fbevnts Thoughts around institutionalism starting from Searle’s point of view

Ragionando di istituzionalismo. Spunti a partire da John R. Searle

29.12.2021

Francescantonio Eramo

Dottorando in Filosofia del diritto,  Università Cattolica del Sacro Cuore

 

Ragionando di istituzionalismo.

Spunti a partire da John R. Searle*

 

English title: Thoughts around institutionalism starting from Searle’s point of view

DOI: 10.26350/18277942_000060

 

Sommario: 1La “rinascita” dell’istituzione. 2. John R. Searle e i fondamenti della sua teoria istituzionalista: prime annotazioni. 3. Il concetto di intenzionalità: un confronto obbligato con la tradizione husserliana. 4. Per una critica dell’istituzionalismo di John R. Searle. 5. Intorno al carattere fondativo delle istituzioni: tra Santi Romano e John R. Searle.

 

 

Vitam instituere[1]

 

Poiché le istituzioni sono commoventi: e gli uomini in altro che in esse non sanno riconoscersi. Sono esse che li rendono umilmente fratelli. C’è qualcosa di così misterioso nelle istituzioni – unica forma di vita e semplice modello per l’umanità che il mistero di un singolo, in confronto, è nulla[2].

 

  1. La “rinascita” dell’istituzione

 

L’istituzionalismo giuridico ha ricevuto, specialmente negli ultimi tempi, una rinnovata attenzione. Si è così assistito a una proliferazione di contributi che a vario titolo hanno messo in luce la necessità di una riflessione critica[3].

Sebbene nel corso del Novecento sia emersa una forte tendenza deistituzionalizzante (di cui un paradigmatico esempio si ritrova nella legge n. 180/1978, nota come Legge Basaglia[4]), l’importanza dell’istituzionalismo non è stata del tutto compromessa. Infatti, la negazione delle istituzioni non ha riguardato il fenomeno nella sua interezza, ma si è limitata a tentativi di smantellamento di quelle istituzioni che esibivano il loro volto presuntivamente totalizzante.

Un ruolo del tutto peculiare è stato ricoperto dalle posizioni filosofiche di John R. Searle, il quale, come noto, ha individuato uno specifico paradigma concettuale che rimandaalla differenza tra brute and institutional fact se alla connessa distinzione tra regolative and constitutive rules, concorrendo così alla emersione di una nuova maniera di approcciarsi al giuridico sub specie – al tema dell’istituzionalismo giuridico[5]. Ciò al fine di individuare delle regole idonee a spiegare il funzionamento della realtà sociale e di innovare il concetto di intenzionalità prendendo le distanze dalla teoria tradizionale di E. Husserl.

Verso le conclusioni dell’elaborato si opererà un ritorno all’ impostazione romaniana per sostenere la tesi che il diritto in quanto istituzione, prima ancora di avere alla sua origine un atto di volontà, è costituito da un avvenimento o una serie di avvenimenti di carattere oggettivo. Quest’ultimo dato diventerà ancor più evidente quando verrà tratteggiata in modo più sistematico una possibile rilettura critica dell’istituzionalismo searliano attraverso alcune delle categorie concettuali di Santi Romano.

Romano rappresenta un unicum nella storia del pensiero giuridico europeo. Infatti, questi «si è fatto carico di una forma coraggiosa di hybris, che ha la presunzione di dire cos’è quella tecnica così particolare di governo delle relazioni umane che va sotto il nome di diritto»[6].

Ci troviamo a più di cento anni di distanza dalla prima stesura de L’Ordinamento giuridico, di cui l’assoluto rilievo era stato già segnalato da Carl Schmitt[7].

Il lavoro seguirà il seguente percorso tematico.

Nel secondo paragrafo si presenterà l’impianto teorico di Searle e le coordinate essenziali che ci consentiranno di muoverci su un piano di lettura critica delle sue posizioni istituzionalistiche. Il richiamo ai cosiddetti institutional facts contempla già una lettura critica per l’intrinseca problematicità degli stessi. Ciò, del resto, rappresenta un passaggio chiave anche in una prospettiva squisitamente giuridica.

Successivamente, il discorso si concentrerà sul concetto fondamentale di intenzionalità che Searle utilizza in vista della elaborazione teorica degli institutional facts. Nel terzo paragrafo, infatti, l’intenzionalità searliana verrà vagliata alla luce della intenzionalità husserliana.

Nel quarto paragrafo saranno discusse le posizioni di Searle al fine di far emergere alcune aporie del suo discorso e l’insufficienza dei suoi tentativi di esaurire l’analisi intorno alla realtà istituzionale.

Nel quinto paragrafo si opererà un ritorno a Santi Romano nel senso di impostare un confronto critico con l’impianto searliano. Verranno evidenziati specifici nuclei epistemologici e metodologici che ci consentiranno di marcare alcune differenze tra Searle e Romano a partire da un’analisi condotta sugli elementi fondativi delle istituzioni.

 

  1. John R. Searle e i fondamenti della sua teoria istituzionalista: prime annotazioni

 

Come noto, l’impostazione teorica di John Searle verte su alcune nozioni fondamentali[8]: le regole regolative (regolative rules), l’intenzionalità (intentionality), l’attribuzione di funzione (status function), l’accettazione collettiva (collective acceptance), lo Sfondo (background), i fatti istituzionali (institutional facts).

A partire dalle teorie di J. L. Austin[9] sugli atti linguistici, Searle ha costruito un apparato teorico volto a far dialogare la filosofia analitica con le scienze cognitive e con le neuroscienze. Dal suo punto di vista il linguaggio (o meglio, l’azione del parlare), costituisce una forma di comportamento retta da regole precise.

Searle formula una teoria capace di comprenderea più livelli e in modo strutturalegli studi sul linguaggio, la teoria della intenzionalità,  la teoria dei fatti istituzionali.

La teoria di Searle rappresenta un tutto organico ed è tesa, in via principale, a indagare la cosiddetta invisibilità ontologica che viene più compiutamente descritta nel suo The Construction of Social Reality.

Tale invisibilità avvolge la realtà di tutto ciòche si pratica e si celebra quotidianamente. L’uomo non riconosce, quando viene in contatto con le istituzioni, di esser inserito all’interno di istituzioni. Come osserva l’autore americano, la realtà sociale si nasconde all’uomo:

as far as our normal experiences of the inanimate parts of the world are concerned, we do not experience things as material objects, much less ass collections of molecules. Rather, we experience a world of chairs and tables, houses and cars, lecture halls, pictures, streets, gardens, houses and so forth[10].

L’ontologia sociale (social ontology) di Searle si occupa di rispondere alle domande derivanti dall’analisi intorno alla realtà sociale, ai suoi fondamenti, a quel reticolo di relazioni interpersonaliche, per dirla à la Simmel, rimanda più direttamente «al fatto che gli uomini si lancino occhiate, che si dimostrino gelosi l’uno dell’altro, che pranzino insieme, che si trovino simpatici o antipatici, che per gratitudine reciproca siano spinti a frequentarsi e a scambiarsi dei favori, che l’uno domandi all’altro dove stia una strada o che tra loro sussista una forma di attrazione»[11].

Dalla prospettiva di Searle si tratta di operare una articolata indagine intorno a una (meta) fisica degli enti sociali[12].

Volendo sintetizzare, si può ribadire che «lo scopo specifico dell’analisi di Searle sulla realtà sociale (social reality), consiste non nel comprendere come debba essere una società giusta, quanto invece capire come sia possibile la società umana, individuandone i singoli meccanismi costitutivi[13]»[14].

Alla domanda What are these institutions? Searle risponde:

To answer this question, I introduced another distinction, the distinction between what I call “regulative” and “constitutive” rules. Some rules regulate antecedently existing activities. For example, the rule “drive on the right-hand side of the road” regulates driving; but driving can exist prior to the existence of that rule. However, some rules do not merely regulate, they also create the very possibility of certain activities[15].

In Speech Acts e in un altro contributo intitolato Constitutive Rules Searle ritorna sulla sostanziale differenza tra regole regolative e regole costitutive, affermando che:

[…] regulative rules regulate preexisting forms of behavior, constitutive rules make possible new forms of behavior. They constitute the phenomena they regulate. Brute facts can exist independently of any institutions. Institutional facts require pre-existing institutions, which consist of systems of constitutive rules. Constitutive rules create new forms of reality, with new powers, they typically require language, and they are the basis of human civilization[16].

Se le regole regolative disciplinano forme di comportamento già esistenti in precedenza o esistenti in modo indipendente da esse, d’altra parte le regole costitutive non si limitano a regolare, ma creano effettivamente nuove forme di comportamento, riposando su enunciati performativi suscettibili di compiere l’azione che linguisticamente esprimono.

L’importanza delle regole costitutive[17] è evidente dal momento che attraverso queste (e unitamente ai concetti di assignement of function and collective intentionality) Searle approda al versante istituzionalistico[18].

In modo più specifico lo ha fatto a partire dalla summa divisio tra brute facts and institutional facts, che egli eredita da Gertrude Elizabeth Margaret Anscombe[19]. Le parti del reale che dipendono dall’accordo tra gli esseri umani sono detti fatti istituzionali, e i fatti che non dipendono dalla interazione tra umani sono detti bruti. Scrive, infatti, in The Construction of Social Reality:

[…] without implying that these are the only kinds of facts that exist in the world, we need to distinguish between brute facts such as the fact that the sun is ninety-three million miles from the earth and institutional facts such as the fact that Clinton is president. Brute facts can exist only within human institutions. Brute facts require the institution of language in order that we can state the facts, but the brute facts themselves exist quite independently of language or of any other institution. Thus the statement that the sun is ninety-three million miles from the earth requires an institution of language and an institution of measuring distances in miles, but the fact stated, the fact that there is a certain distance between the earth and the sun, exists independently of any institution. Institutional facts, on the other hand, require special human institutions for their very existence. Language is one such institution; indeed, it is a whole set of such institutions[20].

Se i fatti cosiddetti bruti sono stati di esistenza del tutto indipendenti da qualsivoglia regola e autonomi rispetto al punto di vista dell’osservatore, i fatti istituzionali invece:

[…] are things that exist only because we believe them to exist. I am thinking of things that exist only because we believe them to exist. I am thinking of things like money, property, governments, and marriages[21].

Sono così definiti perché necessitano per la loro esistenza di istituzioni tipicamente umane preesistenti, inserite in uno Sfondo all’interno del quale gli atti linguistici si manifestano sotto forma di regole costitutive:

In order that this piece of paper should be a five dollar bill, for example, there has to be the human institution of money[22].

I fatti istituzionali dipendono da regole costitutive – rectius – da insiemi di regole costitutive. Si pensi, per esempio, al negozio giuridico del matrimonio. Questo può esser considerato propriamente una istituzione giuridica in quanto origina a partire da un insieme di regole costitutive che lo compongono. Coerentemente a questa visione, le istituzioni rispondono al requisito di consentire il controllo – cioè esercitano una forma di dominio sulla realtà – tanto da rendere possibile una comunicazione in forma di dia-logo tra le persone che partecipanoin una molteplicità di ruoli attorialia un consesso del vivere associato.

Volendo ora riassumere.

I fatti bruti si profilano come stati di esistenza del tutto disancorati da qualsiasi regola e si pongono con veste autonoma agli occhi dell’osservatore. I fatti istituzionali derivano dai fatti bruti grazie alla applicazione di una regola costitutiva e si distinguono da questi perché dipendenti dalla mente (mind dependent), perché la loro emersione dipende da stati mentali (mental states) Ogni fatto istituzionale rimanda a un concerto di menti che riconoscono quel fatto come istituzionale: per Searle i fatti istituzionali esistono solo se sono soddisfatte le condizioni che dipendono dalla intenzione degli esseri umani. In definitiva, l’attribuzione di funzioni, o meglio, di funzioni di status crea un legame con la realtà producendo l’istituzionale[23].

Tuttavia, a questo livello si possono già segnalare alcune criticità nella impostazione di Searle[24].

