Rassegna di figure femminili in Roma antica
Maria Luisa Biccari*
Rassegna di figure femminili in Roma antica**
English title:A review of female figures in ancient Rome
DOI:10.26350/18277942_000180
Sommario: 1. Problematiche relative alla capacità delle donne nel sistema giuridico romano – 2. Il potere femminile nel campo privato e pubblico – 3. Il modello della donna colta e il suo farsi spazio nella vita pubblica – 4. La presenza delle donne nelle attività commerciali – 5. Donna e arena.
- Problematiche relative alla capacità delle donne nel sistema giuridico romano
Un interesse per il tema della condizione giuridica della donna in Roma antica e, più in generale, per le problematiche legate all’identità femminile e alle questioni di genere si può far risalire agli anni Settanta ed Ottanta del secolo scorso quando l’esplodere del movimento femminista, accompagnato dalle numerose mobilitazioni popolari per la parità tra i due sessi, portò gli stessi studiosi dell’antichità ad interrogarsi sui modelli del passato, come base di una riflessione sui cambiamenti necessari per una più profonda tutela della donna[1].
Che nel mondo antico una società venisse considerata ben ordinata solo se sapeva mantenere e regolare, tra gruppi e tra singoli, certe profonde disuguaglianze giuridiche, è dato ben noto[2]. Nello specifico, l’organizzazione sociale e giuridica di Roma antica ci tramanda numerose situazioni di disparità tra gli individui, con le conseguenze che ne derivano in concreto, frutto – si potrebbe dire – di assetti storicamente e culturalmente consolidati: l’essere liberi o schiavi, l’essere cittadini o stranieri, l’essere patrizi o plebei per fare degli esempi.
Proprio in questo quadro si inserisce il discorso sulla limitazione e subordinazione della donna rispetto all’uomo, che non solo determinò un atteggiamento di preminenza degli uomini nei confronti del sesso femminile, ma incise anche profondamente sulle stesse regole sociali e giuridiche sancite per le donne.
«L’innegabile condizione di inferiorità riservata alle donne dal diritto romano d’ogni tempo … si coordina – commenta Bernardo Albanese – con il tenace persistere di originarie concezioni dello stato e della famiglia, nel cui quadro non v’era spazio per vasti riconoscimenti di capacità giuridica e d’agire alle donne»[3].
Nondimeno l’attenzione con cui Gaio e, dopo di lui, Giustiniano trattano, nei rispettivi manuali istituzionali, il tema del raggiungimento dell’età pubere e, conseguentemente, dell’acquisto della c.d. capacità d’agire delle persone è una buona testimonianza di quanto la questione fosse centrale nel diritto di Roma:per le fanciulle il passaggio all’età pubere era convenzionalmente fissato al compimento dei 12 anni, per i maschi a 14 anni, con la conseguenza che la donna “sulla carta” otteneva prima dell’uomo un riconoscimento giuridico, che poi “di fatto” non avrebbe potuto sfruttare, forse proprio per la particolare organizzazione della società romana.
D’altra parte, come dimostrano le fonti, l’essere pubere rappresentava una questione di molto peso: da questo dipendevano importanti conseguenze circa la rilevanza giuridica dei comportamenti posti in essere dai singoli individui, che in termini generali facevano del soggetto titolare di capacità d’agire una persona “autonoma”, in grado di di compiere personalmente atti giuridici ovvero di esercitare validamente i diritti di cui fosse titolare[4]. Come accadeva per certi aspetti anche ad altri soggetti, quali schiavi e filii familias, che pur essendo giuridicamente incapaci con la pubertà acquistavano la capacità di agire.
Così la donna (ovviamente la donna non schiava) quando non fosse sottoposta alla potestà di un pater, dopo i 12 anni, avrebbe potuto amministrare i suoi beni, gestire affari e compiere atti giuridici rilevanti perché in teoria aveva la capacità d’agire, ma nella pratica la sua volontà doveva essere integrata dall’auctoritas del tutore[5].
E lo stesso Gaio non sottovaluta la posizione di particolare vantaggio in cui la donna veniva a trovarsi rispetto all’uomo, ottenendo in particolare due anni prima di quest’ultimo il diritto di fare testamento:
Gai. 2.112-113: […] ex auctoritate diui Hadriani senatus consultum factum est, quo permissum est [...] feminis etiam sine coemptione testamentum facere, si modo non minores essent annorum XII; scilicet ut quae tutela liberatae non essent, tutore auctore testari deberent. 113. Videntur ergo melioris condicionis esse feminae quam masculi; nam masculus minor annorum XIIII testamentum facere non potest, etiamsi tutore auctore testamentum facere uelit, femina uero potest; facta enim XII annorum testamenti faciundi ius nanciscitur.
Nel discorso di Gaio le donne, dunque, sembrano godere di una condizione migliore dei maschi, per quanto doveva trattarsi di una prerogativa teorica[6]: quasi che il riferimento ai 12 anni per la pubertas delle fanciulle costituisse soltanto un mero “spartiacque” tra tutela impubere e tutela muliebre, rimanendo la donna comunque legata al potere di un tutore[7].
Nell’ambito del diritto privato la differenza tra sesso femminile e sesso maschile era particolarmente forte: sottoposta a tutela anche una volta raggiunta l’età pubere[8], la donna romana non poteva essere titolare di patria potestas sui figli né poteva adottare o esercitare la funzione di curatrice o tutrice[9].
E proprio sul tema della tutela si può aprire un interessante squarcio di positività nell’evoluzione dei tempi. Alcuni testi lasciano intendere che in età giustinianea la donna in casi particolari venne ammessa all’ufficio tutelare: indizi – evidentemente – di una graduale apertura verso il riconoscimento di certe capacità alle donne. Ma già per esempio una costituzione di Valentiniano, Teodosio e Arcadio del 390 d.C. (C. 5.35.2pr.-4 = CTh. 3.17.4 pr.-4) stabiliva che le donne vedove, al ricorrere di alcune condizioni (tra cui per esempio una dichiarazione che non si sarebbero risposate o l’assenza di un tutore legitimo), avrebbero potuto chiedere di essere nominate tutrici dei propri figli impuberi[10]. E così anche la costituzione di Giustiniano del 530 d.C. (C. 5.35.3 pr.-2) riconosceva alle madri la tutela dei propri figli naturali, in mancanza di tutori testamentari o legittimi[11].
Del resto recenti studi sulla tutela, e in particolare l’analisi delladocumentazione contenuta nei papiri di alcune province orientali, hanno offerto una interessante chiave di lettura dei rapporti tra l’istituto della “madre amministratrice romana” e quello della ἐπακολουθήτρια greco-egizia, per cui «gli instituti della madre amministratrice romana da un lato e dell’ἐπακολουθήτρια greco-egizia (e dei suoi ipotetici equivalenti delle altre province orientali) dall’altro, seppur fortemente assimilabili, non
Apparivano comunque assai restrittive le regole dei mores antichi contro cui di volta in volta s’infrangevano o si affermavano le nuove prassi. Parallelamente al divieto di avere eredi suoi legittimi, alla donna era proibito di accedere ad eredità di valore superiore ai centomila assi (come prescritto nella lex Voconia)[13], né poteva postulare pro aliis e rappresentare altri in giudizio, che è alla base delle azioni commerciali. Non potendo procurarsi autonomamente un peculio, esclusa com’era dalla possibilità di disporre di peculio castrense o quasi castrense[14], la sua attività in ambito imprenditoriale veniva ad esplicarsi soltanto di fatto.
Si può attestare una qualche evoluzione positiva in ordine ai senatoconsulti Tertulliano (del 133 d.C. circa) e Orfiziano (del 178 d.C.), che introducono importanti novità sulla posizione della donna rispetto al diritto ereditario romano, consentendole nel primo caso di diventare erede del figlio defunto al ricorrere di specifiche condizioni, nell’altro di lasciare la propria eredità ai figli[15].
Ulteriori limitazioni si registrano poi nell’esercizio delle facoltà di diritto pubblico: non aveva il ius suffragii e il ius honorum, non le era in alcun modo consentito di ricoprire cariche pubbliche, di essere giudice, di esercitare l’avvocatura o, ancora, di avviare qualsiasi altra attività politica:
D. 50.17.2 pr. (Ulp. 1 ad Sab.): Feminae ab omnibus officiis civilibus vel publicis remotae sunt et ideo nec iudices esse possunt nec magistratum gerere nec postulare nec pro alio intervenire nec procuratores existere.
Era dunque estromessa dalle strutture di potere come risulta dalle parole di Ulpiano, che sono state definite «una sintesi (quasi) perfetta» delle attività da cui la civis romana era esclusa[16], una sintesi che attesterebbe come «la società romana, anche nel momento della massima espansione dei diritti femminili, aveva mantenuto saldi alcuni principi fondamentali, oltre i quali l’emancipazione femminile non poteva andare»[17].
Paolo nel libro 17 del commentario ad edictum scriveva che l’estromissione delle donne dagli officia civilia e dalle magistrature trovava fondamento nei mores:
D. 5.1.12.2 (Paul. 17 ad ed.): Non autem omnes iudices dari possunt ab his qui iudicis dandi ius habent: quidam enim lege impediuntur ne iudices sint, quidam natura, quidam moribus. Natura, ut surdus mutus: et perpetuo furiosus et impubes, quia iudicio carent. Lege impeditur, qui senatu motus est. Moribus feminae et servi, non quia non habent iudicium, sed quia receptum est, ut civilibus officiis non fungantur.
Se per minori d’età, malati di mente, sordi, muti[18] l’impossibilità di esercitare le funzioni di giudice si giustificava sulla base della loro condizione naturale, per le donne e gli schiavi la ragione andava ricercata negli usi e nei costumi[19].
