Brief notes on the compensatio ipso iure under Justinian

Note minime sulla compensatio ipso iure giustinianea

27.12.2022

Enrico Sciandrello*

 

Note minime sulla compensatio ipso iure giustinianea**

 

English title: Brief notes on the compensatio ipso iure under Justinian

DOI: 10.26350/18277942_000099

 

Sommario: 1. La compensatio ipso iure giustinianea secondo gli ultimi approdi dottrinali. 2. Il regime della compensazione precedente alla riforma del 531: differenze tra azioni di buona fede e azioni di stretto diritto. 3. (Segue): C. 7.45.14 e i poteri del giudice in ordine alla res iudicanda. 4. La compensatio ipso iure nel quadro normativo di riferimento. Spunti di riflessione conclusivi.

 

1. La compensatio ipso iure giustinianea secondo gli ultimi approdi dottrinali

 

In un articolo di poco posteriore alla pubblicazione del volume intitolato La compensation. Analyse historique et comparative des modes de compenser non conventionnels (Fribourg 2001) Pascal Pichonnaz[1], mettendo ulteriormente a frutto i risultati del suo lavoro monografico, si soffermava sul significato da attribuire all’espressione ‘ipso iure’ ricorrente nei passi della compilazione giustinianea, che attestano le innovazioni recate alla disciplina della compensazione dallo stesso Giustiniano. Le ricerche dello studioso svizzero[2] rappresentano il punto di arrivo di una tradizione interpretativa plurisecolare formatasi all’indomani della riscoperta del Corpus iuris in età medievale e che, com’è noto, ha visto fin da subito contrapporsi due teorie: una per la quale l’uso delle parole ‘ipso iure’ avrebbe fatto riferimento ad un meccanismo di compensazione automatica (‘sine facto hominis’), l’altra secondo cui, invece, sarebbe stata in ogni caso necessaria l’opposizione in giudizio dell’interessato[3]. Naturalmente non intendo ripercorrere in questa sede il lungo dibattito che ha accompagnato la lettura dei passi della compilazione giustinianea dall’età intermedia fino ai giorni nostri[4]; d’altro canto, mi pare utile osservare come, specialmente a partire dagli studi condotti intorno alla metà dell’Ottocento, si registri un tentativo da parte della dottrina di conciliare le due opposte visioni emerse in seno alla scuola bolognese dei glossatori[5]. In quest’ottica, pertanto, si comprende la traiettoria che ha portato la letteratura più recente a discostarsi dall’idea, a lungo dominante, che la riforma giustinianea avesse introdotto un regime di compensazione automatica.

Prima di ogni altra considerazione, però, occorre riportare i testi intorno ai quali ruota la presente indagine; si vedano dunque:

 

C. 4.31.14 (Imp. Iustinianus A. Iohanni pp.): pr. Compensationes ex omnibus actionibus ipso iure fieri sancimus nulla differentia in rem vel personalibus actionibus inter se observanda. 1. Ita tamen compensationes obici iubemus, si causa ex qua compensatur liquida sit et non multis ambagibus innodata, sed possit iudici facilem exitum sui praestare. Satis enim miserabile est post multa forte variaque certamina, cum res iam fuerit approbata, tunc ex altera parte, quae iam paene convicta est, opponi compensationem iam certo et indubitato debito et moratoriis ambagibus spem condemnationis excludi. Hoc itaque iudices observent et non procliviores in admittendas compensationes existant nec molli animo eas suscipiant, sed iure stricto utentes, si invenerint eas maiorem et ampliorem exposcere indaginem, eas quidem alii iudicio reservent, litem autem pristinam iam paene expeditam sententia terminali componant: excepta actione depositi secundum nostram sanctionem, in qua nec compensationi locum esse disposuimus. 2. Possessionem autem alienam perperam occupantibus compensatio non datur. (D. k. Nov. Constantinopoli post cons. Lampadii et Orestis vv. cc.) [a. 531].

 

e

 

I. 4.6.30: In bonae fidei autem iudiciis libera potestas permitti videtur iudici ex bono et aequo aestimandi, quantum actori restitui debeat. In quo et illud continetur, ut, si quid invicem actorem praestare oporteat, eo compensato in reliquum is cum quo actum est condemnari debeat. Sed et in strictis iudiciis ex rescripto divi Marci opposita doli mali exceptione compensatio inducebatur. Sed nostra constitutio eas compensationes, quae iure aperto nituntur, latius introduxit, ut actiones ipso iure minuant sive in rem sive personales sive alias quascumque, excepta sola depositi actione, cui aliquid compensationis nomine opponi satis impium esse credidimus, ne sub praetextu compensationis depositarum rerum quis exactione defraudetur.

 

Secondo Pichonnaz[6], «quando Giustiniano dice che ‘compensationes ex omnibus actionibus ipso iure fieri’ (C. 4.31.14 pr.) o ‘ut actiones ipso iure minuant’ (inst. 4.6.30 in fine), non solo non innovava per il fatto di utilizzare l’espressione ‘ipso iure’, ma nemmeno introduceva un regime di compensazione automatica. Giustiniano utilizzò l’espressione ‘ipso iure’ nel suo senso classico, sottolineando che il diritto stesso imponeva al giudice di operare la compensazione, senza che fosse necessario invocarla formalmente all’inizio della procedura». E ancora: «sotto Giustiniano, la compensazione presupponeva una comparsa difensiva avente forma di obbiezione (exceptio) per costringere il giudice ad esaminare il controcredito».

A sostegno di questa affermazione, volta appunto a contrastare la communis opinio secondo cui Giustiniano avrebbe introdotto una sorta di compensazione legale, l’autorevole studioso adduce una serie di argomenti[7], che possono così riassumersi.

Innanzitutto, la procedura extra ordinem avrebbe consentito l’opposizione di un’eccezione di compensazione, a prescindere dal tipo di azione esercitata, il che avrebbe finito per generalizzare la soluzione accolta nel processo formulare per le azioni di buona fede («argomento procedurale»). In secondo luogo, l’espressione “… compensationes obici iubemus, si …”, utilizzata in C. 4.31.14.1, costituirebbe una spia della necessità per il convenuto di obbiettare l’esistenza di un controcredito, al fine di consentire al giudice di operare la compensazione («argomento letterale»)[8]. Un altro aspetto attiene alla circostanza per cui Giustiniano, collegando il requisito della pronta liquidità del controcredito al discorso sulla possibilità di invocare la compensazione anche nelle battute conclusive del processo, non avrebbe ammesso un’estinzione automatica dei crediti e debiti reciproci, ma lasciato al giudice la valutazione sull’opportunità di esaminare in un secondo processo la richiesta del convenuto («argomento teleologico»). Parrebbe poi inconciliabile con la pretesa innovazione giustinianea il fatto che nel Digesto siano stati accolti testi nei quali non risulta soppresso il riferimento alla necessità di opporre un’eccezione per procedere a compensazione[9] («argomento sistematico»). Infine, sarebbe difficile pensare ad una deviazione di rotta così radicale da parte di Giustiniano, tale da porsi in contrasto con la pratica della sua epoca e, comunque, non avente un fondamento classico, se non nel caso dell’argentarius, le cui peculiarità erano però riconducibili al contesto formulare ormai ampiamente superato al tempo dell’Imperatore («argomento dedotto dal classicismo di Giustiniano»).

A prescindere da ogni valutazione su ciascuno dei cinque argomenti messi in campo da Pichonnaz[10], mi pare che si possa condividere l’impostazione complessiva della questione, che del resto non ha ricevuto particolari critiche da parte della dottrina successiva[11].

