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Profili di azioni popolari nella Lex coloniae Genetivae Iuliae seu Ursonensis

24.08.2024

Francesco Edoardo Maria Colombo*

 

Profili di azioni popolari nella

Lex coloniae Genetivae Iuliae seu Ursonensis**

 

English title: Popular action profiles in the Lex coloniae Genetivae Iuliae seu Ursonensis.

 

DOI: 10.26350/18277942_000188

 

Sommario:1. La Lex coloniae Genetivae Iuliae seu Ursonensis. – 2. Le azioni popolari romane nella dottrina. – 3. Le azioni popolari a tutela del territorio nella Lex Genetivae Iuliae. – 4. Concordanze con altre leggi coeve. – 5. Conclusioni.

 

 

1. La Lex coloniae Genetivae Iuliae seu Ursonensis

 

Il presente contributo si prefigge di investigare la presenza di azioni popolari promovibili da un quivis de populo all’interno di una particolare legge tardo repubblicana, riprodotta in epoca flavia, che aveva ad oggetto la fondazione della colonia di Urso: appare significativa la presenza, in questo provvedimento, di un simile tipo di azioni, tendenzialmente strutturate nello stesso modo di azioni previste da altre leggi coeve, in quanto sembrerebbero voler garantire al civis strumenti atti a custodire e difendere il corretto uso dei loca publica e di tutti i luoghi di uso ed interesse comune in un’ottica di buona e ragionata gestione del territorio coloniale, ad imitazione di ciò che avveniva nel territorio dell’urbe.

La Lex coloniae Genetivae Iuliae seu Ursonensis[1] è la copia di epoca flavia di una legge probabilmente emanata durante la tarda repubblica, scoperta negli anni 1870-1871. Si tratta di quattro tavole di bronzo, che contenevano lo statuto municipale dell’antica città di Urso, oggi Osuna[2] (un borgo situato nei pressi di Siviglia). Probabilmente, in origine, il testo completo della lex era distribuito su otto o nove tavole bronzee, ma non abbiamo notizie certe in merito[3]. Nel 1925 furono rinvenuti, nel vicino villaggio di El Rubio, undici ulteriori frammenti, tutti appartenenti alla tavola n. VIII. Infine, nel 1999, fu trovato l’ultimo frammento, contenente i capitoli dal 13 al 20 della prima tavola.

Secondo Plinio il Vecchio[4], la città di Urso si schierò con Pompeo durante la guerra civile del 39-45 a.C., ma venne conquistata da Giulio Cesare, il quale, terminati gli scontri in suo favore, attribuì alla cittadina lo status di colonia, ragion per cui, fu emanata la legge che ne regolasse il funzionamento e l’ordine.

Per quanto emerge dai capp. 104, 106 e 125, fu proprio Giulio Cesare l’autore dello statuto della città di Urso:

 

(...) qui iussu C. Caesaris dictatoris imperatoris et lege Antonia senatusque consultis plebique scitis ager datus atsignatus erit (...).

Quicumque colonus coloniae Genetivae erit, quae iussu C. Caesaris dictatoris deducta est ....

(...) quive tum magistratus imperium potestatemve colonorum suffragio geret iussuque C. Caesaris dictatoris consulis prove consule habebit (...)


Verosimilmente, la data di nascita della legge potrebbe essere l’anno 44 a.C., prima delle Idus Martiae, ma la sua pubblicazione sarebbe avvenuta ad opera di Marco Antonio dopo la morte di Cesare[5].

Dopo la campagna di Hispania, conclusasi con la sua vittoria nella battaglia di Munda[6], Cesare iniziò una politica di integrazione politica e giuridica delle comunità ispaniche, emettendo principalmente leges che regolassero e riorganizzassero la situazione municipale e coloniaria piuttosto confusa che vigeva allora nella penisola iberica. Bravo rileva come i provvedimenti legislativi appositamente pensati per la Hispania, siano davvero un numero significativo: “La aportación documental de la Hispania romana al capítulo de las leyes municipales es superior a la de cualquier otra región del mundo romano y, en época imperial, la Bética hispánica es con diferencia la provincia que ha proporcionado mayor número de estos documentos y en mejor estado de conservación. Sólo Italia presenta un bagaje similar de leyes municipales: Lex Heracleensis, Lex Tarentina, Lex de Bantia; pero todas ellas son de época tardorrepublicana, como su correspondiente hispánica, la Lex Ursonensis[7].

Cesare aumentò progressivamente la fondazione di coloniae in Spagna, proseguito poi sotto il principato di Augusto nell’intento di urbanizzare e romanizzare le terre iberiche[8]. In questo modo Cesare mirava ad ottenere diversi risultati contemporaneamente: innanzitutto consolidava e unificava l’amministrazione pubblica nell’intera provincia, assicurandosi così un maggior controllo sui territori sottomessi[9]; in secondo luogo, si assicurava la fedeltà clientelare e la gratitudine dei veterani, che videro aumentato l’ager publicus da suddividersi tra gli stessi, senza tuttavia che si intaccassero le proprietà private romane; in terzo luogo, siccome molte cittadine iberiche avevano partecipato alla guerra civile, spesso schierandosi con Pompeo proprio come nel caso di Urso, con la fondazione di coloniae Cesare impartiva loro un castigo con la confisca delle terre e la ridistribuzione delle stesse; infine, complessivamente, si otteneva in una maggiore stabilità della provincia, soprattutto in un momento incerto e convulso come quello della fine della Repubblica.

La legge Genetiva Iuliae seu Ursonensis fu emanata per risolvere problemi sociali e per romanizzare i territori conquistati allo scopo di imporre la gestione tipicamente romana degli stessi[10]. Per quanto a nostra conoscenza, essa è la lex più antica di quelle emanate per la provincia ispanica[11].

Come rilevato da D’Ors[12], Cesare diede all’antico borgo di Osuna il nome di Colonia Genetiva Iulia, facendo così riferimento alla dea Venus Genetrix protettrice della gens Iulia cui apparteneva il condottiero. La lex ci fornisce molti dati sulla colonizzazione della cittadina e la sua organizzazione, innanzitutto rivelando come la stessa fosse composta DA veterani[13] e da cives romani[14], in particolare facenti parte degli strati più bassi e poveri di Roma, in un’operazione di sostituzione etnica conseguente all’appoggio della città di Osuna alla fazione pompeiana, come d’altra parte accadde per tanti altri centri della Baetica[15].

Lo statuto regola la vita della nuova collettività affrontando una serie di aspetti: la tavola I, ad esempio, dispone degli obblighi dei magistrati cittadini e divide gli abitanti in ventiquattro curiae, a scopi elettorali e, in generale, di votazione; la tavola V, invece, riguarda problemi di giurisdizione, per poi concentrarsi su temi religiosi; le tavole VII e VIII hanno ad oggetto le responsabilità dei decurioni. Capitoli specifici poi, riguardavano il sistema politico[16], l’amministrazione del patrimonio della colonia[17], gli oneri e i privilegi dei coloni[18], la difesa della città[19], le questioni di ordine pubblico[20].

Gli studi epigrafici sulle tavole bronzee hanno rivelato che sicuramente vennero effettuate molte cancellazioni e correzioni sul materiale originale, in ragione delle quali molti studiosi hanno criticato fermamente la genuinità delle disposizioni ivi contenute. Tuttavia, è assai difficile stabilire quando e perché certe modifiche fossero state apportate: addirittura, secondo Otto Gradenwitz, le alterazioni (Quasi-Interpolationen als eine Randglosse)[21] sarebbero state introdotte nel testo originario dello statuto già quando questo era soltanto un papiro conservato nell’archivio della colonia; la pratica poi, sarebbe continuata per adattare il testo ai tempi e alla società, anche successivamente alla realizzazione delle tavole bronzee.

Quasi tutti gli studiosi[22] concordano sul fatto che la legge in oggetto fosse stata emanata come lex data[23], pertanto fondata sull’imperium dei magistrati e non sulla votazione dei comizi, il che ben si accorda con la creazione ad opera di Giulio Cesare e la promulgazione da parte di Marco Antonio.

 

2. Le azioni popolari romane nella dottrina

 

Venendo ora all’analisi dei frammenti che qui più interessano, si concentrerà l’attenzione sui quei capitoli che hanno maggiore attinenza con la gestione del territorio della colonia, in relazione ai mezzi di tutela approntati dai fondatori (in particolare i capp. 82 e 104).

Come altre leggi municipali e coloniali, anche la Lex Ursonensis prevede la legittimazione attiva dei membri della collettività ad alcune azioni, chiamate per questo ‘popolari’.

Un paio Di secoli dopo, le azioni popolari, vengono definite in via generale da Paolo in D. 8 ad Ed. 47.23.1:

 

  1. 8 ad Ed. 47.23.1: Eam popularem actionem dicimus, quae suum ius populi tuetur.

 

Si chiama, pertanto, azione popolare quell’azione che tutela come proprio un diritto del popolo[24].

Secondo una prima ricostruzione, le azioni popolari presupporrebbero l’esistenza di un rapporto di mandato tra il populus, titolare dell’interesse tutelato, e il quivis de populo, che agisce per far valere tale interesse: è la cosiddetta tesi “procuratoria” sostenuta soprattutto da Mommsen; secondo l’autore, quindi, tra il quivis de populo e la res publica o il populus bisognava riconoscere un vero e proprio rapporto di mandato con rappresentanza, così che l’attore popolare avrebbe agito quale procurator del popolo. Secondo Mommsen, pertanto, il cittadino avrebbe sempre agito sulla base di un mandato, ovviamente implicito, ricevuto dal populus e la sua azione sarebbe stata, quindi, sempre diretta a realizzare un interesse pubblico, anche quando l’attore particolare beneficiava direttamente del poena pecuniaria derivante dall'azione.