Il riferimento ai mores è molto significativo perché consente di argomentare come l’inferiorità della donna sotto il profilo personale, prima ancora che giuridico e sociale, sia stata codificata a Roma dalle consuetudini, che avrebbero definito uno status proprio delle persone di sesso femminile. Non vi sarebbe alcun pregiudizio legato ai corpi, ovviamente diversi per conformazione naturale ma non negli elementi costitutivi, non esisterebbe dunque alla base della discriminazione del genere femminile una ratio sexus, come la definisce Renato Quadrato, ma il motivo sarebbe collegato alla cultura, alla mentalità, ai costumi appunto[20].
Ne deriva un quadro in cui, almeno fino a tutta l’età repubblicana, i connotati che definiscono la figura femminile sono quelli di debolezza di carattere (levitas animi e infirmitas consilii), fragilità di spirito (impotentia muliebris), volubilità e incapacità di controllarsi sul piano fisiologico e sociale (imbecillitas mentis): una condizione, insomma, così svantaggiata da rendere la donna non idonea ad assumere determinati compiti ed impegni.
Di infirmitas consilii parla Cicerone in Pro Murena 12.27 quando afferma che a causa della loro debolezza di giudizio le donne dovevano essere sottoposte a tutela. Sexus infirmitas si legge in Nerazio, D. 27.10.9; in Paolo, D. 22.6.9 pr.; in Marciano, D. 48.16.1.10 e D. 49.14.18 pr. Ancora, in Ulpiano ricorrono le espressioni sexus imbecillitas (D. 16.1.2.2) e infirmitas feminarum (D. 16.1.2.3). Si riscontra infirmitas mulierum in una costituzione di Alessandro Severo del 224 d.C. conservata in C. 4.29.5; mentre in un’altra costituzione dello stesso imperatore e del medesimo anno si utilizza l’espressione sexus feminae infirmitatis (C. 5.35.1). A sua volta in due passaggi delle Istituzioni di Gaio, 1.144 e 1.190, è attestata l’espressione levitas animi[21].
2. Il potere femminile nel campo privato e pubblico
Parallelamente è possibile individuare nel mondo romano una dimensione che racchiude una serie di virtù, e conseguenti poteri, tipiche ed esclusive del genere femminile[22]: è la dimensione della domus entro i cui confini la donna si muove sapientemente ed opera come moglie e madre,dedita alla vita domestica, al matrimonio e alla cura dei figli.
Proprio guardando all’impegno con il quale la madre si dedicava all’educazione dei figli emerge che anche la donna romana poteva godere di ammirazione e di una certa autonomia.
Alla formazione e alla crescita dei figli la donna doveva provvedere sin dalla loro tenera età, impegnandosi affinché essi ricevessero quell’educazione che, nel caso dei maschi, era requisito fondamentale per il loro futuro ruolo sociale e politico.
Un concetto ben riassunto da Quintiliano, il quale nel delineare il percorso formativo che il fanciullo doveva seguire per diventare un perfetto oratore, attribuisce grande importanza alla prima formazione del bambino, e cioè fino ai 6-7 anni, preliminare al successivo affidamento al grammaticus e poi al rhetor[23]. Due in particolare le figure femminili coinvolte in questo processo: la nutrice e la madre.
Alla nutrix il retore spagnolo dedica le pagine iniziali del I libro della sua Institutio Oratoria.
Quint. Inst. or. 1.1.4-5: Ante omnia ne sit vitiosus sermo nutricibus: quas, si fieri posset, sapientes Chrysippus optavit, certe quantum res pateretur optimas eligi voluit. Et morum quidem in his haud dubie prior ratio est, recte tamen etiam loquanturAnte omnia ne sit vitiosus sermo nutricibus: quas, si fieri posset, sapientes Chrysippus optavit, certe quantum res pateretur optimas eligi voluit. Et morum quidem in his haud dubie prior ratio est, recte tamen etiam loquantur. 5. Has primum audiet puer, harum verba effingere imitando conabitur, et natura tenacissimi sumus eorum quae rudibus animis percepimus: ut sapor quo nova inbuas durat, nec lanarum colores quibus simplex ille candor mutatus est elui possunt. Et haec ipsa magis pertinaciter haerent quae deteriora sunt. Nam bona facile mutantur in peius: quando in bonum verteris vitia? Non adsuescat ergo, ne dum infans quidem est, sermoni qui dediscendus sit.
Sostenendo che la formazione del futuro oratore doveva cominciare già in famiglia, un importante consiglio che il retore spagnolo dava ai genitori era di scegliere con molta cura la nutrice, persona con cui il bambino avrebbe condiviso i primissimi momenti di vita. Era una “sorta di vice mamma”[24], che con la sua parola «più o meno cantilenata, più o meno organizzata in una struttura narrativa, conciliava il sonno dei piccoli, leniva i loro dolori, arricchiva il loro mondo fantastico»[25], rievocando a poco a poco nella loro mente un patrimonio culturale antico. Per questo le si richiedeva il possesso di un linguaggio puro e corretto che evitasse al bambino di contrarre quelle abitudini di linguaggio viziate e difettose da cui poi sarebbe stato difficile guarirlo. Quintiliano si rende perfettamente conto che i fanciulli osservano, ascoltano gli adulti, imparano a parlare imitando le loro espressioni, e proprio i comportamenti peggiori rimangono maggiormente impressi in quelle giovani menti.
Viene poi preso in considerazione il ruolo dei parentes con una specifica nota di precisazione sulla madre:
- Inst. or. 1.1.6: In parentibus vero quam plurimum esse eruditionis optaverim. Nec de patribus tantum loquor: nam Gracchorum eloquentiae multum contulisse accepimus Corneliam matrem, cuius doctissimus sermo in posteros quoque est epistulis traditus, et Laelia C. filia reddidisse in loquendo paternam elegantiam dicitur, et Hortensiae Q. filiae oratio apud triumviros habita legitur non tantum in sexus honorem.
Attraverso il ricordo di tre famose donne romane, Cornelia, Lelia e Ortensia, si costruisce il modello perfetto di educazione da impartire ai figli attorno alla figura femminile.
Cornelia, figlia di Publio Cornelio Scipione Africano, è la madre di Tiberio Sempronio Gracco e Gaio Sempronio Gracco, i due tribuni della plebe cui è collegato un fondamentale movimento di sviluppo economico, agricolo e sociale dell’ultima età repubblicana: è Cornelia a presiedere alla formazione dei figli, e quindi ad individuare nutrici e pedagoghi, poi il grammaticus e il retore, a selezionare la letteratura della tradizione antica da sottoporre ai due giovani, a trasmettere insomma quel sapere e quei valori che inevitabilmente influirono sulla formazione e quindi sulla personalità e sulla vita pubblica e privata di Tiberio e Gaio[26].
Richiamando l’importanza del parlare correttamente ai figli, Quintiliano loda anche il dire elegante e colto di Lelia, figlia di Caio, che con tanta dedizione curò l’educazione dei figli, e di Ortensia, figlia dell’oratore Quinto Ortensio Ortalo.
Ortensia poi appare una figura di grande spicco nel panorama del tempo antico. Valerio Massimo, Fact. dict. mem. 8.3.3, ce la descrive donna di straordinaria capacità oratoria che la portò nel 42 d.C. a pronunciare in pubblico, davanti ai triumviri – e dunque a uomini –, un’orazione, nota come “la causa delle donne”, con la quale riuscì abilmente a far valere le ragioni delle millequattrocento donne, le più ricche di Roma, insorte e romoreggianti contro la pesante tassazione che avrebbero dovuto subire per finanziare le spese militari[27]:
Val. Max. Fact. dict. mem. 8.3.3: Hortensia vero Q. Hortensii Hortali filia, cum Romanae matronae gravi tributo essent oneratae nec quisquam virorum patrocinium eis accomodare auderet, causa feminarum apud triumviros et constanter et feliciter egit: repraesentata enim patris facundia impetravit ut maior pars imperatae pecuniae his remitteretur. Revixit tum muliebri stirpe Q. Hortensius verbisque filiae aspiravit, cuius si virilis sexus posteri vim sequi voluissent, Hortensianae eloquentiae tanta hereditas una feminae actione abscissa non esset.
Ortensia incarna l’idea di una figura femminile attiva non solo nel campo privato del focolare domestico, ma anche in quello pubblico; è l’emblema – si potrebbe dire – della donna che fece propri alcuni strumenti tipici dell’agire maschile, quale era il parlare in pubblico, arrivando persino ad interferire nelle faccende politiche e sociali del suo tempo[28].
In senso assolutamente negativo Valerio Massimo qualifica come monstrum (monstrum magis quo tempore extinctum quam quo sit ortum memoriae tradendum est) la capacità oratoria di Caia Afrania, di rango senatorio, donna quanto mai litigiosa e frequentatrice assidua dei tribunali, dove evidentemente esercitava la professione avvocatesca per difendere se stessa, inusitatis foro latratibus adsidue tribunalia exercendo:
Val. Max. Fact. dict. mem. 8.3.2: C. Afrania vero Licinii Bucconis senatoris uxor prompta ad lites contrahendas pro se semper apud praetorem verba fecit, non quod advocatis deficiebatur, sed quod inpudentia abundabat. Itaque inusitatis foro latratibus adsidue tribunalia exercendo muliebris calumniae notissimum exemplum evasit, adeo ut pro crimine inprobis feminarum moribus C. Afraniae nomen obiciatur. Prorogavit autem spiritum suum ad C. Caesarem iterum
Ed è proprio a quel comportamento di Afrania, così disinvolto e molesto, che Ulpiano (D. 3.1.1.5, 6 ad ed.), fa risalire il divieto delle donne di postulare pro aliis[30].