Appare plausibile, ad esempio, che l’intervento giustinianeo si risolvesse, a conti fatti, in una generalizzazione del regime classico delle azioni di buona fede: tale impressione si ricava, in particolare, dalla lettura del brano delle Istituzioni imperiali, che allude alla disciplina della compensazione precedente alla costituzione del 531, ancora imperniata sulla distinzione tra azioni di buona fede e azioni di stretto diritto, così come in epoca formulare. A questo proposito vale la pena di ricordare un altro passaggio della proposta ricostruttiva di Pichonnaz[12], per il quale la compensazione nell’ambito dei giudizi di stretto diritto avrebbe operato attraverso due distinte modalità, a seconda che la cornice processuale fosse quella formulare oppure della cognitio extra ordinem. Nel primo caso la sola prospettazione dell’impiego di un’exceptio doli da parte del convenuto, al fine di segnalare l’esistenza di un controcredito nei confronti dell’attore, avrebbe indotto quest’ultimo a tenere autonomamente conto della differenza tra le due pretese ed a chiedere soltanto il valore residuo, onde scongiurare la perdita definitiva della lite conseguente all’accertamento positivo del fatto dedotto nell’eccezione; nel contesto cognitorio, invece, l’accoglimento dell’exceptio non avrebbe prodotto lo stesso effetto, essendo possibile per il giudice condannare il convenuto alla differenza[13].

Su quest’ultimo versante lo studioso scorge una tendenza alla diffusione in epoca tardoantica della disciplina formatasi in seno alla cognitio extra ordinem, tale da condurre al superamento della distinzione tra il regime delle azioni di buona fede e quello delle azioni di stretto diritto[14]. In questo modo, dunque, la compensazione si sarebbe realizzata sempre attraverso l’uso di un’eccezione, che «non aveva più un significato tecnico, ma equivaleva ad una semplice obbiezione»[15]. D’altronde, proprio questo aspetto consente di cogliere il senso dell’affermazione per cui con Giustiniano si arriva, in materia di compensazione, ad una generalizzazione del regime classico delle azioni di buona fede: come già nei iudicia bonae fidei di epoca formulare, difatti, il convenuto non avrebbe dovuto fare altro che segnalare informalmente l’esistenza di un controcredito, affinché il giudice potesse prenderne atto e, nel caso, compensarlo con quello vantato dall’attore.

Nell’ambito di questa ricostruzione l’unico elemento su cui, a mio avviso, residua un margine di incertezza riguarda il presunto superamento della distinzione tra azioni di buona fede e azioni di stretto diritto, partizione alla quale i giustinianei sembrano attribuire ancora un certo peso, non fosse altro perché alla categoria delle actiones bonae fidei viene dedicato un significativo spazio nelle Institutiones (I. 4.6.28-30)[16]. Certo non è semplice stabilire in che modo questa distinzione si riflettesse sul piano strettamente applicativo[17]; il testo di I. 4.6.30 non offre indizi decisivi al riguardo, ma permette di osservare come, al tempo della compilazione delle Istituzioni, la questione relativa alle azioni di stretto diritto potesse dirsi ormai superata, visto l’uso del verbo all’imperfetto per indicare la compensazione attuata tramite l’exceptio doli (“in stricti iuris iudiciis ex rescripto divi Marci opposita doli mali exceptione compensatio inducebatur”).

Qualche elemento in più emerge dalla Parafrasi greca delle Istituzioni[18], che descrive una situazione per certi versi simile a quella del processo formulare, poiché si evidenzia la differenza concernente il potere del giudice di effettuare la compensazione a seconda che l’azione sia di buona fede o di stretto diritto: nel primo caso ciò discende dalla natura dell’azione, nel secondo è necessario l’impiego dell’exceptio doli così come previsto nel rescritto di Marco Aurelio. Ma è sul piano delle regole generali di funzionamento del processo civile giustinianeo che bisogna provare a comprendere in quale modo il giudice, prima delle novità introdotte con la riforma del 531, potesse operare la compensazione in queste due categorie di azioni.

 

  1. Il regime della compensazione precedente alla riforma del 531: differenze tra azioni di buona fede e azioni di stretto diritto

 

Pur essendo «l’exceptio ormai ridotta al rango di semplice affermazione difensiva»[19], nel processo civile del VI secolo è possibile scorgere una qualche utilità legata alla denominazione della singola eccezione, specialmente quando questa serviva ad individuare un fatto (o una tipologia di fatti) la cui esistenza doveva essere oggetto di allegazione da parte del convenuto, al fine di dimostrare l’infondatezza della pretesa[20]. Data questa premessa, occorre domandarsi entro quali limiti venisse concesso al giudice un potere suppletivo con riferimento alle carenti allegazioni del convenuto, visto che l’attività istruttoria avrebbe potuto far emergere circostanze impeditive dell’accoglimento della pretesa attorea.

Appare evidente come tale aspetto risulti di fondamentale importanza per rintracciare le differenze tra le azioni di buona fede e quelle di stretto diritto, con specifico riguardo al meccanismo della compensazione, nel periodo precedente alle riforme giustinianee sul punto. Se, ad esempio, il potere del giudice non avesse incontrato alcun limite, allora è chiaro che non avrebbe avuto senso prospettare una diversa modalità di opposizione della compensazione nelle due categorie di azioni: in qualunque caso il giudice avrebbe potuto sostituirsi alla parte interessata, tenendo conto di fatti emersi nel corso dell’attività istruttoria.

Una possibile risposta al nostro interrogativo è stata formulata da Ugo Zilletti[21], partendo dal testo di una nota costituzione conservata in C. 2.10(11).1 e dal relativo commento dei giuristi bizantini. Si vedano, dunque,

 

C. 2.10(11).1: (Impp. Diocletianus et Maximianus AA. ad Honoratum): Non dubitandum est iudici, si quid a litigatoribus vel ab his qui negotiis adsistunt minus fuerit dictum, id supplere et proferre, quod sciat legibus et iuri publico convenire. (S. XVI k. Mart. Diocletiano IIII et Maximiano III AA. conss.) [a. 290].

 

e

 

Sch. 2 ad Bas. 8.1.43 (Heimb. I, 358; Schelt. B. I, 91): Θεοδώρου. Ἑρμηνεία. Τὰπαραλελειμμένατοῖςμέρεσινόμιμαδηλονότι, καὶοὐφάκταἀναπληροῖὁδικάζων. Ἀνάγνωθιβιβ. γ´. τιτ. α´. διατ. γ´. (9?) καὶβιβ. ζ´. τιτ. ξβ´. διατ. λθ´.

 

Come si evince dalla lettura combinata dei due testi, il potere suppletivo del giudice previsto dalla lex dioclezianea[22] viene interpretato da Teodoro in senso restrittivo, ossia limitatamente all’integrazione delle «deficienze giuridiche delle allegazioni delle parti», con esclusione quindi delle «omissioni concernenti il fatto»[23].

Una visione parimenti restrittiva sembra essere quella di Taleleo, il quale riconduce alla costituzione dioclezianea il potere del giudice di ristabilire la ratio iuris ignorata o alterata dalle parti nelle loro allegazioni:

 

Sch. 3 ad Bas. 8.1.43 (Heimb. I, 358; Schelt. B. I, 91): Θαλελαίου. Πολλάκιςσυνήγοροῦντέςτινεςὑπόθεσιντὸμὲνάληθὲςνόμιμονἀγνοοῦσινἢεἰδότεςἀποκρύπτονται, ἄλλαδέτιναἔξωτῆςἀληθείαςδικαιολογοῦνται. Ἐπὶτῶντοιούτωντοίνυνθεμάτωνἡπαροῦσαδιάταξιςἐπιτρέπειτῷδικαστῇτὰἐλλιπῶςεἰρημένατοῖςσυνηγόροιςἀποπληροῦνκαὶἐκείνηνἐκφέρειντὴνἀπόφασιν, ἣνοἶδενόμοιςκαὶτῷδικαίῳγνωριζομένην.

