fbevnts Manzo, Quinto Elio Tuberone e il suo tempo

Quinto Elio Tuberone e il suo tempo

28.10.2018

Annamaria Manzo

Ricercatore confermato di diritto romano e diritti dell’antichità,Università della Campania ‘L. Vanvitelli’

Quinto Elio Tuberone e il suo tempo*

 

Sommario: - 1. L’ordito di una storia. - 2. Tuberone e Cicerone: le ragioni di uno scontro. - 3. Gli anni del consenso. - 4. Una ‘polemica’ a distanza. - 5. Il sermo antiquus: indizio di una continuità ideologica?

 

1. L’ordito di una storia

Cogliere, con sicurezza, negli ambiti assai articolati della storia giuridica tardo-repubblicana il ‘tempo’ di Quinto Elio Tuberone non appare un fine facilmente perseguibile. Le fonti che lo riguardano non riportano anni e date, talvolta tramandano un giudizio. Tuttavia, qualche ipotesi, elevabile a gradi non del tutto incerti di probabilità può, forse, essere cautamente formulata.

In base ad una testimonianza di Quintiliano, sappiamo che Tuberone era iuvenis quando militò, con il padre Lucio Elio, nel partito pompeiano prendendo le armi contro Cesare nella pianura di Farsalo[1]. Doveva essere ancora molto giovane quando, nel 46 a.C., promosse l’accusa di perduellio contro Quinto Ligario, difeso da Cicerone[2]. È noto poi che lavorò con Ofilio (familiarissimus Caesari) per un periodo non breve[3]. Aulo Gellio attesta, infine, la dedica di un suo libro ad Oppio, un cesariano che scriveva ancora sotto Augusto[4]. Si può perciò, senza eccessivi rischi, segnare i limiti iniziali e finali del suo arco cronologico partendo da una ventina d’anni prima di Farsalo e terminando intorno al primo periodo di Ottaviano[5]. Oltre a queste considerazioni, indubbiamente generiche, non c’è alcuna notizia sicura. Eppure, se i testi non consentono la precisa determinazione di date, permettono, però, di seguire l’ordito di una storia. Essa passa attraverso una complessa trama di legami, di ambienti, che va indagata per comprendere il ruolo svolto dal giurista nel non distinto orizzonte politico e culturale di quei tempi.

Prendo le mosse da:

Pomp., lib. sing. Ench. D.1.2.2.46: Post hos quoque Tubero fuit, qui Ofilio operam dedit: fuit autem patricius et transiit a causis agendis ad ius civile, maxime postquam Quintum Ligarium accusavit nec optinuit apud Gaium Caesarem. Is est Quintus Ligarius, qui cum Africae oram teneret, infirmum Tuberonem applicare non permisit nec aquam haurire, quo nomine eum accusavit et Cicero defendit: exstat eius oratio satis pulcherrima, quae inscribitur pro Quinto Ligario. Tubero doctissimus quidem habitus est iuris publici et privati et complures utriusque operis libros reliquit: sermone etiam antiquo usus affectavit scribere et ideo parum libri eius grati habentur[6].

Pomponio mostra di essere a conoscenza tanto della questione di Ligario quanto dell’orazione di Cicerone, e riconduce se non l’inizio, senza dubbio la scelta di Tuberone di dedicarsi essenzialmente (maxime) agli studi di diritto, alla sconfitta oratoria da questi subìta, ad opera dell’Arpinate, nel processo contro Ligario[7]. Fu uomo dottissimo, continua l’autore dell’Enchiridion, sia nel campo del diritto pubblico che del diritto privato, anche se, a causa dell’arcaico linguaggio, parum libri eius grati habentur[8].

Queste informazioni vanno integrate con altre desumibili proprio dall’orazione tenuta da Cicerone in difesa di Ligario perché da esse, in modo più ampio, è possibile ricostruire l’ambiente e le ragioni di uno scontro.

Preliminarmente è opportuno tracciare un profilo, sia pure schematico, di quella vicenda e dei suoi protagonisti.

Quinto Ligario, originario della Sabina e appartenente all’ordine equestre[9], era forse parente di quel P. Ligaro Afranio fatto uccidere da Cesare nel 46 a.C.[10]. Nel 50 a.C. fu inviato in Africa come legato del propretore C. Considio Longo; nel frattempo a Roma scoppiava la guerra civile. Allo scadere dell’anno di carica, il governatore lasciò la provincia nelle mani di Ligario il quale[11], molto vicino a P. Atta Varo, collaborò con questi contro Cesare, ostacolando lo sbarco di Lucio Elio Tuberone in Africa[12]. L’ultima circostanza trova conferma in:

Caes., bell. Civ. 1.31.2-3: Tubero, cum in Africa venisset, invenit in provincia cum imperio Attium Varum; qui ad Auximum, ut supra demonstravimus, amissis cohortibus protinus ex fuga in Africam pervenerat atque eam sua sponte vacuam occupaverat dilectuque habito duas legiones effecerat, hominum et locorum notitia et usu eius provinciae nactus aditus ad ea conanda, quod paucis ante annis ex praetura eam provinciam obtinuerat. Hic venientem Uticam navibus Tuberonem portu atque oppido prohibet neque adfectum valetudine filium exponere in terra patitur, sed sublatis ancoris excedere eo loco cogit.

Dunque Varo non consentì a Lucio Tuberone nemmeno lo sbarco del figlio malato e lo costrinse a levare le ancore e ad allontanarsi da quei luoghi. Dal frammento non si evince, però, né il ruolo di Ligario né un giudizio su Lucio Tuberone. Più interessante è:

Cic., pro Lig. 7.21-22: Tuberonis sors coniecta est ex senatus consulto, cum ipse non adesset, morbo etiam impediretur; statuerat excusari. Haec ego novi propter omnis necessitudines, quae mihi sunt cum L. Tuberone: domi una eruditi, militiae contubernales, post adfines, in omni vita familiares; magnum etiam vinculum, quod isdem studiis semper usi sumus. Scio Tuberonem domi manere voluisse; sed ita quidam agebant, ita rei publicae sanctissimum nomen opponebant, ut, etiam si aliter sentiret, virorum tamen ipsorum pondus sustinere non posset. Cessit auctoritati amplissimi viri, vel potius paruit: una est profectus cum eis, quorum erat una causa. Tardius iter fecit, itaque in Africam venit iam occupatam. Hinc in Ligarium crimen oritur vel ira potius. Nam, si crimen est voluisse, non minus magnum est vos Africam, arcem omnium provinciarum, natam ad bellum contra hanc urbem gerendum, obtinere voluisse quam aliquem se maluisse. Atque is tamen aliquis Ligarius non fuit; Varus imperium se habere dicebat, fascis certe habebat.

Dal lungo brano riportato, emergono due aspetti particolarmente significativi. Il primo è dato dall’effettiva responsabilità di Varo nella vicenda d’Africa, il secondo dall’iniziale incertezza di Lucio Tuberone nell’accettare l’incarico assegnatogli dal senato[13]. Impossibilitato a sbarcare nella provincia, Tuberone, con il figlio Quinto, cercò rifugio in Macedonia presso Pompeo[14], al fianco del quale combatté fino alla disfatta di Farsalo, avvenuta il 9 agosto del 48 a.C.In prosieguo di tempo, i due Tuberone si riavvicinarono a Cesare e ne ottennero il perdono[15].Nel 46 a.C.,quando Ligario era già in esilio[16], Quinto Elio Tuberone promosse contro di lui l’accusa di perduellioper essersi alleato con Giuba, re della Numidia, contro Roma[17].Sempre da Quintiliano si deduce agevolmente che il giovane Tuberone non si lasciò sfuggire l’occasione per coniugare, con l’accusa contro Ligario, la difesa sua e del padre entrambi ‘colpevoli’ di essere stati, in un recente passato, molto vicini a Pompeo[18]. Cesare, che presiedeva il tribunale in base ai suoi poteri di dictator, benché in un primo tempo fosse fermamente intenzionato a pronunziare un giudizio di condanna, fu poi convinto dalla sapiente oratoria di Cicerone ad assolvere l’imputato[19].