Valerio Massimo non tace poi di un’altra donna avvocato che condicio naturae et verecundia stolae ut in foro et iudiciis tacerent cohibere non valuit. È Mesia Sentinate, di cui sembra quasi ammirare la facondia pur non mancando di porre in evidenza come il comportamento della donna non rispecchi propriamente gli schemi femminili, tanto da essere soprannominata Androgynen:
Val. Max. Fact. dict. mem. 8.3.1: Amesia Sentinas rea causam suam L. Titio praetore iudicium cogente maximo populi concursu egit modosque omnes ac numeros defensionis non solum diligenter, sed etiam fortiter executa, et prima actione et paene cunctis sententiis liberata est. quam, quia sub specie feminae virilem animum gerebat, Androgynen appellabant.
E Mesia Sentinate non è la sola che riuscì, attraverso la parola, ad avvicinarsi a varie forme di attività, di potere e di prestigio, legate alla vita pubblica e politica di Roma. Si narra che Cornelia, moglie di Publio Sestio, si sia rivolta a Terenzia affinché intercedesse presso Cicerone a favore della riconferma del marito nella carica di proquestore di Macedonia (Cic. fam. V 6.1). Così Servilia, in occasione di una riunione tenutasi ad Azio con Marco Bruto e Cassio, accompagnati dalle rispettive mogli, e Cicerone, non ebbe timore di interrompere il discorso dell’Arpinate e prendere la parola per assumere la difesa del figlio Bruto ed evitare che gli venisse assegnata la curatio frumenti (Cic. Att. XV 11.1-2). Ancora Giulia, madre di Marco Antonio, attaccò nel foro il figlio triumviro che voleva condannare a morte lo zio Lucio Giulio Cesare, riuscendo a salvare la vita di quest’ultimo (App. bell. civ. IV 37.156-158). Sono solo esempi ma indicativi di una prassi che, evidentemente complice il mutamento dei tempi, portò progressivamente le donne, anche attraverso la parola, ad intervenire in contesti da cui in passato erano di fatto estromesse. Le matrone tardo repubblicane, insomma, «operarono con l’obiettivo non di contestare in toto il modello matronale bensì di adeguare gli spazi di azione femminili ai tempi nuovi attraverso una riformulazione del paradigma di comportamento matronale che si inserisse nel solco della tradizione, in quel processo di graduale trasformazione che ormai da più di un secolo era in atto»[31].
3. Il modello della donna colta e il suo farsi spazio nella vita pubblica
È chiaro a questo punto come il ruolo privilegiato che la donna ricopriva nella formazione dei figli, facesse di lei la persona che meglio di ogni altra riusciva a trasmettere il sapere necessario per affrontare le responsabilità della vita, non esclusi i principi fondamentali della vita pubblica. Pertanto, come è stato sostenuto in dottrina, se la presenza del padre era destinata in un certo senso ad attenuarsi man mano che i bambini crescevano, quella della madre, almeno nei ceti più elevati, continuava ad esercitare sui figli di ambo i sessi, un ascendente che non aveva niente a che vedere con obblighi giuridici, ma scaturiva dall’alto livello del rapporto spirituale e affettivo. E in tal senso si potrebbe ipotizzare che simile presenza femminile fosse accettata e riconosciuta proprio perché funzionale alla comunicazione dei più alti principi e valori dei mores maiorum[32], essendo alla madre pur sempre esclusa la titolarità della patria potestas. Il che lascia spazio per argomentare, con Patrizia Giunti, che «il ruolo materno, esaltato sul piano sociale, rimane dunque marginale rispetto ad una possibile rilevanza giuridica in termini potestativi e non si sviluppa conseguentemente in un profilo di responsabilità»[33].
Va poi considerato come la donna, per esercitare al meglio la sua funzione di educatrice, dovesse essere dotata di una particolare cultura[34]. L’immagine di Ortensia e della sua orazione è soltanto uno degli esempi di donna dotta che si possono ricavare dalle risultanze antiquarie.
Invero l’idea che la donna potesse essere istruita e colta si affermò abbastanza tardi: evidentemente per la sua particolare considerazione di moglie e madre, le era negata ogni possibilità di crescita culturale, non dovendo – in un certo senso – distrarsi dai suoi obblighi legati alla dimensione “privata” delle attività domestiche e familiari.
Sit non doctissima coniux scriveva Marziale nel I sec. d.C., sottolineando che una moglie non doveva essere troppo istruita[35]. A sconsigliare una moglie eccessivamente colta anche Giovenale che, nel cercare di dissuadere l’amico Postumo dal matrimonio, gli raccomandava comunque una donna che non conoscesse l’arte della parola[36], perché la donna letterata ha il vizio di riprendere in continuazione il marito (solecismum liceat fecisse marito, Iuv. Sat. 6.456).
Ma, forse, proprio quegli stessi obblighi legati alla conduzione delle attività domestiche e familiari potrebbero aver favorito, a partire dalla fine dell’età repubblicana, l’accesso delle donne alla cultura: infatti gestire una domus richiedeva saper leggere, scrivere, e conoscere le prime nozioni di cultura generale, almeno quelle di aritmetica per poter fare i conti. Certo è che se da un lato si può valorizzare l’elemento positivo della progressiva inclusione delle fanciulle all’apprendimento, dall’altro si deve considerare che per il paterfamilias, poter contare su una donna ben educata, rappresentava una sicurezza per l’amministrazione degli affari.
E la documentazione archeologica di Ercolano e Pompei, con la raffigurazione della donna con stilo appoggiato sulle labbra e tavolette di cera tra le mani, è sicuramente un’importante testimonianza del livello culturale raggiunto da certe signore dell’epoca, capaci di leggere e scrivere, dietro cui si cela, evidentemente, anche l’ostentazione dello status sociale.
La chiamano Saffo; ma nella sua ieratica pensosità ci riporta a Sulpicia, figlia dell’oratore Servio Sulpicio Rufo e nipote dell’omonimo giurista. La madre Valeria era sorella di Marco Valerio Messalla Corvino di cui Sulpicia frequentava il circolo letterario che contava, tra i suoi clienti, anche i nomi di Tibullo e Ovidio. Vive ed opera dunque nel I secolo a.C.: l’immagine della donna colta e letterata, dedita alla poesia, i cui componimenti, per tanto tempo attribuiti a Tibullo, hanno portato Eva Cantarella a parlare del “primo caso di discriminazione di genere” nella storia[37].
Anche attraverso la cultura (ma certamente in ragione del ruolo sociale in cui venivano a trovarsi), alcune donne furono capaci di raggiungere posizioni di grande potere e come tali sono ricordate: sono alcune donne dell’impero.
Livia Drusilla, seconda moglie di Augusto, divenne il modello di moglie romana, fedele ed affettuosa (Tac. Ann. V.1), sempre al fianco dell’imperatore che per rafforzarne l’immagine di “donna di stato” fece collocare lungo le strade della città di Roma delle statue della moglie nelle vesti della dea Cerere e coniò un’importante quantità di monete raffiguranti Livia con le sembianze di Giunone.
Giulia Vipsania Agrippina, moglie del comandante romano Giulio Cesare Germanico, alla notizia (poi falsa) della sconfitta romana sulla riva del fiume Reno nel 15 d.C., con grande coraggio si sostituì al marito assente e, come racconta Tacito negli Annali I.69, impedì la distruzione del ponte sul Reno che avrebbe ostacolato il passaggio dei nemici, ma avrebbe anche impedito la ritirata dei romani rimasti sull’altra riva, dimostrando che “tra gli eserciti ormai Agrippina contava più dei legati, dei comandanti in capo; e una rivolta, che il nome del principe non era valso a frenare, era stata repressa da una donna”[38].
E ancora le donne legate in qualche modo all’imperatore del momento, mogli, madri, sorelle, favorite, sono ricordate nel bene o nel male dalla storia, Valeria Messalina, Giulia Agrippina Augusta, Poppea Sabina, Claudia Ottavia, Domizia Longina, Flavia Domitilla[39].
Ma certamente si tratta di figure sporadiche e, come si diceva, determinate dalla posizione politica che avevano assunto.
4. La presenza delle donne nelle attività commerciali
Se, dunque, già nell’età repubblicana, le continue guerre portarono a degli inevitabili cambiamenti nei rapporti tra i due sessi, l’immagine stessa della donna quale moglie e madre mutò profondamente. Il lungo periodo delle lotte civili, accompagnato dall’assenza dai ruoli di potere degli uomini, chiamati a combattere o caduti in battaglia, aveva fatto sì che le donne fossero coinvolte in ambiti da sempre riservati ai soli uomini, ampliando notevolmente il loro campo d’azione oltre le mura domestiche. D’altro canto il successo ottenuto da Roma nei vari conflitti aveva portato numerose ricchezze che avevano anche permesso alle donne di diventare proprietarie di ingenti patrimoni[40]. E proprio questo accumulo di ricchezze nelle mani di donne, oramai vedove o orfane, diventò ben presto un formidabile strumento di potere: il “sollevamento femminile” che si scatenò attorno all’abrogazione della lex Oppia, votata nel 215 a.C., ne è una chiara dimostrazione[41]. Decine e decine di donne scesero in strada per opporsi alla legge che impediva loro di indossare gioielli oltre il valore di mezza oncia d’oro e di ostentare, mediante abiti vistosi e sfarzose carrozze, il proprio status sociale. Il dibattitto, assai acceso, vedeva i tribuni della plebe Lucio Valerio e Marco Fundanio, promotori della proposta di eliminazione, contrapporsi a Marco Porcio Catone, convinto assertore della legge: la forza con cui le donne protestarono, rivendicando a gran voce i propri diritti, fu determinante nella decisione che portò nel 195 a.C. all’abrogazione della legge.
Si assiste così alla presenza di donne sempre più ricche[42], che graziealle loro ricchezze erano in grado di influenzare la vita economica, sociale e persino politica, come attestato anche dalle fonti letterarie, archeologiche ed epigrafiche[43]. Si può parlare di “donne imprenditrici” che gestivano con successo attività in diversi settori dell’economia; donne che, al di fuori del ristretto ambito della domus, riuscirono progressivamente a conquistare una posizione indubbiamente rilevante[44].