 

Come già osservato dallo stesso Zilletti[24], Taleleo insiste qui sulla sentenza come strumento a disposizione del giudice per esprimere il suo potere suppletivo rispetto alle erronee o lacunose allegazioni delle parti; la testimonianza di Teodoro precedentemente richiamata, invece, attraverso il rinvio a C. 3.1.9 e C. 7.62.39, ricorda come tale potere si esplichi anche in altre fasi del procedimento. In questa sede possiamo tralasciare C. 7.62.39[25], che riguarda l’appello, e soffermarci brevemente su C. 3.1.9 relativo all’attività istruttoria:

 

C. 3.1.9 (Imp. Constantinus A. ad Maximum): Iudices oportet imprimis rei qualitatem plena inquisitione discutere et tunc utramque partem saepius interrogare, ne quid novi addere desiderent, cum hoc ipsum ad alterutram partem proficiat, sive definienda causa per iudicem sive ad maiorem potestatem referenda sit. (D. prid. id. Ian. Sirmi Crispo II et Constantino II CC. conss.) [a. 321].

 

Il testo in esame, che, com’è noto, rappresenta una sintesi di quello più esteso conservato in C.Th. 2.18.1[26], evidenzia il ruolo del giudice nell’istruzione della qualitas rei attraverso l’interrogatorio delle parti finalizzato all’integrazione delle rispettive allegazioni, qualora esse lo desiderino. Tale potere-dovere, espressione dell’officium iudicis, incontra un limite nella disponibilità dell’oggetto del processo da parte dei litiganti, ai quali è pur sempre rimessa la decisione finale sull’opportunità di aggiungere nuovi elementi alla causa. Il giudice ha, perciò, il compito di stimolare le parti a precisare i contenuti delle rispettive allegazioni, se del caso, invitandole anche ad eventuali integrazioni, ma senza sostituirsi ad esse in quest’ultima attività; tutto ciò al fine di svolgere un’istruttoria il più possibile completa e, come tale, utile ad entrambe le parti in vista della decisione finale o dell’invio ad una corte di rango superiore[27].

In un’ottica di confronto con C. 2.10(11).1[28], così come suggerito da Teodoro, emerge, dunque, che il giudice, pur disponendo di strumenti efficaci per assicurare la qualitas rei, non è investito di alcun potere suppletivo in ordine all’integrazione degli elementi di fatto mancanti nelle allegazioni delle parti, le quali, stimolate attraverso domande rivolte loro ripetutamente (‘saepius’), sono le uniche a poter aggiungere qualcosa di nuovo (‘quid novi addere’). La soluzione è opposta, invece, per quanto riguarda le allegazioni iuris, sulle quali il giudice può intervenire liberamente in funzione suppletiva.

Tornando al problema da cui siamo partiti, ossia la distinzione sul piano applicativo tra azioni di buona fede e azioni di stretto diritto, occorre domandarsi se le regole concernenti i poteri del giudice in ordine alle allegazioni delle parti potessero subire dei temperamenti a seconda del tipo di azione esperita. Ancora una volta va attribuito allo Zilletti[29] il merito di aver individuato una testimonianza decisiva nell’ambito degli scritti della tradizione bizantina; si tratta di:

 

Sch. 4[30] ad Bas. 42.1.58 (Heimb. IV, 237; Schelt. B. VI, 2569): Σημείωσαι, ὅτιὁδικαστὴς <τὰς> τῶνλιτιγατόρωνδικαιολογίαςἀναπληροῖ, κἂνπρὸςφάκτονὁρῶσιν. Ἐν γὰρ τῷ β´. (10) τιτ. τοῦ β´. βιβ. τοῦ Κωδ. φησίν, ὅτι ὁ δικαστὴς ἀναπληροῖ τὰ πρὸς νόμον ἐλλιπῶς λεχθέντα τῷ λιτιγατόρι ἢτῷ συνηγόῳ.

 

Il commento, forse attribuibile alla mano di Stefano[31], trae origine dalla soluzione accolta per un caso descritto in D. 5.3.58[32], dove è esclusa la necessità di impiego dell’exceptio doli (generalis) da parte di un convenuto con la hereditatis petitio, per far valere ragioni tutelabili mediante un semplice rinvio all’officium iudicis[33]. A questo riguardo il maestro bizantino osserva che il giudice può effettuare un intervento suppletivo (evidentemente rispetto alla mancata proposizione dell’exceptio doli), benché ciò riguardi un fatto la cui allegazione dovrebbe essere nella disponibilità del convenuto. Il commento si chiude poi con il richiamo alla costituzione dioclezianea conservata in C. 2.10(11).1, su cui poggia il riconoscimento in capo al giudice di poteri suppletivi con riguardo alle allegazioni iuris.

Ritengo condivisibile l’idea, avanzata dallo Zilletti[34], che l’elemento in grado di giustificare la deviazione rispetto alla regola generale stabilita in C. 2.10(11).1 fosse rappresentato, secondo il commentatore bizantino, dall’inclusione della petizione di eredità nella categoria delle azioni di buona fede[35]. In effetti non sembra che si possa spiegare altrimenti tale estensione dell’officium iudicis, tanto più se si considera che ciò corrisponde perfettamente alla logica di I. 4.6.30[36], nella parte in cui si descrive il regime della compensazione precedente alle innovazioni giustinianee sul punto.

Sempre in tema di hereditatis petitio va poi segnalato un altro scolio, che conferma il contenuto di quello riportato poc’anzi, in quanto viene prevista la possibilità per il giudice di sostituirsi al convenuto nelle allegazioni di fatti normalmente disponibili mediante l’impiego dell’exceptio doli; in questo caso non sembrano sussistere dubbi sulla riconducibilità della testimonianza a Stefano[37]:

 

Sch. 3 ad Bas. 42.1.38 (Heimb. IV, 228; Schelt. B. VI, 2557): ΠρόσκειταιεἰςτὸΠλάτος ‘καὶτοῦτοὀφφικίῳτοῦδικάζοντος, ὥστεοὐδὲνἀνάγκητὸνμαλαφίδενομέαδόλουπαραγραφὴνἀντιτιθέναιτῷπετίτορι’, καίφησινἡπαραγραφή· ὥστεκἂνἀπετάξαντοτὰμέρηταῖςδικαιολογίαιςαὐτῶνοὕτως, ὥστεμὴτοὺςλεγομένουςἀναπληρωτικοὺςλιβέλλουςδύνασθαιλοιπόντινααὐτῶνἐπιδιδόναι, καὶοὕτωδύναταιὁδαπανήσαςὑπομιμνήσκεινπερὶτῶντοιούτωνδαπανῶντὸνδικαστήν. Βλέπεγάρ, τίἐπιφέρειὁΠαῦλος, ὅτιἐπὶτούτωνοὔτεπαραγραφῆςδεῖταιὁῥέος, ἀλλ’ὀφφίκιόνἐστιτοῦδικάζοντοςλόγοντῆςτοιαύτηςδαπάνηςποιεῖσθαι.

 

Lo scoliaste non menziona l’avvenuto inserimento della petizione di eredità tra le azioni di buona fede, ma, richiamando il testo di D. 5.3.38[38], evidenzia l’inutilità di dover ricorrere all’eccezione di dolo da parte del convenuto per ottenere il rimborso delle spese effettuate sui beni ereditari.

Grazie a queste testimonianze siamo dunque in grado di rispondere positivamente alla domanda posta in precedenza: i poteri del giudice relativi all’integrazione delle allegazioni delle parti erano effettivamente suscettibili di qualche modifica a seconda che l’azione fosse di stretto diritto oppure di buona fede; in quest’ultimo caso, difatti, l’espansione dell’officium iudicis avrebbe reso inutile l’impiego dell’exceptio doli per segnalare un fatto impeditivo della domanda.