L’accusa di aver militato con i pompeiani viene rivolta da Cicerone a Tuberone in uno dei punti più concitati della Ligariana:

Cic., pro Lig. 3.9: Quid enim, Tubero, tuus ille destrictus in acie Pharsalica gladius agebat? Cuius latus ille mucro petebat? Qui sensus erat armorum tuorum? Quae tua mens, oculi, manus, ardor animi? Quid cupiebas, quid optabas? Nimis urgeo; commoveri videtur adulescens. Ad me revertar. Isdem in armis fui.

Lucio e Quinto Tuberone combatterono dunque nelle file pompeiane. Cicerone è un testimone attendibile soprattutto per i legami assai stretti che ebbe col padre del giurista e che è opportuno, adesso, cercare di ricomporre.

2. Tuberone e Cicerone: le ragioni di uno scontro

Più volte, nella pro Ligario, l’Arpinate mette in evidenza la comunanza di studi e i rapporti di stretta familiarità (forse di parentela) che lo legano a Lucio Tuberone. Egli fa spesso uso di termini quali propinquus, propinqua cognatio, affinis, che inducono a ritenere intense le relazioni tra i due uomini[20]. Inoltre, non è senza significato il rilievo che il tono dell’orazione è tenuto su un piano misurato e, anche quando l’attacco personale è portato con decisione e talora con durezza, esso viene poi mitigato da notazioni positive e da giudizi di valore non ostili all’avversario[21]. Ciò, del resto, trova conferma in:

Cic., ad Att. 13.20.2: Ad Ligarianam de uxore Tuberonis et privigna neque possum iam addere (est enim pervulgata) neque Tuberonem volo offendere; mirifice est enim φιλαίτιος.

La lettera è databile, seguendo il comune orientamento, alla metà dell’anno 45 a.C., dunque pochi mesi dopo lo svolgimento del processo. Si noti come l’Arpinate oppone un rifiuto all’amico, che gli offriva un argomento pungente, perché non intende offendere Tuberone, del quale conosce l’estrema suscettibilità. Emerge anche qui una sorta di cautela che è spiegabile solo con la saldezza dei rapporti che intercorrevano tra i due uomini.

Tuttavia, la natura di questi legami non può essere ricondotta semplicemente ai rapporti familiari o alla comune attività politica. Essa ebbe radici più profonde che si possono rintracciare nell’ambito delle attività culturali dei due esponenti del partito pompeiano[22].

Un dato che non può essere considerato estrinseco, è costituito dalla profonda conoscenza che Cicerone mostra di avere di Quinto Elio Tuberone ‘il vecchio’, giurista che egli definiva durus, incultus, horridus, amico dell’Emiliano e deciso avversario dei Gracchi[23]. Cicerone ne fa uno dei protagonisti del De re publica, nonostante il fatto, altamente probabile, che questo personaggio non fu certo tra i leaders dell’ambiente scipionico. La spiegazione di questa singolare circostanza può essere rintracciata nella possibilità che l’Arpinate fosse in possesso di fonti affidabili, le quali potevano essergli fornite dall’opera di Lucio Elio Tuberone. A questo proposito va rilevato che la data del De re publica cade tra la primavera del 54 e l’anno 51 a.C. e che l’opera fu preceduta da un intenso scambio epistolare col fratello Quinto. Si noti pure che Lucio Tuberone era stato legato di Quinto per circa tre anni e doveva perciò avere con lui buona amicizia[24]. È dunque assai probabile che le numerose notizie che Cicerone mostra di possedere su Tuberone ‘il vecchio’ gli siano pervenute dall’opera di Lucio Elio Tuberone.

Una testimonianza utilissima, in tal senso, si può ricavare da:

Cic., ad Quint. frat. 1.1.10: Quamquam legatos habes eos qui ipsi per se habituri sint rationem dignitatis suae; de quibus honore et dignitate, et aetate praestat Tubero, quem ego arbitror, praesertim cum scribat historiam, multos ex suis annalibus posse deligere: quos velit et possit imitari.

La lettera, risalente agli inizi del 59 a.C., contiene una serie di suggerimenti di Cicerone al fratello, proconsole in Asia e, fra essi, vi è quello di utilizzare i legati e, in particolare, Lucio Elio Tuberone, al quale l’Arpinate attribuisce la possibilità, in quanto storico, di scegliere ex suis annalibus modelli da imitare.

È importante sottolineare il fatto che, già in quella data, Lucio Tuberone era ben noto come scrittore di Annali. Cicerone doveva conoscerli bene e non è ardito credere che si trattasse di un materiale di tradizione familiare se il riferimento ai ‘modelli di dignità’ non è semplice affermazione retorica[25].

L’esame delle fonti consente dunque di ottenere un elemento assai rilevante che consiste nella saldezza dei legami tra Cicerone e Lucio Elio Tuberone.

3. Gli anni del consenso

Gli intrecci, le tensioni, il tono vibrante, le accuse e le difese e, più in generale, il tessuto stesso dell’orazione in difesa di Ligario hanno, però, un loro intrinseco valore poiché non si deve dimenticare che quella che si ha davanti non è una qualsiasi orazione di Cicerone ma costituisce, al di là dell’occasione del processo, un punto di riferimento preciso nel corso del pensiero politico ciceroniano e, al contempo, la prova di una svolta[26]. Solo tenendo ferma questa valutazione, si potranno bene intendere i temi della polemica politica che emergono, qua e là, in tutto l’arco del discorso. Del resto, le tracce di questa svolta si colgono, più ancora che nella lettera ad Attico precedentemente esaminata[27], in:

Cic., ad Att. 13.12.2: Ligarianam praeclare vendidisti. Posthac quicquid scripsero, tibi praeconium deferam[28].

È noto che l’orazione fu pubblicata solo parecchi mesi dopo lo svolgimento del processo. Cicerone, infatti, vi lavorò a lungo, certamente consapevole dell’importanza politica di quest’opera, consultandosi con Attico[29]. Si può agevolmente supporre che l’amico, abile mediatore tra i gruppi dirigenti della politica romana, abbia avuto un ruolo determinante nel renderla pubblica. L’orazione rappresentava un momento centrale della ‘grande illusione’ ciceroniana che sarebbe durata fino al maggio del 45 a.C., epoca in cui, fallita o meglio snaturata l’epistula ad Caesarem per il decisivo intervento dell’entourage cesariano, Cicerone si renderà conto del fatto che il progetto egemonico del dittatore gli sottraeva ogni possibile ruolo[30]. Ma nell’epoca in esame, lo slancio si potrebbe dire ‘filo-cesariano’ di Cicerone, sorretto dall’opera paziente di Balbo e di Attico, era ancora vitale. La pro Ligario lo testimonia. Perciò le ragioni di quello scontro di cui si è andati alla ricerca sono qui, in questo gruppo dirigente battuto, teso a riorganizzare le sue fila e pronto a confrontarsi con il nuovo centro del potere.

Di questo centro del potere, Quinto Elio Tuberone faceva già parte. È vero, Pomponio sembra affermare che il passaggio di Tuberone al diritto, avvenuto dopo la Ligariana, sarebbe coinciso con un preciso orientamento, proprio perché il giurista scelse come suo maestro Aulo Ofilio, molto legato a Cesare. Tuttavia, si può affermare che il consenso al dittatore dovette verificarsi anche prima del 46 a.C., coronando un disegno articolato e complesso.