Una delle Tabulae Herculanenses, la numero 63, risalente agli anni precedenti al 79 d.C., riferisce che Herennia Tertia aveva acquistato servi venalicii, lavoratori (ancillae, viri) e altri beni come edifici (aedes, aedificia) da destinare all’attività commerciale. Nonostante taluni dubbi interpretativi ancora da chiarire, legati allo stato lacunoso del documento, quello che interessa qui mettere in evidenza è che l’attività faceva capo ad una donna che gestivaun’azienda venaliciaria, amministrando altresì ingenti patrimoni.
--- He]rennia Tertia emit HS [---.
[seruos uen]alic[i]os (vacat)
[em]ptio facta [es]t uti adsolet et rem su[---
[----]i[n]q. ancillis et aedium et aedi[ficiorum ---
cia a* et aedium et aedificiorum, uiri M[--- et ?
[m]ulieris Troes et mulieris Anniae et mulier[is ---
[.]* [et] puellae Arescu[sae] (vacat)[45]
Una serie di laterizi rinvenuti a Roma (CIL XV 934-936) attestano poi l’importante e fiorente attività economica svolta nel II sec. d.C. da Claudia Marcellina, figlia del senatore Tiberio Claudio Marcellino, che alla morte del marito, il console romano Bellicio Solerte, si dedicò con successo all’azienda di famiglia per la fabbricazione di mattoni[46].
Una Tabella immunitatis rinvenuta in Sardegna nel 2007, nella Colonia Iulia di Turris Libisonis riporta un’altra donna, Massima Flavia Publicia, una delle più note e celebrate sacerdotesse Vestali, vissuta nel III sec. d.C., la quale era proprietaria di una piccola nave con cui svolgeva un servizio di trasporto merci, grano in particolare, ma forse anche sale, dalle coste sarde verso Ostia:
Flaviae / Publiciae / v(irginis) / (imagine) / V(estalis) / maximae / immunis / in naucella / marina / cunbus / Port(u)ensis / parasemo / Porphyris / Eudromus / (servus?)[47].
Il documento epigrafico peraltro si presenta di particolare interesse perché consente di attestare come alcune professioni, usualmente esercitate da uomini, si siano progressivamente aperte anche al genere femminile. Si può infatti vedere in Flavia Publicia la titolare di un’impresa di navigazione, impegnata nella gestione di un importante giro d’affari legato ad un settore strategico dell’economia dell’epoca, quale era il rifornimento dell’annona di Roma[48]: alla stregua quasi di un exercitor navis.
Ma vi erano anche altre attività commerciali svolte dalle donne: un’iscrizione (AE 1973 71), probabilmente appartenuta ad un costoso monumento sepolcrale che Coelia Marcellina dedicò al padre e alla madre, ci dice che quest’ultima fu negotiatrix olearia ex provincia Baetica item vini, quindi impegnata, verosimilmente assieme alla figlia, nell’attività di commercio di olio, importato dalla Betica, e di vino; l’iscrizione posta alla base della statua costruita dai fullones e posta all’ingresso della Basilica nel foro di Pompei, attesta il successo dall’attività commerciale gestita da Eumachia nel settore della lana e del cuoio, tanto da essere nominata a capo della corporazione dei fullones; e ancora una proscriptio locationis (CIL IV 1136) presenta una Giulia Felice, imprenditrice immobiliare, che per affrontare la crisi successiva al terremoto del 62 d.C., affittò con successo i locali della propria casa.
«La documentazione epigrafica e archeologica […] ci parla di donne economicamente abbienti, libere di gestire il proprio denaro, a prescindere da eventuali forme di tutela giuridica più o meno formali», ma – prosegue Francesca Cenerini – «non dobbiamo dimenticare che si tratta in ogni caso di una realtà fortemente urbanizzata, privilegiata non soltanto dal punto di vista economico, ma anche culturale. Le umili e le marginali difficilmente hanno modo di fare sentire la propria voce»[49].
5. Donna e arena
Un ultimo capitolo interessante nel panorama della situazione della donna nell’antica Roma potrebbe essere quello dei divieti espliciti che la coinvolgevano, al di là dei mores.
Era prescritto nelle XII Tavole (e quindi ancora una volta con derivazione dai mores) che le donne non potessero bere vino per il rischio di perdere il controllo di sé e quindi cadere in comportamenti sconvenienti e disdicevoli, come il commettere adulterio che avrebbero leso l’onore stesso della famiglia. Al punto che l’uomo poteva uccidere la moglie ubriaca: infatti nel racconto di Valerio Massimo a tal Ignazio Mecenio, che aveva ucciso a frustate la moglie sorpresa a bere, non fu mosso alcun giudizio di biasimo perché quaecumque femina vini usum immoderate appetit, omnibus et virtutibus ianuam claudit et delictis aperit (Val. Max. Fact. dict. mem 6.3.9)[50].
Era regola stabilita anche in ambito religioso (mulieres in ecclesiis taceant scrive San Paolo nella prima lettera ai Corinzi 14.34) il silenzio delle donne; tranne eccezioni, ma di questo si è già detto.
Era vietato alle donne di esercitare il teatro, in quanto considerato luogo di discutibile moralità, e ciò fino a che Teodora, ex attrice dai costumi poco morigerati, divenuta moglie dell’imperatore Giustiniano, si impegnò personalmente in favore del genere femminile, in specie di prostitute e attrici, esercitando una certa influenza sull’attività legislativa del marito[51].
Era vietato alle donne di frequentare i giochi dell’arena e di partecipare a competizioni sportive.
Ma a tal proposito un breve cenno merita una recente opinione che parla di donne gladiatrici[52].
Un primo spunto potrebbe derivare dall’ammirazione del mosaico siciliano di Piazza Armerina in cui sono raffigurate in serie giovani donne vestite di modernissimi bikini, cinque (di cui una parzialmente rovinata nella fascia superiore) intente a giochi ginnici e sportivi, la corsa, il lancio del disco, il sollevamento dei pesi, e cinque nella fascia inferiore, impegnate nel gioco della palla, e alcune con gli allori e le corone della vittoria[53].
Ma i giochi nell’arena sono tutt’altra cosa. Una tale partecipazione delle donne (seppur sporadica) troverebbe testimonianza in un Senatoconsulto dell’11 d.C. che aveva posto limiti ben precisi all’esercizio della gladiatura, vietando alle donne nate libere di prendere parte ai giochi nell’arena, ai quali dunque – si deve ipotizzare – avrebbero continuato ad essere ammesse le femmine di estrazione schiavile. Una partecipazione, quella delle donne, ai giochi gladiatori che doveva generare un certo disonore morale e sociale, se un successivo senatoconsulto, c.d. de matronarum lenocinio coercendo, datato 19 d.C. e dunque ascrivibile all’età di Tiberio, intervenne per punire chiunque avesse avviato alle attività gladiatorie e sceniche la moglie, la sorella, il figlio, la figlia, il nipote, la nipote, il pronopote e la pronipote di un membro della classe senatoria o equestre[54].
A distanza di oltre un secolo, un editto del 200 d.C. dell’imperatore Settimio Severo (Cass. Dione LXXVI 16.1) proibì indistintamente a tutte le donne la partecipazione ai giochi pubblici. Ed è chiaro, nel riferimento esplicito al sesso femminile che si legge nei testi legislativi, che le donne si dedicavano ampiamente all’ars gladiatoria e, molto probabilmente, continuarono a farlo nonostante i divieti.
Un’iscrizione proveniente da Ostia e risalente al III sec. d.C. attribuisce ad un certo Ostiliano, magistrato della città, di aver riconosciuto il permesso alle donne, ovvero alle mulieres, di combattere nell’arena:
CIL XIV 4616: ‑‑]sa[‑ H]ostilian[us] / [iiv]ir q(uaestor) aerar[i Osti]ensium flam(en) d(ecreto) d(ecurionum) cur(ator) lusus iuvenali(is) / [‑‑] qui primus om[niu]m ab urbe condita ludos cum / [‑‑]or et mulieres [a]d ferrum dedit una cum / [Sa]bina u[x]ore fecit sibi et / [‑‑‑]nio agonio [‑‑] / [‑‑] corporis togat [‑‑] / [‑‑]um [‑‑].
Ma ad attestare la presenza in Roma di donne gladiatrici è stato proposto un frammento di terracotta rinvenuto in Inghilterra, e precisamente a Leicester, contenente la scritta Verecunda / Ludia Luc / ius Gladia / tor (CIL VII 1335,4), che vienead identificare in Verecondia una donna che partecipava ai ludi, ludia appunto, e che molto probabilmente per il particolare rapporto che aveva con il gladiatore Lucio, esercitava anche l’attività gladiatoria[55]. E ugualmente fra le risultanze archeologiche si può ricordare un bassorilievo proveniente da Alicarnasso, e databile tra il I e il II secolo d.C., che raffigura chiaramente due gladiatrici (la cui femminilità è denunciata dai nomi scritti sotto le figure, Amazon e Achillia), mentre combattono l’una contro l’altra, munite di tutta l’armatura. E ulteriore indizio dell’attività agonistica della donna in Roma è forse da considerare la piccola statua di bronzo, conservata presso il Museum für Kunst und Gewerbe di Amburgo, che la rappresenta in posa trionfante, vestita con il solo perizoma e la benda gladiatoria al ginocchio, che alza verso il cielo una spada ricurva[56].
Senz’altro le fonti letterarie rappresentano un’altra importante testimonianza per capire il ruolo della donna, e della donna gladiatrice in particolare, nella società romana.