Dal punto di vista che qui interessa, ossia quello del regime della compensazione al tempo di Giustiniano, tutto ciò significa che la situazione antecedente alle sue riforme era ancora basata sulla distinzione, per nulla trascurabile sul piano applicativo, tra azioni di buona fede e azioni di stretto diritto e, quindi, tra considerazione dei controcrediti ‘officio iudicis’ e ‘opposita doli mali exceptione’. Questo dato, oltre a rappresentare una conferma di ciò che traspare dalla prima parte di I. 4.6.30, consente di valutare appieno la portata dell’opera riformatrice di Giustiniano, volta a superare tale distinzione attraverso la generalizzazione di una modalità di compensazione corrispondente a quella prevista per le azioni di buona fede.

Chiarito definitivamente questo aspetto, possiamo tornare alla questione iniziale concernente l’individuazione del significato dell’espressione ‘ipso iure’ in C. 4.31.14 e I. 4.6.30. Prima di abbozzare qualsiasi ipotesi, però, occorre completare il quadro degli elementi a nostra disposizione, provando a rintracciare nella legislazione giustinianea anteriore alla costituzione del 531 le ragioni che spinsero l’Imperatore a riformare la compensazione secondo la prospettiva indicata.

 

  1. (Segue): C. 7.45.14 e i poteri del giudice in ordine alla res iudicanda

 

Tra le costituzioni emanate da Giustiniano nei primi anni del suo regno quella di maggior interesse per la presente indagine è conservata in

 

C. 7.45.14 (Imp. Iustinianus A. Demostheni pp.): Cum Papinianus summi ingenii vir in quaestionibus suis rite disposuit non solum iudicem de absolutione rei iudicare, sed ipsum actorem, si e contrario obnoxius fuerit inventus, condemnare, huiusmodi sententiam non solum roborandam, sed etiam augendam esse sancimus, ut liceat iudici vel contra actorem ferre sententiam et aliquid eum daturum vel facturum pronuntiare, nulla ei opponenda exceptione, quod non competens iudex agentis esse cognoscitur. Cuius enim in agendo observavit arbitrium, eum habere et contra se iudicem in eodem negotio non dedignetur.

 

Preliminarmente occorre rilevare come sussista qualche incertezza circa l’esatta collocazione cronologica di questo provvedimento, visto che l’unica notizia al riguardo ci viene offerta da un ms. Pistoriensis, che lo fa risalire al 530, data però inconciliabile con l’invio a Demostene attestato nell’inscriptio, motivo per il quale Krüger[39] e, sulla sua scia, la dottrina successiva[40] ne hanno ipotizzato l’emanazione lo stesso giorno (30 ottobre 529) della precedente lex 13[41], indirizzata al medesimo praefectus praetorio. Seguendo questa ipotesi, vi sarebbe una coincidenza per quanto riguarda la data di emanazione, oltre che con C. 7.45.13 – da Krüger considerata addirittura iungenda a C. 7.45.14[42] –, con un gruppo di altri tredici testi accolti nel Codex[43].

Tra questi, vale la pena ricordarlo, vi è pure C. 4.34.11[44], con cui Giustiniano vietò la compensazione nei casi di actio depositi[45], provvedimento evocato sia in C. 4.31.14.1 (‘… excepta actione depositi secundum nostram sanctionem, in qua nec compensationi locum esse disposuimus’), sia in I. 4.6.30 (‘… excepta sola depositi actione, cui aliquid compensationis nomine opponi satis impium esse credidimus, ne sub praetextu compensationis depositarum rerum quis exactione defraudetur’). Ciò costituisce, di per sé, una prova difficilmente controvertibile del fatto che, già due anni prima dell’emanazione della lex conservata in C. 4.31.14, Giustiniano avesse riservato alla compensazione un’attenzione particolare nell’ambito dei suoi interventi in materia di amministrazione della giustizia. La ragione di questo interesse sembra potersi rintracciare nell’idoneità della compensazione a fungere da strumento efficace per il perseguimento congiunto di obiettivi quali la celerità della risoluzione delle controversie e l’accertamento della veritas rei, tenuti in particolare considerazione nella legislazione giustinianea[46].

Su questo piano si colloca anche la disposizione di C. 7.45.14, in cui si affronta il problema della possibile condanna dell’attore alla luce di un intervento, di più ampia portata, sul rapporto tra domanda e sentenza[47]. Dal testo della costituzione emerge come la cancelleria giustinianea abbia voluto porre fine ad una situazione di incertezza, risalente con tutta probabilità all’epoca tardo-classica, visto il richiamo iniziale all’opinione di Papiniano[48]; la regola stabilita è quella per cui deve essere consentito al giudice di pronunciarsi anche contra actorem, senza che gli si possa opporre eccezione di incompetenza, dal momento che chi promuove l’azione in giudizio deve accettare il rischio non solo di non vedere accolta la propria pretesa, ma addirittura di subire la condanna a dare o fare qualcosa in favore del convenuto.

La portata dirompente della norma, come giustamente osservato in dottrina[49], va ravvisata nell’attribuzione al giudice del potere di condannare l’attore, qualora dagli atti della causa emergano elementi di responsabilità a suo carico, a prescindere da una espressa allegazione del convenuto volta a legittimare la proposizione di una domanda riconvenzionale o l’opposizione in compensazione di un credito maggiore rispetto a quello preteso dall’avversario[50]. Sappiamo come il giudice, in fase di interrogatorio, potesse sollecitare le parti all’integrazione delle rispettive allegazioni e, quindi, acquisire nuovi elementi per l’istruzione della causa, ma tale aspetto non viene in alcun modo richiamato in C. 7.45.14: pertanto, il giudice risulta in ogni caso investito delle contropretese del convenuto, sulle quali può pronunciarsi quando ne emergano i presupposti nel corso della lite.

Non è difficile immaginare in quali circostanze potesse verificarsi concretamente un’ipotesi di questo genere. Si pensi, per esempio, ad un atto produttivo di obbligazioni a carico di entrambe le parti: è chiaro che l’accertamento sugli elementi costitutivi del rapporto avrebbe permesso al giudice di conoscere con la facilità lo stato dei crediti e debiti reciproci tra attore e convenuto, indipendentemente dal fatto che quest’ultimo avesse deciso di agire in via riconvenzionale o di eccepire la compensazione.

Finiva per realizzarsi, quindi, una situazione molto simile a quella caratterizzante i iudicia bonae fidei nell’esperienza formulare, con riguardo ai quali, difatti, l’officium iudicis si espandeva a tal punto da coprire anche le contropretese del convenuto, ovviamente con il limite rappresentato dalla connessione dei crediti reciproci ex eadem causa. D’altronde, proprio in ragione di quanto appena osservato, anche per diritto giustinianeo doveva risultare più facile che i casi di pronuncia del giudice sul controcredito del convenuto, senza un’espressa allegazione da parte di costui, si verificassero quando tale posizione giuridica soggettiva attiva e quella vantata dall’attore derivassero ex eadem causa.

A prescindere da ogni valutazione sulla possibile casistica interessata da tale meccanismo, ciò che appare chiaro è l’intento legislativo di attribuire al giudice un ruolo propositivo nella considerazione delle possibili pretese del convenuto, il quale avrebbe potuto limitarsi ad «una difesa meramente informativa»[51], senza bisogno di un intervento integrativo per quanto riguarda le allegazioni a sostegno della sua posizione. Come accennato in precedenza, questa sostituzione del giudice alla parte nelle allegazioni risulta funzionale ad una più celere risoluzione delle controversie nel quadro complessivo rappresentato dall’interesse all’accertamento della veritas rei; è inevitabile, quindi, che tutto ciò finisca per coinvolgere un istituto come la compensazione, attraverso cui si persegue lo scopo di porre fine ad una vicenda litigiosa, che vede la contrapposizione di due distinte pretese fondate su altrettanti diritti, anziché con due giudizi separati, con una sola decisione emessa dal medesimo giudice.

Resta da capire come questo discorso si colleghi al problema da cui siamo partiti, ossia quello concernente l’interpretazione delle parole ‘ipso iure’ nei testi della compilazione che recano notizie sulle innovazioni giustinianee in materia di compensazione. A questo problema occorre, dunque, dedicare le battute conclusive della presente indagine.