Sotto questo aspetto, l’orazione di Cicerone in difesa di Ligario è esemplare: emerge, con decisione, la natura dello scontro che non è tra due pompeiani, ma tra l’oratore e il suo avversario che si muove, con autorità, nell’area del potere cesariano. È qui il senso dell’orazione. Ma le tracce del consenso si colgono anche nel testo di Quintiliano: mi riferisco, in particolare, all’idea della guerra civile intesa come contentio dignitatis tra Cesare e Pompeo[31].

Ad una prima lettura, l’impressione è che Tuberone voglia accentuare l’amicizia e attenuare la contrapposizione tra Cesare e Pompeo. Il problema è, però, più complesso e su di esso occorre soffermarsi per ben comprendere la nascita e il ruolo di una posizione politica tesa a raccogliere le fila dell’élite culturale tardo-repubblicana.

L’idea della concordia cesariano-pompeiana, non può, con riferimento a Tuberone, essere interpretata come espressione di una equivalenza di giudizi sui due uomini. Dal testo di Quintiliano si ricava agevolmente l’idea della salvezza della repubblica voluta da entrambi i protagonisti della guerra civile; ma non va dimenticato che essa nasce dopo Farsalo, quando cioè il regime pompeiano aveva ricevuto il colpo decisivo[32]. Il tema della concordia che Tuberone riprende nel notissimo frammento relativo al testamento di Cesare è, quindi, un tema cesariano ed è difficilmente collegabile alle posizioni pompeiane[33]. Del resto, esso era stato tra i principali motivi della propaganda del dittatore, svolta con accortezza soprattutto da Oppio, al quale Tuberone aveva dedicato, non a caso, un’opera, e da Pollione, che sosteneva l’originaria amicizia tra Cesare e Pompeo[34].

La scelta di Ofilio, giurista ‘cesariano’; i contatti, non episodici, con Oppio che, insieme con Balbo, Pansa e Irzio, svolgeva un’abile opera di convinzione in ambienti culturali esitanti o neutrali; la concordanza con Pollione, contro cui pure si era misurato a Farsalo, sono atti non incerti che provano come gli anni vissuti da Tuberone, a partire dalla crisi post farsalica fino alla morte del dittatore, possono bene essere intesi, nei confronti dell’ambiente cesariano – e di Cesare stesso – come gli anni del consenso[35].

4. Una ‘polemica’ a distanza

Un altro testo è ora utile valutare con attenzione. Si tratta di:

Gell., noct. Att. 14.8.1-2: Praefectum urbi Latinarum causa relictum senatum habere posse Iunius negat, quoniam ne senator quidem sit neque ius habeat sententiae dicendae, cum ex ea aetate praefectus fiat quae non sit senatoria. M. autem Varro in IIII epistolicarum quaestionum et Ateius Capito in coniectaneorum VIII, ius esse praefecto senatus habendi dicunt; deque ea re adsensum esse Capito Varronem Tuberoni contra sententiam Iunii refert: «Nam et tribunis – inquit – plebis senatus habendi ius erat, quamquam senatores non essent ante Atinium plebiscitum».

Il ricordo gelliano è incentrato su un’interessante polemica, che travalicando un pur ampio arco di tempo, vede fronteggiarsi le opinioni di M. Giunio Congo Graccano[36] e quelle di Tuberone e Varrone. Il tramite, evidentemente, è costituito dai Coniectanea di Capitone, opera certamente letta da Gellio[37].

Per quanto riguarda i termini del problema, essi possono essere colti nella possibilità che abbia o meno il praefectus urbi Latinarum causa relictum di convocare il senato[38]. Le motivazioni del Graccano, tese a perseguire una limitazione dei poteri del praefectus urbi, appaiono abbastanza rigorose; più specioso sembra, invece, l’argomento di Varrone e Capitone. Quest’ultimo, stando a Gellio, riferisce che Varrone concordava con Tuberone il quale, contro il parere di Giunio Graccano, motivava l’opinione favorevole ad attribuire tale potere al praefectus urbi Latinarum causa relictum adducendo che anche i tribuni della plebe avevano il diritto di presiedere il senato, pur non essendo, fino al plebiscito Atinio, senatori[39].

Ma quali erano i motivi dell’opposizione di Tuberone? È certo che la funzione del praefectus urbi subisce, dopo la morte di Giuno Graccano sostanziali modifiche[40]. Ma il dato che rimane caratteristico di questa carica, consiste nel fatto che essaè, costantemente, una promanazione di colui che detiene il potere, ossia il re in età arcaica, i magistrati cum imperio o il princeps nelle età successive. Nella visione ideologica e per così dire ‘democratica’ di Giunio Congo Graccano, così come si è tentato, a mio parere, con successo di valutarlo[41], il praefectus urbi non poteva incontrare facilmente le simpatie di questo giurista. Lo sforzo che egli forse aveva compiuto nei libri de potestatibus, e che comunque resta testimoniato da Gellio, doveva essere quello di circoscriverne la potestà, e mi sembra che il testo lo provi, riconducendolo alle sue dimensioni originarie[42]. Del tutto diversa, a giudicare dalla testimonianza gelliana, l’idea di Quinto Elio Tuberone dal quale ci si sarebbe attesi, in accordo con i suoi privilegiati moduli arcaici, orientamenti differenti. Ma per ben comprendere il significato politico della presa di posizione di questo giurista, occorre tener presente che Cesare creò, nel 46 a.C., un collegio di praefecti, riesumando dunque quest’antica figura, con scopi e funzioni nuovi e come rappresentanti del proprio potere[43]. Ciò non poteva essere ignoto a Tuberone, sia perché si trattava di un avvenimento recente, sia per la sua competenza in materia di diritto pubblico e per le sue conoscenze storiche[44]. Il prendere una tale decisione implica che il giurista si collocava nettamente nell’orbita cesariana e in modo strumentale. Infatti, che senso poteva avere in un periodo di tempo in cui alcune posizioni di Giuno Congo Graccano potevano essere decisamente superate da nuove realtà politiche e giuridiche, riproporre i termini di una polemica? La verità è che, dopo la Ligariana, Tuberone operò una scelta di campo precisa: a seguito di quell’infelice esperienza oratoria, egli non optò per il diritto in una prospettiva isolazionistica, ma preferì legarsi abilmente all’ambiente cesariano. Il frammento di Gellio pone, però, un ulteriore interrogativo: qual è il senso di una polemica con Giunio Congo Graccano in una materia che, per i suoi stretti legami con le modificazioni della realtà politica, ben poco poteva dare al contrasto tecnico-giuridico? In altri termini, il rinverdirsi di una querelle tra il nuovo cesariano e l’uomo dei Gracchi doveva avere motivi profondi che non sono dissociabili dall’antico contrasto che aveva opposto il vecchio Tuberone, civis constans et fortis et in primis Graccho molestus[45], aGiunio, qui ab amicitia eius Gracchanus appellatus est[46].

A ben guardare, non può non cogliersi nella polemica di Tuberone ‘il giovane’ nei confronti del Graccano una continuità con i temi della più antica polemica politica di Tuberone ‘il vecchio’ nei confronti dell’uomo dei Gracchi.

A chiarimento di quanto intendo sostenere, propongo la lettura del seguente testo di Cicerone:

Cic., de am. 37: Tiberium quidem Gracchum rem publicam vexantem a Q. Tuberone aequalibusque amicis derelictum videbamus. At C. Blossius Cumanus, hospes familiae vestrae, Scaevola, cum ad me, quod aderam Laenati et Rupilio consulibus in consilio, deprecatum venisset, hanc, ut sibi ignoscerem, causam adferebat, quod tanti Ti. Gracchum fecisset, ut, quidquid ille vellet, sibi faciendum putaret.