In primo luogo, se ci richiamiamo alle caratteristiche proprie dei fatti istituzionali notiamo che i termini che designano fatti istituzionali sono caratterizzati dalla cosiddetta autoreferenzialità (self-referentiality), che origina a partire da «una relazione di circolarità fra essere e credereintorno ai fatti istituzionali»[25]. E’ lo stesso Searle a indicarcelo quando scrive:

The concepts that name social facts appear to have a peculiar kind of self-referentiality. As a preliminary formulation we can say, for example, in order that the concept “money” apply to the stuff in my pocket, it has to be the sort of thing that people think is money. If everybody stops believing it is money, it ceases to function as money, and eventually ceases to be money. […] The very definition of the word “money” is self -referential, because in order that a type of thing should satisfy the definition, in order that it should fall under the concept of money, it must be believed to be, or used as, or regarded as, etc., satisfying the definition[26].

Poniamo che X sia un concetto istituzionale. Affinché “X” possa trovare riscontro istituzionale in un dato oggetto “O” (e dunque che questo oggetto possa assumere rilievo quale fatto istituzionale), è necessario, in prima istanza, che si creda comunemente che “X” si applichi a “O”. Per fare un esempio caro allo stesso Searle: immaginiamo che un determinato tipo di oggetto sia effettivamente del denaro ove presenti delle caratteristiche specifiche esia ritenuto esser del denaro. Searle sostiene che la caratteristica della autoreferenzialità non comporti alcun regresso all’infinito o circolarità dei termini della questione. Scrive infatti:

As long as the object is regarded as having that role in the practices, we do not actually need the word “money” in the definition of money, so there is no circularity or infinite regress. […] This does not lead to circularity or infinite regress: we can cash out the description in terms of the set of practices in which the phenomenon is embedded[27].

Si tratta, però, di un dato da problematizzare.

Le giustificazioni fornite da Searle per smarcarsi dalla possibile circolarità e regresso all’infinito tra essere e credere non sono esaustive sino in fondo. È stato fatto notare come «il circolo, e con esso il regresso all’infinito, si rigenerano a ogni passo dell’analisi. Data una qualsiasi specificazione di che cosa sia per un certo tipo di cosa essere x (dove x è una nozione istituzionale), a questa specificazione si potrà e si dovrà comunque aggiungere, se x è una nozione istituzionale, la clausola: “ed è ritenuto essere un tipo di cosa che ha le proprietà appena menzionate”. Cosi, per ogni passo ulteriore nella spiegazione dei termini (istituzionali) coinvolti nella spiegazione di un termine istituzionale dato, cioè, si dovrà comunque aggiungere, all’elencodelle condizioni necessarie affinché le caratteristiche (istituzionali) C1...Cn si applichino a un certo tipo di oggetto O, la clausola “e gli O sono ritenuti essere C1...Cn”»[28].

Ragioniamo ancora sul concetto di denaro. Per Searle:

we don’t need the concept “money” to define “money”, and thus we avoid an immediate circularity, to explain the concept we do need other institutional concepts such as “buying”, “selling” and “owning”, and thus we avoided the vicious circularity only by expanding the circle by including other institutional concepts[29].

Sebbene sia possibile pensare i concetti istituzionali rinviando a ulteriori termini istituzionali – così come è possibile spiegare di quale contenuto si sostanzi una tale credenza (per esempio, la credenza intorno al denaro) –serve comunque domandarsi alla fine che contenuto abbia questa credenza[30]. Infatti, «la possibilità di spiegare il contenuto della credenza in oggetto (la credenza che il tipo di cosa in questione sia denaro) facendo ricorso a ulteriori termini istituzionali, dunque, non preclude affatto la caduta in un circolo vizioso, o un regresso all’infinito. Circolo vizioso e regresso all’infinito non vengono evitati, ma solo differiti e occultati»[31].

In secondo luogo, l’istituzionalismo di Searle presta il fianco a un’ulteriore annotazione critica relativa al suo essere intrinsecamente nomotetica. In senso più specifico Searle ricerca nel comportamento umano e nelle istituzioni delle regole che ne stabiliscano i presupposti, le coordinate essenziali di riferimento idonee a spiegare la nascita e il perdurare di  istituzioni. Nomoteticità (o approccio nomotetico) indica la specifica impostazione tesa a ricercare il carattere normativo nella realtà pensata e descritta come retta nella sua totalità da leggi aventi carattere generale. In Searle tale impostazione comporta l’emersione di una forma di riduzionismo il cui precipitato principale è ridurre la cultura, il comportamento umano e la dimensione sociale a degli oggetti suscettibili di esser studiati e descritti secondo delle regole generali. Ciò diventa maggiormente evidente se riflettiamo sulle conseguenze di tale discorso. Infatti:

la tendenza dell'approccio comparativo di ispirazione nomotetica è dunque quella di non voler riconoscere la diversità che si propone sia nella definizione lessicale e operativa della proprietà sia nella fase di interpretazione dei dati. La propensione del ricercatore è quella di valorizzare solo le uniformità con il rischio di escludere (o ancora peggio censurare) tutte quelle informazioni che non si conformano alle sue aspettative[32].

L’approccio nomotetico conduce Searle ad adottare un modello fortemente meccanicistico o di spiegazione regressiva del fenomeno istituzionale e sociale riconducendo l’articolazione della dimensione istituzionale a nozioni di fondo mutuate da dimensioni biologiche o neurologiche.

Tale approccio ha condotto a ciò che il noto antropologo Clifford Geertz ha chiamato “concezione stratigrafica dell’uomo”.

In questa concezione l’uomo è un composto di “livelli”, ciascuno che si sovrappone a quelli sotto e che sorregge quelli sopra. […] Analizzando l’uomo si sfogliano gli strati uno dopo l’altro […][33].

Così, nel tentativo di descrivere la struttura dell’istituzionale, Searle non riesce a smarcarsi da una logica conseguenza della concezione stratigrafica dell’uomo, cioè quella di fondare alcuni universali culturali –  elementi che possono esser rilevati in tutte le culture – su processi psicologici o biologici.

Ancora Geertz ci dice che:

[…] non solo quasi ogni istituzione soddisfa una molteplicità di bisogni sociali, psicologici e organici [...], ma non c'è modo di stabilire in modo preciso e dimostrabile i rapporti che sono supposti esistere tra i vari livelli. Nonostante l'apparenza, non c'è qui nessun serio tentativo di applicare i concetti e le teorie della biologia, della psicologia e neppure della sociologia all'analisi della cultura [...], ma soltanto si giustappongono dei fatti dedotti dai diversi livelli subculturali e culturali, così da indurre la vaga sensazione che vi sia un certo rapporto fra di loro - un'oscura specie di "modellamento”. Non vi è alcuna integrazione teorica, ma una semplice correlazione, e per di più intuitiva, di scoperte separate. Con il metodo dei livelli non possiamo mai, neanche invocando i “punti di riferimento invariabili”, costruire delle vere connessioni funzionali tra fattori culturali e fattori non culturali, ma soltanto analogie più o meno convincenti, parallelismi, suggerimenti ed affinità[34].

La prospettiva di Searle, se letta nel suo complesso, si configura come una stratigrafia dell’“umano”. Ne deriva che, sia nei suoi postulati sia negli esiti, sembra ricondurre ogni relazione a processi meccanicistici di causa-effetto. Profili che, oltre a non essere dimostrabili, mortificano il campo della molteplicità ai soli fenomeni o processi considerati (su questo si tornerà più avanti).

Per meglio comprendere l’impianto istituzionalistico searliano occorre soffermarsi sul suo concetto di intenzionalità che, come già accennato, ritornerà utile nel raccordo critico tra l’impostazione searliana e quella romaniana cui sarà dedicato l’ultimo paragrafo.

 

  1. Il concetto di intenzionalità: un confronto obbligato con la tradizione husserliana

 

La nozione di “intenzionalità” appartiene ad una tradizione di pensiero, anche squisitamente filosofico-giuridica, che precede e va oltre Searle[35].

L ’intenzionalità è propriamente la caratteristica di uno stato mentale di esser diretto verso qualcosa. Diacronicamente la tradizione giuridica occidentale ha avuto modo di esperire la portata del termine intenzionalità già a partire dal processo per formulas nell’antica Roma.

Il termine intentio si ritrova negli scritti attribuiti a Gaio, giurista di età antonina. Questi nelle sue Institutiones fa riferimento alla esistenza di quattro diverse parti della formula: «partes autem formularum hae sunt: demonstratio, intentio, adiudicatio, condemnatio»[36]. L’intentio era considerata quella parte della formula secondo cui l’attore in giudizio enunciava la propria pretesa in forma ipotetica[37].

Oppure, sul versante della configurazione degli istituti giuridici, si pensi al  principio di soggettività nel diritto penale moderno e, più specificatamente, al concetto di dolo[38].

In chiave più squisitamente filosofica, si pensi alla dottrina dell’intentio nella filosofia medievale nell’elaborazione di autori come Boezio, Avicenna, Abelardo, Averroè, San Tommaso d’Aquino.

Il termine intentio è stato impiegato, inoltre, nella gnoseologia aristotelico-tomista quale momento conclusivo del processo conoscitivo.

Solo successivamente sotto gli impulsi di Franz Brentano prima e Edmund Husserl dopo, ha acquisito una maggiore rilevanza.

F. Brentano «viene di solito ricordato come il filosofo dell’intenzionalità: un’affermazione discutibile dal momento che a rigore, al contrario di Husserl, non presenta una teoria organica della intenzionalità, ma soltanto una teoria del riferimento intenzionale»[39]. Per Brentano l’intenzionalità è alla base dei fenomeni psichici e indica la tensione esistente tra due polarità: la psiche e l’oggetto. Precisamente:

Ogni fenomeno psichico è caratterizzato da ciò che gli scolastici medioevali chiamavano l’in/esistenza intenzionale (ovvero mentale) di un oggetto e che noi, anche se in modo non del tutto privo di ambiguità, vorremmo definire il riferimento a un contenuto, la direzione verso un obietto (che non va inteso come una realtà), ovvero l’oggettività immanente. Ogni fenomeno psichico contiene in sé qualcosa come oggetto, anche se non ciascuno nello stesso modo. Nella presentazione qualcosa è presentato, nel giudizio qualcosa viene o accettato o rifiutato, nell’amore qualcosa viene amato, nell’odio odiato, nel desiderio desiderato, ecc.

Tale in/esistenza intenzionale caratterizza esclusivamente i fenomeni psichici. Nessun fenomeno fisico mostra qualcosa di simile. Di conseguenza possiamo definire psichici quei fenomeni che contengono intenzionalmente in sé un oggetto[40].

Brentano è stato il maestro di Husserl, ma mentre il primo considera l’intenzionalità come momento essenziale di tutti i fenomeni psichici, il secondo la riconduce non al campo della fenomenologia psichica ma all’area logico-oggettiva.

L’intenzionalità husserliana (Intentionalität) rappresenta un doveroso passaggio per vagliare la tenutain termini di coerenza e compiutezzadella teoria dell’intenzionalità di Searle. Per Husserl un atto mentale conferisce sempre un significato e un oggetto possiede significato giacché è informato da un atto mentale che gli conferisce significanza  (Sinngeber). Nel suo Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, Husserl si confronta col problema gnoseologico della modalità con cui la coscienza pensante si relaziona col mondo rappresentandoselo, giudicandolo, valutandolo, agendo per comprensione (Erkenntnis).

Di qui la ripresa di alcuni concetti classici della tradizione filosofica: il noema[41]e la noesi[42].

Ciò che Husserl chiama noema è il modo in cui gli enti si offrono alla coscienza (Bewusstsein): è l’atto intenzionale per eccellenza che costituisce il correlato intenzionale del vissuto; la noesi invece, è la forma soggettiva della coscienza intenzionale, che rappresentale esperienze (Erfahrungs) vissute.

Il noema non è la cosa percepita in sé, ma il modo in cui la tal cosa si dà alla coscienza.

L’albero può bruciare, dissolversi nei suoi elementi chimici, ecc., ma il senso – il senso di questa percezione, cioè qualcosa che appartiene necessariamente alla sua essenza –  non può bruciare, non ha elementi chimici, forze, proprietà reali[43].