La natura procuratoria delle azioni popolari era sostenuta in ragione della convinzione, espressa successivamente da Codacci Pisanelli[25], in base alla quale l’attuazione della giustizia rientrava tra i compiti dello Stato e ciò a prescindere dall’organo deputato all’esercizio di tale funzione: pertanto, il cittadino, nell’esperire l’azione popolare, avrebbe agito in qualità di “organo dello Stato”. In altre parole, Pisanelli riteneva che non fosse necessario ricercare la titolarità di un diritto nel quivis de populo, per esercitare un’azione popolare.

Secondo un diverso orientamento, invece, sostenuto soprattutto da Bruns, il quivis de populo, agendo in giudizio, tutelerebbe un interesse suo proprio, ma di cui gode non uti singulus, ma in quanto appartenente alla moltitudine dei cives, identificabile in generale col populus[26].

Carlo Fadda prese le mosse dall’intuizione del Bruns sulla sussistenza di un interesse personale dell’attore nell’azione popolare: l’autore parte dal dato oggettivo che l’azione era concessa a un quivis de populo, e ne deduce che tale fatto implichi necessariamente la presenza di un interesse dell’intera comunità, altrimenti non sarebbe spiegabile il motivo per cui ciascun cittadino fosse legittimato ad agire a tutela di un interesse che riguardasse esclusivamente uno o più individui[27].

Pertanto, nell’esperienza giuridica romana, l’actio popularis era uno strumento concesso dal Pretore a un quivis de populo, indipendentemente dall’esistenza di un diritto reale o di credito nei confronti della cosa per la quale si agiva[28]. Questo tipo di formula dovette essere molto comune nel mondo romano, dal momento che sono numerosi i richiami contenuti nel Digesto[29] in diverse sedes materiae nonché in uno specifico titolo dedicato alle azioni popolari, il titolo XXIII del libro quarantasette, rubricato appunto de popularibus actionibus. Alla luce di queste considerazioni, Casavola interpretò la definizione di azione popolare tratta da Paul. 8 ad ed. e contenuta in D. 47.23.1, affermando che “Populus è l’empirico insieme degli individui che popolano la città e che rivendicano come ius suum il riconoscimento e la tutela di interessi, non ricompresi nella res familiaris ed estranei alla res publica, ma posti dall’ambiente comune in cui si svolgono le loro individuali e quotidiane attività”[30].

Pertanto, l’attore di un’azione popolare, non sarebbe né un rappresentante del popolo, né un semplice membro del popolo, bensì “l’attore vede tutelato e può vantare un interesse che lo riguardi come individuo, unus ex populo, non come soggetto di diritto privato, con alle spalle il gruppo familiare, né come soggetto di diritto pubblico, con alle spalle lo Stato”[31]. Nel caso delle azioni popolari, in altre parole, non si è nell’ambito dello ius privatum, ma allo stesso modo non si entra neppure nell’alveo dello ius publicum[32]: i delitti perseguiti mediante azione popolare sono dei delitti privati che, non presentando un contenuto patrimoniale, restano estranei alla famiglia; i comportamenti perseguiti da un’azione popolare rientravano quindi direttamente nella sfera giuridica di un soggetto, ma nello stesso tempo coinvolgevano gli interessi di tutti i membri della comunità, poiché il bene giuridico tutelato presentava una rilevanza sociale[33]. In altre parole, le condotte illecite sancite dalle azioni popolari offendono il quivis de populo, cioè il cittadino non in quanto individualmente considerato, ma in quanto appartenente alla collettività, alla comunità territoriale in cui vive e, in generale, al populus romanus.

Serve infatti segnalare, in questa sede, come la sanzione vada a colpire tutti quei comportamenti che impediscano il libero e normale uso dei loca publica o delle res in usu publico[34]. Tale nozione non farebbe riferimento a un generico potere di utilizzabilità del bene da parte della collettività, ma esprimerebbe sinteticamente la tutelabilità attraverso specifici rimedi di diverse prerogative vantabili dai cittadini con riferimento allo sfruttamento di determinati beni.

Di diverso avviso appare Crawford[35], che non ritiene che le predette statuizioni creino azioni popolari, ma più semplicemente delle azioni “for the benefit of the populus”: anChe quelle previste dalla legge in esame, quindi, non sarebbero actio popularis in senso tecnico, cioè “a private action in which anyone can plead”, bensì una previsione sottoposta a iudicium publicum, che include un multam dicere da parte di un magistrato, un multam petere da parte di qui volet ed infine un multam irrogare da parte presumibilmente di un magistrato.

Tale ricostruzione però non appare particolarmente convincente, fondandosi su di una generale visione solo di alcune leggi tardo repubblicane e sulla semplice somiglianza di linguaggio della tarda repubblica con le Quaestiones: Crawford cita solo Cicero, II In Verr. 1, 155, e il fatto che non vi fosse sempre un determinato limite monetario all’entità della multa. Ciò, tuttavia, non appare sufficiente per escludere che le azioni previste dalla legge Genetivae Iulia siano a tutti gli effetti azioni popolari, essendo perfettamente strutturate come descritte dai Digesta (Paolo e Ulpiano innanzitutto) e riprodotte pressoché nello stesso modo da molte altre leggi municipali dell’epoca, tutte specificamente a tutela del quivis de populo, come sopra specificato.

Ovviamente, occorre precisare come le azioni popolari romane sfuggano ad un generale inquadramento per l’esperienza romana in modo cronologicamente invariato, da momento che nel corso dei secoli muta il concetto di civis e di populus, soprattutto con l’avvento del principato. Inoltre, le ipotesi in cui si applicano tali azioni sono molto eterogenee e non sempre è agevole per l’interprete enucleare un interesse pubblico che possa associarsi ad un interesse privato dell’attore[36].

 

3. Le azioni popolari a tutela del territorio nella Lex Genetivae Iuliae

 

Nella legge in esame, in particolare, due passi paiono volti alla tutela del territorio, ma, nella prima fonte che riporterò (cap. 104), il richiamo all’actio popularis è certo, mentre nella seconda (cap. 82) è frutto di una integrazione degli editori.

Il capitolo 104 prevede un’azione popolare a tutela dei limites, decumani e fossae limitanee collocate entro i fines del territorio:

 

CIV//Qui    limites    decumani[que]    intra    fines    c(oloniae)    G(enetivae)  deducti  facti|que  erunt,quaecum(que)  fossae  limitales  in  eo  agro  erunt, | qui iussu C. Caesaris dict(atoris) imp(eratoris) et lege Antonia senat(us)que | c(onsultis) pl(ebi)que sc(itis) ager datus atsignatus erit, ne quis limites | decumanosque opsaeptos neve quit immolitum neve | quit ibi opsaeptum habeto, neve eos arato, neve eis fossas | opturato neve opsaepito, quo minus suo itinere aqua | ire fluere possit. si quis atversus ea quit fecerit,  is  in  |  res  sing(ulas),  quotienscumq(ue)  fecerit,  HS M  c(olonis)  c(oloniae) G(enetivae) I(uliae) d(are) d(amnas) esto, | eiusq(ue) pecun(iae) qui volet petitio p(ersecutio)q(ue) esto. |

Il contenuto del capitolo è il seguente: qualunque confine e decumano sia stato tracciato e realizzato all’interno del territorio della colonia Genetiva, e qualunque fossato di confine ci sia su quelle terre, che sono state concesse o assegnate per ordine di C. Cesare, dittatore, imperatore, e dalla Lex Antonia, e da decreti del senato e da plebisciti, nessuno può far chiudere i limites e i decumani o farvi costruire sopra qualcosa o otturarli, né può ararli, né bloccare o chiudere quei fossi, in modo che l’acqua non possa muoversi o scorrere nel suo corso. Se qualcuno avrà fatto qualcosa di contrario a queste regole, dovrà essere condannato a pagare mille sesterzi ai coloni della colonia Genetiva Julia per ogni infrazione, tutte le volte che l’avrà fatta, e potrà essere denunciato e contro di lui avrà petitio persecutio per questa somma chiunque lo desideri.

La norma statutaria è molto interessante circa il tema qui trattato perché mostra la volontà dei fondatori di preservare i limites e i decumani della colonia, nonché le fosse con funzione confinaria, per le quali, peraltro, anche il flusso dell’acqua deve mantenersi constante.

Limites, nel testo della legge, sono le strade[37], ma anche i fossi, i veri e propri limiti ed i crocevia tra sentieri. È chiaramente vietata, pertanto, qualsiasi modifica od ostruzione di tali strumenti di confine, che ne facciano perdere la loro funzione o limitare l’utilizzo; i fossati, inoltre, sembrerebbero svolgere una duplice funzione: una di irrigazione dei campi e quindi caratterizzata dall’uso pubblico degli stessi, in quanto fornivano acqua a fondi diversi; una seconda, di definizione dei confini tra fondi adiacenti. Entrambe le funzioni hanno un aspetto pubblico da tenere in considerazione e pertanto la legge le tutela da violazioni del singolo privato che voglia ottenere un illecito ed egoistico beneficio o che li avesse resi inutilizzabili. Occorre del resto considerare che, sebbene nel testo in esame non vi siano riferimenti alla religione, presso i Romani i limiti che segnavano i confini delle proprietà avessero una caratterizzazione contraddistinta da sacralità.

Per tutti questi strumenti di definizione e organizzazione territoriale, il cap. 104 prevede un’azione popolare costruita secondo il seguente schema: qualunque cittadino della colonia può agire contro chi viola la norma in esame e per ogni singola violazione, il reo sarà condannato a pagare mille sesterzi direttamente ai coloni della città, pertanto, alle casse erariali della comunità.