Sotto l’impero di Nerone la presenza delle donne nell’arena doveva essere considerevole:
Cass. Dio. LXI 17.3-4: ἐκεῖνο δὲ δὴ καὶ αἴσχιστον καὶ δεινότατον ἅμα ἐγένετο, ὅτι καὶἄνδρες καὶ γυναῖκες οὐχ ὅπως τοῦἱππικοῦἀλλὰ καὶ τοῦ βουλευτικοῦἀξιώματος ἐς τὴν ὀρχήστραν καὶἐς τὸν ἱππόδρομον τό τε θέατρον τὸ κυνηγετικὸν ἐσῆλθον ὥσπερ οἱἀτιμότατοι, καὶ ηὔλησάν τινες αὐτῶν καὶὠρχήσαντο τραγῳδίας τε καὶ κωμῳδίας ὑπεκρίναντο καὶἐκιθαρῴδησαν, ἵππους τε ἤλασαν καὶ θηρία ἀπέκτειναν καὶἐμονομάχησαν, οἱ μὲν ἐθελονταὶ οἱ δὲ καὶ πάνυ ἄκοντες. καὶ εἶδον οἱ τότε ἄνθρωποι τὰ γένη τὰ μεγάλα, τοὺς Φουρίους τοὺς Ὀρατίους τοὺς Φαβίους τοὺς Πορκίους τοὺς Οὐαλερίους, τἆλλα πάντα ὧν τὰ τρόπαια ὧν οἱ ναοὶἑωρῶντο, κάτω τε ἑστηκότας καὶ τοιαῦτα δρῶντας ὧν ἔνια οὐδ’ ὑπ’ ἄλλων γινόμενα ἐθεώρουν.
Quella partecipazione a vari tipi di spettacoli, dal teatro, al canto, al combattimento, attira l’attenzione di Dione Cassio che, nel riferire l’episodio, non si esime dal formulare un giudizio fortemente negativo: è vergognoso e indegno (αἴσχιστον καὶ δεινότατον) far scendere nell’arena le donne e per di più di ceto benestante. Le parole dello scrittore si riferiscono evidentemente a qualche episodio concreto che andava a ledere gravemente il prestigio del ceto più facoltoso della società romana, tanto che Tacito, sempre con riferimento agli spettacoli gladiatori che si tennero sotto Nerone nel 63 d.C., commenta che spectacula gladiatorum idem annus habuit pari magnificentia ac priora; sed feminarum inlustrium senatorumque plures per arenam foedati sunt (Tac. ann. 15.32), dove l’utilizzo dell’espressione verbale foedati sunt assume un’accezione decisamente denigratoria.
Tuttavia la presenza delle donne gladiatrici nell’arena doveva divertire gli spettatori. Svetonio sottolinea che l’elemento di assoluto rilievo dei sontuosi e costosi spettacoli che l’imperatore Domiziano era solito organizzare (con corse di carri a due e quattro cavalli, combattimenti e battaglie navali), era rappresentato proprio dalle donne, feminae anche giovani, virgines appunto, che gareggiavano al pari degli uomini, pure di notte alla luce delle torce:
Svet. Dom. 4: Spectacula assidue magnifica et sumptuosa edidit non in amphitheatro modo, verum et in circo; ubi praeter sollemnes bigarum quadrigarumque cursus proelium etiam duplex, equestre ac pedestre, commisit; at in amphitheatro navale quoque. Nam venationes gladiatoresque et noctibus ad lychnuchos; nec virorum modo pugnas, sed et feminarum […] In stadio vero cursu etiam virgines […]
Quando poi l’editto dell’imperatore Settimio Severo, come si diceva, ribadì il divieto a tutte le donne di combattere come gladiatrici nell’arena, oramai, complice anche l’evoluzione della civiltà romana, la posizione della donna stava migliorando sotto tutti i profili.
E la consistenza delle testimonianze sopra menzionate suggerisce come la realtà della tarda repubblica e poi dell’impero abbia fornito alle figure femminili una crescente, seppur faticosa, visibilità, che indiscutibilmente doveva infastidire e preoccupare il genere maschile.
Abstract: Through a review of female figures who, good or bad, made their mark on the history of Rome, the legal status of women is analysed, focusing in particular in the late Republic and Early Empire, when, thanks to the political situation of the time, women were able to gain visibility in many ways.
Key Words: legal status of women, oratorical skills, educated women, women entrepreneurs, female gladiators.
* Università degli Studi di Urbino Carlo Bo (maria.biccari@uniurb.it).
** Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
[1]La bibliografia al riguardo è troppo nota ed ampia per poter essere qui anche solo riassunta. Ci si può limitare ad alcune brevissime considerazioni circa i termini utilizzati per indicare la donna romana che, come ha messo ben in evidenza Casavola, sarebbero almeno quattordici, e cioè civis, femina, puella, filia, virgo, mulier, uxor, materfamilias, mater civilis, mulier pregnans, vidua, libera, ancilla, serva: una ricchezza lessicale che sarebbe già un segnale della «rilevanza della figura femminile nel mondo latino», almeno se confrontata con il mondo greco dove ricorre il solo nome di gunè. F.P. Casavola, Donna e parole, in Lo spazio della donna nel mondo antico, a cura di M. del Tufo - F. Lucrezi, Napoli, 2019, pp. 9 ss. Di recente uno sguardo globale ma incisivo sulla figura femminile è stato fornito da C. Masi Doria, Roma antica. Narrazioni giuridiche al femminile, Napoli, 2023. Nuovi spunti di indagine circa il ruolo della donna nell’esperienza giuridica romana, sono poi emersi nel corso dell’incontro di studio dal titolo Donne: Storia, visioni e strategie (Milano, 17 novembre 2023), su cui F. Teli, «Donne: storia, visioni, strategie». Incontro in Statale, in RDR, 23 (2023), pp. 229 ss.
[2] Per tutti B. Albanese, Le persone del diritto privato romano,Palermo, 1979, pp. 347 ss. Ovviamente questo discorso apre al problema, assai complesso e ampiamente discusso in dottrina, se in Roma antica esistesse o meno il concetto di uguaglianza tra gli uomini, che è poi una questione legata all’affermazione dei diritti umani nell’esperienza giuridica romana. Si rinvia, tra i lavori più recenti, a L. Solidoro, Formazione e trasformazione dei diritti umani. Il contributo dell’esperienza romana e l’attuale uso della categoria ‘persona’, in TSDP, XII (2019), pp. 1 ss., con puntuale disamina della vasta bibliografia sul tema.
[3]B. Albanese, Le persone, cit., p. 348.
[4] Cfr. F. Lamberti, Su alcune distinzioni riguardo all’età dell’impubere nelle fonti giuridiche romane, in Scritti di storia per Mario Pani, a cura di S. Cagnazzi - M. Chelotti - A. Favuzzi - F. Ferrandini Troisi - D. P. Orsi - M. Silvestrini - E. Todisco, Bari, 2011, pp. 211 ss.
[5] A sostenere che le donne, almeno nell’età più arcaica, pur prive di capacità giuridica abbiano comunque goduto di una loro considerazione giuridica O. Sacchi, La ‘virgo’ del Quirinale e la tutela mulierum. Ipotesi ricostruttive, in Ius Antiquum, 15 (2005), pp. 1 ss.
[6] Su Gai. 2.112-113 cfr. A.M. Giomaro, Unde quidam putant (Gai. 3. 91): non solo critica alla bipartizione, non solo traccia dellʼevoluzione concettuale di contractus, in Studi in onore di Remo Martini, II, Milano, 2009, p. 315.
[7] Sul punto cfr. G. Pugliese, Appunti sugli impuberi e i minori in diritto romano, in Studi in onore di Arnaldo Biscardi, IV, Milano, 1993, p. 475.
[8] L’atteggiamento, fortemente critico, di Gaio nei confronti di questa forma di limitazione delle donne appare in modo chiaro dal testo di Gai. 1.90, dove il giurista commenta come il riferimento alla levitas animi addotto per giustificare che una donna di maggiore età dovesse continuare ad essere soggetta a tutela sia una motivazione niente affatto pretiosa, anzi magis speciosa quam vera: Feminas vero perfectae aetatis in tutela esse fere nulla pretiosa ratio suasisse videtur: Nam quae vulgo creditur, quin levitate animi plerumque decipiuntur et aequum erat eas tutorum auctoritate regi, magis speciosa videtur quam vera; mulieres enim, quae perfectae aetatis sunt, ipsae sibi negotia tractant, et in quibusdam causis dicis gratia tutor interponit auctoritatem suam; saepe etiam invitus auctor fieri a praetore cogitur. Per un approfondimento sulla tutela muliebre ancora fondamentali gli studi di P. Zannini, Studi sulla tutela mulierum, I, Profili funzionali, Torino, 1976; Studi sulla tutela mulierum, II, Profili strutturali e vicende storiche dell’istituto, Torino, 1979; Ancora sulla tutela mulierum (Brevi note in margine a una recensione), in IURA, 32 (1981), pp. 146 ss.; s.v. Tutela (diritto romano), in Enciclopedia del Diritto, XLV, Milano, 1992, pp. 305 ss. Lo studioso mette ben in evidenza i dubbi di Gaio verso l’istituto della tutela muliebrum, un istituto che – commenta testualmente – «affonda le sue radici nell’antichissimo ius civile e che ancora sopravvive in epoca classica come un residuo storico di cui non si riesce più a trovare giustificazione adeguata sul piano razionale prima ancora che giuridico, benchè le fonti a noi pervenute risultino concordi nell’additarne la ragione giustificativa in un criterio generale ed astratto come quello della debolezza o leggerezza naturale del sesso femminiale» (Id., Studi sulla tutela mulierum, I, cit., p. 31).