D’altra parte la noesi è l’atto del percepire.

Il rapporto esistente tra noema e noesi è assolutamente stringente e costituiscono due momenti fondamentali all’interno dei processi mentali, dal momento che:

non vi è alcun momento noetico senza un momento noematico a esso specificamente inerente[44].

L’intenzionalità è per Husserl uno dei problemi fondamentali dell’intera fenomenologia. Questo concetto esprime in modo completo la proprietà della coscienza, tanto che Husserl scriverà che «tutti i problemi fenomenologici […] trovano posto in esso»[45].

L’intenzionalità rappresenterebbe dunque la struttura – il modus – senza il quale un soggetto non potrebbe mirare a un oggetto:

Alla molteplicità di dati che compongono il contenuto effettivo, noetico (le operazioni di coscienza), corrisponde sempre una molteplicità di dati che possono essere esibiti, nel quadro dell’intuizione veramente pura, in un «contenuto noematico» correlativo, o più brevemente noema […]. La percezione, per esempio, ha il suo noema, più radicalmente il suo senso percettivo, ossia il percepito come tale. Allo stesso modo ogni ricordo ha il suo ricordatoprecisamente come è «inteso», «come è dato alla coscienza» nel ricordo […]. Il correlato noematico, che è detto qui senso, è sempre da assumere esattamente quale si trova immanentemente nel vissuto della percezione, del giudizio, del godimento, ecc., ossia quale ci viene offerto dallo stesso vissuto, se noi lo interroghiamo nella sua purezza[46].

In Husserl il ruolo centrale ricoperto dal noema comporta la pensabilità della fenomenologia come filosofia del senso, ove per senso debba intendersi il modo tramite il quale la coscienza si riferisce a un oggetto, lo intenziona e lo fa proprio:

[...] ogni noema ha un contenuto, cioè il suo senso, e per mezzo di esso si riferisce al suo oggetto[47].

Da questa prospettiva l’impostazione husserliana accentua il carattere trascendentale-fenomenologico:

La fenomenologia conseguentemente inizia come una egologia pura e come una scienza che apparentemente ci condanna ad un solipsismo, anche se trascendentale. Rimane tuttora impossibile anticipare come, per me nell'attitudine della riduzione, altri eghi, non come meri fenomeni mondani, ma come altri eghitrascendentali, possano porsi come esistenti e quindi diventare parimenti temi legittimi di una egologia fenomenologica[48].

Searle è uno degli autori contemporanei che più ha lavorato, in prospettiva analitica, intorno al concetto classico di intenzionalità con l’auspicio di rinnovarla. Sinteticamente, le principali caratteristiche della Searle’s Intentionality si possono ricondurre ai seguenti tratti.

In primo luogo la capacità della mente di “rappresentare” oggetti e situazioni (states of affairs). Tale rappresentazione non vuol dire, per Searle, significato di qualcosa. Vuol dire invece che una rappresentazione è dotata di una proposizione e di un modo psichico. Infatti, il  contenuto di questi stati è sempre equivalente a una proposizione(di conseguenza esprimibile su un piano linguistico) «in quanto non tratta semplicemente di un oggetto, ma dell’esistenza di un intero stato di cose: ogni percepire è un “percepire che…”, e la proposizione che esprime un’esperienza percettiva alla prima persona (“X vede che…”) apre un contesto intensionale, mentre “X vede Y” è estensionale e allo stesso modo ogni credere e ogni desiderare è un “credere che…” e un “desiderare che…”»[49].

 In secondo luogo il profilo dell’intenzionalità quale fenomeno biologico si  esprime tramite la percezione, la credenza, il desiderio, la causalità (tutte formespecifiche di percezione e generi della intenzionalità).

Focalizzando l’attenzione sul confronto tra Husserl e Searle, quest’ultimo si sforza di ricondurre l’intenzionalità nella relazione tra il corpo e la mente tentando di discostarsi dal trascendentalismo husserliano. La coscienza e l’intenzionalità sono parte dei sostrati biologici dell’uomo, come la digestione o la respirazione o la circolazione del sangue, radicati nel mondo fisico.

Per Searle, gli stati di coscienza non agiscono a un livello trascendentale. Anzi. Per questi la soggettività è la proprietà essenziale della coscienza e degli stati mentali tout court, situandosi così su un piano eminentemente psicologico. Tuttavia, nonostante Husserl non sembri comparire esplicitamente nelle pagine di Searle, il sostrato fenomenologico tedesco rimane un presupposto.

Nel 1983 Searle pubblica Intentionality, an Essay in the Philosophy of Mind e qualche anno più tardi offrirà una ricognizione completa del suo pensiero attorno al concetto di intenzionalità nel saggio The Rediscovery of Mind. Proprio quest’ultimo elaborato costituisce un tentativo di «riportare la coscienza, intesa come un normale fenomeno biologico, nell’ambito della ricerca scientifica»[50]. Questo dato ci porta a considerare che «anche Husserl era mosso dall’esigenza di indagare scientificamente la coscienza; il carattere di scientificità, tuttavia, non è desunto dalle scienze positive ma è dato dalla nuova scienza fenomenologica»[51].

La cosiddetta sospensione del giudizio – l’epochè, parentesi di tutti i (pre) giudizi (Einklammerung) – consente di sospendere il giudizio d’esistenza delle cose (eine gewisse Urteilsenthaltung) e, liberandosi da tale peso, l’Io trascendentale diventa spettatore dis-interessato di sé stesso, potendo con la medesima libertà dar principio alla vera riflessione filosofica nell’offrirsi delle cose. È proprio l’epochè a impedire al fenomenologo di far riposare la coscienza su un piano biologico, né questi può «servirsi della legge di causalità per spiegare il nesso tra piano fisiologico e piano soggettivo (o mentale)»[52].

Ecco allora che già qui si instaura la prima grande differenza tra le due prospettive.

Il carattere biologico della intenzionalità in Searle, strettamente connessoai moti neuronali e al mondo fisicoè evidente e rappresenta una prospettiva alternativa rispetto alla tradizione husserliana. La mente umana in Searle assolve così alle proprie funzioni all’interno del mondo, ponendo in relazione le cose e il soggetto agente attraverso stati mentali fondati sul desiderio, sulle credenze, sulle azioni, le quali trovano origine a partire dal dato biologico.

Ma questi stati mentali appartengono a un “Io” che non ha nulla a che fare con l’“Io” trascendentale di Husserl. La coscienza della soggettività è vista da Searle come «una proprietà biologica del cervello degli esseri umani determinata da processi neurobiologici [...]. Di conseguenza, l’ontologia del mentale non corrisponde in alcun modo all’ontologia dei vissuti husserliani [...]»[53].

Vieppiù. Il concetto nevralgico nella teoria della intenzionalità di Searle è la rappresentazione (representation) che, come si è detto, è da intendersi in senso linguistico. Il linguaggio risulta ancora una volta paradigmatico. Mentre, infatti, le credenze sono dotate, per loro stessa natura, di una intenzionalità intrinseca, il linguaggio e gli atti linguistici – che si rappresentano esteriormente per il tramite della emissione di suoni dotati di significati condivisi e tendenzialmente univoci – traggono il loro carattere intenzionale dalla intenzionalità dei fenomeni psichici. Al di fuori di questa sequenza ricostruttiva per Searle il linguaggio non potrebbe esser portatore di significato, risultando così foriero di una mera incomprensibile sequela di suoni più o meno articolati. Dunque, ogni stato intenzionale è per Searle riconducibile a una rappresentazione.

Ma il concetto di rappresentazione in Searle presta il fianco ad alcune perplessità in quanto intrinsecamente problematico. Il contenuto dell’atto non è in alcun modo da intendersi quale una espressione della rappresentazione dell’oggetto. Il contenuto coincide sempre con quella sequela di caratteristiche fondamentali della cosa in sé considerata. Searle, mancando di distinguere tra atto e contenuto, dovrà ribadire che «non c’è nessun impegno ontologico nel mio uso del termine rappresentazione»[54], ma tutto riposa su un piano psicologico.

Ecco allora che è lo stesso Searle a dirci che il suo  concetto di rappresentazione si mantiene all’interno di una sfera  psicologica. Ma ciò continua a comportare ulteriori incertezze: se l’intenzionalità è rappresentazione esclusivamente connotata in senso psicologico, come può cogliersi fermamente la divisione tra stati della mente intenzionali e stati non intenzionali? «Non si introduce, così, anche rispetto agli stati mentali non-intenzionali una distinzione tra esperire (il rappresentarsi di provare paura) ed esperito (la paura rappresentata), con il risultato di ridurre gli stati non-intenzionali a stati intenzionali?»[55].

Searle inquadra l’atto intenzionale in una visione unitaria, ma ancora stratigrafica. Infatti, la sua costruzione risulta eccessivamente riduzionista, specialmente quando l’autore americano si sforza di chiarire lo stato di indipendenza o di dipendenza esistente tra la coscienza e gli stati mentali. Da un lato, leggendo alcune pagine di Searle, sembra che la coscienza sia del tutto autonoma e in grado di prescindere da un osservatore esterno. Dall’altro essa sembrerebbe non esistere se non dipendentemente dal soggetto che se ne fa portatore. Inoltre la coscienza sembrerebbe regredire a una mera proprietà biologica, come tante altre, perdendo così definitivamente quel carattere di primazia che aveva contraddistinto propriol’impostazione di Husserl.

In altre parole. Se per Husserl l’intenzionalità costituisce una condizione di configurazione di assegnazione di senso, per Searle è una relazione naturale realizzata a livello cerebrale e neuronaleinserita in un processo psicologico di causa-effetto. Seppur entrambi individuino una connessione essenziale tra coscienza e intenzionalità, in Husserl la coscienza è regione ontologica autonoma distinta dal mondo naturale e pre-esistente alla sfera del senso e alla costituzione di esso, mentre in Searle la coscienza è una mera peculiarità degli stati intenzionali[56], fondata su un piano strettamente psicologico. L’affermazione husserliana che la filosofia è epistéme

[...] sottintende il rifiuto di ogni “psicologismo”, [...]. Husserl rileva che lo psicologismo è una contraddizione, perché si presenta come una teoria che smentisce quel che essa stessa sostiene: tale teoria sostiene che la “verità” è solamente una reazione psichica della razza umana, e insieme tale teoria pretende enunciar intorno alle cose e alla psiche una verità che pretende avere un valore assoluto e non ridursi a una semplice reazione psichica[57].

L’impostazione classica della intenzionalità husserliana – nonostante gli assalti operati da Searle ai fini di provocarne una trasvalutazione – riesce a resistervi, perché fondando l’intenzionalità sul piano fenomenologico-trascendentale e non dovendo scontare le aporie che il piano psicologico provoca alla teoria di Searle, riesce atener conto della dimensione più piena e autentica della soggettività.

Un’ultima osservazione critica.

Ci sono margini per sostenere, come già anticipato, che l’istituzionalismo di Searle possa esser letto come una forma nascosta di riduzionismo. La sua intenzionalità, specialmente nella forma della intenzionalità collettiva, sembra condividere tratti peculiari con quelle credenze reciproche sulle quali il convenzionalismo si fonda. La contraria obiezione di Searle tesa a negare tale criticità e ad esaltare l’irriducibilità delle sue tesi all’insieme di credenze collettive, non sembra tuttavia soddisfacente. In tal senso appare difficile dire quanto il discorso istituzionalistico venga innovato da Searle che, in realtà,non sembra smarcarsi da uno sfondo di natura convenzionalista.

Per ricapitolare.

Rimarcata l’importanza delle constitutive rules, è emersa la vocazione nomotetica che contraddistingue il modello searliano e come tale nomoteticità sfoci in una forma di riduzionismo che impedisce a Searle di studiare la complessità dei fenomeni giuridici e sociali.