Questo tipo di atti illeciti, che semplicemente danneggiavano la comunità, erano puniti con multe e perseguiti con un’azione popolare: evidentemente dovevano essere abbastanza frequenti nella vita della comunità. Peraltro, il divieto di ostruire, opsaepere, o costruire sopra ciò che era già stato costruito, immolire, avevano precedenti quasi uguali in altre leggi coeve.

L’espressione d(are) d(amnas) esto, può destare qualche dubbio interpretativo relativo all’effettivo svolgimento della tutela legislativa: infatti, non è necessariamente indice dell’introduzione di un processo, giacché, sin dall’epoca arcaica, la formulazione in esame dava luogo immediatamente ad esecuzione forzata, se l’obbligo non veniva soddisfatto.

Si può notare come l’azione popolare sia indicata con il binomio petitio persecutioque: è una peculiarità della lex in esame, dal momento che nella maggior parte delle leggi coloniali o municipali, soprattutto di origine iberica, è invece presente il trinomio actio, petitio persecutioque[38].

Difficile dare una spiegazione di questo fatto: per alcuni[39], il noto trinomio non sarebbe altro che un insieme di parole senza alcun reale contenuto differenziante, un'enumerazione pleonastica o una semplice ridondanza voluta dal legislatore. Sicuramente, la terminologia e le espressioni dei plebisciti e delle leges datae sono caratterizzate quasi sempre da un linguaggio molto minimale e povero, a volte ripetitivo e persino confuso, dando l'impressione che la cosa più importante per il legislatore sia che non ci siano lacune interpretative nell’applicazione della norma. Ci sono molti capitoli nelle leggi municipali della Baetica in cui ci sono peculiari reiterazioni, che sembrano semplici ridondanze, essendo il legislatore, o forse lo stesso scriba incaricato della stesura del testo, preoccupato di dettagliare il testo in modo finanche troppo perfezionista e ripetitivo, allo scopo di evitare che la legge non venisse osservata con la scusa che la stessa recasse precetti troppo vaghi.

Le ridondanze e i pleonasmi nelle leggi comunali sono davvero numericamente molto elevati, tanto che si può pensare che essi costituiscono una caratteristica costante dello stile di testi, volutamente redatti con l'obiettivo di fornire al cittadino della colonia o municipio, una lettura esauriente, che non lasci spazio neppure ad un minimo margine di interpretazione. Sembra che i termini e i concetti vengano ripetuti in una verbosità erudita, apparentemente inutile, perché spesso l'espressione che segue non aggiunge quasi nulla alla precedente.

Analizzando la lex coloniae Genetivae Iuliae, possiamo portare ad esempio il cap. 67, in cui si usano le parole quasi identiche creare, facere e sufficere per riferirsi alla nomina delle cariche amministrative municipali; nel cap. 75, in relazione al divieto di distruggere gli edifici cittadini, si citano tre concetti pressoché sovrapponibili: neve detegito, neve demolito, neve disturbato; nel cap. 95, riferendosi ai testimoni chiamati in causa, si parla di testimoni denuntiati e nominati; nel cap. 125, che tratta dei posti a sedere riservati nelle feste popolari, si distingue fra dati, adsignati e relicti; etc.

Quindi, in parte, questa tendenza che potremmo definire volta al sovrabbondante, è sicuramente reale: probabilmente in parte si è verificata anche con il trinomio di actio, petitio, persecutio.

Un altro gruppo di studiosi, evidentemente non soddisfatto da una soluzione così semplicistica, ha cercato di attribuire un significato più profondo alla ripetizione sempre identica dei termini nelle leges citate. Ad esempio, una spiegazione fu proposta da Fadda[40], il quale ritenne di scorgere nelle tre espressioni una sorta di percorso ascendente puramente formale, basato sullo stesso ordine di azioni che venivano svolte nel processo: actio si riferirebbe quindi alle fasi preliminari che precedono la litis contestatio; la petitio, invece, sarebbe la pretesa dell'attore, ma una volta che il suo diritto è stato sancito nella contestazione della lite; infine, la persecutio sarebbe la pretesa esecutiva dell’attore, da svolgersi secondo uno qualsiasi dei canali procedurali previsti dall’editto pretorio.

Secondo quanto emerge dai testi giurisprudenziali conservati nei Digesta, si può riferire ad actio, l’azione personale, a petitio l’azione in rem ed il verbo persequi, ad entrambe le azioni[41], oppure quest’ultimo indicherebbe un procedimento straordinario[42]. Sempre secondo quanto risulta dalla lettura di detti testi, si può anche ipotizzare che petitio sia da riferirsi alla domanda giudiziale che introduce il giudizio, mentre persecutio attenga alla fase esecutiva dello stesso, a seguito della condanna[43]. Se così fosse, si può dire che ogni petitio era per così dire indirizzata verso una persecutio, la prima manifestandosi più nell'idea di una pretesa incanalata nel contenzioso e la seconda nell'interesse o valore patrimoniale di ciò che si poteva ottenere con la sentenza[44].

Probabilmente c’era un ordine interno nella formulazione, o almeno una successione di aspetti procedurali disposti in modo tale che l’enumerazione stessa indicasse una successione di atti che erano collegati in modo tale che il primo portasse al secondo e il secondo al terzo[45].

Data la quasi impossibilità di arrivare a un criterio sicuro dedotto dai testi classici, così come offerti dai compilatori giustinianei, Casavola[46] ha preferito cercare una spiegazione che si fondasse sull’evoluzione storica del trinomio actio, petitio, persecutio. Secondo l’autore, nel primo periodo in cui furono emanate leggi municipali e coloniali, queste citavano solo la petitio: è il caso della lex Mamilia al cap. 54 e della tavola di Eraclea, ai capp. 19, 97, 107, 125 e 141. In seguito, in qualche momento successivo, deve essere stato aggiunto il secondo termine persecutio, che appare già legato alla petitio nella legge di Urso qui analizzata. Infine, forse a causa della recezione del lessico giurisprudenziale, appare definitivamente il trinomio completo che poi si ripete sempre in modo uniforme nelle leggi del periodo flavio[47].

In quest’ottica, il termine actio viene ad assumere il significato che ne dà Celso:

 

D. 44.7.51: Nihil aliud est actio quam ius persequendi iudicio quod sibi debeatur.

 

Se così fosse, non abbiamo altra scelta, logicamente parlando, che ammettere che anche l'attore qui volet abbia una sorta di diritto soggettivo che è stato violato: il suo diritto all’ordine, alla tutela del territorio della colonia e al perfetto funzionamento della comunità di cui fa parte, proprio in quanto quivis de populo. Naturalmente, ciò significa intendere l’azione popolare come strumento di tutela dei diritti che possono dirsi soggettivi.

Anche in questo caso, nonostante manchi un espresso riferimento all’usus publicus, vi è da notare una certa assonanza con gli interdetti concessi dal pretore urbano: se confrontiamo, infatti, la previsione della lex in esame con gli interdetti de viis commentati da Ulpiano in D.43.8.2.20-35[48], emergono affinità significative.

In particolare sembra rilevante la simmetria tra legittimazione diffusa[49] e salvaguardia delle condizioni di utilizzabilità della via: in entrambi i casi, alla pubblicità dell'interesse tutelato[50] corrisponde l’esperibilità del rimedio da parte del quivis de populo. Nonostante le evidenti e rilevanti differenze di regime tra i due rimedi – un interdetto con condanna calibrata sull’interesse del postulante quello previsto dall’editto urbano, un’azione con multa fissa quella contemplata dalla lex coloniaria – può essere ipotizzata la circolazione, tra ordinamento urbano e coloniario, di un modello di tutela di alcuni beni pubblici, in particolare le viae, volto a tutelarne la destinazione al pubblico uso da parte dei membri della comunità.

 

4. Concordanze con altre leggi coeve

 

Un ulteriore elemento di rilievo è che le azioni popolari nelle leggi municipali o coloniali, si strutturano praticamente sempre nello stesso modo; prendendo ad esempio un’altra lex, di epoca flavia, la lex Irnitana, possiamo notare come tali azioni sono ripetute più volte e sempre con le stesse parole, come se la frase fosse stata una sorta di clausola di stile[51]. La formulazione di queste azioni accordate a qui volet, deve essersi evoluta e arricchita, dalla sua forma più antica che si trova ancora in alcune leggi municipali italiane, alla sua formulazione più recente, che compare anche nelle altre leggi ispaniche del Sud della penisola iberica.

La vicinanza semantica e tematica delle più antiche leges datae per i municipi della penisola italica[52], durante gli anni tardo-repubblicani, è evidente in relazione ad altre leggi municipali scoperte in Andalusia, sia a quelle del periodo cesariano, come la qui analizzata Lex coloniae Genetivae luliae, sia a quelle contemporanee a Vespasiano e Domiziano: le leges Flavia Salpensana, Flavia Malacitana e Flavia Irnitana. L’indubbia analogia, che si concreta nell’uso pressoché pedissequo ed identico dei termini scelti, potrebbe derivare o dal fatto che le leggi italiCHE ane (ad esempio la lex Tarentina) servirono da modello universale per tutti gli statuti municipali delle province, o CHE forse esisteva un modello comune, oggi perduto, il cui testo, sintassi, sistematica e lessico vennero ad essere trasmessi e riprodotti quasi senza varianti.

Si prenda ad esempio l’ulteriore caso spagnolo del cap. V della lex Irnitana, che prevede l’utilizzo degli stessi identici termini:

 

Lex Irn. V: Municipibus municipii Flavi Irnitani dare damnas esto, eiusque pecunias deque ea pecunia municipi qui volet, eiuque per hanc legem licebit actio petitio persecutio esto.