[9] Ne dà testimonianza, per esempio, Gaio che in D. 26.1.16 pr. (12 ad ed. prov.) afferma che tutela plerumque virile officium est. Da parte sua Nerazio in D. 26.1.18 (3 reg.) riferisce il divieto per le donne di essere nominate tutrici, giustificandolo come un compito di esclusiva prerogativa maschile: Feminae tutores dari non possunt, quia id munus masculorum est, nisi a principe filiorum tutelam specialiter postulent. La chiusa del passo neraziano (tra l’altro sospettata di interpolazione), con il nisi ad introdurre l’affermazione, ha portato ad ipotizzare che nel II d. C. le madri potessero chiedere l’affidamento della tutela dei propri figli: per tutti G. Crifò, Sul problema della donna tutrice in diritto romano classico, in BIDR, 67 (1964), pp. 98 ss.
[10]Impp. Valentinianus, Theodosius, Arcadius AAA. Tatiano PP. Matres, quae amissis viris tutelam administrandorum negotiorum in liberos postulant, priusquam confirmatio officii talis in eas iure veniat, fateantur actis sacramento praestito ad alias se nuptias non venire. 1. Sane in optione huiuscemodi nulla cogitur, sed libera in condiciones quas praestituimus voluntate descendat: nam si malunt alia optare matrimonia, tutelas filiorum administrare non debent. 2. Sed ne sit facilis in eas post tutelam iure susceptam inruptio, bona eius primitus, qui tutelam gerentis adfectaverit nuptias, in obligationem venire et teneri abnoxia rationibus parvulorum praecipimus, ne quid incuria, ne quid fraude depereat. 3. His illud adiungimus, ut mulier, si aetate maior est, tunc demum petendae tutelae ius habeat, cum tutor testamentarius vel legitimus defuerit vel privilegio a tutela excusetur vel suspecti genere submoveatur vel ne suis quidem per animi aut corporis valetudinem administrandis facultatibus idoneus inveniatur. 4. Quod si feminae tutelas refugerint et praeoptaverint nuptias, tunc demum vir illustris praefectus urbis adscito praetore, qui impertiendis tutoribus praesidet, sive iudices, qui in provinciis iura restituunt, de alio ordine per inquisitionem dari minoribus defensores iubebunt. D. XII k. Febr. Mediolano Valentiniano A. IIII et Neoterio conss. (a. 390).
[11]Impp. Iustinianus A. Iuliano PP. Si pater secundum nostram constitutionem naturalibus liberis in his rebus, quae ab eo in eos profectae sunt, tutorem non reliquerit, mater autem voluerit eorum, sive masculi sunt sive feminae, subire tutelam, ad exemplum legitimae subolis liceat ei hoc facere, quatenus actis sub competenti iudice intervenientibus iuramentum antea praestet, quod ad nuptias non perveniat, sed pudicitiam suam intactam conservet et renuntiet senatus consulti velleiani praesidio omnique alio legitimo auxilio suamque substantiam supponat. 1. Et ita iliorum suorum vel iliarum naturalium tutricem eam existere sancimus: omnibus, quae pro matribus et liberis earum ex legitimo matrimonio progenitis divalibus constitutionibus cauta sunt, in huiusmodi matribus observandis. 2. Si enim in iliis iustis, in quibus et testamentariae et legitimae sunt tutelae, tamen matribus (his deicientibus) ad providentiam iliorum suorum venire conceditur, multo magis in huiusmodi casibus, ubi legitima tutela evanescit, saltem alias eis dari humanissimum est. D. XV k. April. Constantinopoli Lampadio et Oreste VV. CC. conss.
[12] L. Gagliardi,La madre tutrice e la madre ‘epakolouthetria’: osservazioni sul rapporto tra diritto romano e diritti delle province orientali, in Index, 40 (2012), pp. 423 ss.; ma dello stesso autore cfr. anche The Mother as Guardian of her Children in Rome and in the Oriental Provinces of the Empire, in Legal Documents in Ancient Societies, VI. Ancient Guardianship: Legal Incapacities in the AncientWorld, Jerusalem, 3-5.11.2013, a cura di U. Yiftach - M. Faraguna, Trieste, 2017, pp. 221 ss. Sul tema della madre tutrice si veda M. Carbone,L’affidamento della tutela alla madre: da Teodosio I (CTh. 3.17.4) a Giustiniano (Nov. 118.5),in IAH, 5 (2013), pp. 121 ss.
[13]Gai. 2.274: Item mulier, quae ab eo qui centum milia aeris census est per legem Voconiam heres institui non potest, tamen fideicommisso relictam sibi hereditatem capere potest. Cfr. per tutti, da ultima, A. McClintock, La ricchezza femminile e la «lex Voconia», Napoli, 2022.
[14] Il che si collega anche al tema, particolarmente impegnativo, della capacità patrimoniale in capo alle donne, su cui ampiamente G. Zanon, La capacità patrimoniale della donna. Tra realtà e apparenza giuridica, Padova, 2013.
[15] Si rinvia a F. Pulitanò, Modelli successori ed equilibri familiari nel III d.C. tra giurisprudenza e costituzioni imperiali, in Tesserae Iuris, IV.1 (2023), pp. 193 ss.
[16] Così L. Peppe, Civis Romana. Forme giuridiche e modelli sociali dell’appartenenza e dell’identità femminili in Roma antica, Lecce, 2016, p. 301 s. Collega l’estromissione della donna dagli officia civilia e publica al carattere, prevalentemente militare, delle istituzioni politiche romane F. Goria, Il dibattito sull’abrogazione della lex Oppia e la condizione giuridica della donna romana, in La donna nel mondo antico. Atti del Convegno Nazionale di Studi (Torino, 1986), a cura di R. Uglione, Torino, 1987, pp. 269 ss. Si vedano anche le riflessioni di F. Mercogliano, Sulla rilevanza giuridica della divisione tra i sessi, in Mélanges Wolodkiewicz, II, Warszwa 2000, p. 608 s.; B. Forgó-Feldner,Zum Ausschluss der Frau vom römischen ‘officium’, in RIDA, 47 (2000), pp. 381 ss. e, della stessa studiosa, Women’sexclusion from the Roman ‘officium’, in Forum Historiae Iuris (2002), pp. 1 ss.Nella letteratura più recente cfr. C. Pennacchio, Tacitast melior mulier semper quam loquens (Plaut. Rud. 1114). Processo al femminile: la reità, il patrocinio giudiziale e la testimonianza, in RDR, 23 (2023), pp. 89 ss., la quale argomentando circa l’uso del verbo removere, giunge ad ipotizzare che l’esclusione delle donne dagli officia civilia e publica, in origine non contemplata, sarebbe stata introdotta solo successivamente, ed indicativamente al tempo di Numa, «al fine di garantire alle matrone onore e dignità, nonostante fossero civis, come se non dovessero essere escluse dagli officia, ma è la natura che le aliena» (ivi, p. 92 s.).
[17]E. CANTARELLA, L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, 5a ed., Milano, 2014, p. 241.
[18] La dottrina si è interrogata a lungo sul significato dell’espressione ut surdus mutus, se da intendere come riferita ad un’unica invalidità (il sordomuto) o da considerare in relazione a due distinte patologie (il sordo e il muto). Si rinvia a C. Lanza, Surdus mutus in D. 5.1.12.2, in Labeo, XL (1994), p. 234 ss.
[19] Sulla condizione di inferiorità di donne e schiavi si era già espresso anche il filosofo greco Aristotele che, nel primo libro della Politica (I.1260a), aveva accostato la donna allo schiavo proprio in considerazione della comune esclusione dalla vita civile.
[20] R. Quadrato, ‘Infirmitas sexus’ e ‘levitas animi’: il sesso “debole” nel linguaggio dei giuristi romani, in ‘Scientia iuris’ e linguaggio nel sistema giuridico romano, a cura di F. Nisi – R. Ortu, Milano, 2001, p. 155 ss. con ulteriore bibliografia. Ma si veda anche L. Peppe, Posizione giuridica e ruolo sociale della donna romana in età repubblicana, Milano, 1984, pp. 98 ss. e S. Dixon, ‘Infirmitas sexus’: womanly weakness in Roman law, in TJ, 52 (1984), p. 360 s. In generale sulla condizione della donna romana, anche in rapporto al particolare status delle Vestali, si veda M. Ravizza, Pontefici e vestali nella Roma repubblicana, Milano, 2020, pp. 161 ss.
[21] Commentando l’impiego gaiano dell’espressione levitas animi R. Quadrato, ‘Infirmitas sexus’, cit., pp. 191 ss., giunge ad ipotizzare che il giurista Gaio non aveva in mente una inferiorità naturale delle femmine, ma semplicemente una diversità tra uomini e donne dettata dalla maggiore volubilità dell’animo di queste ultime.
[22] Per una più ampia e dettagliata trattazione sul punto cfr. ad esempio F. Mercogliano, La condizione giuridica della donna romana: ancora una riflessione, in TSDP, 4 (2011), 1 ss.; P. Giunti, Il ruolo sociale della donna romana di età imperiale: tra discriminazione e riconoscimento,in Index, 40 (2012), pp. 342 ss.; nonché i saggi raccolti in Lo spazio della donna, cit.Ancora, per il ruolo di donne madri, cfr. S. Dixon, The Roman Mother, London-New York, 1990.
[23] Sul percorso pedagogico di Quintiliano M.L. Biccari, Dalla pretesa giudiziale alla narratio retorica (e viceversa). Spunti di riflessione sulla formazione dell’avvocato romano e la sua azione, Torino, 2017, p. 27 ss. In generale sul tema dell’educazione in Roma antica sempre fondamentali gli studi di H.I. Marrou, Histoire de l’éducation dans l’antiquité, Paris, 1948 e S.F. Bonner, Education in Ancient Rome. From the elder Cato to the younger Pliny, Oxford, 1977.