Si è passati, infine, a trattare dell’intenzionalità. Sono state mosse nei confronti di Searle due obiezioni critiche: la prima è consistita nel far emergere l’insufficienza della sua teoria intenzionalistica, raffrontandola con l’impostazione tradizionale di Husserl; la seconda obiezione ha riguardato il disvelamento dei fondamenti convenzionalistici nella teoria searliana.

Per quanto riguarda gli spunti di riflessione che saranno proposti nel paragrafo successivo, questi riguardano principalmente l’elaborazione di un apparato critico intorno all’impostazione materialistica sulla quale Searle costruisce  il suo istituzionalismo.

In prima istanza verrà presentata, con l’intenzione di condividerla, la proposta critica che Lorini ha sostenuto contro tale materialismo e che può sintetizzarsi nella formula della pensabilità di istituzioni immateriali. Tale apparato teorico sarà successivamente corroborato alla luce del concetto di fatto culturale che verrà contrapposto al fatto istituzionale in Searle.

Il fatto culturale ci darà la possibilità di riflettere a partire dalle posizioni di E. Cassirer.

Inoltre, si segnala che la critica a questa particolare forma di riduzionismo di Searle, oltre a esser proposta con le lenti dell’antropologia culturale di Geertz e della filosofia neokantiana delle forme simboliche di Cassirer, può esser discussa a partire dalle posizioni di K. Popper espresse nel noto mito della cornice[58].

 

  1. Per una critica dell’istituzionalismo di John R. Searle

 

Searle sostiene – come precisato – che «intuitively it seems there are no institutional facts without brute facts. For example, just about any sort of substance can be money, but money has to exist in some physical form or other»[59]. Tutti i fatti istituzionali, per Searle, devono manifestarsi in qualche forma suscettibile di concretizzarsi in una realizzazione fisica. I fatti istituzionali sono dunque caratterizzati dalla datità e dal fondamento corporeo-materiale, nonché dalla sostanza individuale e individuabile, empiricamente tangibile. I fatti bruti, invece, «often, (the brute facts) will not be manifested as physical objects but as sounds coming out of people’s  mouths or as marks on paper – or even thoughts in their heads»[60].

G. Lorini nel suo Dimensioni giuridiche dell’istituzionale – rifacendosi alla tradizione romanistica gaiana delle Institutiones – rievoca la summa divisio tra res corporales et res incorporales[61]. E scrive:

[...] questa tesi di Searle che sembra una verità di ragione è, secondo me, una falsità di fatto. In opposizione alla tesi di Searle, io sostengo che non tutte le entità istituzionali sono necessariamente entità che necessitano di un substrato fisico o, per lo meno, percepibile. Vi sono delle entità istituzionali che sono res incorporales, entità che non hanno un substrato materiale[62].

Entità istituzionali che non richiedono un substrato fisico possono esser rinvenute negli obblighi assunti in seguito a una promessa che esplica i propri effetti sul piano giuridico, in una pretesa avanzata nei confronti della controparte contrattuale, nel diritto di proprietà, nelle obbligazioni nascenti ex delicto o ex contractu. Ne discende a cascata che l’entità istituzionale non possa riassumersi e condensarsi unicamente nel segno della materialità.

Come ebbe a scrivere Adolf Reinach ne I fondamenti a priori del diritto civile, non sono entità istituzionali materiali, eppure difficilmente potrebbe loro negarsi qualificazione istituzionale. Volendo insistere su tale versante, è lo stesso Reinach[63] a fugare ogni dubbio sostenendo, ai fini della esistenza di una pretesa, la non necessaria simultanea presenza di un determinato stato di coscienza in un soggetto:

Se voglio persuadermi della esistenza del movimento devo solo aprire gli occhi. Nel caso di pretesa ed obbligo, invece, è indispensabile ritornare al loro fondamento (Grund). Solo mediante la rinnovata constatazione dell’esistenza della promessa posso stabilire l’esistenza di ciò che ad essa consegue»[64].

Dunque sembra possibile ammettere l’esistenza di fatti istituzionali sganciati dalla necessità di un riferimento materiale.

Un ulteriore punto problematico dell’istituzionalismo di Searle attiene all’idea secondo la quale tutte le entità materialiche non siano riducibili alla mera realtà bruta, siano entità istituzionali. Tuttavia, non tutti gli oggetti che non sono fatti brutisono automaticamente e di per sé istituzionali. Per esempio, i fatti culturali non sono, in virtù della loro esclusione dal campo bruto, automaticamente istituzionali. Basti pensare a quegli oggetti culturali dotati comunque di un certo grado di materialità, che non sono suscettibili di essere annoverati tra i fatti istituzionali: la Cappella degli Scrovegni, il non-finito michelangiolesco, l’Etica di Spinoza o la Fenomenologia dello spirito di Hegel, e così via. Questi fatti sono ascrivibili alla sfera culturale. Searle dà prova di mancare di sondare anche questo aspetto che è molto più di una sfumatura. Semmai i fatti culturali potrebbero esser ascritti al fenomeno istituzionale in un momento successivo e cioè soltanto quando potrebbero esser valutati secondo modelli squisitamente economico-giuridici.

Sulla singolarità di oggetti culturali si è notoriamente soffermato E. Cassirer che qui ci viene in aiuto per tentare di problematizzare la posizione di Searle sui fatti istituzionali. Cassirer ponendosi in una linea neokantiana di matrice neotrascendentalistica, nella Filosofia delle forme simboliche teorizza che ogni attività umana si realizza in una attività spirituale mediante una ricchezza di forme tali da rispecchiare la complessità della ricchezza della vita. Ciò che quindi accomunerebbe le diverse sfere dell’esistenza (linguaggio, religione, storia, filosofia, arte, musica, eccetera) è la loro natura di forme simboliche:

Il simbolo non è il rivestimento meramente accidentale del pensiero, ma il suo organo necessario ed essenziale. Esso non serve soltanto allo scopo di comunicare un contenuto concettuale già bello e pronto, ma è lo strumento in virtù del quale questo stesso contenuto si costituisce ed acquista la sua compiuta determinatezza. L'atto della determinazione concettuale di un contenuto procede di pari passo con l'atto del suo fissarsi in qualche simbolo caratteristico[65].

Da questa prospettiva non può che mutare anche la nostra percezione dell’uomo in quanto tale: 

La ragione  è un termine assai inadeguato per comprendere tutte le forme della vita  culturale dell'uomo in tutta la loro ricchezza e varietà. Ma tutte queste forme sono forme simboliche. Per conseguenza, invece di definire l'uomo ‘animal rationale’, possiamo definirlo ‘animal symbolicum’. Così facendo indichiamo ciò che specificamente lo distingue e possiamo capire la nuova strada che si è aperta all'uomo, la strada verso la civiltà[66].

Cassirer nel suo Saggio sull’uomo critica il dogmatismo ontologico e tutte le verità “troppo certe” a cui il realismo ha condotto. Questi precisa inoltre che «non possiamo cercare il vero ‘immediato’ là fuori, nelle cose, ma dobbiamo cercarlo in noi stessi»[67], volendo con ciò sostenere che il conoscere e la fenomenologia della conoscenza debbano comprendere, non solo il concepire scientificamente un dato spiegabile teoricamente, ma «qualsiasi attività spirituale in cui noi ritroviamo un mondo nella sua forma caratteristica, nel suo ordine e nel suo esser così»[68].

Alla luce di quanto finora detto, la costruzione bruto-istituzionale può esser messa in discussione quantomeno per una sua problematizzazione. Searle ha infatti costruito la polarità institutionality and bruteness tentando di dotare di esaustività la sua riflessione sugli oggetti o fatti. Tuttavia la fenomenologia degli oggetti presenterebbe in realtà una costruzione ben più variegata della dicotomia bruto – istituzionale.

In conclusione.

Se la teoria di Searle viene osservata nel suo complesso diventa difficilmente condivisibile. Sembra infatti trovare la propria legittimazione esclusivamente nella relazione di circolarità tra intenzioni collettive, regole costitutive, accettazione e Sfondo (e nella quale circolarità rientra in modo evidente il piano istituzionalistico)[69]. Infatti, per poter postulare tutti i suoi assunti, l’autore americano deve teorizzare necessariamente la presenza di uno Sfondo nel quale inserire le sue coordinate di riferimento affinché tutto sia situato all’interno di una cornice di senso unitario, dovendo così prescindere da quei modelli alternativi del vivere associato che potremmo chiamare variazioni rispetto al modello principale[70]. A tal riguardo, un ultimo dato va, però, problematizzato.

Quelle che abbiamo definito variazioni rispetto al modello principale rappresentano, in realtà, un dato delicato che Searle sembrerebbe eludere laddove assimila i caratteri del riconoscimento sociale e dell’accettazione collettiva (collective acceptance) al funzionamento di meccanismi della mente umana. In questo modo però:

le istituzioni non vengono valutate in base alla loro capacità di agire con efficacia entro il loro spettro problematico o di offrire soluzioni soddisfacenti nella regolazione delle interazioni, bensì in relazione alla capacità materiale di perdurare nel tempo, trasformandosi in disposizioni il più possibile irriflesse[71].

Infatti, quando Searle ci dice che l’istituzione e i fatti istituzionali necessitano di esser riconosciuti o accettati, sta ponendo l’attenzione sul carattere irriflesso, sull’istituzione fondata su una credenza, sull’istituzione in quanto dato. Tuttavia, «si rischia così di avvalorare l’idea secondo cui più le istituzioni sono in grado di sedimentarsi in una pervasiva ideologia [...], più esse potranno godere di un’indiscussa accettazione sociale [d’altra parte riducendosi così drasticamente quegli spazi di dissenso sociale comunque utili alla emersione di coordinate portatrici di valori plurali]. [...] Il riconoscimento e l’accettazione quali disposizioni neurofisiologiche, non valgono più come possibili momenti di critica e revisione della realtà sociale, ma servono a sostanziare un ordine, nel quale la legittimità e il consenso valgono come indizi della stabilità del sistema medesimo»[72].

 

  1. Intorno al carattere fondativo delle istituzioni: tra Santi Romano e John R. Searle

 

L’istituzionalismo di Searle può essere ulteriormente vagliato facendo riferimento in modo paradigmatico all’istituzionalismo giuridico nella versione di Romano.

Per Paolo Grossi Santi Romano è riuscito a dotare di stabilità una teoria che ha rappresentato «la più straordinaria avventura intellettuale che un giurista italiano del Novecento abbia mai vissuto [...], del Romano che si interroga sulle ragioni prime del diritto e delle sue radici, oltre lo stato. Nel tessuto più riposto della società»[73].

Si evoca qui la visione istituzionalista di Romano solo come griglia di raffronto con la teoria di Searle con una duplice finalità. Non solo per fare emergere alcuni limiti concettuali e metodologici dell’impostazione searliana, ma anche per dimostrare ulteriormente come l’idea di “istituzione” possa intendersi in termini più articolati. Ciò, ovviamente, nella consapevolezza circa l’impossibilità di riproporre sic et simpliciter la teoria ordinamentale di Romano nel quadro di uno scenario, come quello odierno, caratterizzato dalla trasformazione radicale di alcuni elementi peculiari che facevano da sfondo all’impostazione romaniana (in primis lo Stato[74]).

In questo quadro l’Ordinamento giuridico sembra essere ancora una chiave di volta importante per tentare di comprendere la complessità dell’istituzionalismo. L’elaborazione di Romano[75] prende vigore all’interno dello schema istituzionale, o meglio, della teoria del diritto in quanto istituzione. Il diritto è considerato a partire dalla sua genesi, dalla sua fondazione.

Uno dei momenti centrali della teoria romaniana del diritto, sul quale occorrerà ancora riflettere, scaturisce dal fatto che «l’aspetto fondamentale e primario del diritto è dato dall’istituzione in cui esso si concreta, e non dalle norme, o in genere, dai precetti con cui esso opera, che ne costituiscono invece un aspetto derivato e secondario»[76].

Il punto essenziale è che la teoria di Romano e quella di Searle muovono da epistemologie diverse costruendosi diversamente.