 

Come è stato osservato peraltro, l’azione popolare prevista dalla Lex coloniae Genetivae luliae sembra trovare un diretto precedente, “quasi letterale”[53], nel Capitolo 54 della Lex Mamilia Roscia Peducaea Alliea Fabia[54]:

 

Cap. LIIII.[55] Qui limites decumanique hac lege deducti erunt, quaecumque fossae limitales in eo agro erunt, qui ager hac lege datus adsignatus erit, ne quis eos limites decumanosque obsaeptos neve quid in eis molitum neve quid ibi opsaeptum habeto, neve eos arato, neve eis fossas opturato neve opsaepito, quominus suo itinere aqua ire fluere possit. Si quis adversus ea quid fecerit, is in res singulas, quotienscumque fecerit, HS IIII colonis municipibusve eis, in quorum agro id factum erit, dare damnas esto, eiusque pecuniae qui volet petitio hac lege esto.

 

Gli scritti degli agrimensori[56], infatti, ci hanno consegnato il testo di tre capitoli di tale provvedimento normativo, da alcuni identificato con una lex Iulia agraria e risalente probabilmente all’epoca cesariana, in cui vengono trattate diverse questioni relative all'individuazione di limites e termini nella deduzione di una colonia: in uno di tali frammenti, il capitolo 54 sopra riportato, è riprodotta quasi letteralmente[57] l’azione popolare e la sanzione a legittimazione diffusa del capitolo 104 della lex coloniae Genetivae.

Gli autori che ipotizzano la presenza di una lex municipalis generale[58], di Cesare o di Augusto, collegano il riferimento ciceroniano in Cic. ad fam 6.18.1 (Leptae: Simul atque accepi a Seleuco tuo litteras, statim quaesivi a Balbo per codicillos quid esset in lege. Rescripsit eos, qui facerent praeconium, vetari esse in decurionibus; qui fecissent non vetari) e la previsione sui praecones della tabula Heracleensis (tab. Her. ll. 94-96: Neve quis, que(i) praeconium dissignationem libitinamve faciet, dum eorum quid faciet, in mu|nicipio colonia praefectura IIvir(atum) IIIIvir(atum) aliumve quem mag(istratum) petito neve capito neve gerito neve habeto | neve ibei senator neve decurio neve conscriptus esto, neve sententiam dicito) per ipotizzare che l’Arpinate trattasse di una legge (o forse, più probabilmente, solo di una “bozza” di legge) indirizzata in modo generale ai municipia. Questa teoria troverebbe riscontro nella menzione, nell’epigrafe di Patavium[59], di una lex Iulia municipalis.

La teoria è stata posta ampiamente in discussione[60]; tuttavia appare verosimile l’esistenza di un testo-base (o forse anche di più “testi-base”, poiché non può escludersi la presenza di diverse tradizioni di archivio, in base ai luoghi di utilizzo dello stesso), sulla falsariga del quale sarebbero stati composti i singoli statuti: per i municipia Flavia probabilmente circolavano diverse copie che differivano solo per alcune peculiarità locali, come l’ammontare delle multe, o il numero dei decurioni facenti parte della curia municipale. I mutamenti subiti nel corso del tempo dal documento-base non avrebbero condotto a una completa “riscrittura” di esso, ma ad interventi, volti ad attualizzarlo[61]. L’uniformità è, d’altro canto, attestata sicuramente a partire dall’epoca flavia, benché le leges municipii della Betica del tempo contemplino previsioni normative che sicuramente risalgono all’età augustea (oltre che, nella lex Irnitana, un esplicito rinvio alla legislazione De iudiciis privatis del 17 a.C.), nonché a talune regole già di epoca antecedente. In ogni caso, il consolidarsi di un testo, poi “replicato” nei municipia iberici dopo la concessione del ius Latii ad opera di Vespasiano, parrebbe essere assolutamente plausibile[62]. Appare, d’altronde, del tutto probabile e consono al modo di governare di Roma che al magistrato, che poi avrebbe pubblicato la lex data, fosse consegnato un formulario a cui attenersi, così come ai governatori provinciali era dato un formulario a cui attenersi, in linea di massima, nel predisporre il proprio editto provinciale.

Come nella lex coloniae Genetivae Iuliae, i beneficiari della multa erano genericamente gli abitanti della colonia, nelle leggi flavie essi sono gli abitanti del municipio: forse per i piccoli centri della Baetica, alcuni dei quali davvero minuscoli, come nel caso di Irni, che aveva da poco acquisito lo status di comune romano, o come Urso, il legislatore o forse i responsabili della stesura del testo, preferirono che fossero gli stessi abitanti della comunità, i municipali o i coloni, a comparire nella condemnatio come destinatari definitivi del profitto della sanzione.

Il precedente capitolo 82 della lex, reca in sé una previsione generale sui beni pubblici e le cose in uso pubblico, stabilendo anche un’azione popolare a tutela di tali beni: questo secondo riferimento, tuttavia, è più incerto perché il periodo relativo all’azione popolare è frutto di un’integrazione degli editori.

 

LXXXII // Qui agri quaeque silvae quaeq(ue) aedificia c(olonis) c(oloniae) G(enetivae) I(uliae) / quibus publice utantur data adtributa e/runt ne quis eos agros neve eas silvas ven/dito neve locato longius quam in quinquen/nium neve ad decuriones referto neve decu/rionum consultum facito quo ei agri eaeve / silvae veneant aliterve locentur neve si ve/nierint itcirco(!) minus c(oloniae) G(enetivae) Iul(iae) sunto quique iis / rebus fructus erit quot se emisse dicat is in iuga sing(ula) inque annos sing(ulos) HS C c(olonis) c(oloniae) G(enetivae) Iul(iae) d(are) d(amnas) / [esto eiusque pecuniae qui volet petitio persecutiove ex h(ac) l(ege) esto ---]

 

La previsione in oggetto rappresenta una tutela al servizio di alcuni loca publica coloniae, cioè i terreni (forse a pascolo), i boschi e gli edifici che fossero concessi in uso ai coloni.

Qualunque terra, bosco o edificio sia stato assegnato o attribuito ai coloni della colonia Genetiva Iulia, affinché ne facciano un uso pubblico, nessuno venda quelle terre o quei boschi, o li affitti per più di cinque anni, né si rivolga ai decurioni o si approvi un decreto dei decurioni, affinché quelle terre o quei boschi possano essere venduti o affittati in altro modo. Né, se saranno state vendute, apparterranno meno alla colonia Genetiva Iulia. E qualunque sia il prodotto di queste proprietà, per quanto riguarda qualsiasi cosa possa affermare di aver comprato, egli [deve essere] condannato a pagare cento sesterzi ai coloni della colonia Genetiva Iulia per ogni iugerum e per ogni anno, [e ci sarà causa e richiesta di tale somma da parte di chiunque vorrà secondo questo statuto].

L’espressione quibus publice utantur è una costruzione sintattica particolare: i quibus probabilmente sono i terreni, boschi ed edifici, destinati ad uso della collettività nell’organizzazione coloniale stabilita nella lex dicta emessa dai magistrati fondatori della colonia, dopo che gli agrimensori hanno organizzato il territorio, definendo le parti pubbliche rispetto a quelle private, le misure dei lotti, etc.

Orbene, come si può notare, la previsione in oggetto rappresenta una tutela al servizio dei loca publica e dei beni in usu publico[63]: ogniqualvolta un terreno o un bosco fossero assegnati per il pubblico uso, tale destinazione così come la proprietà in capo alla colonia non sarebbe mai potuta cambiare, tantomeno se tali fondi venissero illecitamente rivenduti come privati; in questo caso, qualunque cittadino avrebbe potuto adire il magistrato per veder condannato il contravventore ad una multa che avrebbe poi pagato direttamente alla cassa erariale della colonia.

Probabilmente la previsione di legge, vietava ai magistrati di dare in locazione-vendere per più di un quinquennio: la ragione, come detto, è di non sottrarli all’uso pubblico per troppo tempo, anche se per un periodo breve era possibile (magari per esigenze della colonia o per avere un’entrata di denaro costante). La norma è perfettamente coerente con l’azione di governo di Vespasiano (e dai suoi successori), il quale diede inizio ad una ricognizione di tutte le realtà coloniali e municipali dell’Impero, allo scopo di recuperare tutte quelle terre del popolo romano o delle comunità locali occupate indebitamente senza pagare il relativo vectigal.

Stante la coincidenza perfetta tra cap. 104 e 82 circa la frase che precede la concessione dell’azione popolare, è probabile che anche in questo caso, come proposto dagli editori, ci fosse la previsione della petitio persecutioque a favore del quivis de populo.

Da notarsi anche come la probabile popolarità della azione, preveda una pena altrettanto pubblica: innanzitutto è prevista una multa imposta attraverso, un provvedimento pubblico emanato dal magistrato in ragione del suo imperium; in secondo luogo, non è l’attore che beneficia della multa in caso di utilizzo privato dei beni dichiarati pubblici, bensì la somma cui verranno condannati i rei di tale uso andrà direttamente alle casse della colonia.

La statuizione del capitolo 78 pone in rilievo quali opere siano da considerarsi sempre pubbliche e destinate al pubblico uso: infatti, per quanto riguarda le strade pubbliche[64] e i sentieri all'interno dei confini assegnati alla colonia, tutte queste, così come le vie e i sentieri che esistono, esisteranno o sono esistiti in questi territori, essi sono da considerare di proprietà pubblica e, pertanto, destinati all’uso pubblico, oltre a fungere da confini delle proprietà.

 

LXXVIII// Quae viae publicae itinerave publica sunt fuerunt / intra eos fines qui colon(iae) dati erunt quicumq(ue) / limites quaeque viae quaeque itinera per eos a/gros sunt erunt fueruntve eae viae eique limites / eaque itinera publica sunto //

 

Il testo parla espressamente e distingue tra viae ed itinera, sancendo il carattere pubblico di entrambe, distinzione tuttavia di non pronta soluzione: la diversità linguistica tra i termini era già documentata da Varrone[65] e sembra trovare riscontro anche negli scritti della giurisprudenza, in particolare in Ulpiano e Paolo.

