22/CE, e che abroga la direttiva 1999/44/CE, vedi in particolare i contributi di G. De Cristofaro, Verso la riforma della disciplina delle vendite In argomento, vedi tra molti mobiliari b-to-c: l'attuazione della dir. Ue 2019/771, in Riv. dir. civ., 2 (2021), p. 205; F. Bertelli, L’armonizzazione massima della direttiva 2019/771UE e le sorti del principio di maggior tutela del consumatore, in Eur. dir. priv., 4 (2019), p. 953; G. Alpa, Aspetti della nuova disciplina delle vendite nell’Unione europea, in Contr. Impr., 3 (2019), p. 825-830; A. Quarta, Per una teoria dei rimedi nel consumo etico. La non conformità sociale dei prodotti tra vendita e produzione, cit., p. 534 s; S. Romano, Profili comuni dei rimedi consumeristici nelle Direttive 2019/771/UE e 2019/770/UE, in La vendita di beni mobili, a cura di T. Dalla Massara, 2020, pp. 241-252; T. Faccioli, Profili comuni dei rimedi a tutela del compratore di beni di consumo, cit., pp. 171-239; F. Addis, Spunti esegetici sugli aspetti dei contratti di vendita di beni regolati nella nuova direttiva (UE) 2019/771, in Nuovo dir. civ., 2 (2020), p. 5; E. Ferrante, La direttiva 19/771/UE in materia di vendita al consumo: primi appunti, in Annuario del contratto 2018, Torino, 2019, p. 23. Critica la mancata attenzione ai profili della sostenibilità proprio della direttiva, tra gli altri, da E. Van Gool – A. Michel, The New Consumer Sales Directive 2019/771 and Sustainable Consumption: a Critical Analysis, in https://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3732976 (10 gennaio 2023).
[52] F. Addis, Spunti esegetici sugli aspetti dei contratti di vendita di beni regolati nella nuova direttiva (UE) 2019/771, cit., p. 18, il quale sottolinea come “la conformità di prima generazione doveva e deve apprezzarsi in un momento puntuale e ben definito, quello della consegna del bene, la conformità di seconda generazione mira al mantenimento della conformità originariamente raggiunta al momento della consegna e non si identifica con un tratto temporale definibile a priori, inscrivendosi invece variabilmente, secondo circostanze concrete e non previamente definibili, in un arco temporale di cui è possibile stabilire la durata massima”.
[53] Così F. ADDIS, Spunti esegetici sugli aspetti dei contratti di vendita di beni regolati nella nuova direttiva (UE) 2019/771, cit., p. 19.
[54] Vedi A. Quarta, Per una teoria dei rimedi nel consumo etico. La non conformità sociale dei prodotti tra vendita e produzione, cit., p. 537, la quale, con riferimento in particolare all’ l’art. 7 della direttiva, rileva come questo stabilisca che il bene è conforme se “è della quantità e possiede le qualità e altre caratteristiche, anche in termini di durabilità, funzionalità, compatibilità e sicurezza, normali in un bene del medesimo tipo e che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi, tenuto conto della natura del bene e delle dichiarazioni pubbliche fatte dal o per conto del venditore, o da altre persone nell’ambito dei passaggi precedenti della catena di transazioni commerciali, compreso il produttore, in particolare nella pubblicità o nell’etichetta. La ragionevole aspettativa, quindi, è descritta in maniera più dettagliata che in passato, perché la normalità del bene è da considerare “anche” – e quindi: non solo – in termini di durabilità, funzionalità compatibilità e sicurezza, parametri che non comparivano nella dir. 1999/44/CE”.
[55] A. Quarta, Per una teoria dei rimedi nel consumo etico. La non conformità sociale dei prodotti tra vendita e produzione, cit., p.538; D. Imbruglia, Mercato unico sostenibile e diritto dei consumatori, cit., p. 504.
[56] Così A. Quarta, Per una teoria dei rimedi nel consumo etico. La non conformità sociale dei prodotti tra vendita e produzione, cit., p. 535.
[57] Vedi D. Imbruglia, Mercato unico sostenibile e diritto dei consumatori, cit., p. 504. F. Addis, Spunti esegetici sugli aspetti dei contratti di vendita di beni regolati nella nuova Direttiva UE 2019/771, cit., p. 19.
[58] Vedi D. Imbruglia, Mercato unico sostenibile e diritto dei consumatori, cit., p.506, che sottolinea come “la circostanza per cui la relativa disciplina sia così poco capace di rendere la riparazione il rimedio prioritario lascia delusi e perplessi”.
[59] Risoluzione 2020/2021(INI), cit.
[60] Vedi A. Zoppini, Diritto privato vs diritto amministrativo (ovvero alla ricerca di confini tra Stato e mercato), cit., p. 520, il quale osserva: “oggi la regolazione del mercato non s’identifica con la norma proibitiva, atteso che alla correzione dei fallimenti del mercato non è sufficiente il comando autoritativo unidirezionale, ma essa richiede modelli normativi complessi, affidati normalmente ad autorità indipendenti, che importano un coacervo articolato e dinamico di rimedi, cui appartengono norme asimmetriche tra operatori, regole procedurali, sanzioni interditti”.