In primo luogo, ciò che caratterizzal’istituzionalismo di Romano è di aver studiato il fenomeno istituzionale nel suo aspetto dinamico. L’istituzionalismo giuridico – il cui termine istituzione è stato utilizzato dall’Hauriou e da altri istituzionalisti francesi quali Jules Renard, Georges Gurvitch e Léon Duguit[77]– più che rappresentare una scuola di pensiero perimetrale, costituisce uno sguardo metodologico sul diritto, un modo di indagare il diritto non in quanto dato, ma in quanto processo. Nell’istituzionalismo di Romano vi è questo tentativo di comprensione della dimensione del diritto « [...] innanzitutto perché non ha alla sua origine un atto di volontà soggettiva, ma un avvenimento o una serie di avvenimenti oggettivi, come sarebbe, ad esempio, la procedura che gli è propria»[78].

Se Romano aveva studiato la società nel suo aspetto procedurale, Searle, dopo aver offerto premesse di tipo costruttivistico dell’istituzione, indagail fenomeno istituzionale come un dato.

A simili conclusioni giunge, ad esempio, Mariano Croce[79] il quale ha evidenziato come l’attualità del pensiero romaniano sia da ricercare all’interno dei Frammenti Giuridici ove Romano sembra accennare a questa visione processuale del diritto[80].

L’ordinamento, infatti, per Romano è auto-fondazione della propria giuridicità: ciò che origina l’ordinamento giuridico, e quindi l’istituzione, non è creatio ex aliquo in una prospettiva á la Searle. Infatti:

se l’ordinamento non può concretarsi ed acquistar corpo se non nell’istituzione e se, viceversa, tutto ciò che, socialmente organizzato, viene assorbito come elemento di quest’ultima, se ne può trarre che il diritto è il principio vitale di ogni istituzione, ciò che la anima e ne tiene riuniti i vari elementi di cui questa risulta, che determina, fissa e conserva la struttura degli enti immateriali[81].

Da tale assunto ne esce in qualche modo ridimensionata la teoria sui fatti istituzionali di Searle generati dalla intenzionalità e, a regresso, da meccanismi imperniati su processi neurofisiologici. Il procedimento di formazione del fenomeno istituzionale non può cominciare, per Romano, da un fatto che sia al di là del diritto, cioè meta-giuridico.Come precisa Romano (che ne aveva già trattato prima di sviluppare la sua opera principale): «il nuovo ordinamento giuridico avrà per dir così degli effetti retroattivi su quelli che possono dirsi i suoi prodromi, esso si considererà come se avesse avuto principio non il giorno in cui effettivamente ebbe vita, ma il giorno in cui s’iniziò il procedimento che doveva condurre alla sua nascita»[82].

In altre parole: il fondamento dell’istituzione non può riscontrarsi in qualcosa che venga prima dell’istituzione. Quando Romano esplicita che un ordinamento esiste quando esiste perché esiste, sta dimostrando che il fondamento dell’ordinamento è un suo pre-supposto comunque ordinamentale. L’ordinamento ritrova in sé stesso la fondazione della propria giuridicità. Il fondamento è dunque autofondazione.

«E tale fondare se stesso da parte dell’ordinamento è possibile in quanto ciò che pone l’ordinamento si rivela, per questo stesso porre, non essere che presupposto dall’ ordinamento, e dunque non altro da esso, ma il suo porsi medesimo»[83].

Se così non fosse, il diritto non sarebbe altro che un fatto. A tal guisa Romano:

[...] il diritto è, anzi tutto, posizione, organizzazione di un ente sociale. Se non si accetta tale postulato, si va incontro all’inconveniente di dover spiegare il fondamento e l’obbligatorietà del diritto in modo meta-giuridico [al di là del fenomeno giuridico in quanto tale][84].

Tale profilo diventa ancora più evidente ove ci si soffermi su un ulteriore elemento che connota l’indagine romaniana e che Searle manca di considerare o che, almeno, non compare come fondativo: lo spontaneismo del diritto, o meglio, lo spontaneismo nella nascita delle istituzioni (con particolare riguardo a tale concetto è utile, ai fini di un maggiore approfondimento contenutistico, fare riferimento all’ ordine spontaneo[85] di F. Hayek, che tuttavia qui non può trovare accoglimento né compiuta sistemazione e che si dimostra differente, sotto vari aspetti, da quello ordinamentale di Romano).

L’istituzione sorge da un fatto il quale non attiene, almeno inizialmente, alla sfera della intenzionalità, cioè della soggettività, tanto più della intenzionalità per come è stata delineata da Searle. L’istituzione nasce a partire da un nucleo involontario.

Parafrasando la sintetica forza di Romano si può allora dire che dal fatto spontaneo sorge il diritto, cioè l’istituzione in quanto tale, che costituisce l’ossatura fondamentale dell’ordinamento giuridico che ne risulta e che si pone, rispetto all’istituzione, secondo una logica d’equazione pura: «ogni ordinamento giuridico è un’istituzione, e viceversa ogni istituzione è un ordinamento giuridico»[86]. Ed ogni forza che sia effettivamente sociale trasforma il fatto in diritto in modo non intenzionale, ma spontaneo e il cui precipitato è rappresentato dallo spontaneismo ordinamentale, cioè da una istituzione nata a partire dall’involontarietà.

Seguendo le parole di Romano:

data l’equazione fra il concetto di istituzione e quello di ordinamento giuridico, almeno il primo nucleo, la prima pietra in cui un ente di tale natura comincia a porsi è un diritto involontario: soltanto in momenti posteriori, se non cronologicamente, in ogni caso logicamente, potrà da esso emanare un diritto volontario, che, del resto, di regola non riuscirà a cancellare interamente le tracce del primo, poiché ciò implicherebbe una soluzione di continuitànella vita stessa dell’ente e, quindi, della sua identità[87].

 In linea con queste considerazioni è stato opportunamente sostenuto che effettività e necessità sono due aspetti reciprocamente interrelati: entrambe negano il carattere intenzionale del diritto –  quantomeno nel suo principio costitutivo, spontaneo e auto-generato [...][88].

Così, l’origine delle istituzioni andrebbe indagata a partire dal concetto di necessità e di non-volontarietà nello spontaneismo generatore del giuridico. Per Romano «lo Stato esiste perché esiste, ed è ente giuridico perché esiste e dal momento in cui ha vita»[89].

Qui si manifesta l’effettività che connota tutta la dimensione istituzionale. Il carattere della involontarietà è centrale nella impostazione di Romano e lo si evince, a fortiori, dal fatto che le ragioni dello spontaneismo del diritto gli hanno consentito di affrontare anche l’analisi intorno al tema della consuetudine e del diritto internazionale. Ciò ha condotto alcuni studiosi a sostenere che tutta la sua teoria possa esser letta alla luce di tale carattere.

Tuttavia, lo spontaneismo giuridico non impedisce a Romano di sottolineare la capacità della comunità di cooperare per dar luogo a un assetto condiviso e, cioè, a qualcosa di intenzionalmente istituzionale. Scrive a tal proposito che «normalmente gli individui si riconoscono l’un l’altro come soci, e quindi tendono alla loro spontanea collaborazione e al rispetto delle loro reciproche libertà [...]»[90], enfatizzando quel nodo che, usando il lessico searliano, potremmo definire di intenzionalità collettiva.

L’impostazione romaniana, quantomeno per questo secondo aspetto (da collocarsi successivamente a quel momento iniziale di fondazione dell’istituzione), può esser ricondottanell’alveo della teoria della intenzionalità collettiva[91]. In tal modo si potrebbe tratteggiare la  descrizione di una ontologia giuridica istituzionalistanascente dalla organizzazione cooperativa (che pure M. Hauriou aveva delineato), ma sempre bendistante, però, dai postulati positivistici di Searle che attengono prevalentemente alla sfera neuro-fisiologica degli individui.

In conclusione.

Il filosofo americano individua la genesi dei fatti istituzionali seguendo un modello stratigrafico e un approccio che abbiamo definito a regresso chesi traduce in una creazione dei fatti istituzionali assolutamente dipendente dalla mente del soggetto che li genera a partire dai circuiti intenzionali.

In Romano l’istituzione non si esplicita nell’atto dell’istituire, né si caratterizza a seconda del soggetto che istituisce, ma inveroindica un processo a-personale o impersonale che dallo spontaneismo produce l’istituir-si.

Questi sono soltanto alcuni degli spunti che possono trarsi dal confronto critico tra l’istituzionalismo di Searle e di Romano. La riflessione condotta sotto il profilo epistemologico, processuale (in particolare, l’istituzione colta nel suo dinamismo) e in relazione alla fondazione spontaneistica del diritto costituiscono alcune possibili chiavi di lettura utili a segnalare in controluce i limiti dell’istituzionalismo searliano richiedendo, al contempo, una rilettura e rimeditazione delle tradizionali categorie concettuali.

 

Abstract: Nowadays it’s necessary to deal about institutionalism due to the interest recently arosed in both the philosophical and legal fields. This essay aims to analyze the institutional phenomenon starting from Searle’s theory. The paper will problematize the head points of Searle’s statements trying to show some weaknesses inherent his theory. In particular the essay will analyze Searle’s Institutional facts and the Intentionality: the former will be compared to Cassirer’s cultural facts, the latter will be compared to Husserl’s intentionality. This effort attempts to observe how Searle’s theory, if explored in its complexity, turns out to be nomothetic, stratigraphic and so reductionist. These three critical issues prevent Searle from exhausting the institutional phenomenon. Furthermore, it becomes even more evident since Searle’s theory will be find as a “circular” theory, looping back on itself. Finally, the essay will land on a focus between Searle’s and Santi Romano’s institutional epistemology in order to disclose the main differences concerning the origin of the institutions and the contrast between the institution as datum (Searle) and the institution as a process (Romano).

 

Key words: Institution; John R. Searle; Institutional facts; Intentionality; Nomothetic; Santi Romano.

 

 


* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1]Il lemma Vitam instituere appartiene, all’interno della cultura umanistica, primariamente al giurista romano Marciano: si tratta nello specifico di un passo di Demostene citato all’interno del Digesto (Digestum, 1,3,2, frammento greco di Marciano). La perifrasi è poi stata recentemente ripresa da Pierre Legendre il quale ha considerato la questione dell’istituire la vita nel suo Sur la question dogmatique en Occident, Fayard, Paris, 1999. Infine l’espressione transita per le mani di un filosofo politico italiano: R. Esposito, Vitam Instituere, in “Coronavirus, Psychoanalysis, and Philosophy: Conversations on Pandemics, Politics and Society”, London, 2021, pp. 87-89. Si veda inoltre Id., Pensiero istituente, Einaudi, Torino, 2020; Id.,Per un pensiero istituente da Il problema dell’istituzione. Prospettive ontologiche, antropologiche e giuridico-politiche, in “Discipline Filosofiche”, XXIX, Quodlibet, Macerata, 2019, pp. 9-29;Id., Istituzione, Il Mulino, Bologna 2021.

[2] P. P. Pasolini, L’enigma di Pio XII, in “Trasumanar e organizzar”, II, Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 2003, p. 25.