 

D. 43.8.2.23 (Ulp. 68 ad ed.): Privatae viae... vel hae, quae ad agros ducunt, ...in quas exitur de via consulari et sic post ilam excipit via vel iter vel actus ad villam ducens....

 

Ulpiano, innanzitutto, nel trattare delle viae privatae, indica di seguito via, iter e actus come fossero tre diversi termini, coincidenti con tre differenti spazi destinati al transito, coincidenti, peraltro, con le diverse servitutes rusticorum praediorum[66]. Paolo esplicita ancora meglio il concetto di diversità tra via e iter, adducendo un dato tecnico: se la strada è larga otto piedi[67], tale da consentire il passaggio di un vehiculum, allora si tratta di via; al di sotto di tale larghezza, si deve parlare di iter.

 

D. 8.3.23 pr. (Paul. 15 ad Sab.). Via constitui vel latior oco pedibus vel angustior potest, it tamen cam latitudiner cto beat, qua vehiculum ire potest: alioquin iter erit, non via.

 

Quanto alla distinzione tra viae publicae e privatae, è utile la lettura dei primi tre paragrafi del commento ulpianeo alla clausola edittale dell'interdetto che proibiva il facere e l'immitterein via publica itinereve publico”:

 

D. 43.8.2.21 (Ulp. 68 ad ed.). Viam publicam eam dicimus, cuius etiam solum publicum est: non enim sicuti in privata vIa, ita et in publica accipimus: viae privatae solum alienum est, ius tantum eundi et agendi nobis competit: viae autem publicae solum publicum est, relictum ad directum certis fi-nibus latitudinis ab eo, qui ius publicandi habuit, ut ea publice iretur commearetur.

 

  1. Viarum quaedam publicae sunt, quaedam privatae, quaedam vicinales. Publicas vias dicimus, quas Greci Basilicás, nostri pretorias, alii consulares vias appellant. Privatae sunt, quas agrarias quidam dicunt. Vicinales sunt viae, quae in vicis sunt vel quae in vi tur: nam si ex collatione privatorum reficiatur, non utique privata est: refectio enim idcirco de communi fit, quia usum utilitatemque communem habet.

 

23. Privatae viae dupliciter accipi possunt, vel hae, quae sunt in agris, quibus imposita est servitus, ut ad agrum alterius ducant, vel hae, quae ad agros ducunt, per quas omnibus commeare liceat, in quas exitur de via consulari et sic post illam excipit via vel iter vel actus ad villam ducens. Has ergo, quae post consularem excipiunt in villas vel in alias colonias ducentes, putem etiam ipsas publicas esse.

 

Ulpiano, appena dopo aver citato la clausola edittale nel paragrafo che precede quello in esame, in D. 43.8.2.21, sostiene che si considera via pubblica quella nella quale “anche” (etiam) il suolo è pubblico. In D. 43.8.2.22[68], il giurista chiarisce che talune viae sono publicae, alter invece sono privatae, altre ancora sono chiamate vicinales, precisando che le viae publicae sono quelle denominate praetoriae o, secondo altra definizione, “consulares”, mentre le viae privatae sono chiamate anche agrariae, mentre quelle denominate viae vicinales sono quelle che conducono in vicos.

In D. 43.8.2.23, con riferimento alle vie che si trovano “in agris”, Ulpiano opera una distinzione che si attaglia al frammento della Lex qui analizzata: il giurista distingue tra quelle viae oggetto di una servitus perché conducono al fondo di altri, da quelle viae che conducono “ad agros”, dipartendosi da una via consularis che Ulpiano, seppur cautamente (“putem”), è portato a considerare pubbliche. Ebbene, si tratta delle vie considerate nel frammento della lex, che dalla stessa vengono definite comunque pubbliche se tracciate entro i limites della colonia.

 

5. Conclusioni

 

Come si è visto, la Lex coloniae Genetivae Iuliae seu Ursonensis è la copia di epoca flavia di una legge probabilmente emanata durante la tarda repubblica, che conteneva lo statuto municipale dell’antica città di Urso, oggi Osuna.

All’interno di questa legge appare significativa la presenza di azioni popolari -  sicuramente una, ma probabilmente almeno due – previste, come detto, pressoché con le stesse parole da altre leggi coeve tendenzialmente strutturate nello stesso modo, che sembrerebbero garantire al membro della comunità, una tutela volta a custodire e difendere il corretto uso dei loca publica e di tutti i luoghi di uso ed interesse comune: infatti, comportamenti perseguiti dall’azione popolare rientravano direttamente nella sfera giuridica di un soggetto, ma nello stesso tempo coinvolgevano gli interessi di tutti i membri della comunità, poiché il bene giuridico tutelato presentava una rilevanza sociale.

Serve infatti segnalare, come la sanzione indicata dal cap. 104 e quella probabilmente prevista dal cap. 82 della lex vadano a colpire tutti quei comportamenti che impediscano il libero e normale uso dei loca publica o delle res in usu publico: in entrambi i casi, alla pubblicità dell'interesse tutelato corrisponde l’esperibilità del rimedio da parte del quivis de populo volto a tutelare, in particolare, l’uso corretto di viae, termini, terreni, boschi, ed edifici concessi in uso comune o pubblico ai cittadini. In verità, come affermato da Saccoccio[69], l’interesse a che non si deturpi e rovini irrimediabilmente l’ambiente in cui l’uomo vive, così come quello alla salvaguardia e alla conservazione di cose di cui tutti i cittadini usano e godono, corrispondono a bisogni concreti dell’individuo di oggi come di quello dell’antica Roma, sebbene all’epoca di certo non si fosse teorizzata una necessità giuridica di custodia e difesa dell’ambiente intese in senso moderno.

Pertanto, ciò, può essere verosimilmente interpretato come la volontà del legislatore romano di regolare l’uso e tutelare beni che interessavano e di cui potevano beneficiare tutti i cittadini della comunità cittadina, in un’ottica di buona e ragionata gestione del territorio della colonia: a tal fine, la specifica previsione di azioni popolari, esperibili da qui volet e la cui sanzione andava a beneficio dell’erario coloniale, sanciscono una particolare e diffusa attenzione alla corretta amministrazione del territorio, in modo tale che tutti i membri della comunità potessero egualmente tutelarsi ed equamente beneficiarne.

 

 

 

Abstract:  The present contribution aims to investigate the presence of popular actions promoted by a quivis de populo within a particular late republican law, reproduced in the Flavian period, which had as its object the foundation of the colony of Ursus. The presence, in this measure, of a similar type of actions, appears significant, as they would seem to guarantee the civis tools to guard and defend the proper use of the loca publica and all the places of common use and interest in a perspective of good and reasoned management of the colonial territory, in imitation of what happened in the territory of the urbs.

 

Keywords: Lex, popular actions, loca publica, place of common use, management of territory.

*Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (francescoedoardo.colombo@unicatt.it). Il contributo è realizzato all’interno del progetto PRIN 2020 Law and ‘Good Practices’ in Land Management between Roman Antiquity and Today’s Reality: a Sustainable Use of Land in the Light of Roman Land Surveying Texts’ – ‘Diritto e buone pratiche nella gestione del territorio fra antichità romana e realtà odierna. La sostenibilità nell’uso del suolo alla luce dei testi agrimensori romani (ALMA Project).

** Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] CIL II Suppl. 54391⁄4ILS 6007; CIL II594; C.G. Bruns, Fontes, n. 281⁄4S; S. Riccobono, Leges [FIRA I], n. 211⁄4; A. D’Ors, 1953 n. 7; Eph. Ep. II 105–151.0221–232; Eph. Ep. III 87–112 cf. Eph. Ep. VIII 527; Eph. Ep. IX 83–91.

[2] A. D’Ors, Epigrafía jurídica de la España romana, Madrid, 1953, 169: “Urso, que se identifica perfectamente con la moderna Osuna”.

[3] F.J. Bruna, Lex Rubria. Ceasars Regelung für die Richterlichen Kompetenzender Munizipalmagistrate in Gallia Cisalpina, Leiden, 1972, 300 n. 21; E. Gabba, Riflessioni sulla lex coloniae Genitivae Iuliae, in Estudios sobre la Tabula Siarensis, a cura J. Gonzalez e J. Arce, Madrid, 1988, p. 157; U. Laffi, La Lex Rubria de Gallia Cisalpina in Athenaeum 64, 1986, 5–44; U. Laffi, Di nuovo sulla datazione del fragmentum Atestinum, in Athenaeum 68, 1990, pp. 167–175.

[4] Plin. HN 3.3.2.

[5] M. Crawford, Roman Statutes, I, Londra, 1996, p. 395.

[6] E. Gabba, The Perusine war and Triumviral Italy, in Harvard Studies in Classical Philology n. 75, 1971, p. 154: “Sextus Pompeius was a person of remarkable military ability. In 45 it seemed that, with the battle of Munda, Caesar had definitely destroyed the Pompeian dream of creating in Spain the base for a successful new struggle. But the victory had very short-lived consequences. A little later, guerrilla warfare started again with vigor, and Sextus Pompeius himself, trusting in the memory of his father and with the support of the Spanish clientela and of Roman citizens in Spain, directed the new rebellion”.

[7] G. Bravo, Hispania, Madrid, 2007, p. 173.

[8] M.J.B. Bosch, La politica integratrice di Cesare in Hispania, in Collana Ravenna Capitale, 2013, p. 60 e ss.

[9] S.J. Keay, Recent Archaeological Work in Roman Iberia (1990-2002), in JRS n. 93, 2003, p. 157: “A key aspect of the ad- ministrative measures taken by Rome to consolidate its control over conquered communities down to the time of Caesar and Augustus was the development of towns”.