Dal frammento emerge innanzitutto un giudizio positivo dell’Arpinate nei confronti di Tuberone ‘il vecchio’ che fu costretto ad abbandonare Tiberio Gracco rem publicam vexantem, sottraendogli così (e a buon diritto secondo Cicerone) la propria amicizia. Ma ciò che è ancora più interessante è la contrapposizione che vi è tra il giusto atteggiamento di questo giurista e quello di Blossio di Cuma[47], fedele fino all’ultimo ed anzi ispiratore di Tiberio Gracco. Il cambiamento di parte del giovane Tuberone aveva avuto, dunque, almeno un precedente illustre che certamente non doveva essergli ignoto. Le due vicende si saldano così in una comune dimensione perché certo sarebbe difficile cogliere, in quell’uomo degli Scipioni, un atteggiamento moralistico disgiunto da una reale scelta di campo politico. La polemica, riprodotta nei confronti di Giunio Graccano a distanza di tanti anni acquista perciò un valore importante: è la testimonianza di una unità familiare riconosciuta, segno che il giurista intende porsi nel solco di una tradizione che vuole difendere e nella quale, a sua volta, trova le motivazioni ideologiche per le sue scelte certamente non troppo tormentate.

5. Il sermo antiquus: indizio di una continuità ideologica?

Torniamo ora al già esaminato Pomp., lib. sing. Ench. D.1.2.2.46 e, segnatamente, all’‘accusa’ di arcaismo linguistico rivolta dal giurista adrianeo a Tuberone.

A ben guardare, il sermo antiquus appare una scelta voluta del giurista, non il risultato di precedenti modelli di linguaggio: dice infatti Pomponio affectavit scribere[48]. Nel giudizio pomponiano esso rappresenta il limite alla popolarità e, forse, anche all’auctoritas del giurista.

Vi è poi un altro dato da considerare. È noto che Tuberone è citato prevalentemente da Celso[49], giurista poco incline alla lode ‘accademica’ e anzi spesso dedito al commento bruciante su antichi o contemporanei ‘colleghi’[50]. Al contrario, nei confronti di Tuberone egli mostra stima e rispetto, e anche nei casi in cui è costretto a dissentire da alcune sue posizioni giuridiche, lo fa a malincuore[51]. Si noti che Celso è certamente il tramite delle citazioni ulpianee di Tuberone, mentre probabilmente il tramite utilizzato da Celso sarà stato costituito dai Coniectanea di Ateio Capitone[52]: non è dunque senza significato che gli ambienti intellettuali adrianei abbiano rivalutato Tuberone, certamente non disprezzando, ma avendone piena consapevolezza, la sua ricerca linguistica.

La considerazione celsina di Tuberone va quindi avvertita nel quadro di un ambiente intellettuale che si poneva con attenzione problemi di linguaggio; e se Celso è ben orientato nei confronti dell’opera di Tuberone, vuol dire che ne ha accolto con finezza e attenzione i temi di fondo e le forme espositive.

Questo quadro, peraltro assai indiziario, pone comunque un’ipotesi di lavoro precisa: la scelta linguistica di Tuberone non fu, come pure potrebbe sembrare, un modello di snobismo ante litteram, ma è strettamente legata con le concezioni ideologiche e giuridiche del giurista per il quale il linguaggio è una scelta, non certo gusto raffinato per ardite esperienze letterarie[53]. Il recupero di modelli stilistici arcaici è il filo che serve a collegare Tuberone con i suoi predecessori e, nello stesso tempo, lo pone al riparo dalle tensioni sociali nelle quali - e qui egli pare assai esitante - trova l’occasione temprata di una scelta.

Il giurista, e lo storico, si pone come autorevole mediatore del pensiero elaborato dai propri predecessori. Vi è dunque, a mio avviso, un’unità ideologica della famiglia dei Tuberone che peraltro le fonti letterarie testimoniano sovente con ammirazione. Molto significativo, in tal senso, è:

Val. Max 4.4.8-9: Quid Aelia familia, quam locuples! XVI eodem tempore Aeli fuerunt, quibus una domuncula erat eodem loci, quo nunc sunt Mariana monumenta, et unus in agro Veiente fundus minus multos cultores desiderans quam dominos habebat in que circo maximo et Flaminio spectaculi locus. Quae quidem loca ob virtutem publice donata possidebant. Eadem gens nullum ante scripulum argenti habuit quam Paulus Perse devicto Q. Aelio Tuberoni genero suo quinque pondo argenti ex praeda donaret: taceo enim quod princeps civitatis filiam ei nuptum dedit, cuius pecunia tam ieiunos penates videbat. Qui ipse quoque adeo inops decessit, ut, nisi fundus, quem unum reliquerat, venisset, unde uxor eius dotem reciperet non extitisset. Animi virorum et feminarum vigebant in civitate, eorum que bonis dignitatis aestimatio cunctis in rebus ponderabatur. Haec imperia conciliabant, haec iungebant adfinitates, haec in foro, haec intra privatos parietes plurimum poterant: patriae enim rem unus quisque, non suam augere properabat pauper que in divite quam dives in paupere imperio versari malebat. Atque huic tam praeclaro proposito illa merces reddebatur, quod nihil eorum, quae virtuti debentur, emere pecunia licebat, inopiae que inlustrium virorum publice succurrebatur.

Lo scrittore latino ricorda la modestia di questa famiglia e mette in rilievo il fatto che Emilio Paolo Macedonico, princeps civitatis, diede in sposa la figlia a Q. Elio Tuberone[54], pur conoscendo la sua condizione di estrema povertà. Se ancora al tempo di Valerio Massimo resisteva la tradizione dei Tuberone come famiglia legata alle antiche tradizioni e gelosa dei propri severi costumi morali, vuol dire che questo era un motivo di fondo della loro storia.

E del resto come non cogliere nella definizione pomponiana i modelli, sia pure più attenuati e sfumati del giudizio che Cicerone dava sul ‘tipo’ di oratoria di Tuberone ‘il vecchio’, durus, incultus, horridus[55]?

Vi è quindi un alto grado di probabilità che il giurista avversario di Cicerone abbia voluto consapevolmente vivificare i legami con il suo antico passato, in una sorta di continuità ideologica e storica, oltre che culturale, privilegiando nell’impianto stilistico e nel linguaggio arcaizzante, le linee tematiche dei Tuberone.

 

 

Keywords: Quinto Elio Tuberone, oratio pro Ligario, sermo antiquus.

 

Abstract:The research aims to examine on Quinto Elio Tuberone “the young”, trying to recompose the vicissitudes of life, cultural and political bounds. The A. starts from Pomponio’s speech, lib. sing. ench. D. 1.2.2.46 and it integrates information here included along with other deduced from the well-know speech held by Cicerone in defense of Quinto Ligario, accused by Tuberone of crimen perduellionis. The speech, with all the intricacies, its tension, vibrating tone, represents a key moment of Ciceronian political thought and it brings out the polemic tone between Cicero, symbol of a defeated leading group, but aimed at reorganizing him components and ready to confront with the new power’s center, and Tuberone, his opponent, who is already part of this center of power.

The sermo antiquus, of which Pomponio speaks and which remembers, both in a tempered and nuanced way, the Cicero’s view about the “type” of speech made by Tuberone “the old”, looks, for the A., a choice wanted by the lawyer who wants to put along the lines of a family tradition that he wants to defend and in which he find the ideological motivations for his political choices, undoubtedly not a lot tormented.


*Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review

[1] Quint., Inst. Or. 11.1.80: Tubero iuvenem se patri haesisse, su cui oltre alla nt. 18.

[2] Cicerone, pro Lig. 3.9, definisce il suo avversario adolescente: Nimis urgeo; commoveri videtur adulescens (scil. Tubero). Ad me revertar. Isdem in armis fui.