[24]F. Fasolino, Alcune considerazioni sul ruolo della donna nell’educazione della prole a Roma, in Lo spazio della donna, cit., p. 179. Sul ruolo della nutrice nelle città mesopotamiche dei primi quattro secoli del II millennio a.C. cfr. in particolare C. Simonetti, Donne al lavoro. Nutrici ostesse e prostitute in età antico-babilonese, in Lo spazio della donna, cit., pp. 259 ss. e, nello specifico, il paragrafo 2 “La nutrice (mušeniqtum)”.
[25]R. Frasca, Educazione e formazione a Roma. Storia, testi, immagini, Bari, 1996, p. 189.
[26]Cicerone nel Brutus 58.211 riferisce che legimus epistulas Corneliae matris Gracchorum: apparet filios non tam in gremio educatos quam in sermone matris. Auditus est nobis Laeliae C. f. saepe sermo: ergo illam patris elegantia tinctam vidimus et filias eius Mucias ambas. Quarum sermo mihi fu it notus, et neptes Licinias, quas nos quidem ambas, hanc vero Scipionis etiam tu, Brute, credo, aliquando audisti loquentem. Sul personaggio di Cornelia S. Dixon, Cornelia. Mother of the Gracchi, London-New York, 2007.
[27] Sulla vicenda di Ortensia si può rinviare a L. Peppe, Posizione giuridica, cit., pp. 17 ss.; E. Cantarella, Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia, Milano, 1996, pp. 90 ss.; F. Cenerini, La donna romana. Modelli e realtà, Bologna, 2009, 2a ed., pp. 73 ss.; A. Valentini, Matronae tra novitas e mos maiorum. Spazi e modalità dell’azione pubblica femminile nella Roma medio repubblicana,Venezia, 2012, pp. 249 ss.
[28]In verità non va trascurato che le virtù positive che Ortensia vanta le derivano da una figura maschile che è il padre, quindi la lode si deve ascrivere all’interno di un’ottica in qualche modo maschile e patriarcale.
[29] Sulla vicenda di Mesia Sentinate, molto probabilmente scesa in tribunale per difendersi dall’accusa di adulterio (C. Herrmann, Le rôle judiciaire et politique des femmes sous la République romaine, Bruxelles, 1964), si può rinviare a E. Cantarella, Passato prossimo, cit., pp. 15 ss. e 93 s.; F. Lamberti, «Mulieres» e vicende processuali fra repubblica e principato: ruoli attivi e ‘presenze silenziose’, in Index, 40 (2012), p. 244 s.; C. Pennacchio, Tacitast, cit., p. 104 e ntt. 128 e 129 con discussione della bibliografia precedente.
[30] D. 3.1.1.5 (Ulp. 6 ad ed.): Secundo loco edictum proponitur in eos, qui pro aliis ne postulent: in quo edicto excepit praetor sexum et casum, item notavit personas in turpitudine notabiles. Sexum: dum feminas prohibet pro aliis postulare. Et ratio quidem prohibendi, ne contra pudicitiam sexui congruentem alienis causis se immisceant, ne virilibus officiis fungantur mulieres: origo vero introducta est a Carfania improbissima femina, quae inverecunde postulans et magistratum inquietans causam dedit edicto. Per tutti E. Cantarella,Afrania e il divieto dell’avvocatura per le donne, in Vicende e figure femminili in Grecia e a Roma, Atti del convegno di Pesaro 28-30 aprile 1994, a cura di R. Raffaelli - R.M. Danese, Ancona, 1995, pp. 527 ss. e, della stessa autrice, Passato prossimo, cit., pp. 92 ss.; B. Feldner, Zum Ausschluss der Frau vom römischen ‘officium’, in RIDA, 47 (2000), pp. 390 ss.; F. Cenerini, La donna romana, cit., p. 62 s; T.J. Chiusi, La fama nell’ordinamento romano. I casi di Afrania e di Lucrezia, in Storia delle donne, 6/7 (2010-2011), pp. 89 ss.; F. Lamberti, «Mulieres», cit., p. 245 s.; C. Pennacchio, Tacitast, cit., pp. 109 ss.
[31] Così F. Rohr Vio, La voce e il silenzio: il dissenso delle matrone al tramonto della Repubblica, in Lo spazio del non-allineamento a Roma fra Tarda Repubblica e Primo Principato. Forme e figure dell'opposizione politica. Atti del Convegno di Studi, Milano 11-12 aprile 2013, a cura diR. Cristofoli - A. Galimberti - F. Rohr Vio, Roma, 2014, p. 112; ma anche F. Cenerini, Il ruolo delle donne nelle città alla fine dell’età repubblicana: il caso di Mutina, in HOC QVOQVE LABORIS PRAEMIVM. Scritti in onore di Gino Bandelli, a cura di M. Chiabà, Trieste, 2014, p. 64 s. Un’interessante panoramica sul ruolo delle matronae in età tardo repubblicana può farsi attraverso le voci raccolte in Matronae in domo et in re publica agentes: spazi e occasioni dell’azione femminile nel mondo romano tra tarda repubblica e primo impero.Atti del Convegno di Venezia 16-17 ottobre 2014, a cura di F. Cenerini - F. Rohr Vio, Trieste, 2016. Non meno significativo è l’impegno pubblico delle donne nelle città delle province romane su cui si vedano le riflessioni di E.A. Hemelrijk, Public Roles for Women in the Cities of the Latin West, in A Companion to Women in the Ancient World, ed.L. James - S. Dillon, Oxford, 2012, pp. 478 ss.; Hidden Lives: Public Personae: Women and Civic Life in the Roman West, New York, 2015 e, ancora più recente, Women and Society in the Roman World. A Sourcebook of Inscriptions from the Roman West, Cambridge, 2020.
[32] Per un’indagine sulla figura della madre educatrice si rinvia per tutti a R. Frasca, Educazione, cit., pp. 177 ss. e, più recente, F. Fasolino, Alcune considerazioni, cit., pp. 175 ss. Un ridimensionamento del ruolo della donna come educatrice dei figli si legge in J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma: all’apogeo dell’Impero, Roma, 1982, pp. 123 ss., secondo il quale la madre perdeva il compito di educare i proprifigli non appena questi raggiungevano la fanciullezza: «La donna ricca li affidava alle mani delpedagogo di fama, che aveva avuto modo di comperare a peso d’oro, e credeva di aver compiuto il suo dovere verso di loro quando aveva circondato tale scelta definitiva di tutte le precauzioni desiderabili e di consigli autorizzati. Quanto alle madri povere, si liberavano dai figli mandandoli in una di quelle scuole private che certi professionisti avevano aperto nell’Urbe verso la fine del II secolo a.C.». Sul punto è interessante anche il pensiero di Eva Cantarella che, commentando il ruolo riconosciuto alla donna romana di custode e trasmettitrice dei mores maiorum alle future generazioni di governanti, in una società in cui la stessa è esclusa dalla vita politica, parla di “paradosso romano” (E. Cantarella, Il paradosso romano. La donna tra diritto e cultura, in Orientamenti civilistici e canonistici sulla condizione della donna, a cura di M.T. Guerra Medici, Napoli, 1996, pp. 13 ss.)
[33]P. Giunti, Il ruolo sociale, cit., p. 362.
[34] Un’analisi sulla formazione delle fanciulle romane e sui livelli d’istruzione da queste raggiunte può farsi per esempio attraverso le pagine di E.A. Hemelrijk, Matrona Docta: Educated Women in the Roman Elite from Cornelia to Julia Domna, London-New York 1999, di R. van den Bergh, The Role of Education in the Social and Legal Position of Women in Roman Society, in RIDA, 47 (2000), pp. 351 ss. e di F. Lamberti, Donne romane fra Idealtypus e realtà sociale. Dal ‘domum servare’ e ‘lanam facere’ al ‘meretricio more vivere’, in QLSD, 4 (2014), pp. 61 ss., in particolare 70 ss.; Elementi giuridici nell’educazione femminile in Africa proconsolare fra II e III sec. d.C. Gli esempi di Pudentilla e Perpetua, in Il diritto romano e le culture straniere (a cura diF. Lamberti - P. Gröschler - F. Milazzo), Lecce, 2015, pp. 199 ss.; Doctae puellae: alcuni esempi di istruzione femminile nelle classi medio-alte di età imperiale, in Formazione e trasmissione del sapere: diritto, letteratura e società. VI incontro tra storici e giuristi dell’antichità, a cura di P. Ferretti – M. Fiorentini, Trieste, 2020, pp. 37 ss.
[35] Marz. Ep. 2.90: Sit mihi verna satur, sit non doctissima coniunx, sit nox cum somno, sit sine lite dies.
[36] Iuv. Sat. 6.448-451: Non habeat matrona, tibi quae iuncta recumbit, / dicendi genus aut curvum sermone rotato / torqueat enthymema, nec historias sciat omnes, / sed quaedam ex libris et non intellegat.
[37]E. Cantarella, Passato prossimo, cit., p. 126 ss. Sul personaggio di Sulpicia cfr., tra i tanti, i saggi di H.N. Parker, Sulpicia, the Auctor de Sulpicia, and the Authorship of 3.9 and 3.11, in Helios, 21 (1994), pp. 39 ss. e di A. Keith, Tandem Venit Amor: A Roman Woman Speaks of Love, in Roman Sexualities, ed. J.P. Hallett – M.B. Skinner, Princeton, 1997, pp. 297 ss.; nonchè J.P. Hallett, The Eleven Elegies of the Augustan Poet Sulpicia, in Women Writing Latin: from Roman Antiquity to Early Modern Europe, 1, ed. L.J. Churchill - P.R. Brown - J. Elizabeth Jeffrey, New York, 2002, pp. 45 ss.