 

4. La compensatio ipso iure nel quadro normativo di riferimento. Spunti di riflessione conclusivi

 

Provando a ricapitolare quanto emerso fin qui, due sono gli aspetti da tenere in particolare considerazione, prima di entrare nel merito della proposta interpretativa che si intende avanzare in questa sede.

In primo luogo, va tenuto presente il contesto di riferimento iniziale, ossia quello ereditato da Giustiniano ed ancora in uso agli inizi del suo regno, fino all’emanazione delle norme in materia di amministrazione della giustizia ricordate in precedenza. Si tratta, con ogni probabilità, di un contesto che vede operare la compensazione in una cornice puramente giudiziale, ancora imperniata, quanto alle concrete modalità operative, sulla distinzione tra azioni di buona fede e di stretto diritto. Solo con riguardo alle prime, difatti, l’estensione dell’officium iudicis avrebbe consentito la protezione degli interessi del convenuto, senza la necessità di impiego di un’exceptio doli da parte di quest’ultimo per segnalare l’esistenza di un controcredito da bilanciare con quello vantato dall’attore; negli altri casi, invece, sarebbe risultata indispensabile un’espressa allegazione del convenuto, sulla scorta di un indirizzo probabilmente risalente all’epoca di Marco Aurelio.

In seconda battuta, occorre ricordare il contenuto della disposizione accolta in C. 7.45.14, grazie alla quale, in sostanza, viene generalizzato quello che, fino ad un momento prima, era il meccanismo compensativo previsto nell’ambito delle sole azioni di buona fede: il giudice, per il semplice fatto di essere investito della domanda, è autorizzato a conoscere anche le contropretese del convenuto e a pronunciarsi su di esse, qualora ne emergano i presupposti dagli atti della causa. Il coinvolgimento della compensazione in questa riforma che interessa i poteri del giudice è evidente, tant’è che nel ‘pacchetto’ di norme emanate il 30 ottobre 529 Giustiniano avverte il bisogno di includere una specifica disposizione (conservata in C. 4.34.11) dedicata alla regolamentazione di tale istituto, ossia quella che ne vieta l’applicazione con riguardo all’actio depositi.

Date queste premesse, è possibile gettare una nuova luce sul significato dell’espressione ‘compensatio ipso iure’ utilizzata in C. 4.31.14 e poi in I. 4.6.30: con tale formulazione non si allude ad una qualche forma di compensazione automatica, visto che, come giustamente osservato da Pichonnaz, tutti gli elementi a nostra disposizione lasciano intendere che essa venisse operata ancora a livello giudiziale; ciò che risulta mutato è il presupposto su cui si fonda la considerazione della contropretesa del convenuto da parte del giudice, ossia non più un atto dell’interessato, inteso come allegazione difensiva, bensì la legge che attribuisce al giudice il potere di pronunciarsi anche sulle pretese del convenuto una volta investito della domanda proposta dall’attore.

In altre parole si potrebbe dire che qui ‘ipso iure’ risulta impiegato in un significato contrapposto a quello di ‘ope exceptionis’, ovviamente non secondo la prospettiva formulare, che tendeva così a distinguere i piani di ius civile e ius praetorium, ma nell’ottica giustinianea per la quale la suddetta contrapposizione rilevava soltanto dal punto di vista dei poteri del giudice in ordine alla res iudicanda.

Questo ragionamento consente di superare l’obiezione mossa da Biondi a chi in passato aveva ipotizzato che ‘ipso iure’ fosse da considerare in antitesi a ‘ope exceptionis[52]. Lo studioso siciliano, a tal proposito, osservava: «l’ipsum ius e la exceptio coesistono nella stessa compensatio, e si coordinano secondo le direttive della nuova legislazione. La compensatio ha luogo ipso iure nel senso che la estinzione dei reciproci rapporti si riconduce sempre ed in ogni caso direttamente alla legge; opera contemporaneamente ope exceptionis nel senso che il fatto giuridico riconosciuto dalla legge come estintivo, cioè la compensatio, deve essere allegato dal convenuto come ogni sua difesa»[53]. Come si può notare, questa opinione poggia su un presupposto che contrasta con un dato emerso nel corso della presente indagine, in particolare dall’esame di C. 7.45.14: il convenuto non era tenuto ad allegare i fatti in grado di legittimare la sua contropretesa, quando questi risultassero dagli atti della causa; in tal caso egli si sarebbe limitato ad una difesa meramente informativa, visto l’obbligo per il giudice di pronunciarsi comunque sul diritto a lui facente capo.

Il fatto di considerare necessario, nell’ottica giustinianea, l’impiego di un’eccezione da parte del convenuto per mettere in moto il meccanismo della compensazione dipende, perlopiù, da elementi di carattere testuale rintracciabili nella costituzione conservata in C. 4.31.14 e, più precisamente, nel § 1, dove si trovano espressioni quali ‘compensationes obici’ e ‘opponi compensationem[54]. Nel primo dei due casi, in realtà, non si allude alla necessità di un’espressa allegazione del convenuto, né ad un suo intervento di altro tipo, essendo piuttosto considerato il profilo della semplice contrapposizione di una pretesa ad un’altra; quanto al secondo, invece, non può negarsi che qui si faccia riferimento ad un’espressa opposizione della compensazione da parte del convenuto, di cui si considerano, in questo passaggio della costituzione, le possibili manovre dilatorie per frustrare le legittime aspettative di tutela dell’attore.

D’altronde, con il ragionamento svolto fin qui non s’intende certo escludere la possibilità che al convenuto fosse consentito di eccepire la compensazione, anzi è verosimile che a questa soluzione si facesse ricorso ogniqualvolta i presupposti della contropretesa non emergessero dagli atti della causa e quindi il giudice non potesse conoscere in altro modo le istanze del convenuto; non deve stupire, pertanto, che tale circostanza sia oggetto di specifica considerazione nel testo di C. 4.31.14.

Un conto, però, è giudicare indispensabile, su un piano di concretezza, l’impulso del convenuto nei casi anzidetti, un altro è ammettere in via generale e astratta che la conoscibilità da parte del giudice dei fatti in grado di legittimare la compensazione potesse dipendere unicamente da un intervento di parte. Ciò contrasta, infatti, con il disposto di C. 7.45.14, che, da questo punto di vista, rappresenta la premessa logica rispetto a quanto stabilito in C. 4.31.14.

Non deve stupire, pertanto, che la lex del 531 enunci in maniera quasi sbrigativa quella che, in fin dei conti, è la vera novità della riforma giustinianea, ossia la generalizzazione del regime della compensatio, e dedichi uno spazio significativo, invece, ai limiti applicativi dell’istituto; un requisito come quello della liquidità del controcredito rappresentava un argine necessario per evitare che un’applicazione incondizionata della compensazione producesse l’effetto distorto di allungare la durata dei giudizi, frustrando così gli obiettivi di celerità ed economia processuale perseguiti con i precedenti interventi normativi[55].

Un altro aspetto da tenere presente con riguardo alla nuova concezione giustinianea della compensatio è il superamento della distinzione tra giudizi di stretto diritto e giudizi di buona fede. Come osservato in precedenza, con Giustiniano viene generalizzato il meccanismo tipico di quest’ultima categoria di azioni, anche se ciò che legittima il potere suppletivo del giudice non è più la buona fede, bensì la legge, che impone al giudice di pronunciarsi sulle contropretese del convenuto anche quando i relativi presupposti non dipendano da una sua allegazione difensiva, ma emergano dagli atti della causa. D’altra parte, proprio la doverosa considerazione delle contropretese del convenuto da parte del giudice, pur entro i limiti anzidetti, rappresenta l’elemento di novità più significativo rispetto alla possibilità di operare la compensazione nell’ambito delle azioni di buona fede; difatti, nell’individuazione dei presupposti per ammettere la compensazione, la disciplina ereditata dal sistema formulare lasciava al giudice uno spazio di autonomia[56] ritenuto evidentemente troppo ampio, perlomeno secondo la visione di Giustiniano, i cui interventi normativi sembrano perseguire l’obiettivo opposto, ossia quello di ridurre al massimo il potere discrezionale del giudice in ordine a questo genere di attività.