[3] Per F.M. D’IPPOLITO, I giuristi e la città, 2a ed., Napoli, 1994, p. 93 e ss., p. 100 e ss., il termine familiaris, che non è «un suggestivo reperto del vocabolario pomponiano», in quanto è usato almeno due volte anche da Cicerone (ad fam. 7.7.1-2 e 7.8.1-2), esprime l’aspirazione di alcuni giuristi di legarsi al potere. In generale su Aulo Ofilio, v. P. BIAVASCHI, Caesari familiarissimus. Ricerche su Aulo Ofilio e il diritto successorio tra repubblica e principato, Milano, 2011, passim, con ampia rassegna della precedente letteratura. Sui rapporti di Quinto Elio Tuberone con Ofilio, v. Pomp., lib. sing. Ench. D. 1.2.2.46, oltre alparagrafo 1,cfr. anche Pomp., lib. sing. Ench. D. 1.2.2.44. Circa il tipo di accusa rivolto da Tuberone a Ligario, oltre alla nt. 17.

[4] Gell., noct. Att. 6.9.11: Aelium quoque Tuberonem libro ad C. Oppium scripto «occecurrit» dixisse, Probus adnotavit et haec eius verba apposuit: «Si generalis species occecurrerit». Sempre da Gellio (noct. Att. 14.2.20), si apprende che egli compose un’opera intitolata Praecepta super officio iudicis, sebbene sia ignoto il contenuto: Sed de his – inquit – et ceteris huiuscemodi iudicialis officii tractatibus et non posthac, cum erit otium, dicere quid sentiamus conabimur et praecepta Aelii Tuberonis super officio iudicis quae nuperrime legi, recensebimus. Sul punto v. F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae supersunt, vol. I, Leipzig, 1896-1901, rist. 1985, p. 364 e ss. Su C. Oppio v. pure S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico, vol. II, Roma-Bari, 1966, rist. 2011,p.445 e ss.Quanto al Tuberone ricordato in noct. Att. 1.22.7, si tratta dello stoico amico di Panezio e nipote dell’Emiliano: così M. BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, Roma-Bari, 1971, p. 72 e s., contra D. NÖRR, Pomponius order “Zur Geschichtsverständnis der römischen Juristen”, in ANRW,2, 15 (1976), tr. it.,M.A. Fino - E. Stolfi (a cura di), Pomponio o «dell’intelligenza storica dei giuristi romani». Con una nota di lettura di A. Schiavone, in RDR,2 (2002), p. 192; M. TALAMANCA, Per la storia della giurisprudenza romana, in BIDR, 80 (1977), p. 263; F. BONA, L’ideale retorico ciceroniano e il «ius civile in artem redigere», in SDHI,46 (1980), p. 281 e ss., p. 373 e ss. e la replica di M. BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, 2a ed., Roma-Bari, 1982, p. 284 e ss. Condivide Bretone, A. GUARINO, Tuberone e Tuberone, in PDR, vol. V, Napoli, 1984, p. 66 e ss. e D. MANTOVANI, Cicerone storico del diritto. Atti del XIII Colloquium Tullianum, Milano 27-29 marzo 2008, in «Ciceroniana» N.S. 13 (2009), p. 359 e ss.

[5] Fonti in W. KUNKEL, Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen, 2a ed., Graz–Wien–Köln, 1967, p. 37; cfr. E. KLEBS, Aelius,n. 156, in PW, vol. I, 1, 1893, p. 537 e s. Non si hanno notizie del suo cursus honorum. Uno studio abbastanza completo sulla sua opera giuridica, è stato compiuto da C. FERRINI, Saggi intorno ad alcuni giureconsulti romani, in Rendiconti Istituto Lombardo, serie II, 18 (1885), p. 900 e ss., ora in Opere, (a cura di E. Albertario), vol. II, Milano, 1929, p. 25 e ss. Più di recente su Tuberone v. V. SCARANO USSANI, Tuberone e la lingua, in Ostraka, 12 (2003), p. 89 e ss.; ID., Una figura emblematica. Q. Elio Tuberone nell’Institutio oratoria, in Acta concordium,8,suppl. a “Concordi” 3 (2008), p. 55 e ss. e, da ultima, A. BOTTIGLIERI, Maximi viri. Sulla ‘scientia iuris’ tra il IV e il I sec. a.C., Torino, 2017, p. 71 e ss., che rivolge l’attenzione soprattutto a Tuberone ‘esperto di diritto privato’.

[6] Il testo, in qualche punto, non è in ordine come, ad esempio, per patricius in luogo di patronus: la correzione è del Mommsen. In generale, sul problema critico dell’Enchiridion pomponiano e, in particolare, sulla successio auctorum, della vastissima letteratura mi limito a ricordare F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza romana, tr. it., Firenze. 1968, p. 300 e ss.; D. NÖRR, Pomponio o dell’intelligenza storica, cit., p. 167 e ss.; M. BRETONE, Tecniche, 2a ed., cit., p. 209 e ss.; E. STOLFI, Studi sui libri ad edictum di Pomponio. I. Trasmissione e fonti, Napoli, 2002, p. 261 e ss.; A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, 2a ed., Torino, 2017, p. 153 e ss., p. 369 e ss.; F. NASTI, Pensiero greco e giuristi romani: ricerche sull’Enchiridion di Pomponio, in A. Schiavone (a cura di), Giuristi romani e storiografia moderna. Dalla palingenesia iuris civilis agli Scriptores iuris Romani, Torino, 2017, p. 161 e ss. Sulla conoscenza, da parte di Pomponio, delle opere di Cicerone, v. le osservazioni di M. BRETONE, ivi, p. 11 e ss.; p. 183 e ss. Critico circa la possibilità di uno studio organico e sistematico di Pomponio dell’opera ciceroniana è D. NÖRR, ivi, p. 185 e ss.

[7] L’uso dell’avverbio maxime, induce a credere che il giurista svolgesse attività giuridica anche prima del processo contro Quinto Ligario.

[8] Pomponio usa il verbo al presente e, quindi, fa riferimento alla scarsa fortuna dell’opera di Tuberone all’epoca degli Antonini; non si può, però, escludere che le cose stessero un po’ diversamente nell’età precedente, anche in considerazione del fatto che il nostro è ricordato con una certa frequenza da Celso: sul punto v. oltreallant. 49. Sulla valutazione pomponiana di Tuberone, diffusamente V. SCARANO USSANI, Tuberone, cit., p. 91 e ss.

[9] Cic., pro Lig. 11.32: In Q. Ligario conservando multis tu quidem gratum facies necessariis tuis, sed hoc, quaeso, considera, quod soles. Possum fortissimos viros Sabinos, tibi probatissimos, totumque agrum Sabinum, florem Italiae ac robur rei publicae, proponere. Nosti optime homines. Animadverte horum omnium maestitiam et dolorem.

[10] Cfr. Caes., bell. Afr. 64.1;Cic., ad Att. 13.44.3.

[11] Cic., pro Lig. 1.2: Q. enim Ligarius, cum esset nulla belli suspicio, legatus in Africam C. Considio profectus est, qua in legatione et civibus et sociis ita se probavit ut decedens Considius provincia satis facere hominibus non posset, si quemquam alium provinciae praefecisset. Cfr. Schol. Gron. 291 Stangl. C. Considio Longo aveva lasciato la provincia per porre la sua candidatura al consolato: cfr. F. MÜNZER, Considius,n. 2, in PW, vol. VI, 1, 1990, p. 2267; T.R.S. BROUGHTON, The Magistrates of the Roman Republic,vol. II, New York, 1951-52, rist. 1986, p. 250.

[12] Cfr. E. KLEBS, Attius,n. 32, in PW, vol. II, 2, 1896, p. 2256;P. ROMANELLI, Storia delle province dell’Africa, Roma, 1959, p. 114. SecondoA. CRISTOFORI, Note prosopografiche su personaggi di età tardo repubblicana, in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik, 90, (1992), p. 55 e ss., forse Vario e Ligario si opposero all’arrivo di Tuberone perché la sua posizione, nel conflitto tra Cesare e Pompeo, non era ancora chiara, e poteva «in qualche modo danneggiare la causa pompeiana», ma si trattava di ingiustificati timori, considerata la nota evoluzione degli eventi.