[3] Alcuni esempi di ripresa dell’istanza istituzionalista possono ritrovarsi, da una prospettiva filosofico-politica, nell’ambito della riflessione di Roberto Esposito. La sua variante istituzionale si formula a partire dal participio presente istituente così da evidenziare il dinamismo delle istituzioni per allontanarle definitivamente da quella classica e inveterata abitudine di concepire le istituzioni medesime come contraddistinte dal verticismo e dal conservatorismo. Un’ altra prospettiva ormai nota è quella neoistituzionalista che vede come principali teorici Neil MacCormick (si rimanda a N. MacCormick, Institutions of Law: an essay in Legal Theory, OUP Oxford, Oxford, 2007; Id., An Institutional Theory of Law: New Approaches to Legal Positivism, Springer, Berlino, 1986), OtaWeinberger (si rimanda a O. Weinberger, An Institutional Theory of Law: New Approaches to Legal Positivism, Springer, Berlino, 1986; Id., Law, Institution and Legal Politics: Fundamental Problems of Legal Theory and Social Philosophy, Springer, Berlino, 1991) e Massimo La Torre (si rimanda a M. La Torre, Norme, istituzioni, valori, La teoria istituzionalistica del diritto, Laterza, Roma-Bari, 1999; Id., Il diritto contro sé stesso. Saggio sul positivismo giuridico e la sua crisi, Olschki, Firenze, 2020). Si individuano, inoltre, altre teorie che in ordine al concetto di istituzione hanno intrapreso varie direzioni teoriche: alcune di queste sono emerse nell’ ambito societario e del diritto d’impresa, laddove  la teoria istituzionalista è stata contrapposta a quella contrattualistica o, ancora, laddove l’idea di impresa è stata assimilata a quella di una istituzione. La teoria istituzionalista è stata ancora utilizzata nell’ambito del diritto civile e più specificamente del diritto di famiglia, per spiegare l’istituzione familiare da un punto di vista sia strutturale che diacronico. Ancora, il termine istituzione è divenuto largamente di uso comune anche in campo economico in seguito agli impulsi della teoria dell’Institutional Economics. In particolare si rimanda a: B. Chavance, L’économia institutionelle, La Découverte, Paris, 2007; tr. it. L’economia istituzionalista, il Mulino, Bologna 2010; F. Denozza, Norme efficienti. L’analisi economica delle regole giuridiche, Giuffrè, Milano, 2002; G.M. Hodgson, The approach of institutional economics, in “Journal of economic literature”, 1998, 36, 1, pp.166-192; S. Voigt, Institutional Economics: An Introduction, Cambridge University Press, Cambridge, 2019; O. E. Williamson, The new institutional economics: taking stock, lookin ahead, in “Journal of economic literature”, 38, 3, 2000, pp. 595-613.

[4] Il tentativo di rovesciamento del volto coercitivo delle istituzioni è maturato alla luce di plurime riflessioni che in tutta Europa si sono diffuse in ambito giuridico, filosofico, sociale. La legge Basaglia ne è un esempio (si rimanda a F. Basaglia, L’istituzione negata, Baldini Castoldi, Milano, 2018) così come le note riflessioni del filosofo M. Foucault sulla natura repressiva delle istituzioni a partire da una genealogia delle istituzioni penali (si rimanda a M. Foucault, Surveiller et punir, Naissance de la prison, Editions Gallimard, Paris, 1975; Teorie e istituzioni penali. Corso al Collège de France (1971-1972), Feltrinelli, Milano, 2019). Il contesto storico in cui ciò avvenne era fertile alla adozione di riforme tese verso una progressiva deistituzionalizzazione: si pensi allo Statuto dei lavoratori (l. n. 300/1970), alla legge sul divorzio (l. n. 898/1970), alla riforma del sistema carcerario (l. n. 354/1975), alla legge sull’interruzione volontaria della gravidanza (l. n.194/1978).

[5] J. R. Searle si serve di alcuni termini filosofici (quali, per esempio, “ontologia” o “intenzionalità”) in modo differente rispetto alla tradizione filosofica continentale. La distinzione tra la filosofia analitica e continentale è stata messa in luce da F. D’Agostini, a cui si rimanda: F. D’Agostini, Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997. L’opera si concentra, tra le altre cose, su due aspetti che si verificano quando una forma di sapere, come la filosofia, smarrisce le proprie coordinate tradizionali: la prima conseguenza attiene alla emersione incontrollata della cosiddetta falsa scienza; la seconda riguarda la natura delle dispute ideologiche le quali, trascendendo il campo della stessa riflessione filosofica, finiscono col diventare oggetto di arbitrarie distorsioni concettuali.

[6] M. Croce, La tecnica della composizione in S. Romano, L’ordinamento giuridico, Quodlibet, Macerata, 2019, p. 189.

[7] Come rilevato da Norberto Bobbio, Carl Schmitt fu tra i primi a rilevare la grande portata della teoria istituzionalista di Romano. Del resto, sempre per lo stesso Bobbio, la teoria istituzionalista del diritto è nata, almeno in Italia, da quell’aureo libretto che è L’ Ordinamento giuridico di Santi Romano. Nel 1933, nella Premessa alla seconda edizione della sua Politische Theologie, Schmitt precisa quanto segue: «oggi distinguerei non più fra due, ma fra tre tipi di pensiero giuridico: cioè, oltre al tipo normativistico e a quello decisionistico, anche quello istituzionale. Questa consapevolezza è il frutto dello sviluppo della mia teoria delle garanzie istituzionali e dell’approfondimento dell’importante teoria dell’istituzione di Maurice Hauriou»: C. Schmitt, Teologia politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica, Giuffré, Milano, 1992, p.33. Esattamente un anno dopo, nel suo Über die drei Arten des rechtswissenschaftlichen Denkens, Schmitt dimostra non solo di aver assorbito la lezione romaniana, ma di aver corroborato il suo pensiero istituzionalista; ed è grazie al concetto romaniano di ordinamento che Schmitt può spiegare alcune delle esperienze giuridiche, tra cui quelle proprie del pluralismo medievale, che con le lenti del decisionismo, restavano irrisolte. Schmitt non abiura dalle sue posizioni decisioniste, ma le adagia sul piano della contingenza storica. Da ciò si può ricavare che il decisionismo schmittiano originario era legato al concetto di Stato e che la crisi di questo provoca la riflessa conseguente crisi dei concetti e che rende inutilizzabili i concetti teorici intorno allo Stato espressi magistralmente tanto da Hobbes quanto da Hegel. Schmitt, con un certo grado di ineffabile nostalgia, scriverà ne Il concetto di politico che «la porzione europea dell’umanità ha vissuto, fino a poco tempo fa, in un’epoca in cui i concetti giuridici erano totalmente improntati allo stato e presupponevano lo Stato come modello dell’unità politica. L’epoca della statalità sta ormai giungendo alla fine: su ciò non è più il caso di spendere parole. Con essa viene meno l’intera sovrastruttura di concetti relativi allo Stato, innalzata da una scienza del diritto dello Stato e internazionale eurocentrica, nel corso di un lavoro durato quattro secoli»: C. Schmitt, Il concetto di politico in Le categorie del ‘politico’, il Mulino, Bologna, 1972, p. 90.

[8] La produzione teorica di Searle è molto vasta. In particolare: J. R. Searle, How To Derive ‘Ought’ from ‘Is’, in “Philosophical Review”, 73, 1, Duke University Press, Durham 1964, pp. 43-58; Id., Making the social world. The structure of human civilization, Oxford University Press, Oxford, 2010; Id., Social ontology: Some basic principles, in “Anthropological Theory”, 6, 1, 2006, pp. 12-29; Id., Speech Acts: An Essay in the Philosophy of Language, Cambridge University Press, Cambridge 1969; tr. it. Atti Linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino, 2000; Id., The Construction of Social Reality, The Free Press, New York 1995; tr.it. La costruzione della realtà sociale, Einaudi, Torino, 2006; Id., The Mystery of Consciousness, New York Review, New York, 1997; Id., Intentionality. An Essay in the Philosophy of Mind, Cambridge University Press, Cambridge, 1983; Id., Minds, Brains and Science, British Broadcasting Corporation, London, 1984; Id., Meaning and Speech Acts, in “The Philosophical Review”, 71, 4, 1962, pp. 423-432; Id., Expression and Meaning. Studies in the Theory of Speech Acts, Cambridge University Press, Cambridge, 1979; How performatives work, in “Linguistics and Philosophy”, 12, 5, 1989, pp. 535-538; Id., Individual Intentionality and Social Phenomena in the Theory of Speech Acts, in “Semiotics and Pragmatics”, John Benjamins, Amsterdam, 1989, pp. 3-17; Id., What is an institution?, in “Journal of Institutional Economics”, 1, 2005, pp.1-22; Id., The Rediscovery of the Mind, The MIT Press, Cambridge-London, 1992; tr. it. La riscoperta della mente, Bollati Boringhieri, Torino, 2017; Id., Minds, Brain and Science, Harvard University Press, Cambridge, 1984; tr.it. Menti, cervelli e programmi. Un dibattito sull’intelligenza artificiale, CLUP-CLUED, Milano 1984; Id., Seeing Things as They Are. A theory of Perception, Oxford University Press, Oxford, 2015; Id., Collective Intentions and Actions, in “Intentions in Communication”, Cambridge, 1990, pp. 401-415. Inoltre molto nutrita è la letteratura scientifica su Searle. In particolare: C. Saftescu-Jescu, A central problem of contemporary Philosophy:Institutional Facts. John Searle’s Point of View, in “Procedia-Social and Behavioral Sciences”, 71, 2013, pp. 148-153; G.Torrengo, Documenti e intenzioni. La documentalità nel dibattito contemporaneo sull’ontologia sociale, in “Rivista di estetica, 42, 2009, pp. 157-188; B. Celano, Fatti istituzionali, Consuetudini, Convenzioni, Aracne Editrice, Roma, 2010; B. Celano, Fatti istituzionali e fatti convenzionali, in “Rivista di Filosofia e Questioni Pubbliche”, 2, 2000, pp. 163-182 ; P. Comanducci, Kelsen vs. Searle: A Tale of Two Constructivists, in P. Comanducci- R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto 1999. Ricerche di giurisprudenza analitica, Giappichelli, Torino, 2000, pp. 101-115; F. De Nardis, Sociologia comparata. Appunti sulle strutture logiche della ricerca sociopolitica, Franco Angeli, Milano, 2011; F. De Vanna, L’ordinamento giuridico di Santi Romano e il pluralismo oltre l’orizzonte dello Stato: alcuni percorsi interpretativi, in “Jura Gentium”, XV, 2018, pp. 37-56; M. Ferraris, Ontologia sociale e documentalità, in “Networks”, 6, 2006, pp. 21-35; E. Fugali, Husserl e Searle su intenzionalità e coscienza: la fenomenologia è veramente un’ illusione?, in “Rivista di estetica”, 47, Torino 2011, pp. 113-153; G. Lorini, Dimensioni giuridiche dell’ Istituzionale, CEDAM, Padova, 2000; F. Mancuso, L’istituzione, L’incontro tra diritto e società, in A. Andronico et Al. (a cura di), Dimensioni del diritto, Giappichelli, Torino, 2019; I. Canavotto, Il problema dell’intenzionalità e degli oggetti intenzionali: analisi critica delle proposte di Searle e Crane, in “Rivista Di Filosofia Neo-Scolastica, 105, 1,  2013, pp. 17-40; D. Sparti, Naturalmente costruita. L’ontologia sociale di John Searle, in “Lares”, 83, 2, 2017, pp. 213–234; S. Du Plessis et al., What is money? An alternative to Searle's institutional facts, in “Economics and Philosophy”, 27, 2011, pp. 1-22.

[9] J. L. Austin è considerato uno dei maggiori teorici della filosofia del linguaggio. Si deve alla sua riflessione l’elaborazione della distinzione tra enunciati costatativi ed enunciati performativi (costatative and performative utterances), atti locutori e atti illocutori (locutionary and illocutionary act). Le sue ricerche sui cosiddetti speech acts hanno influenzato molti filosofi del linguaggio e della mente, tanto da costituire una prospettiva fondamentale del fenomeno della Linguistic Turn che ebbe come massimi esponenti Wittgenstein, Popper e lo stesso Searle.

[10] J. R. Searle, The Construction of Social Reality, op. cit., p. 27.

[11] G. Simmel, Forme e giochi di società. Problemi fondamentali della sociologia, Feltrinelli, Milano, 1983, p. 41.