 

 

Abstract (ENG): The aim of the research is to identify the meaning of the expression ‘compensatio ipso iure’ in Justinian’s legislation (C. 4.31.14 and I. 4.6.30). Through the other constitutions issued by the Emperor before 531 AD it is possible to understand the powers of the judge with regard to the knowledge of the claims of both parties. The constitution contained in C. 7.45.14 shows that the judge had to decide on the defendant’s claim, even if he did not invoke an exceptio, when the conditions of that claim had emerged from the trial proceedings.

 

Keyword (ENG): automatic and judicial set-off, compensatio ipso iure, Justinian, powers of judge.

 


* Università degli Studi di Torino (enrico.sciandrello@unito.it).

** Il contributo è stato sottoposto a double blind review.

[1] P. Pichonnaz, Da Roma a Bologna: l’evoluzione della nozione di «compensatio ipso iure», in RDR, 2 (2002), p. 337 ss.

[2] Oltre ai contributi già menzionati, si vedano gli ulteriori studi condotti dall’autore in materia di compensazione: P. Pichonnaz, L’interdiction de compenser dans le contrat de dépôt, in RIDA, 46 (1999), p. 393 ss.; Id., The retroactive effect of set-off (compensation). A journey through Roman Law to the New Dutch Civil Code, in TG, 68 (2000), p. 541 ss.; Id., Quelques aspects de la bonne foi (objective) dans la compensation en cas de faillite à Rome et aujourd’hui, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese (Padova - Venezia - Treviso, 14-15-16 giugno 2001), III, a cura di L. Garofalo, Padova, 2003, p. 105 ss.; Id., La compensation commerciale à l’aune du cas de l’argentarius, in TG, 71 (2003), p. 29 ss.; Id., Compensatio e deductio (Gai. 4.66), in Gaius noster. Nei segni del Veronese, a cura di F. Milazzo, Milano, 2019, p. 79 ss.

[3] La riconducibilità delle due tesi, rispettivamente, a Martino e a Giovanni Bassiano è attestata nella Glossa ordinaria; si veda gl. ‘ipso iure’ ad C. 4.31.4: Not. pro M. quod ipso iure fit compensatio, etsi non opponatur ab homine … Sed Io. dicit eam fieri tunc demum cum ab homine opposita fuerit…

[4] Sul punto rinvio all’opera di P. Pichonnaz, La compensation, cit., p. 281 ss. In tempi più recenti, un’efficace sintesi del percorso interpretativo e normativo che ha interessato la compensazione, specialmente in una prospettiva tesa ad indagare i fondamenti romanistici del diritto europeo, è stata tratteggiata da F. Mattioli, Modi di estinzione delle obbligazioni. La compensazione, in Fondamenti di diritto contrattuale europeo. Dalle radici romane ad ‘Draft Common Frame of Reference’, a cura di G. Luchetti - A. Petrucci, Bologna, 2010, p. 491 ss.

[5] Senza pretesa di completezza si vedano A. Brinz, Die Lehre von der Compensation, Leipzig, 1849, p. 52 ss.; F. Eisele, Die Compensation nach Römischem und Gemeinem Recht, Berlin, 1876, p. 197; C. Appleton, Histoire de la compensation en droit romain, Paris, 1895, p. 414; B. Biondi, La compensazione nel diritto romano, Cortona, 1927, ora in AUPA, 12 (1929) (da cui cito), p. 298 ss.; S. Solazzi, La compensazione nel diritto romano, 2a ed., Napoli, 1950, p. 169 ss.; G. Astuti, s.v. Compensazione (premessa storica)’, in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, p. 10.

[6] P. Pichonnaz, Da Roma a Bologna, cit., p. 343 s.

[7] Cfr. P. Pichonnaz, Da Roma a Bologna, cit., p. 344 s., ma negli stessi termini si veda già Id., La compensation, cit., p. 271 ss.

[8] P. Pichonnaz, Da Roma a Bologna, cit., p. 344, nonché Id., La compensation, cit., p. 272, ritiene che anche le parole ‘… latius introduxit’ in I. 4.6.30 rappresentino una spia del fatto che, in realtà, Giustiniano avrebbe ampliato il perimetro applicativo della compensazione classica, senza prevedere innovazioni di altro tipo.

[9] Si vedano, a tal proposito, i testi richiamati da P. Pichonnaz, Da Roma a Bologna, cit., p. 344 nt. 44 e Id., La compensation, cit., p. 272 nt. 1208: D. 3.5.7.2 [(Ulp. 10 ad ed.): Si quocumque modo ratio compensationis habita non est a iudice, potest contrario iudicio agi: quod si post examinationem reprobatae fuerint pensationes, verius est quasi re iudicata amplius agi contrario iudicio non posse, quia exceptio rei iudicatae opponenda est]; D. 16.2.7.1 [(Ulp. 28 ad ed.): Si rationem compensationis iudex non habuerit, salva manet petitio: nec enim rei iudicatae exceptio obici potest. Aliud dicam, si reprobavit pensationem quasi non existente debito: tunc enim rei iudicatae mihi nocebit exceptio]; D. 13.6.18.4 [(Gai. 9 ad ed. prov.): Quod autem contrario iudicio consequi quisque potest, id etiam recto iudicio, quo cum eo agitur, potest salvum habere iure pensationis. Sed fieri potest, ut amplius esset, quod invicem aliquem consequi oporteat, aut iudex pensationis rationem non habeat, aut ideo de restituenda re cum eo non agatur, quia ea res casu intercidit aut sine iudice restituta est: dicemus necessariam esse contrariam actionem]; D. 27.4.1.4 [(Ulp. 36 ad ed.): Praeterea si tutelae iudicio quis convenietur, reputare potest id quod in rem pupilli impendit: sic erit arbitrii eius, utrum compensare an petere velit sumptus. Quid ergo, si iudex compensationis eius rationem non habuit, an contrario iudicio experiri possit? Et utique potest: sed si reprobata est haec reputatio et adquievit, non debet iudex contrario iudicio id sarcire].

[10] In merito al quarto, ad esempio, si può incidentalmente rilevare come sussista più di un dubbio circa l’effettivo rinvio, nei testi indicati dallo studioso (v. la nota precedente), alla necessità di opporre un’eccezione per compensare. Il riferimento implicito all’opposizione di un controcredito in compensazione, riscontrabile in tali testimonianze, appare più che altro funzionale al discorso che si intende sviluppare circa la possibilità di agire successivamente con l’azione contraria per far valere la medesima pretesa al rimborso delle spese o risarcimento dei danni; su questi argomenti mi permetto di rinviare a E. Sciandrello, Ricerche in tema di ‘iudicia contraria’, Napoli, 2017, p. 61 ss.

[11] Cfr. P. Garbarino, rec. a P. Pichonnaz, La compensation, cit., in Iura, 52 (2001), p. 345 e G. Wesener, rec. a P. Pichonnaz, La compensation, cit., in ZSS, 121 (2004), p. 608.

[12] Cfr. P. Pichonnaz, Da Roma a Bologna, cit., p. 342 s. e, prima ancora, Id., La compensation, cit., p. 168 ss.

[13] Secondo questa prospettiva, quindi, non occorre pensare che il rescritto di Marco Aurelio (ricordato in I. 4.6.30) si riferisse esclusivamente ad un contesto di tipo cognitorio, così come spesso sostenuto in dottrina. Per una sintesi delle posizioni al riguardo si veda G. Astuti, s.v. Compensazione (premessa storica)’, cit., p. 7 s.; per una trattazione più diffusa cfr. W. Rozwadowski, Studi sulla compensazione nel diritto romano, in BIDR, 81 (1978), p. 77 ss.