[13] Sul cursus honorum di Lucio Elio Tuberone, v. E. KLEBS, Aelius,n. 150, PW, vol. I, 1, 1893, p. 534; T.R.S. BROUGHTON, The Magistrates, vol. II, cit., p. 182, p. 186, p. 191; ID., The Magistrates of the Roman Republic,vol. III, Supplement, Atlanta, 1986, p. 4; A. CRISTOFORI, Note prosopografiche, cit., p. 137.

[14] Cicerone, in altri luoghi dell’orazione, non manca di sottolineare che, di fronte all’oltraggio ricevuto, i due Tuberone si sarebbero dovuti recare da Cesare e non da Pompeo: cfr.Cic., pro Lig. 8.25; 9.27.

[15] Cic., pro Lig. 5.15: Quam multi enim essent de victoribus qui te crudelem esse vellent, cum etiam de victis reperiantur! Quam multi qui cum a te ignosci nemini vellent, impedirent clementiam tuam, cum etiam hi quibus ipsis ignovisti nolint te esse in alios misericordem!

[16] Caes., bell. Afr. 89.2: Id adveniens potitur, deinde Hadrumetum pervenit. Quo cum sine mora introisset, armis frumento pecuniaque considerata Q. Ligario C. Considio filio qui tum ibi fuerant vitam concessit.

[17] Secondo V. SCARANO USSANI, Tuberone, cit., p. 89 e nt. 9eID., Una figura emblematica, cit., p. 56 nt. 9, probabilmente si trattava di un’accusa di imminuta maiestas oppure de vi, sebbene «non possa del tutto escludersi l’ipotesi che fosse basata sulla lex Hirtia de Pompeianis o addirittura si debba considerare il procedimento una “procédure extra-judiciaire”, dando rilievo all’espressione “novum crimen”, utilizzata da Cicerone (Pro Lig. 1.1)», in ogni caso, osserva successivamente l’A., l’intento di Tuberone era quello di presentare Ligario «come un traditore della repubblica». Su questi temi cfr. pure A.M. DE MICHELI, Su due processi dell’età di Cesare. I processi di Ligario e Deiotaro, in M. Bianchini - G. Viarengo (a cura di), Studi in onore di F. De Marini Avonzo, Torino, 1999, p. 145 e ss.

[18] Quint., Inst. Or. 11.1.80: Tubero iuvenem se patri haesisse, illum a senatu missum non ad bellum, sed ad frumentum coemendum ait, ut primum licuerit a partibus recessisse: Ligarium et perseverasse et non pro Cn. Pompeio, inter quem et Caesarem dignitatis fuerit contentio, cum salvam uterque rem publicam vellet, sed pro Iuba atque Afris inimicissimis populo Romano stetisse. Secondo A. BOTTIGLIERI, Maximi viri, cit., p. 73, il primo obiettivo che Tuberone cerca di perseguire è quello di sottrarre il padre alla responsabilità della partecipazione alla guerra. È questo «il senso della prima parte del testo di Quintiliano, allorché si fa riferimento ai compiti di Lucio Elio: l’acquisto di provvigioni di frumento e il sottrarsi, non appena possibile, dal parteggiare per Cesare o Pompeo. Nella seconda parte del brano, Tuberone tenta di liberarsi da un’accusa precisa: quella di aver militato con i Pompeiani. Egli respinge questa accusa: la guerra civile è per lui una contentio dignitatis tra Cesare e Pompeo», mentre la colpa di Ligario consiste nell’aver preso posizione per il re Giuba, nemico del popolo romano. Certamente, come non manca di sottolineare l’A., la testimonianza riflette la profonda ammirazione di Quintiliano nei confronti di Cicerone, ma ciò non ne indebolisce il valore. Approfondita analisi della figura di Tuberone nell’Institutio Oratoria, in V. Scarano Ussani, Una figura emblematica, cit., p. 55 e ss., secondo cui il retore spagnolo, oltre a sottolineare l’inferiorità tecnica dell’avversario dell’Arpinate, mette in evidenza anche «caratteristiche di sicuro non poco deteriori sul piano etico» che, pertanto, lo rendono molto diverso dal modello di vir bonus dicendi peritus. Esprime qualche riserva sul motivo per cui Lucio Tuberone fu mandato in Africa, R.A. Bauman, The Crimen Maiestatis in the Roman Republic and the Augustan Principate, Johannesburg, 1967, p. 143.

[19]Così Plut., Cic. 39.7: ἐπεὶδ’ ἀρξάμενοςλέγεινὁΚικέρωνὑπερφυῶςἐκίνει, καὶπροὔβαινεναὐτῷπάθειτεποικίλοςκαὶχάριτιθαυμαστὸςὁλόγος, πολλὰςμὲνἱέναιχρόαςἐπὶτοῦπροσώπουτὸνΚαίσαρα, πάσαςδὲτῆςψυχῆςτρεπόμενοντροπὰςκατάδηλονεἶναι, τέλοςδὲτῶνκατὰΦάρσαλονἁψαμένουτοῦῥήτοροςἀγώνων, ἐκπαθῆγενόμενοντιναχθῆναιτῷσώματικαὶτῆςχειρὸςἐκβαλεῖνἔνιατῶνγραμματείων. τὸνδ’ οὖνἄνθρωπονἀπέλυσετῆςαἰτίαςβεβιασμένος. Quanto a Ligario, non nutrì alcun sentimento di gratitudine nei confronti di Cesare, tant’è vero che partecipò alla congiura di Bruto: cfr. Plut., Brut. 11; App., bell. Civ. 2.113. Fu poi ucciso durante il secondo triumvirato: cfr. App., bell. Civ. 4.22.

[20] Sui rapporti tra Lucio Tuberone e Cicerone v. Cic., pro Lig. 1.1: Novum crimen, C. Caesar, et ante hunc diem non auditum propinquus meus ad te Q. Tubero detulit; 3.8: Atque haec propterea de me dixi ut mihi Tubero, cum de se eadem dicerem, ignosceret; cuius ego industriae gloriaeque faveo vel propter propinquam cognationem;5.12: Novi enim te, novi patrem, novi domum nomenque vestrum; 7.21: Haec ego novi propter omnis necessitudines quae mihi sunt cum L. Tuberone: domi una eruditi, militiae contubernales, post adfines, in omni vita familiares.

[21] P. GAGLIARDI, Il dissenso e l’ironia. Per una rilettura delle orazioni “cesariane” di Cicerone, Napoli, 1997, p. 51 e ss. e nt. 6, parla, in proposito, di ‘aria paterna’ assunta dall’Arpinate nei confronti del giovane Tuberone.

[22] Cic., pro Lig. 4.10: Atque in hac causa non nihil equidem, Tubero, etiam tuam, sed multo magis patris tui prudentiam desidero, quod homo cum ingenio tum etiam doctrina excellens genus hoc causae quod esset non viderit; 5.12: Studia generis ac familiae vestrae virtutis, humanitatis, doctrinae, plurimarum artium atque optimarum nota mihi sunt; 7.21: Domi una eruditi. Sulla cultura accademica di Lucio Tuberone v. E. KLEBS, Aelius,n.150, cit., p. 537.