[38] È opportuno riportare l’intero passo: Penaserat interim circumventi exercitus fama et infesto Germanorum agmine Gallias peti, ac ni Agrippina inpositum Rheno pontem solvi prohibuisset, erant qui id fiagitium formidine auderent. sed femina ingens animi munia ducis per eos dies induit, militibusque, ut quis inops aut saucius, vestem et fomenta dilargita est. tradit C. Plinius Germanicorum bellorum scriptor, stetisse apud principium ponti laudes et grates reversis legionibus habentem. id Tiberii animum altius penetravit: non enim simplicis eas curas, nec adversus externos [studia] militum quaeri. nihil relictum imperatoribus, ubi femina manipulos intervisat, signa adeat, largitionem temptet, tamquam parum ambitiose filium ducis gregali habitu circumferat Caesaremque Caligulam appellari velit. potiorem iam apud exercitus Agrippinam quam legatos, quam duces; conpressam a muliere seditionem, cui nomen principis obsistere non qui verit. accendebat haec onerabatque Seianus, peritia morum Tiberii odia in longum iaciens, quae reconderet auctaque promeret.
[39] Per un approfondimento sulle donne imperiali romane tra il I secolo a.C. e il II d.C. cfr. F. Cenerini, Dive e donne. Mogli, madri, figlie e sorelle degli imperatori romani da Augusto a Commodo, Imola, 2009 e R. Rodríguez López - M.J.Bravo Bosch (eds.), Mujeres en tiempos de Augusto: realidad social e imposición legal. Valencia, 2016.
[40] Per tutti J. Evans, War, Women and Children in Ancient Rome, London, 2014, in particolare il capitolo “War and Working Women”.
[41] In dottrina, con particolare attenzione ai risvolti giuridici legati all’abrogazione della lex Oppia, cfr. F. Goria, Il dibattito sull’abolizione della lex Oppia e la condizione giuridica della donna romana, in La donna nel mondo antico. Atti Convegno Nazionale AICC Torino 21-22-23 Aprile 1986, Torino, 1987, pp. 265 ss.; e, più recente, A. McClintock, La ricchezza femminile, cit., in particolare pp. 76 ss.
[42] F. Lamberti, Ricchezze e patrimoni femminili in Apuleio, in Moneta mercanti banchieri. I precedenti romani dell’euro, Atti Convegno Internazionale Cividale del Friuli, 26-28 settembre 2002, a cura di G. Urso, Roma, 2003, pp. 301 ss.
[43]A proposito della importante documetazione epigrafica circa il ruolo delle donne romane nelle attività lavorative cfr. A. Buonopane - F. Cenerini (a cura di), Donne e lavoro nella documentazione epigrafica. Atti del I seminario sulla condizione femminile nella documentazione epigrafica, Faenza, 2003 e Donna e vita cittadina nella documentazione epigrafica. Atti del II seminario sulla condizione femminile nella documentazione epigrafìca, Faenza, 2005.
[44]P. Giunti, Il ruolo sociale, cit., p. 346 s. parla di «una fase di emancipazione femminile» che avrebbe preso avvio alla fine dell’età repubblicana e si sarebbe protratta fino a tutta l’età Severiana, con il coinvolgimento delle donne nelle attività economiche: «è certa la presenza femminile nel mondo degli affari …, come è certo l’incremento del livello di ricchezza femminile». Interessanti considerazioni anche in F. Mercogliano, Sulla rilevanza giuridica, cit., pp. 597 ss.;F. Reduzzi, Le donne nei documenti della prassi campana, in Index, 40 (2012), pp. 380 ss.
[45] Per la trascrizione del testo cfr. V. Arangio Ruiz - G. Pugliese Carratelli, Tabulae Herculanenses, IV, in La parola del passato, 9 (1954), p. 57. Sul testo più recente R. Ortu, Note in tema di organizzazione e attività dei venaliciarii, in Diritto@storia,2 (2003) (on line). In generale sui documenti ercolanesi G. Camodeca, Tabulae Herculanenses. Edizione e Commento, I, Roma, 2017. Su Herennia Tertia sicuramente F. Reduzzi, Patrimoni femminili in Campania: Herennia Tertia, in Liber amicorum per P. Pollice, II, Scritti raccolti da C. Fabricatore, A. Gemma, G. Guizzi, N. Rascio, A. Scotti, Torino, 2020, pp. 905 ss.
[46] Su Claudia Marcellina RE, III, 1899, col. 2893, n. 424.
[47] Si segue la trascrizione di G. Gasperetti, Una tabella immunitatis dal porto di Turris Libisonis, in Naves plenis velis euntes, a cura di A. Mastino - P. G. Spanu - R. Zucca, Roma, 2009, p. 268, che propone altresì la seguente traduzione: «La barca del porto con l’insegna Porphyris (è) di Flavia Publicia, vergine Vestale massima, esente dai dazi per la (sua) navicella marina. Eudromus (è lo schiavo?)». Cfr. anche P. Gianfrotta, Sulla tabella immunitatis della Vestale massima Flavia Publicia a Porto Torres, in Archeologia Classica, 69 (2018), pp. 793 ss. Su Massima Flavia Publicia sicuramente R. Ortu, Dominae navium: il caso della Vestale Massima Flavia Publicia, in Liber Amicorum per Sebastiano Tafaro, L’uomo, la persona il diritto, I, a cura di A.F. Uricchio - M. Casola, Bari, 2019, pp. 527 ss.; Le immunità delle Vestali nella documentazione epigrafica di età imperiale: le tabellae immunitatis di Flavia Publicia, in JUS, 3 (2020), pp. 137 ss. e, recentissimo, La Vestale Massima Flavia Publicia e l’immunitas della tabella di Turris Libisonis, in RDR, 24 (2024).
[48] A proposito del ruolo della donna nell’exercitio negotiationumanche A. Grillone, La “parità di genere” nella realtà imprenditoriale romana tra II e III secolo d.C., in L’Osservatorio sul diritto di famiglia. Diritto e processo, V.3, 2021, pp. 86 ss.
[49]F. Cenerini, La donna romana, cit., p. 205 ss.
[50] L’importanza del controllo dei comportamenti delle donne romane è ben messa in evidenza in G. Rizzelli, Le donne nell’esperienza giuridica di Roma antica. Il controllo dei comportamenti sessuali. Una raccolta di testi, Lecce, 2000.
[51] L. Sandirocco, Il mito del potere. Teodora e Giustiniano tra pubblico e privato, Roma 2019, su cui la recensione di M. Evangelisti, Teodora e la condizione della donna nell’età imperiale, in Tesserae Iuris, III.1 (2022), pp. 359 ss. E anche di Teodora può essere ricordata l’abilità nel parlare, che la portò più volte a prendere la parola durante le riunioni indette dal marito Giustiniano, per quanto, secondo il racconto che ne fa Procopio nel De bello Persico I.230, era solita chiedere scusa ai presenti prima di intervenire.
[52] Sul tema dei ludi gladiatori cfr. C. Ricci, Gladiatori e attori nella Roma Giulio-Claudia. Studi sul Senatoconsulto di Larino, Milano, 2006, in particolare il paragrafo 3.2 “Brevi note sul fenomeno delle donne gladiatrici”, pp. 94 ss.; il volume Il gioco nell’antica Roma. Profili storico-giuridici, a cura di F. Fasolino – A. Palma, Torino 2017, con i contributi specifici di V. Carro, I ludi romani tra politica, società e diritto e Il gioco crudele dei munera gladiatoria tra religione e propaganda politica, rispettivamente pp. 93 ss. e 103 ss., di C. Ricci, Amant quos multant. La passione per l’arena in un senatoconsulto del 19 d.C., pp. 115 ss. e di M. Scognamiglio, Ludi gladiatori e crimen ambitus, pp. 155 ss.
[53] Su cui, per esempio, R. Laurendi, Ludere in pecuniam aut virtutis causa. Parametri sociali e criteri della rilevanza giuridica dei ludi in diritto romano: fra giochi da tavolo e spettacolo di massa, in Giochi e scommesse sotto la lente del giurista, a cura di P. Costanzo, Genova, 2021, p. 11 e E. Cantarella-E. Miraglia (a cura di), Le protagoniste. L’emancipazione femminile attraverso lo sport, Milano, 2021.
[54] Il testo ci è noto grazie al ritrovamento di una lastra di bronzo presso Larino, da cui il nome di tabula Larinas (AE 1978, 145), il cui contenuto è stato pubblicato da M. Malavolta, A proposito del nuovo ‘S.C.’ di Larino, in Sesta Miscellanea Greca e Romana, 27, Roma, 1978, pp. 347 ss. Per un’analisi dei profili, anche più tecnici, del provvedimento senatorio cfr. V. Giuffè, Un senatoconsulto ritrovato: il «Sc. de matronarum lenocinio coercendo», Napoli, 1980, e, più recenti, T. Spagnuolo Vigorita, Casta domus. Un seminario sulla legislazione matrimoniale augustea, Napoli, 2010, pp. 130 ss. e P. Buongiorno, Senatus consulta: struttura, formulazioni linguistiche, tecniche (189 a.C.-138 d.C.), in AUPA, LIX (2026), pp. 45 ss.
[55] C. Ricci, Gladiatori, cit., p. 97, per quanto l’interpretazione sia stata messa in discussione da chi ritiene che il termine ludia riferito a Verecondia la qualifichi come attrice. Così per esempio A. Pasqualini, Passione e repulsione: le due facce dell’arena, in Civiltà Romana, 2 (2025), p. 59 nt. 42 .
[56] Uno studio specifico è stato svolto da A. Mañas, New evidence of female gladiators: the bronze statuette at the Museum für Kunst und Gewerbe of Hamburg, in The International Journal of the History of Sport, 28.18 (2011), pp. 2726 ss., e ancora Id., Gladiadores: el gran espectáculo de Roma, Barcelona, 2013.
Biccari Maria Luisa
Download:
1 Biccari.pdf