[14] Cfr. P. Pichonnaz, Da Roma a Bologna, cit., p. 343, nonché Id., La compensation, cit., p. 252. In questo senso v. già S. Solazzi, La compensazione, cit., p. 142 ss.

[15] Così P. Pichonnaz, Da Roma a Bologna, cit., p. 343.

[16] Sul persistente uso in età giustinianea della categoria delle azioni di buona fede si veda il contributo di P. Garbarino, Brevi osservazioni in tema di azioni di buona fede in diritto giustinianeo, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese (Padova - Venezia - Treviso, 14-15-16 giugno 2001), II, a cura di L. Garofalo, Padova, 2003, p. 191 ss.

[17] A livello generale, però, si tenga presente quanto osservato da G. Luchetti, La legislazione imperiale nelle Istituzioni di Giustiniano, Milano, 1996, p. 537: «il complessivo ampliamento della categoria delle azioni di buona fede sembra rispondere ad un generale indirizzo normativo evidentemente rivolto a concedere al giudice in un più vasto numero di casi una più ampia libertà di apprezzamento in relazione agli interessi dedotti in giudizio, riconoscendogli a questo scopo estesi poteri di valutazione appunto in base al criterio della buona fede». In questo senso v. già G. Provera, Lezioni sul processo civile giustinianeo, I-II, Torino, 1989, p. 136 s.

[18] Par. inst. 4.6.30 (ed. Lokin): Ἐπὶτῶνbona fideδικαστηρίωνἐξουσίαδέδοταιτῷδικάζοντιἐκτοῦκαλλίστουκαὶδικαίουκρίνεινὅσοντῷactoriτὸνreonἀποκαταστῆσαιχρή. μέροςδὲτὴςἐξουσίαςἐκείνηςτοῦδικαστοῦἐστικαὶτοῦτο· ἐὰνγάρτιςκινῇκατ᾽ἐμοῦἀγωγὴνbona fideδέκαμεἀπαιτῶννομίσματα, ἀντεποφείλειδὲμοιπέντενομίσματα, compensateusas ὁδικαστὴςἅπερἐκεῖνοςἀντεποφείλειμοιοὐκεἰςτὰδέκανομίσματαἀλλ᾽εἰςπέντεμεκαταδικάσει. (compensation δεἐστινὁἀντέλλογος, τουτέστιτὸἀντελλογίσασθαιτὰἐποφειλόμενα.) ταῦταμὲνοὖνἡφύσιςβούλεταιτῶνbona fideδικαστηρίων. ἐπὶδὲτῶνstricton, ἐπειδὴτῆςἀκριβείαςαὐτῆςγίνεταιλόγος, εἰκινῶντιςκατ᾽ἐμοῦπερὶδέκατυχὸννομισμάτων, εἰκαὶἀντεποφείλειμοιπέντενομίσματα, εἰςτὰδέκαοὐδὲνἧττονκαταδικασθήσομαι. καὶταῦταμὲνὅσονἐκτῆςἀκριβείαςαὐτῆς. διάταξιςδὲγέγονεΜάρκουτοῦβασιλέως, ἥτιςφησὶνἐναγόμενόνμεstricta ἀγωγῇπερὶδέκανομισμάτωνκαὶἀντεποφειλόμενονπέντεδύνασθαιἀντιθεῖναιτῇἐναγωγῇτὴντοῦδόλουπαραγραφήν. καὶτῆςτοιαύτηςἀντιτεθείσηςπαραγραφῆςχώραδέδοταιτῷδικαστῇδέξασθαιτὴνcompensationaκαὶεἰςπέντεμόνακαταδικάσαινομίσματα. ταῦταμὲνοὖνἐκτῶνπαλαιοτέρωνδιατάξεων … .

[19] Così G. Provera, Lezioni, cit., p. 408.

[20] In questo senso v. per tutti U. Zilletti, Studi sul processo civile giustinianeo, Milano, 1965, p. 169. Per una considerazione del problema dalla prospettiva dell’azione si veda il recente studio di S. Sciortino, Il nome dell’azione nel ‘libellus conventionis’ giustinianeo, Torino, 2018, p. 9 ss.

[21] Cfr. U. Zilletti, Studi, cit., p. 174 ss.

[22] Su questa fonte, in tempi recenti, v. S. Puliatti, L’organizzazione giudiziaria in età dioclezianea. L’imperatore giudice, in Diocleziano: la frontiera giuridica dell’impero, a cura di W. Eck - S. Puliatti, Pavia, 2018, p. 574 s.

[23] Così U. Zilletti, Studi, cit., p. 175. In linea con questa lettura anche G. Provera, Lezioni, cit., p. 236.

[24] Cfr. U. Zilletti, Studi, cit., p. 176.

[25] Si veda il commento di U. Zilletti, Studi, cit., p. 180 s., dedicato in particolare a C. 7.62.39.1 (Imp. Iustinianus A. Iuliano pp.): Sancimus itaque, si appellator semel in iudicium venerit et causas appellationis suae proposuerit, habere licentiam et adversarium eius, si quid iudicatis opponere maluerit, si praesto fuerit, hoc facere et iudiciale mereri praesidium: sin autem absens fuerit, nihilo minus iudicem per suum vigorem eius partes adimplere. (D. VI. k. April. Constantinopoli Lampadio et Oreste vv. cc. conss.) [a. 530].

[26] C.Th. 2.18.1 (Imp. Constantinus A. ad Maximum): Iudicantem oportet cuncta rimari et ordinem rerum plena inquisitione discutere, interrogandi ac proponendi adiciendique patientia praebita ab eo: ut, ubi actio partium limitata sit, contentiones non occursu iudicis, sed satietate altercantium metas compresserint, saepius requiratur et crebra interrogatione iudicis frequentetur, ne quid novi resideat, quod adnecti allegationibus in iudiciaria contentione conveniat, cum ad alterutrum hoc proficiat, sive definienda sit causa per iudicem sive ad nostram scientiam referenda. Nec ad nos mittatur aliquid, quod plena instructione indigeat. (D. prid. id. Ianuar. Sirmio Crispo II et Constantino II CC. conss.) [a. 321]. Per le differenze tra i due testi cfr. U. Zilletti, Studi, cit., p. 178 s.

[27] Sottolinea come con la lex costantiniana venga perseguito l’obiettivo della veritas rei (menzionata nell’interpretatio a C.Th. 2.18.1) F. Goria, Valori e princìpi del processo civile nella legislazione tardoantica: brevi note, in Princìpi generali e tecniche operative del processo civile romano nei secoli IV-VI d.C., Atti del Convegno (Parma, 18 e 19 giugno 2009), a cura di S. Puliatti - U. Agnati, Parma, 2010, p. 19 s., ora in Diritto romano d’Oriente. Scritti scelti di Fausto Goria, a cura di P. Garbarino - A. Trisciuoglio - E. Sciandrello, Alessandria, 2016, p. 520 s.

[28] Per una lettura combinata di questi due testi si veda, oltre a U. Zilletti, Studi, cit., p. 174 ss., anche D. Simon, Untersuchungen zum Justinianischen Zivilprozeß, München, 1969, p. 375 s., G. Provera, Lezioni, cit., p. 235 s., S. Puliatti, ‘Officium iudicis’ e certezza del diritto in età giustinianea, in Legislazione, cultura giuridica, prassi dell’Impero d’Oriente in età giustinianea tra passato e futuro, Atti del Convegno (Modena, 21-22 maggio 1998), a cura di S. Puliatti - A. Sanguinetti, Milano, 2000, p. 101 s. e 117 s. e R. Fercia, «Aliud petere» e la metafora delle δοί, in RDR, 4 (2004), p. 6 s.

[29] Cfr. U. Zilletti, Studi, cit., p. 182.

[30] Corrisponde al numero 3 dell’edizione Heimbach.