[23] Cic., Brut. 31.117: Et quoniam Stoicorum est facta mentio, Q. Aelius Tubero fuit illo tempore, L. Pauli nepos; nullo in oratorum numero sed vita severus et congruens cum ea disciplina quam colebat, paulo etiam durior; qui quidem in triumviratu iudicaverit contra P. Africani avunculi sui testimonium vacationem augures quo minus iudiciis operam darent non habere; sed ut vita sic oratione durus incultus horridus; itaque honoribus maiorum respondere non potuit. Fuit autem constans civis et fortis et in primis Graccho molestus, quod indicat Gracchi in eum oratio; sunt etiam in Gracchum Tuberonis. Is fuit mediocris in dicendo, doctissumus in disputando. Su Quinto Elio Tuberone, amico di Panezio e membro del circolo degli Scipioni, v. F.M. D’IPPOLITO, I giuristi e la città, cit., p. 73 e ss.

[24] Cfr. T.R.S. BROUGHTON, The Magistrates, vol. II, cit., p. 198.

[25] Sul forte senso di appartenenza di Tuberone nei confronti della sua famiglia, v. oltre ai paragrafi 4 e 5.

[26] La pro Ligario, con la pro Marcello e la pro rege Deiotaro, è una delle cosiddette orazioni cesariane, espressione del pensiero politico ciceroniano, negli anni immediatamente successivi alla battaglia di Farsalo. A partire dal 47 a. C., come osserva E. LEPORE, Il princeps ciceroniano e gli ideali politici della tarda repubblica, Napoli, 1954, p. 351, era iniziato «il tentativo di riconciliazione con Cesare attraverso gli elementi moderati della sua pars e, contemporaneamente, la ripresa dei contatti con gli ottimati e con i più giovani e transigenti pompeiani, disposti all’accordo con il vincitore». Le orazioni cesariane, continua l’A., ivi, p. 357, rappresentano «il maggior tentativo teorico di ridurre la clementia cesariana ed il suo programmaentro i limiti costituzionali, piegandola agli ideali morali e politici sempre auspicati dal nostro e agli schemi del consensus omnium bonorum».

[27] Cic., ad Att. 13.20.2,sopra al paragrafo 2.

[28] Cfr. Cic., ad Att. 13.19.2: Ligarianam, ut video, praeclare auctoritas tua commendavit. Scripsit enim ad me Balbus et Oppius mirifice se probare ob eamque causam ad Caesarem eam se oratiunculam misisse.

[29] Su quella che ancora Pomponio (D. 1.2.2.46, sopra al paragrafo 1) definisce oratio satis pulcherrima, v., tra i molti, G. WALSER, Der Prozess gegen Q. Ligarius im Jahre 46 v. Chr, in Historia,8 (1959), p. 90 e ss., nonché lo studio di K. KUMANIECKI, Der Prozess des Ligarius, in Hermes, 95 (1967), p. 434 e ss.

[30] Nel maggio del 45 a.C., Cicerone finì di scrivere una lettera a Cesare in cui gli rivolgeva consigli ed elogi (Cic., ad Att. 12.40.2, usa il termine greco συμβουλευτικὸν), ma poiché i più stretti collaboratori del dittatore gli richiesero numerose modifiche, egli decise di non spedirla e di distruggerla. Cic., ad Att. 13.27.1: De epistula ad Caesarem, nobis vero semper rectissime placuit ut isti ante legerent. Aliter enim fuissemus et in hos inofficiosi et in nosmet ipsos, si illum offensuri fuimus, paene periculosi. Isti autem ingenue, mihique gratum quod quid sentirent non reticuerunt; illud vero vel optime, quod ita multa mutari volunt ut mihi de integro scribendi causa non sit; 13.28.2: De epistula ad Caesarem, iurato mihi crede, non possum; nec me turpitudo deterret, etsi maxime debebat. 13.31.3: De epistula ad Caesarem κέκρικα. Cfr. pure ad Att. 12.51.2, 52.2, 13.1.3.

[31] Cfr. S. MAZZARINO, Il pensiero storico, cit., p.397 e M. BRETONE, Tecniche, 2a, cit., p. 18 e ss., che si basano prevalentemente sul famoso testamento di Cesare in favore di Pompeo: Suet., Iul. 83.1: Quintus Tubero tradit heredem ab eo scribi solitum ex consulatu ipsius primo usque ad initium civilis belli Cn. Pompeium, idque militibus pro contione recitatum. Per R. SYME, La rivoluzione romana, tr. it., Torino, 1962, p. 55, ciò che stava più a cuore a Cesare era il suo onore, il suo prestigio «tutti sommati nella parola latina dignitas. […] Piuttosto che cedere su questo punto fece ricorso alle armi»; cfr. Caes., bell. Civ. 1.9.2: sibi semper primam fuisse dignitatem vitaque potiorem. Questa dignitas va intesa, secondo A. FRASCHETTI, Giulio Cesare, Roma-Bari, 2005,p. 71 e ss., come un sistema di valori in cui «convergono la difesa del proprio rango, l’acquisizione di un’alta posizione politica e dunque dei privilegi che ne conseguivano».In generale sul complesso tema della contentio dignitatis, sempre fondamentale K. RAAFLAUB, Dignitatis contentio. Studien zur Motivation und politischen Taktik im Bürgerkrieg zwichen Caesar und Pompeius, München, 1974, passim.

[32] Per A. BOTTIGLIERI, Maximi viri, cit., p. 73, il tentativo di riproporre quelle posizioni culturali avviene dopo la conquista del potere da parte di Cesare e «perciò il cosiddetto “disegno conciliativo” ha, al suo fondamento, il consolidato spostamento della fascia culturale filo pompeiana nel campo cesariano». La crisi dell’ideologia pompeiana è bene espressa da E. LEPORE, Il princeps ciceroniano, cit., p. 109 ss.

[33] Suet., Iul. 83.1, sopraallant. 31. Sulla lunga storia dell’ideologia romana della concordia ordinum, v. E. LEPORE, Il pensiero politico romano del I secolo, in A. Momigliano – A. Schiavone (a cura di) Storia di Roma, vol. II, L’impero mediterraneo, 1. La repubblica imperiale, Torino, rist. 1990, p. 860. Per Plutarco, Caes. 13.5, non fu la discordia, ma la concordia tra Cesare e Pompeo a dare vita alle guerre civili: οὐγάρ, ὡςοἱπλεῖστοινομίζουσιν, ἡΚαίσαροςκαὶΠομπηΐουδιαφορὰτοὺςἐμφυλίουςἀπειργάσατοπολέμους, ἀλλὰμᾶλλονἡφιλία, συστάντωνἐπὶκαταλύσειτῆςἀριστοκρατίαςτὸπρῶτον, εἶθ’οὕτωςκαὶπρὸςἀλλήλουςδιαστάντων. Che i propositi di concordia non avessero trovato eco nell’animo di Pompeo è tesi sostenuta da F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, vol. III, Napoli, 1973, p. 199.

[34] La tendenza storica di Quinto Elio Tuberone volta ad accentuare l’amicizia più che la contrapposizione tra Cesare e Pompeo, fu poi svolta da Asinio Pollione, storico di tutt’altra formazione: cosìS. MAZZARINO, Il pensiero storico, cit., p. 397.In ogni caso, che la concordia sia tema cesariano è provato dal ‘manifesto’ di Cesare nella lettera di Oppio e Balbo a Cicerone: Cic., ad Att. 9.7A.1-2: Nos si id quod nostro iudicio Caesarem facere oportere existimamus, ut, simul Romam venerit, agat de reconciliatione gratiae suae et Pompei, id eum facturum ex ipso cognovissemus, te hortari ut velles iis rebus interesse, quo facilius et maiore cum dignitate per te, qui utrique es coniunctus, res tota confieret; aut si ex contrario putaremus Caesarem id non facturum et etiam velle cum Pompeio bellum gerere sciremus, numquam tibi suaderemus contra hominem optime de te meritum arma ferres, sicuti te semper oravimus ne contra Caesarem pugnares. Sed cum etiam nunc quid facturus Caesar sit magis opinari quam scire, non possumus nisi hoc, non videri eam tuam esse dignitatem neque fidem omnibus cognitam ut contra alterutrum, cum utrique sis maxime necessarius, arma feras, et hoc non dubitamus quin Caesar pro sua humanitate maxime sit probaturus. Nos tamen, si tibi videbitur, ad Caesarem scribemus ut nos certiores faciat quid hac re acturus sit. A quo si erit nobis rescriptum, statim quid sentiamus ad te scribemus et tibi fidem faciemus nos ea suadere quae nobis videntur tuae dignitati, non Caesaris actioni esse utilissima; et hoc Caesarem pro sua indulgentia in suos probaturum putamus. Sull’azione dei cesariani moderati cfr. le considerazioni di R. SYME, La rivoluzione,cit., p. 70 ss.; A. LA PENNA, Sallustio e la «rivoluzione romana», Milano, 1968, p. 117. Su Pollione e il suo atteggiamento v. ancora S. MAZZARINO, ivi, p. 397 e ss.