[10] J. Bleicken, Lex Publica. Gesetz und Recht der römische Republik, Berlin-New York, 1975, p. 165.

[11] A. Fernandez De Bujan, Observaciones a propósito del tránsito de la Iberia-griega y púnica a la Hispania romana, in RGDR (www. iustel.com) n. 2, 2004, p. 28: “La Lex Ursonensis es la más antigua de las leges datae conocidas”.

[12] A. D’Ors, Epigrafía jurídica cit., p. 169.

[13] J.S. Richardson, The Romans in Spain, Oxford, 1996, p. 123: “Veteran soldiers settled at Urso, and indeed an inscription from the town records a former centurion of the thirtieth legion who served two periods as duoviri, probably soon after the foundation of the colony, although there is no way of telling how many other such settlers were placed there”.

[14] S.J. Keay, Roman Spain, cit., p. 56: “In 44 BC a group of settlers from the poorer parts of Rome were settled in a colonia within the Turdetanian settlement at Urso (modern Osuna). This was situated on top of an enormous plateau to the south of Astigi (modern Écija) and enjoyed a stunning view over the surrounding countryside”.

[15] M.J.B. Bosch, La politica integratrice cit., p. 68. La Baetica era una provincia romana della Spagna meridionale (coincidente circa con l’odierna Andalusia), costituita da Augusto. Nel corso della storia romana fu divisa in quattro distretti, con capoluogo rispettivamente a Gades (Cadice), Hispalis (Siviglia), Ástigis (Écija) e Corduba (Cordova), la quale fu anche sede del governatore. Era una delle province “senatorie”, retta da un proconsole, ma nel III sec. d.C. passò sotto il diretto governo dell’imperatore. Vespasiano estese a tutte le colonie della Baetica lo ius latii. La romanizzazione della regione fu completa e di gran successo, tanto che essa diede a Roma consoli (Lucio Cornelio Balbo), imperatori quali Traiano e Adriano, e filosofi e letterati come, ad esempio, Seneca, Lucano e Columella.

[16] Cap. 62, 63-64, 68-69, 70-71, 80, 92.

[17] Cap. 82-83.

[18] Cap. 93.

[19] Cap. 103.

[20] Cap. 106.

[21] O. Gradenwitz, Versuch einer Dekomposition des Rubrischen Fragmenten, Heidelberg, 1915, p. 8 ss.; di parere avverso Tibiletti (“lex” 610, n. 4) e Fredericksen (“Municipal laws”, p. 190), i quali, sulla base della presenza al cap. XCV dell’espressione “quo magis … res iudicetur ex h.l.n.r.”, ipotizzano si tratterebbe di una legge votata dai comizi. Tuttavia, la predetta posizione degli studiosi è considerata poco plausibile, essendo più probabile che la legge Genetiva Iulia sia stata costruita con frammenti e capitoli di altre leggi, non completamente adattati alla situazione ed al nuovo contesto. Si veda in prosieguo. Così, ex plurimis: M. Crawford, Roman statutes, II, cit., 5.

[22] S. Riccobono, FIRA, vol. I, 177.

[23] G. Tibiletti, Sulle ‘leges’ romane, in Studi De Francisci, IV, Milano 1956, 593.

[24] A. Saccoccio, Il modello delle azioni popolari romane tra diritti diffusi e class action, in 'Actio in rem' e 'actio in personam'. In ricordo di Mario Talamanca, 2011, p. 748.

[25] A. Codacci Pisanelli, Le azioni popolari, in AG, XXXIII, 1884, p. 317 ss.

[26] Su tutti, si veda K.G. Bruns, Die römischen Popularklagen, cit., p. 408.

[27] C. Fadda, L’azione, cit., p. 320.

[28] V. Crisafulli, voce Azione popolare, in Nuovo dig. it., II, Torino, 1937, p. 138 ss.; L. Paladin, voce Azione popolare, in Noviss. dig. it, II, Torino, 1958, p. 88 ss.; A. Lugo, voce Azione popolare, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, p. 861 ss.

[29] J. Danilovic, Observations sur les ‘actiones populares’, in Studi in onore di G. Grosso, VI, Torino, p. 1974.

[30] F. Casavola, Studi sulle azioni popolari.Le “Actiones Populares”, Napoli, 1958, p. 12.

[31] F. Casavola, ibidem, cit., p. 17.

[32] Per meglio comprendere l’essenza dell’azione popolare romana, potrebbe essere utile analizzare la definizione che ne dà Ulpiano in 23 ad Ed. D.9.3.1.1 (pr. Praetor ait de his, qui deiecerint vel effuderint: "Unde in eum locum, quo volgo iter fiet vel in quo consistetur, deiectum vel effusum quid erit, quantum ex ea re damnum datum factumve erit, in eum, qui ibi habitaverit, in duplum iudicium dabo. Si eo ictu homo liber perisse dicetur, quinquaginta aureorum iudicium dabo. Si vivet nocitumque ei esse dicetur, quantum ob eam rem aequum iudici videbitur eum cum quo agetur condemnari, tanti iudicium dabo. Si servus insciente domino fecisse dicetur, in iudicio adiciam: aut noxam dedere." 1. Summa cum utilitate id praetorem edixisse nemo est qui neget: publice enim utile est sine metu et periculo per itinera commeari. 2. Parvi autem interesse debet, utrum publicus locus sit an vero privatus, dummodo per eum volgo iter fiat, quia iter facientibus prospicitur, non publicis viis studetur: semper enim ea loca, per quae volgo iter solet fieri, eandem securitatem debent habere. Ceterum si aliquando vulgus in illa via non commeabat et tunc deiectum quid vel effusum, cum adhuc secreta loca essent, modo coepit commeari, non debet hoc edicto teneri.) nell’ambito dell’actio effusis vel deiectis, in ragione della quale l’azione popolare consiste nella garanzia data, a ciascuno dei cives, di poter esercitare un diritto che è di ciascuno e di tutti, attraverso l’inflizione di una pena (chiamata a volte ultio, a volte poena o vindicta) che andava quasi sempre a beneficio dell’intera collettività.

[33] Sulle azioni popolari romane, si vedano innanzitutto: Th. Mommsen, Die Stadtrechte der Latinischen Gemeinden Salpensa und Malaca in der Provinz Baetica, in Abhandlungen der Sächsischen Gesellschaft der Wissenschaften, III, Leipzig 1855, p. 361 ss.; C. Fadda, L’azione popolare. Studio di diritto romano ed attuale, I, Parte storica - Diritto romano, Torino, p. 1894; K.G. Bruns, Die römischen Popularklagen, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte: Germanistische Abteilung III (1864), pp. 341-415; A.O. Albanese, L’azione popolare da Roma a noi, Roma, 1955.; F. Casavola, Fadda e la dottrina delle azioni popolari, in Labeo I (1955), p.131 ss.; A. Di Porto, Interdetti popolari e tutela delle ‘res in usu publico’. Linee di una indagine, in Diritto e processo nella esperienza romana. Atti del Seminario torinese (4-5 dicembre 1991 in memoria di G. Provera), Torino 1994, p. 483 ss.; M. Giagnorio, Brevi note in tema di azioni popolari, in TSDP, V, 11, 2012; M. Miglietta, voce Azione Popolare, in Enciclopedia di bioetica e scienza giuridica, I, a cura di E. Sgreccia - A. Tarantino, Napoli, 2009, p. 696 ss.; A. Saccoccio, Il modello delle azioni popolari romane, cit., p. 746 ss.

[34] Ulp. 2 ad ed. aed. cur. D. 21.1.40.1 e 42; P.S., 1.15.2, ma anche gli interdetti popolari de locis publicis, de viis deque fluminibus publicis; Lex Quinctia de aquaeductis (9 a.C.), FIRA, Leges, 153; Sc. de aquaeductibus (12 a.C.), cap. 127, FIRA, Leges, 280; Lex rivi incerta, FIRA, Negotia, 224 s.; Front., De aquaed., 127. G. Impallomeni, Appunti, dalle lezioni di storia del diritto romano, Padova, 1993, 7, secondo il quale l’esistenza di un interesse dei singoli a servirsi dei beni pubblici o in uso pubblico giustifica la centralità del ruolo del civis nella gestione di questi beni. Dello stesso avviso A. Di Porto, Interdetti popolari e tutela delle res in usu publico. Linee di un’indagine, in Diritto e processo nell’esperienza romana. Atti del seminario torinese 4-5 dicembre, 1991, Napoli, 1994, 483 ss., part. 506, il quale ha messo in evidenza come sia “proprio il ruolo del cittadino, in quanto tale, a caratterizzare, con intensità e forme differenti nelle diverse età dell’esperienza giuridica romana, il regime delle res in usu publico. A differenziarlo da quello delle altre res publicae”.

[35] M. Crawford, Roman statutes, II, cit., p. 22.

[36] Si veda, sul tema, A. Trisciuoglio, Temas de derecho administrativo romano comparado, Madrid, 2024.

[37] Sull’equivalenza del termine limes (diffuso soprattutto nella documentazione epigrafica) e quello di via per indicare le principali arterie di comunicazione stradale si veda H.E. Herzig, Probleme des römischen Straßenwesens: Untersuchungen zu Geschichte und Recht, in ANRW Il.1, 1974, p. 605 ss.