[12] Si può qui approfondire un passaggio ulteriore. Searle, come già detto, rappresenta una figura di spicco all’interno della filosofia analitica sul tema dell’ontologia sociale. Lo statuto ontologico delle entità sociali e la loro dipendenza dall’intenzionalità dei soggetti sono state oggetto di lunga riflessione. Searle ha tentato di allontanarsi dalle prospettive convenzionalistiche definendole inadatte a spiegare il fenomeno costitutivo degli enti sociali e abbracciando una prospettiva che possiamo definire realista. Inoltre, ha  difeso la propria teoria da chi ha definito il suo approccio riduzionista-materialista, rifiutando l’accostamento concettuale con le teorie dei funzionalisti computazionali da intelligenza artificiale – secondo i quali la mente umana sarebbe del tutto assimilabile a una macchina di calcoli – arrivando, in verità, a postulare l’esistenza di una lacuna all’interno della quale si innervano fenomeni specifici quali, per esempio, la coscienza e i suoi sviluppi, il libero arbitrio. Nello specifico, a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, lo sviluppo strabiliante dei grandi calcolatori e la crescita della cibernetica hanno condotto molti a interrogarsi sulla portata di queste creazioni e sulle loro funzioni nello studio della mente umana. Alcuni hanno sostenuto l’assimilabilità di un computer – dotato di hardware (supporto fisico) e software (programmi operativi in esso installati) – alla mente umana. Searle ha elaborato uno dei più noti contro-argomenti di tale teoria: l’esperimento della stanza cinese. Opponendosi con forza all’idea che un computer fosse anche solo lontanamente in grado di elaborare e di pensare al pari della mente umana, di comportarsi come se avesse coscienzadelle proprie operazioni, nel suo The mistery of consciousness (1997), Searle costruisce, in risposta ai sostenitori della Intelligenza artificiale forte  – con una certa dose di veleno e di sarcasmo – la teoria della stanza cinese, un vero e proprio esperimento mentale del tutto astratto, mediante il quale Searle si immagina immerso in una stanza con un computer e che gli venga affidato il compito di scrivere in cinese, dopo aver disposto a suo uso e consumo di un dizionario di lingua cinese-inglese e di un manuale dettagliato di come fare per poter scrivere in cinese. Searle non conosce i segni, né ha la minima idea del funzionamento della lingua cinese, ma pazientemente, e seguendo alla lettera gli input che gli vengono forniti, riesce a rispondere meccanicamente a tutto ciò che gli viene comandato, al pari di una macchina. Searle è riuscito così a manipolare e usare a suo vantaggio i simboli cinesi; tuttavia, continua a faticare a comprenderli. Così, un computer è un manipolatore di simboli che agisce esclusivamente a livello sintattico (proprio come il nostro autore col cinese), ma non riuscirà mai a spaziare sul campo della conoscenza – la semantica – analizzando, interpretando, intellegendo, al pari della mente umana, gli ideogrammi cinesi e così acquisendo una reale forma di conoscenza.

[13] Il carattere del costitutivo ricopre, infatti, un ruolo essenziale nella sua articolazione teorica sia nella riflessione degli atti linguistici, sia nella spiegazione dei fenomeni istituzionali a partire dalla definizione delle costitutive rules.

[14] D. Sparti,  Naturalmente costruita. L’ontologia sociale di John Searle, cit., p. 214.

[15] J. R. Searle, The Construction of Social Reality, op. cit., p. 27.

[16] Id., Speech Acts: An Essay in the Philosophy of Language, op. cit, p. 27.

[17] La riflessione sul concetto di regola costitutiva ha guadagnato moltissimo campo di interesse nel corso degli ultimi decenni, specialmente in Italia. Se infatti la filosofia analitica che si è sviluppata negli Stati Uniti e in Inghilterra si è maggiormente concentrata intorno alla teoria di Searle, l’analitica italiana ha avuto il merito di aver ravvivato un dibattito che sembrava essersi spento. In Italia i maggiori interpreti sono stati Gaetano Carcaterra, Amedeo Conte e Giampaolo Azzoni. Si vuole qui offrire una agile ricognizione. In particolare, G. Carcaterra ne Le norme costitutive (1974) e ne La forza costitutiva delle norme (1979), ha evidenziato la polarità esistente nelle teorie sulle regole costitutive. Infatti, le regole sono costitutive in quanto producono un effetto diretto all’interno dell’ordinamento giuridico. In questa prima categoria rientrano le regole che sono dotate di un carattere performativo. Dall’altra parte, le regole costitutive istituiscono fatti rilevanti socialmente. Carcaterra ha analizzato la costitutività all’interno di un discorso filosofico-giuridico e più precisamente nell’arco del confronto teorico tra la concezione normativa e la concezione istituzionalista del diritto. Si rimanda a G. Carcaterra, Le norme costitutive,Giappichelli, Torino, 2014; Id., La forza costitutiva delle norme, Bulzoni Editore, Roma, 1979. G. Azzoni, ne le Condizioni costitutive (1986) e ne Il concetto di condizione nella tipologia delle regole (1988), si è dedicato all’analisi delle regole costitutive, elaborando una vera e propria tassonomia, distinguendo la regola costitutiva secondo diversi significati: eidetico, thetico, noetico, anankastico, metatetico, nomico, tentando di superare quella polarità messa in luce da Carcaterra. Si rimanda a: G. Azzoni, Condizioni costitutive, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, 63, 1986, pp. 160–91;  Id., Il concetto di condizione nella tipologia delle regole, CEDAM, Padova, 1988. A. Conte, nel 1981 ha tematizzato la tensione doppia che si ritrova nel concetto di norma costitutiva e ha constatato che nella letteratura filosofica si ritrovano due concetti eterogeni di costitutività di regole. A partire da tale riflessione ha distinto tra regole deontico-costitutive e regole thetico-costitutive, teorizzando il tema all’interno della più ampia cornice di filosofia teoretica generale. Si rimanda a: A. Conte, Materiali per una tipologia delle regole, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, XV, 1985; Id., Filosofia del linguaggio normativo. Studi 1965-1981, Giappichelli, Torino, 1981.

[18] Si può ulteriormente precisare che la ricostruzione complessiva che rende possibile la pensabilità di fatti istituzionali in una cornice di senso, per Searle, si ha secondo tre direttrici: intenzionalità, assegnazione collettiva di funzioni, imposizione di funzioni.

[19] G.E.M. Anscombe, allieva di Ludwig Wittgenstein, tenta far emergere l’importanza dell’azione in relazione della descrizione che di essa si può dare posto che ogni descrizione presuppone sempre un contesto di riferimento. Nell’articolo On brute facts G.E.M. Anscombe scrive che «in relation to many descriptions of events or states of affairs which are asserted to hold, we can ask what the ‘brute facts’ were; and this will mean the facts which held, and in virtue, in a proper context, such-and-such a description is true or false, and which are the more ‘brute’ than the alleged fact answering to that description»; G.E.M. Anscombe, On Brute Facts, in “Analysis”, 18, 3, 1958, pp. 69-72. Si ricordi, inoltre, che la parola brute facts appare per la prima volta in uno scritto di Charles SandersPeirce e in un altro di Henri Poincarè. Pierce pervenendo a una distinzione tra “esistenza” e “realtà”, qualifica la prima come l’accadere bruto di qualcosa (l’Oggetto Immediato) e la seconda come l’attribuzione di significato che una comunità dà a un determinato fatto al fine di far emergere una forma di “verità” (l’Oggetto Dinamico). Per Poincarè, noto fisico e matematico francese, esiste una oggettività scientifica fondata non sul mero sperimentale che questi chiama, per l’appunto, fatto bruto, ma sulla conoscenza delle relazioni che regolano i dati sperimentali: in questa oggettività risiederebbe la valeur de la science. In particolare si rimanda a: J. Henri Poincarè, Il valore della scienza, Dedalo, Bari, 1993; C. Sanders Peirce, Opere, Bompiani, Milano, 2003.

[20] J. R. Searle, The Construction of Social Reality, op.cit., p. 27.

[21] Ibidem, pp. 2-3.

[22] Ibidem, p. 2.

[23]«Per ricapitolare, quindi, la natura e la funzione dei fatti istituzionali possono descriversi come segue: il carattere performativo, costitutivo e simbolico del linguaggio consente di assegnare a un fatto bruto una funzione di status – capace di attribuire specifici poteri –, che alla mente di una pluralità di soggetti si presenta immediatamente come intenzionalità collettiva in virtù del fatto che la pratica reiterata della regola trasforma questa in una disposizione preintenzionale, la quale assicura che gli stessi individui riconoscano e accettino lo stesso fatto istituzionale»: M. Croce, Che cos’è una istituzione, Carocci Editore, Roma, 2010,  p. 36.

[24] Una di queste ragioni  che non può trovare qui compiuta sistemazione riguarda l’obiezione  teorizzata da J. P. Smit, F. Buekens e Stan du Plessis, i quali hanno offerto un approccio radicalmente differente alla questione dei fatti istituzionali, specialmente con riferimento al denaro, maggiormente compatibile con le tradizionali teorie economiche. Hanno infatti sostenuto che gli oggetti istituzionalipossono essere compresi nei termini di azioni e incentivi (actions and incentives), che lascia aperte alcune prospettive di stampo economicistico. Quindi, dal loro punto di vista, l’apparato searliano risolve un problema in realtà inesistente. Sviluppano così una impostazione alternativa riguardo ai fatti istituzionali. Qui un passaggio centrale: «We claim that all institutional facts are essentially tied to a set of actions. Traffic lights are objects that I am incentivized to stop at, etc.; borders are things I am incentivized not to cross; money is something I am incentivized to acquire for exchange, etc. We do not think that institutional objects give rise to these actions and incentives; rather, we think that they simply are natural objects individuated by these actions and incentives». S. Du Plessis et Al., What is money? An alternative to Searle's institutional facts,cit., pp. 1-22.

[25] B. Celano, Fatti istituzionali e fatti convenzionali, op.cit, p. 18.

[26] J. R. Searle, The Construction of Social Reality, op.cit, p. 32.

[27] Ibidem, pp. 52-53.

[28] B. Celano, Fatti istituzionali e fatti convenzionali, op.cit, p. 23.

[29] J. R. Searle, The Construction of Social Reality, op.cit., p. 55.

[30] Si rimanda a un prezioso studio intorno al rapporto tra diritto quale dimensione complessa e i comportamenti che, in modo esplicito o implicito, si trovano intrecciati ad un insieme di credenze: G. Bombelli, Diritto, comportamenti e forme di credenza, Giappichelli, Torino, 2017.

[31] B. Celano, Fatti istituzionali e fatti convenzionali, op. cit, p. 30.

[32] F. De Nardis, Sociologia comparata. Appunti sulle strutture logiche della ricerca sociopolitica, cit., p. 160.

[33] C. Geertz, The Interpretation of Cultures, Basic Books, New York 1973; tr. it. Interpretazione di Culture, Il Mulino, Bologna, 1987, p. 78.

[34] Ibidem, pp. 83-84.

[35] Per una più ampia ricognizione storica del concetto di intenzionalità in epoca romana e medievale, si rimanda a L.P. Gerson, Ancient and Medieval Theories of Intentionality, in “Lloyd Journal of the History of Philosophy”, 40, 4, Johns Hopkins University Press, Washington DC, 2002, pp. 539-540.

[36] G. Falcone, Appunti sul IV Commentario  delle Istituzioni di Gaio, Giappichelli, Torino, 2003.

[37] Come emerge chiaramente da uno degli esempi gaiani: «Si paret Numerium Negidium Aulo Agerio sestertium X milia dare oportere [Se risulta (al giudice) che NumerioNegidio deve dare diecimila sesterzi ad Aulo Agerio], e «Si paret hominem ex iure Quiritium Auli Agerii esse» [Se risulta (al giudice) che lo schiavo è di Aulo Agerio secondo il diritto dei Quiriti]: A. Schiavone et Al., Diritto privato romano, Einaudi, Torino, 2003, p. 116.

[38] Il dolo è intenzione, rappresentazione e volontà del fatto. Sotto il profilo volitivo, il dolo è volontà (intenzionale o accettante) e abbraccia, per esempio, il dolo detto intenzionale, che si ha quando «la volontà ha direttamente di mira l’evento tipico, è diretta alla realizzazione del medesimo, sia esso stato previsto dall’agente come certo o anche soltanto come possibile (es. tiratore che vuole l’evento mortale pur se nel dubbio di riuscire a cagionarlo per inesperienza o per eccessiva distanza della vittima)»: F. Mantovani, Diritto Penale, CEDAM, Padova, 2017, pp. 314-315.