[35] Come osserva F.M. D’IPPOLITO, I giuristi e la città, cit., p. 100, tra i giuristi cominciò a farsi strada l’idea che il prestigio scientifico non fosse «separabile da una sorta di nuova dignitas, costituita dalla familiaritas con chi detiene il potere».

[36] Su Giunio Congo Graccano v. Lucil., Carm. 595-596; Cic., de or. 1.256, pro Plan. 58; Plin., nat. hist. 33.36. In merito all’identificazione del Graccano con il Giunio Congo citato da Cicerone, v. part. B. ZUCCHELLI, Un antiquario romano contro la “nobilitas”: M. Giunio Congo Graccano, in Studi Urbinati,49, N.S. (1975), p. 109 e ss., con ampia rassegna della precedente letteratura. Differenziano, invece, i due personaggi, J. POUCET, Recherches sur la légende sabine des origines de Rome, Louvain-Kinshasa, 1967, p. 339; D. MUSTI, Tendenze della storiografia romana e greca su Roma arcaica. Studi su Livio e Dionigi di Alicarnasso, in Quaderni Urbinati di Cultura Classica 10 (1970), p. 48 nt. 45.

[37] Cfr. A. BOTTIGLIERI, Maximi viri, cit., p. 78.

[38] Sulle feriae Latinae e sul culto di Iuppiter Latiaris, cfr. P. CATALANO, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino, 1965, p. 169 e ss. In particolare sul praefectus urbi in età repubblicana, v. X. PÉREZ LÓPEZ, Il «praefectus urbi» repubblicano e la sua proiezione nella tarda Repubblica e nel Principato, in RDR, 12 (2013), p. 2 e ss. con fonti e letteratura.

[39] Non si può escludere che le motivazioni di Capitone, raccolte da Gellio nell’ultima parte del brano, appartengano allo stesso Tuberone.

[40] Nel 46 a.C., Cesare creò un collegio di prefetti che dovevano amministrare, in sua assenza, la città: Suet., Iul. 76.2: tertium et quartum consulatum titulo tenus gessit contentus dictaturae potestate decretae cum consulatibus simul atque utroque anno binos consules substituit sibi in ternos novissimos menses, ita ut medio tempore comitia nulla habuerit praeter tribunorum et aedilium plebis praefectos que pro praetoribus constituerit, qui apsente se res urbanas administrarent; cfr. anche Dio Cass. 42.51.3, 43.28.2. In generale sul praefectus urbi sempre fondamentale TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, 3a ed., vol. I, rist. Graz, 1952, p. 661 e ss.; W. KUNKEL - R. WITTMANN, Staatsordung und Staatspraxis der römischen Republik. II. Die Magistratur, München, 1995, p. 274 e ss.

[41] Così H. BARDON, La littérature latine inconnue, vol. I, L’époque républicaine, Paris, 1952, p. 145 e ss.; F. SINI, Interpretazioni giurisprudenziali in tema di inviolabilità tribunizia (A proposito di Liv. 3,55, 6-12), in Ius antiquum - Drevnee Pravo, 1 (1996), p. 80 e ss., il quale ritiene che l’opera di Giunio Graccano, che affrontava il tema del contenuto e della gerarchia dei poteri nella Roma repubblicana (cfr. Cic., de leg. 3.48-49), fu composta «con l’intento neppure tanto celato, di fornire un supporto storico-giuridico alle teorie politiche dei populares».

[42] Il de potestatibus si articolava in sette libri che trattavano, in ordine di decrescente importanza, le singole magistrature repubblicane. L’argomento dell’opera era affine a quella di Sempronio Tuditano, ma diversa era la prospettiva in quanto, come osserva P. CATALANO, La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone), in Studi in onore di G. Grosso, vol. VI, Torino, 1974, p. 678, Giunio Graccano non guardava «alla titolarità del potere studiato (magistratus) bensì alla sua natura, al suo contenuto (potestas). Ciò doveva avere varie implicazioni. In primo luogo, le potestates magistratuali erano così, studiate congiuntamente alle potestates populi, ed era quindi più facile porre in evidenza la derivazione di quelle da questa, cioè il fondamento popolare dei poteri magistratuali». Sul punto cfr. anche M. BRETONE, Tecniche, 2a ed., cit., p. 14; F. SINI, Interpretazioni giurisprudenziali, cit., p. 83 e ss.

[43] Sopra alla nt. 40. Perplessità in merito al fatto che tale collegio fosse composto da praefecti, potrebbero nascere dalla diversa terminologia riscontrabile in Dione Cassio (42.51.3, 43.28.2), tuttavia si è generalmente inclini a ritenere che questa fosse la qualifica del collegio: cfr. G. VITUCCI, Ricerche sulla praefectura urbi in età imperiale, Roma, 1956, p. 16; X. PÉREZ LÓPEZ, Il praefectus urbi repubblicano, cit., p. 9 e nt. 52.Non v’è dubbio, invece, che nel 45 a.C., furono creati i praefecti feriarum Latinarum, la cui nomina diede luogo anche a controversie giuridico-costituzionali.

[44] Com’è noto, Quinto Elio Tuberone fu anche autore di un’opera storica; difficilmente, infatti, si può sostenere la vecchia ipotesi diretta ad attribuire al padre, Lucio Tuberone, i pochi frammenti rimasti e che sono stati ordinati da H. PETER, Historicorum Romanorum reliquiae, 2a ed., vol. I, Leipzig, 1914, p. 199 e ss., il quale, però, non considera Gell., noct. Att. 6.9.11, su cui sopra, alla nt. 4. In due di essi, dovuti a Livio (4.23.1) e a Svetonio (Iul.83.1), si legge il prenome Quinto e anche Dionigi dimostra di conoscerlo bene (1.80.1). Ciò non significa escludere che il giurista abbia rielaborato materiale preesistente, dovuto al lavoro del padre, ma le sue Historiae ebbero comunque un carattere originale ed autonomo. Peraltro, non si trattò di un lavoro breve, considerato che Nonio (sv. luxuriebat p. 481)attesta l’esistenza di un quattordicesimo libro delle Storie di Quinto Tuberone. Se a questa considerazione si aggiunge il dato gelliano (7.3.1), in base al quale si deduce che ancora nei libri ottavo e nono il giurista si occupava delle vicende di M. Attilio Regolo, si può giungere alla ragionevole conclusione che l’opera fosse ampia e coprisse un cospicuo arco di tempo.

[45] Cic., Brut. 31.117, sopra allant. 23.

[46] Plin., nat. hist. 33.10.

[47] Tiberio Gracco era stato allievo del filosofo Blossio di Cuma e del retore Diofane di Mitilene: cfr. Plut., T. Gracc. 8.6. L’orientamento democratico del pensatore trova conferma nel fatto che, dopo la morte di Tiberio, egli raggiunse Aristonico in Asia e quando questi fu

Manzo Annamaria



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