[38] Salpens. 26; Malacit. 58, 62, 67; anche in alcuni testi della compilazione giustinianea: J. 3.29.2: Est prodita stipulatio, quae vulgo Aquiliana appellatur, per quam stipulationem contingit ut omnium rerum obligatio in stipulationem deducatur et ea per acceptilationem tollatur.  stipulatio enim Aquiliana novat omnes obligationes et a Gallo Aquilio ita composita est: ‘ quidquid te mihi ex quacumque causa dare facere oportet oportebit praesens in diemve quarumque rerum mihi tecum actio quaeque abs te petitio vel adversus te persecutio est erit quodque tu meum habes tenes possides possideresve dolove malo fecisti, quo minus possideas: quanti quaeque earum rerum res erit, tantam pecuniam dari stipulatus est Aulus Agerius, spopondit Numerius Negidius. ’ item e diverso Numerius Negidius interrogavit Aulum Agerium: ‘ quidquid tibi hodierno die per Aquilianam stipulationem spopondi, si omne habesne acceptum? ’ respondit Aulus Agerius: ‘ habeo acceptumque tuli; lul. D. 46.8.23: Procurator cum peteret pecuniam, satisdedit amplius non peti: post iudicium acceptum extitit, qui et ipse procuratorio nomine eandem pecuniam peteret: quaesitum est, cum is, qui postea peteret, procurator non esset et propter hoc exceptionibus procuratoriis excludi posset, num fideiussores prioris procuratoris tenerentur. Iulianus respondit: verius est non obligari fideiussores: nam in stipulatione cavetur non petiturum eum, cuius de ea re actio petitio persecutio sit, et ratum habituros omnes, ad quos ea res pertinebit: hic autem, qui procurator non est, nec actionem nec petitionem habere intellegendus est; Ulp. D, 50.16.49: "Bonorum" appellatio aut naturalis aut civilis est. Naturaliter bona ex eo dicuntur, quod beant, hoc est beatos faciunt: beare est prodesse. In bonis autem nostris computari sciendum est non solum, quae dominii nostri sunt, sed et si bona fide a nobis possideantur vel superficiaria sint. Aeque bonis adnumerabitur etiam, si quid est in actionibus petitionibus persecutionibus: nam haec omnia in bonis esse videntur.

[39] Ad esempio: L. Mitteis, Romische privatrecht bis auf die zeit Dioclezians I, Lipsia, 1908, p. 91.

[40] C. Fadda, L’azione popolare, Roma, 1894, pp. 242 ss.

[41] Pap. 1 Def. D. 44.7.28: Actio in personam infertur: petitio in rem: persecutio in rem vel in personam rei persequendae gratia.

[42] Ad esempio: Ulp. 59 ad Ed. 50.16.178.2: "Actionis" verbum et speciale est et generale. Nam omnis actio dicitur, sive in personam sive in rem sit petitio: sed plerumque "actiones" personales solemus dicere. "Petitionis" autem verbo in rem actiones significari videntur. "Persecutionis" verbo extraordinarias persecutiones puto contineri, ut puta fideicommissorum et si quae aliae sunt, quae non habent iuris ordinarii exsecutionem.E Ulp. 59 ad Ed. 50.16.49: "Bonorum" appellatio aut naturalis aut civilis est. Naturaliter bona ex eo dicuntur, quod beant, hoc est beatos faciunt: beare est prodesse. In bonis autem nostris computari sciendum est non solum, quae dominii nostri sunt, sed et si bona fide a nobis possideantur vel superficiaria sint. Aeque bonis adnumerabitur etiam, si quid est in actionibus petitionibus persecutionibus: nam haec omnia in bonis esse videntur.

[43] J.L. Murga, Posible significacion del trinomio “actio petitio persecutio” en las leyes municipales romanas, in Estudio Alvaro D’Ors, 1987, p. 889 ss.

[44] Gai. 4.6.

[45] J.L. Murga, Posible significacion, cit., p. 910.

[46] F. Casavola, Studi sulle azioni popolari romane, Jovene, Napoli, 1958, p. 96 ss.

[47] Si veda: A. Guarino, Actio petitio persecutio, in Labeo, 12, 1966, p. 129 ss.

[48] 20. Ait praetor: "In via publica itinereve publico facere immittere quid, quo ea via idve iter deterius sit fiat, veto". 21. Viam publicam eam dicimus, cuius etiam solum publicum est: non enim sicuti in privata via, ita et in publica accipimus: viae privatae solum alienum est, ius tantum eundi et agendi nobis competit: viae autem publicae solum publicum est, relictum ad directum certis finibus latitudinis ab eo, qui ius publicandi habuit, ut ea publice iretur commearetur. 22. Viarum quaedam publicae sunt, quaedam privatae, quaedam vicinales. Publicas vias dicimus, quas Graeci Basilikas, nostri praetorias, alii consulares vias appellant. Privatae sunt, quas agrarias quidam dicunt. Vicinales sunt viae, quae in vicis sunt vel quae in vicos ducunt: has quoque publicas esse quidam dicunt: quod ita verum est, si non ex collatione privatorum hoc iter constitutum est. Aliter atque si ex collatione privatorum reficiatur: nam si ex collatione privatorum reficiatur, non utique privata est: refectio enim idcirco de communi fit, quia usum utilitatemque communem habet. 23. Privatae viae dupliciter accipi possunt, vel hae, quae sunt in agris, quibus imposita est servitus, ut ad agrum alterius ducant, vel hae, quae ad agros ducunt, per quas omnibus commeare liceat, in quas exitur de via consulari et sic post illam excipit via vel iter vel actus ad villam ducens. Has ergo, quae post consularem excipiunt in villas vel in alias colonias ducentes, putem etiam ipsas publicas esse. 24. Hoc interdictum tantum ad vias rusticas pertinet, ad urbicas vero non: harum enim cura pertinet ad magistratus. 25. Si viae publicae exemptus commeatus sit vel via coartata, interveniunt magistratus. 26. Si quis cloacam in viam publicam immitteret exque ea re minus habilis via per cloacam fiat, teneri eum Labeo scribit: immisisse enim eum videri.27. Proinde et si fossam quis in fundo suo fecerit, ut ibi aqua collecta in viam decurrat, hoc interdicto tenebitur: immissum enim habere etiam hunc videri. 28. Idem Labeo scribit, si quis in suo ita aedificaverit, ut aqua in via collecta restagnet, non teneri eum interdicto, quia non immittat aquam, sed non recipit: nerva autem Melius scribit utrumque teneri. Plane si fundus viam publicam contingat et ex eo aqua derivata deteriorem viam faciat, quae tamen aqua ex vicini fundo in tuum veniat: si quidem necesse habeas eam aquam recipere, interdictum locum habebit adversus vicinum tuum: si autem necesse non sit, non teneri vicinum tuum, te tamen teneri: eum enim videri factum habere, qui usum eius aquae habeat. Idem Nerva scribit, si tecum interdicto agatur, nihil ultra te facere cogendum, quam ut arbitratu eius qui tecum experitur cum vicino experiaris: ceterum aliter observantibus futurum, ut tenearis etiam, si iam bona fide cum vicino egeris neque per te stet, quo minus arbitratu actoris cum vicino experiaris. 29. Idem ait, si odore solo locus pestilentiosus fiat, non esse ab re de re ea interdicto uti. 30. Hoc interdictum etiam ad ea, quae pascuntur in via publica itinereve publico et deteriorem faciant viam, locum habet. 31. Deinde ait praetor: "Quo ea via idque iter deterius sit fiat". Hoc sive statim deterior via sit, sive postea: ad hoc enim pertinent haec verba "sic fiat": etenim quaedam sunt talia, ut statim facto suo noceant, quaedam talia, ut in praesentiarum quidem nihil noceant, in futurum autem nocere debeant. 32. Deteriorem autem viam fieri sic accipiendum est, si usus eius ad commeandum corrumpatur, hoc est ad eundum vel agendum, ut, cum plane fuerit, clivosa fiat vel ex molli aspera aut angustior ex latiore aut palustris ex sicca. 33. Scio tractatum, an permittendum sit specus et pontem per viam publicam facere: et plerique probant interdicto eum teneri: non enim oportere eum deteriorem viam facere. 34. Hoc interdictum perpetuum et populare est condemnatioque ex eo facienda est, quanti actoris intersit. 35. Praetor ait: "Quod in via publica itinereve publico factum immissum habes, quo ea via idve iter deterius sit fiat, restituas".

[49] Lex coloniae Genetivae: cui volet (cap. 104 linea 18, ed. Crawford); D.43.8.2.34: Hoc interdictum perpetuum et populare est.

[50] D.43.8.2.44: Interdictum hoc non esse temporarium sciendum est: pertinet enim ad publicam utilitatem.

[51] J.L. Murga, Posible significacion, cit., p. 890.

[52] Ad esempio le leges del municipio tarantino del I secolo a.C. e l'esiguo frammento di Lauriacum possiedono la maggiore vicinanza con le leggi di Baetica.

[53] J.L. Murga, Las acciones populares en la lex coloniae Genetivae Iuliae, cit., p. 155.

[54] E.G. Hardy, The lex Mamilia Roscia Peducaea Alliea Fabia, in Classical Quarterly. 1925, 185 ss. Sulla legge in esame si veda anche: D. 47.21.3 ; C.G. Haubold e E.P. Spangenberg, Antiquitatis romanae monumenta legalia, Berlin, 1830, p. 167 ss.; C. Bruns, Fontes iuris Romani antiqui, I, Tübingen, 1909, p. 95 ss., n. 15 ; G. Rotondi, Leges publicae populi Romani, Milano, 1912, p. 388 ss.; CIL I2, n. 2677; Tibiletti, Dizionario Epigrafico di Antichità romane, IV, Roma, 1957, s.v. Lex, c. 723; A. Caballos Rufino e A. Correa Rodríguez, El nuevo bronce de Osuna y la política colonizadora romana, Sevilla, 2006; S.T. Roselaar, Public Land in the Roman Republic: A Social and Economic History of Ager Publicus in Italy, 396-89 BC, Oxford, 2010, p. 269.

[55] M. Crawford, Roman statutes, II, cit., p. 764.

[56] K. Lachmann, Gromatici veteres, I, Berlin, 1848, p. 263.