[39] F. Brentano, Premessa in La psicologia dal punto di vista empirico, Editori Laterza, Roma-Bari, 1997, p.XVI.

[40] Ibidem, pp.154-155.

[41] Il termine corrispondente al greco antico è νόημα che significa pensiero o concetto e già si ritrova negli scritti di uno dei massimi filosofi presocratici, Parmènide di Elea, il quale identifica il pensiero come pensiero di verità contrapposto alla δόξα dei mortali. Si rimanda a Diels-Kranz, I Presocratici, Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz, Bompiani, Milano, 2006.

[42] Il termine corrispondente al greco antico è νόησις e la prima testimonianza si riscontra in Diogene di Apollonia vissuto nel V secolo a.C.

[43] E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 227-228.

[44] Ibidem, p. 238.

[45] Ibidem, p. 361

[46]Ibidem, p. 225.

[47] Ibidem, p. 289.

[48] Id., Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, Stephan Strasser, Husserliana I, II ed. 1963, p. 61; tr. it. Meditazioni cartesiane,Bompiani, Milano, 1970, p. 59.

[49] E. Fugali, Husserl e Searle su intenzionalità e coscienza: la fenomenologia è veramente un’ illusione?, cit., p. 127.

[50] J. R. Searle, La riscoperta della mente, op. cit., p. 101.

[51] F. Buongiorno, Fenomenologia in “prima” e in “terza” persona: Searle e Dennett critici di Husserl, cit., p. 269.

[52] Ibidem, p. 270

[53] Ibidem.

[54] J. R. Searle, Intentionality, Cambridge University Press, 2008, p. 4.

[55] F. Buongiorno, Fenomenologia in “prima” e in “terza” persona: Searle e Dennett critici di Husserl, op.cit., p. 273.

[56] Per un maggiore approfondimento del confronto tra Husserl e Searle, si rimanda a E. Fugali, Husserl e Searle su intenzionalità e coscienza: la fenomenologia è veramenteun’illusione?, cit., pp. 113-153, che rappresenta uno dei lavori più completi sul punto. Il richiamo al lavoro di Fugali è dettato dalla densità delle posizioni sondate e alla condivisibilità di alcune delle riflessioni contra Searle cui il saggio approda, dopo aver affrontato in modo dettagliato, un raffronto delle posizioni classiche sulla intenzionalità in Husserl e delle riflessioni di Searle analizzate alla luce di una adesione al modello della ontologia fisicalistica.

[57]  E. Severino, La filosofia dai Greci ai nostri tempi, Edizioni CDE, Milano, 1996, p. 880.

[58] Si rimanda a K. Popper, Il mito della cornice, Il Mulino, Bologna, 2004.

[59] J. R. Searle, The Construction of Social Reality, op. cit. p. 34.

[60] Ibidem, p. 34.

[61] Il giurista Gaio nel libro secondo delle sue Institutiones distingue infatti:«Corporales hae [sunt] quae tangi possunt, velut fundus homo vestis aurum argentum et denique aliae res innumerabiles. Incorporales [sunt] quaetangi non possunt, qualiasunt ea quae in iure consistunt, sicut hereditas, usufrucuts, obligationes quoquo modo contractae [...]»: riproduco il testo dell’edizione FIRA, II, 49.

[62]  G. Lorini, Dimensioni giuridiche dell’Istituzionale, CEDAM, Padova, 2000, p. 66.

[63] A. Reinach guarda al fatto istituzionale – la promessa – come a una entità che presuppone non una regola costitutiva, quanto, in verità, una o più strutture aprioriche di senso. E’ una impostazione che confuterebbe totalmente la teoria dei fatti istituzionali che si appoggiano alle regole costitutive, come formulata da Searle. Per un maggiore approfondimento, si veda G. Lorini, Dimensioni giuridiche dell’istituzionale, CEDAM, Padova, 2000, p. 66, nota n. 126.

[64] A. Reinach, I fondamenti a priori del diritto civile, Giuffrè, Milano, 1990, p. 23. Peraltro pare che una simile impostazione possa esser individuata già in D. Hume il quale nel 1751 nel suo Ricerca sui principi della morale si domanda come possano distinguersi gli oggetti di proprietà di un soggetto da quelli dei quali quella persona non è proprietaria.

[65] E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche. Fenomenologia della conoscenza, I, Nuova Italia, Firenze 2001, p. 19.

[66] Id., Saggio sull’uomo. Introduzione a una filosofia della cultura, Mimesis, Milano, 2011, p. 23.

[67] Id., Filosofia delle forme simboliche. Fenomenologia della conoscenza, op. cit., p. 33.

[68] Ibidem, p. 33.

[69] Per Searle, sono veri solo quegli stati intenzionali che rappresentano come i fatti sono effettivamente nella realtà delle cose. Ma ciò porterebbe fuori dal campo di studio quei momenti, pur fondamentali, in cui «intervengono precomprensioni degli oggetti stessi che, seppur mutabili e correggibili, inevitabilmente orientano la percezione e la descrizione dell’oggetto. È come dire che il fatto istituzionale Y della formula delle regole costitutive viene prima – o quantomeno accompagna – sempre la percezione e la descrizione del fatto bruto X. [...] Infatti, si può sostenere che, entro qualsiasi esperienza conoscitiva, i fatti bruti potrebbero risultare indecifrabili se non preceduti da fatti istituzionali. [...] Dalla ricostruzione del fatto ‘omicidio’ [il fatto di omicidio in sé potrebbe esser considerato come bruto] vengono così a far parte concetti assai dibattuti, come la volontarietà, la prevedibilità, il nesso causale, non riducibili a fatti bruti percepibili o rappresentabili, che indirizzano le attività di accertamento dei fatti e determinano la descrizione degli eventi»: M. Croce, Che cos’è una istituzione, op.cit., p. 39, corsivo mio.

[70] Questo dato si accentua laddove il filosofo americano sembra sorvolare sul fatto che il nascere in una data società significhi automaticamente assorbire i modelli che la stessa impone, i quali sono semmai – più che omogenei – un coacervo di schemi plurali intersecantisi.

[71] M. Croce, Che cos’è una istituzione, op.cit., p. 40.

[72] Ibidem, p. 41, corsivo mio.

[73] P. Grossi, Scienza giuridica italiana, Giuffrè, Milano, 2000, p. 109.

[74] Di Romano si vedano le altre importanti pubblicazioni tra cui: S. Romano, Frammenti di un dizionario giuridico, in “L’Ultimo Santi Romano”, Giuffrè, Milano, 2013, poi ripubblicato da Quodlibet, Macerata 2019; Id., Lo Stato moderno e la sua crisi, Giuffrè, Milano, 1969.

[75] Si rinvia a V. E. Orlando, Santi Romano e la scuola italiana di diritto pubblico, Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza della Università di Modena, 74, Modena, 1948; Id., Ancora del metodo in diritto pubblico con particolare riguardo all’opera di Santi Romano, in “Scritti giuridici in onore di Santi Romano”, Giuffrè, Milano, 1954.

[76]  S. Romano, L’ordinamento giuridico, Quodlibet, Macerata, 2019, p. 55.

[77]A. Scerbo ha dedicato un’importante riflessione critica sui principali teorici dell’istituzionalismo francese: M. Hauriou, G. Renard, G. Gurvitch. Ciò al fine di mostrare come il ripensamento dell’istituzionalismo, a partire dai primi istituzionalisti francesi, sia strumentale per recuperare quella dimensione personalistica dell’esperienza giuridica, proiettando la definizione del diritto ben al di là delle soluzioni normativistiche. Si rimanda a A. Scerbo, Istituzionalismo giuridico e pluralismo sociale. Riflessione su alcuni filosofi del diritto francesi, Rubettino, Soveria Mannelli, 2009.

[78] N. Bobbio, Istituzione e diritto sociale (Renard e Gurvitch), in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, 1936, 16, 4/5, pp. 385-417.

[79] M. Croce, Il diritto come tecnica operativa. Attualità e Necessità del pensiero di Santi Romano, Editoriale Scientifica, Pisa, 2018.

[80]« [...] secondo cui la tecnica giuridica produce una realtà che si compone con le altre in modi diversi. L’esistenza della realtà giuridica dipende da un sapere, proprio come quella delle realtà che presuppongono punti di vista ‘propri di particolari ordini di conoscenze’. È in questo frangente che Romano mette a tema una delle possibili relazioni tra differenti realtà e presenta il diritto come atto di creazione: atto che però non crea entità, ma le assembla, e così facendo, produce la realtà che gli è propria [...]»: Ibidem, pp. 280-81.

[81] S. Romano, L’ordinamento giuridico, op. cit., p. 50.

[82] Id., L’instaurazione di fatto di un ordinamento costituzionale e la sua legittimazione, Estratto dall’Archivio giuridico “Filippo Serafini”, IX, 3, Modena, 1901, p. 25.

[83] T. Gazzolo, Santi Romano e l’ordinamento giuridico come unità, in “JuraGentium” XV, 2, 2018, pp. 115-127, in particolare p. 121.

[84] S. Romano, L’ordinamento giuridico, op. cit., p. 50, corsivo mio.

[85] F. Hayek descrive la società e i fenomeni sociali quali il diritto, l’economia, lo stesso linguaggio, come inseriti all’interno di un ordine spontaneo. La spontaneità gioverebbe alla allocazione delle risorse molto più di quanto qualsiasi progetto umano potrebbe ottenere. Da questa prospettiva il termine spontaneo ci indica che le istituzioni umane siano rette da un flusso di eventi, di contingenze e che questi non possano esser conosciuti nella loro interezza, né dominati dalla volontà. Si rimanda a F. Hayek, Individualism and Economic Order, University of Chigago Press, 1948; Id., The sensory order: an inquiry into the foundations of theoretical psychology, The University of Chicago Press, 1952; C. Petsoulas, Hayek’s liberalism and its origins: his idea of spontaneous order and the scottish enlightenment, Routledge, 2001; D. Boaz, The libertarian reader, The Free Press, 1997; S. Moroni, L’ordine sociale spontaneo: Conoscenza, mercato e libertà dopo Hayek, UTET, 2005.

[86] Ibidem, p. 38.

[87] Id., III. Frammenti di un dizionario giuridico, in “L’ Ultimo Santi Romano”, Giuffrè, Milano, 2013, p. 656.

[88] F. De Vanna, L’ordinamento giuridico di Santi Romano e il pluralismo oltre l’orizzonte dello Stato: alcuni percorsi interpretativi, in “JuraGentium”, XV, 2, 2018, p. 50.

[89] S. Romano, L’ Ordinamento giuridico, op.cit., p. 56.

[90] Ibidem, p.31.

[91] Sull’intenzionalità collettiva si rimanda a: B. Celano, Intenzionalità collettiva, false credenze: due aspetti problematici dell’ontologia sociale di J.R. Searle, in “Ontologia sociale: potere deontico e regole costitutive”, Quodlibet, Macerata, 2003,pp. 71-98; M. Santambrogio, Linguaggio e intenzionalità collettiva, in “Ontologia sociale: potere deontico e regole costitutive”, Quodlibet, Macerata, 2003, pp. 125-135; G. Zanet e G. Vicari, Ontologia sociale, intenzionalità collettiva e mindreading, in “Rivista italiana di filosofia del linguaggio”, 1, 2014, pp. 96-110; C. Rosciglione, Intenzionalità collettiva versus plural subject nel confronto tra Searle e Gilbert: influssi hobbesiani e rousseauiani nel dibattito contemporaneo su individualismo e collettivismo, in “Giornale di metafisica”,  41, 2, 2019, pp. 635-650; J. R. Searle, Collective Intentions and Actions, op. cit.; R. Tuomela and K. Miller, We-Intentions, in “Philosophical Studies”, 53, pp. 367-389, 1988; A. W. M. Meijers, Can Collective Intentionality Be Individualized?, in “American Journal of Economics and Sociology”, 62, 1, 2003, pp. 167-183.

 

 

Eramo Francescantonio



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