[61] Secondo il disposto dell’art. 8 “Affinché un ente legittimato possa chiedere un provvedimento inibitorio, i singoli consumatori non sono tenuti a manifestare la volontà di farsi rappresentare da tale ente legittimato. L’ente legittimato non è tenuto a provare: a) le perdite o i danni effettivi subiti dai singoli consumatori lesi dalla violazione di cui all’articolo 2, paragrafo 1; o b) la condotta intenzionale o negligente del professionista.” Quanto ai provvedimenti risarcitori, l’articolo 9 impone al professionista di offrire ai consumatori interessati rimedi quali “un indennizzo, la riparazione, la sostituzione, una riduzione del prezzo, la risoluzione del contratto o il rimborso del prezzo pagato, a seconda di quanto opportuno e previsto dal diritto dell’Unione o nazionale”. Saranno poi i singoli Stati membri a stabilire “come e in quale fase di un’azione rappresentativa volta a ottenere provvedimenti risarcitori i singoli consumatori interessati da tale azione rappresentativa possano esprimere esplicitamente o tacitamente la propria volontà di essere rappresentati o meno dall’ente legittimato in detta azione rappresentativa e di essere vincolati o meno dall’esito dell’azione stessa, entro un limite di tempo appropriato dopo la proposizione di detta azione rappresentativa”.
[62] Risoluzione 2020/2021(INI), cit.
[63] Suggerisce A. Quarta, Per una teoria dei rimedi nel consumo etico. La non conformità sociale dei prodotti tra vendita e produzione, cit., p. 541 “Si potrebbe allora ragionevolmente sostenere che i consumatori etici possano, stante questo quadro normativo, tentare di scatenare reazioni a catena: valorizzare una prospettiva organizzativa e di classe per agire contro il venditore e auspicare che questi eserciti il diritto di regresso nei confronti del produttore”. La direzione indicata, tuttavia, non può essere considerata sufficiente soprattutto in un contesto normativo in cui la regolazione europea cerca di spingere il mercato e i suoi operatori verso logiche di sostenibilità. Per questo, assicurare rimedi efficaci significa assegnare al consumatore una tutela diretta nei confronti del produttore e, a tal fine, anche la non conformità può essere utile. Si tratterebbe, allora, di ammettere che i consumatori possano far valere i vizi di non conformità anche nei confronti del produttore – secondo il modello, per esempio, adottato in Spagna già al momento della attuazione della dir. 1999/44/CE (58) – e di introdurre l’azione di richiamo accanto ai rimedi tipici della vendita di beni di consumo. L’occasione della novella legislativa potrebbe essere offerta proprio dall’adozione della dir. 2019/771/UE, la quale, peraltro, non esclude espressamente che il consumatore possa agire direttamente nei confronti del produttore (considerando 63). È chiaro che una simile integrazione debba essere sostenuta da un’attenzione verso i rimedi e la loro effettività: visto che la non conformità fatta valere dal consumatore nei confronti del produttore presenta, per certi versi, delle analogie con la difettosità, fatta salva la prova del danno, allora sarebbe un utile sequitur logico includere il richiamo del prodotto quando l’azione promossa abbia natura collettiva. Avremmo così uno schema di tutele molto più adatto a rispondere alle trasformazioni sociali e all’emersione di nuove istanze dei consumatori e sfrutteremmo fino in fondo l’asserita portata regolatoria del diritto dei consumatori per fini sociali, etici ed ecologici.
[64] In questa direzione la Risoluzione 2020/2021 (INI), cit.: Marketing e pubblicità responsabili 30. sottolinea che i consumatori ricevono dichiarazioni fuorvianti sulle caratteristiche ambientali dei prodotti e dei servizi, sia online che offline; raccomanda pertanto che prima dell'immissione sul mercato di un prodotto o servizio sia effettuato un monitoraggio efficace delle dichiarazioni ambientali presentate dai produttori e dai distributori e che la direttiva 2005/29/CE, recentemente modificata, sia applicata mediante misure proattive per contrastare le pratiche ingannevoli; invita la Commissione a elaborare orientamenti aggiornati per l'attuazione omogenea di detta direttiva a riguardo delle dichiarazioni ambientali e a fornire orientamenti per le attività di sorveglianza del mercato; 31. chiede l'elaborazione di orientamenti e norme chiari per le dichiarazioni e gli impegni verdi che si traducano in un rafforzamento delle certificazioni del marchio di qualità ecologica e si compiace dell'annunciata proposta legislativa sulla giustificazione delle dichiarazioni ecologiche; raccomanda di vagliare l'eventuale necessità di istituire un registro pubblico europeo che elenchi le dichiarazioni ambientali autorizzate e vietate, nonché le condizioni e le misure da adottare per valutare una dichiarazione; aggiunge che offrendo informazioni trasparenti, affidabili e accurate i consumatori avranno più fiducia nei prodotti e nei mercati, il che condurrà infine a un consumo più sostenibile; 32. evidenzia che la pubblicità ha un effetto sui livelli e sui modelli di consumo e dovrebbe incoraggiare le imprese e i consumatori a compiere scelte sostenibili; sottolinea l'importanza di una pubblicità responsabile che rispetti le norme pubbliche in materia di ambiente e salute dei consumatori; sottolinea che l'attuale quadro normativo che affronta la pubblicità ingannevole potrebbe rafforzare la protezione dei consumatori, in particolare per talune categorie considerate vulnerabili, e incoraggiare la produzione e il consumo sostenibili;
[65] Osserva in proposito D. Imbruglia, Mercato unico sostenibile e diritto dei consumatori, cit., p. 503: “Nonostante l’ampio consenso della comunità scientifica circa il ruolo che il diritto dei consumatori può svolgere nella regolazione del mercato unico in senso sostenibile e malgrado l’imposizione nei trattati di un dovere per il legislatore di realizzare l’obiettivo dello sviluppo sostenibile e quindi dell’instaurazione di un mercato sostenibile (supra §4), chi oggi muove alla verifica delle tutele vigenti dal punto di vista del mercato sostenibile trova un quadro di luci e di ombre, certamente meno soddisfacente rispetto ad altri discorsi che pure caratterizzano l’attuale agenda euro-unitaria”.
Marcatajo Gabriella
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