[57] In particolare la diversa entità della multa, qui indicata in 4000 sesterzi per ogni violazione: cfr. la traduzione di M. Crawford, Roman statutes, II, cit., p. 765.

[58] Ipotesi diffusa sin da Savigny e seguita da Mommsen in CIL I 206; J.L. Ferrary, La découverte des lois municipales (1755-1903). Une enquète historiographique, in L. Capogrossi Colognesi, E. Gabba (edd.): Gli statuti municipali, Pavia 2006, 74 ss. La teoria è stata poi riproposta, in occasione del rinvenimento della lex Irnitana, da A. D’Ors, La nueva copia irnitana de la lex Flavia municipalis, in Anuario de Historia del Derecho Español, 1983, p. 21 ss., con ampio seguito: per tutti J. González e M. Crawford, The lex Irnitana. A new copy of the Flavian municipal law, in Journal of Roman Studies, 1986, 76; A. D’Ors, Lex Irnitana: texto bilingüe, Santiago de Compostela, 1988, p. 8 ss.; M. Talamanca, Il riordinamento augusteo del processo privato, in F. Milazzo (ed.): Gli ordinamenti giudiziari di Roma imperiale. Princeps e procedure dalle Leggi Giulie ad Adriano, in Atti Copanello 1996, Napoli, 1998, p. 206 ss.; nel senso di una lex municipalis di base per le comunità iberiche di epoca flavia J. Wolf, Die Lex Irnitana. Ein römisches Stadtrecht aus Spanien. Lateinisch und Deutsch, Darmstadt, 2011, p. 20 ss.

[59] CIL V 2864 = AE 2018, 27 = EDR 178197: M. Iunius Sabinus, IIvir aediliciae potestat(is) e lege Iulia municipali patronus collegi centonariorum frontem templi vervis et hermis marmoreis (...) ornavit.

[60] Tra tutti si veda l’analisi di S. Sisani, Le istituzioni municipali: legislazione e prassi tra il I secolo a.C. e l’età flavia, in L. Capogrossi Colognesi, E. Lo Cascio, E. Tassi Scandone (edd.): L’Italia dei Flavi, Roma, 2016, p. 9 ss.

[61] F. Lamberti, Statuti municipali delle comunità provinciali: l’età imperiale, inLe strutture locali dell’Occidente romano”, Atti del I Seminario Italo-Spagnolo Diuturna Civitas (L’Aquila, 4-6 maggio 2022), L’Aquila, 2022, 241. Si veda anche: H. Galsterer, Die römischen Stadtgesetze, in L. Capogrossi Colognesi, E. Gabba (edd.): Gli statuti municipali, Pavia, 2006, p. 34: “Wie das Edikt der Prätoren oder der Aedilen in Rom verloren auch die Stadtgesetze im Lauf der Zeit immer mehr die lokale Individualität, die sie früher wohl besessen hatten, und wurden immer mehr tralatizisch, von einem Gesetz in das nächste übernommen. Die Stadtrechte der flavischen latinischen Munizipien in Spanien stellten sich mit der Publikation der lex Irnitana und immer weiterer Fragmente als weitgehend getreue Kopien einer Vorlage heraus (...)”

[62] F. Lamberti, Statuti municipali, cit., p. 243.

[63] Altre previsioni di gestione del territorio cittadino, ad uso pubblico, si trovano contenuta nei capp. LXXVI e LXXVII, sebbene non prevedano l’azione popolare: LXXVI // figlinas teg(u)larias maiores tegularum CCC tegu/lariumq(ue) in oppido colon(ia) Iul(ia) ne quis habeto qui / habuerit it{a} aedificium isque locus publicus / colon(iae) Iul(iae) esto eiusq(ue) aedificii quicumque in c(olonia) / G(enetiva) Iul(ia) i(ure) d(icundo) p(raeerit) s(ine) d(olo) m(alo) eam pecuniam in publicum redigito //  Più discutibile potrebbe essere la sanzione contenuta nel presente cap. 76 della lex coloniae, che, secondo Mommsen, sarebbe stata attribuita anche attraverso un’azione popolare, sebbene ciò non sia chiaramente indicato nella legge. Il capitolo LXXVI sancisce, infatti, che nessuno all’interno della colonia possa avere una fabbrica di tegole, le cui dimensioni permettano la produzione di più di trecento tegole al giorno. Se qualcuno avesse violato tale disposizione, l’edificio ed il terreno su cui è costruito, sarebbero diventati pubblici. In particolare, giova segnalare il meccanismo di accusa: qualunque cittadino della colonia avrebbe potuto adire il magistrato e reclamare la proprietà dell’edificio stesso, pagando il giusto prezzo che verrà stabilito. Difficile, trovare la ratio che si sottende alla concessione di un’azione per una questione che apparentemente riguarda la produzione industriale: forse si voleva così evitare che ci fossero posizioni di preminenza produttiva oppure, si potrebbe ipotizzare una ragione inerente la gestione e l’occupazione del territorio. Come è noto, il laterizio romano era fabbricato con argilla, decantata, depurata in acqua e sgrassata con l'aggiunta di sabbia, secondo un processo simile a quello utilizzato per la ceramica, in particolare per l'uso comune come le anfore da trasporto o le tegole; la forma desiderata veniva successivamente ottenuta lavorando l'argilla così preparata con stampi in legno. Dopo tali procedimenti, i laterizi venivano lasciati seccare per alcuni giorni in ampie zone, mantenendoli al riparo dal sole, prima di essere cotti in fornaci a temperature fino a 1000 gradi. Può darsi che la previsione dell’azione popolare, legata ad un limite di produzione (300 tegole al giorno), volesse impedire che si realizzasse un’esagerata occupazione del suolo della colonia, per la lavorazione dei laterizi, i quali ovviamente necessitavano di ampi spazi dedicati all’essiccazione degli stessi. La successiva previsione di legge stabilisce che se un duumviro o un edile desidera, nell’interesse pubblico, modificare in qualunque modo, scavare o costruire o pavimentare strade, argini o fogne all'interno dei confini appartenenti alla colonia, gli sarà lecito a condizione che non venga arrecato alcun danno ai cittadini ed ai loro possedimenti: LXXVII // si qus vias fossas cloacas IIvir aedil(is)ve publice / facere inmittere commutare aedificare mu/nire intra eos fines qui colon(iae) Iul(iae) erunt volet / quot eius sine iniuria privatorum fiet it(!) is face/re liceto //

Invece, il cap. Cap. LXXXXIII prevede un’azione popolare che probabilmente era anch’essa a tutela della gestione corretta e lecita del territorio cittadino: Quicumque IIvir post coloniam deductam factus creatusve erit quive praefectus qui ab IIviro e lege huius coloniae relictus erit, is de loco publico neve pro loco publico neve ab redemptore mancipe praedeve donum munus mercedem aliutve quid capito* neve accipito neve facito, quo quid ex ea re at se suorumve quem perveniat. Qui adversus* ea fecerit, is HS CCICC CCICC colonis coloniae Genetivae Iuliae dare damnas esto, eiusque pecuniae cui volet petitio persecutioque esto. Il contenuto della previsione del capitolo è il seguente: nessun duumviro nominato o creato dopo l'istituzione della colonia e nessun prefetto lasciato in carica da un duumviro in conformità con lo statuto della colonia potrà ricevere o accettare, per quanto riguarda il suolo pubblico o per il suolo pubblico, da un appaltatore, o da un affittuario, o da un fideiussore qualsiasi dono, o regalo, o compenso, o qualsiasi altro favore; né potrà fare in modo che tali favori siano elargiti a se stesso o a qualcuno del suo personale. Chiunque agisca in violazione di questo regolamento sarà condannato a pagare ai coloni della colonia Genetiva Julia 20.000 sesterzi e potrà essere citato in giudizio e perseguito da chiunque per tale importo.

[64] Si veda ad esempio: AA.VV., Viae Publicae Romanae, Roma, 1991; P.A. Gianfrotta, Le vie di comunicazione, in Storia di Roma, vol. IV, Torino, 1989, p. 301 ss.; Pace, La Viabilità, in Guida allo Studio della civiltà Romana Antica, a cura di V. Ussani e F. Aranaldi, vol. I, Napoli, 1959, p. 616 ss; M.T. Morrone, s.v. “Strade” (Diritto Romano), in Novissimo digesto italiano XVIII (Torino, 1971), p. 470 ss.; G. Lugli, Itinerari di Roma antica, Milano, 1970, p. 112 ss.; P. Tozzi, Per la identificazione di tratti di vie Romane, in Atheneum, vol. LIV, 1976; D.Van Berchem, Les Routes et l’Histoire, Genève, 1982; R. Chevallier, Les voies romaines, Paris, 1997; V. Ponte, Règimen jurìdico de las vìas pùblicas en Derecho Romano, Madrid, 2007, p. 47 ss.

[65] Varr. De ling. Lat. 5.4

[66] N. De Marco, I loci pubblici dal I al III secolo, Napoli, 2004, p. 140.

[67] La misura della larghezza di una sia cui fa riferimento Paolo ripropone una disposizione delle XII Tavole sancita in D.8.3.8 (Gai. 7 Ad Ed. prov.): Viae latitudo ex lege duodecim tabularum in porrectum octo pedes habet, in afractum, id est ubi flexum est, sedecim.

[68] Per la dottrina, su D. 43.8.2.22, si veda: P. Bonfante, Corso di diritto romano, Milano, 1963, p. 88 ss. e 88 nt. 3; M.T. Morrone, s. v. Strade, 469 ss.; A. Palma, Le strade romane nelle dottrine giuridiche e gromatiche dell'età del principato, Napoli, 1982, p. 287 ss.

[69] A. Saccoccio, Il modello cit., p. 759.

Colombo Francesco Edoardo Maria



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