[31]Per questa ipotesi si veda il Manuale Basilicorum di K.-W.-E. Heimbach, Basilicorum libri LX, VI, Lipsia, 1870, p. 236 nt. o.

[32] D. 5.3.58 (Scaev. 3 dig.): Filius a patre emancipatus secundum condicionem testamenti matris adiit hereditatem, quam pater, antequam filium emanciparet, possedit fructusque ex ea possedit, sed erogationem in honorem filii cum esset senator fecit ex ea. Quaesitum est, cum paratus sit pater restituere hereditatem habita ratione eorum quae in eum erogavit, an filius nihilo minus perseverans petere hereditatem doli mali exceptione summoveri possit. Respondi, et si non exciperetur, satis per officium iudicis consuli.

[33] Per una lettura del passo nella prospettiva classica mi permetto di rinviare a E. Sciandrello, Note sull’‘officium iudicis’ in materia di rimborso delle spese: confronto tra rivendica e petizione di eredità, in Il giudice privato nel processo civile romano, III, a cura di L. Garofalo, Padova, 2015, p. 484 s.

[34] Cfr. U. Zilletti, Studi, cit., p. 182.

[35] Si veda in proposito I. 4.6.28: Actionum autem quaedam bonae fidei sunt, quaedam stricti iuris, bonae fidei sunt hae: ex empto, vendito, locato, conducto, negotiorum gestorum, mandati, depositi, pro socio, tutelae, commodati, pigneraticia, familiae erciscundae, communi dividundo, praescriptis verbis quae de aestimato proponitur, et ea quae ex permutatione competit, et hereditatis petitio. Quamvis enim usque adhuc incertum erat, sive inter bonae fidei iudicia connumeranda sit sive non, nostra tamen constitutio aperte eam esse bonae fidei disposuit.

[36] E, soprattutto, del corrispondente passo della parafrasi teofilina, come osservato supra § 1.

[37]Si veda, ancora una volta, il Manuale Basilicorum di K.-W.-E. Heimbach, Basilicorum libri LX, VI, cit., p. 236.

[38] D. 5.3.38 (Paul. 20 ad ed.): Plane in ceteris necessariis et utilibus impensis posse separari, ut bonae fidei quidem possessores has quoque imputent, praedo autem de se queri debeat, qui sciens in rem alienam impendit. Sed benignius est in huius quoque persona haberi rationem impensarum (non enim debet petitor ex aliena iactura lucrum facere) et id ipsum officio iudicis continebitur: nam nec exceptio doli mali desideratur. Plane potest in eo differentia esse, ut bonae fidei quidem possessor omnimodo impensas deducat, licet res non exstet in quam fecit, sicut tutor vel curator consequuntur, praedo autem non aliter, quam si res melior sit. Anche per questo brano mi sia consentito rinviare alla trattazione svolta in E. Sciandrello, Note sull’‘officium iudicis’, cit., p. 457 ss.

[39] Ad h. l. nt. 3.

[40] Cfr. G. Bassanelli Sommariva, L’imperatore unico creatore ed interprete delle leggi e l’autonomia del giudice nel diritto giustinianeo, Milano, 1983, p. 20 nt. 20; M. Kaser - K. Hackl, Das römische Zivilprozessrecht, 2a ed., München, 1996, p. 587 nt. 33; M. Bianchini, La ‘subscriptio’ nelle ‘leges’ giustinianee del 30 ottobre 529, in Studi in onore di F. de Marini Avonzo, Torino, 1999, p. 47 nt. 3, ora in Ead., Temi e tecniche della legislazione tardoimperiale, Torino, 2008, p. 115 nt. 3; P. Garbarino, Note su C. 1.14.12 e il ‘Novus Codex’, in Scritti per Alessandro Corbino, III, a cura di I. Piro, Tricase, 2016, p. 252 s. nt. 18.

[41] C. 7.45.13 (Imp. Iustinianus A. Demostheni pp.): Nemo iudex vel arbiter existimet neque consultationes, quas non rite iudicatas esse putaverit, sequendum, et multo magis sententias eminentissimorum praefectorum vel aliorum procerum (non enim, si quid non bene dirimatur, hoc et in aliorum iudicum vitium extendi oportet, cum non exemplis, sed legibus iudicandum est), nec si cognitionales sint amplissimae praefecturae vel alicuius maximi magistratus prolatae sententiae: sed omnes iudices nostros veritatem et legum et iustitiae sequi vestigia sancimus. (D. III k. Nov.) [a. 529].

[42] Ad h. l. nt. 2.

[43] Si tratta di C. 1.2.22, 1.14.12, 2.55.4, 4.1.12, 4.34.11, 5.12.30, 5.30.5, 6.4.3, 6.30.19, 6.42.30, 6.61.6, 8.53.34, 11.48.20, tutti accompagnati da una subscriptio in cui è riportata la formula della recitatio, a differenza di C. 7.45.13, per il quale è indicata solo la data di emanazione. Sul legame tra questi testi v. M. Bianchini, La ‘subscriptio’, cit., p. 47 ss, ora in Ead., Temi e tecniche, cit., p. 115 ss.

[44] C. 4.34.11 (Imp. Iustinianus A. Demostheni pp.): pr. Si quis vel pecunias vel res quasdam per depositionis accepit titulum, eas volenti ei qui deposuerit reddere ilico modis omnibus compellatur nullamque compensationem vel deductionem vel doli exceptionem opponat, quasi et ipse quasdam contra eum qui deposuit actiones personales vel in rem vel hypothecarias praetendens, cum non sub hoc modo depositum accepit, ut non concessa ei retentio generetur, et contractus qui ex bona fide oritur ad perfidiam retrahatur. 1. Sed et si ex utraque parte aliquid fuerit depositum, nec in hoc casu compensationis praepeditio oriatur, sed depositae quidem res vel pecuniae ab utraque parte quam celerrime sine aliquo obstaculo restituantur, ei videlicet primum, qui primus hoc voluerit, et postea legitimae actiones integrae ei reserventur. 2. Quod obtinere sicut iam dictum est oportet et si ex una parte depositio celebrata est, ex altera autem compensatio fuerit opposita, ut integra omni legitima ratione servata depositae res vel pecuniae prima fronte restituantur. 3. Quod si in scriptis attestatio non per dolum vel fraudem fuerit ei qui depositum suscepit ab alio transmissa, ut minime depositum restituat, hocque per iusiurandum adfirmaverit, liceat ei qui deposuit sub defensionis cautela idonea praestita res depositas quantocius recuperare. (Recitata septimo miliario in novo consistorio palatii Iustiniani. d. III k. Nov. Decio cons.) [a. 529].

[45] Su questo specifico tema v. per tutti P. Pichonnaz, L’interdiction, cit., p. 393 ss., nonché Id., La compensation, cit., p. 265 ss.

[46] Sul punto v. F. Goria, Valori e princìpi, cit., p. 21 s., ora in Diritto romano d’Oriente. Scritti scelti di Fausto Goria, cit., p. 522.

[47] Sui contenuti di questa testimonianza, seppur da diverse angolazioni, v. F.C. von Savigny, System des heutigen Römischen Rechts, VI, Berlin, 1847, p. 341 ss.; C. Appleton, Histoire, cit., p. 230 ss.; B. Biondi, La compensazione, cit., p. 269 ss.; G. Provera, Contributi alla teoria dei iudicia contraria, Torino, 1951, p. 27 s.; R. Rezzonico, Il procedimento di compensazione nel diritto romano classico, Basel, 1958, p. 51 s.; U. Zilletti, Studi, cit., p. 184 ss.; D. Simon, Untersuchungen, cit., p. 132; G.P. Scaffardi, Alcune considerazioni sulla ‘mutua petitio’ nel processo civile giustinianeo, in Studi Parmensi, 31 (1982), p. 205 ss.; P. Pichonnaz, La compensation, cit., p. 243 s.; S. Puliatti, ‘Officium iudicis’, cit., p. 118 s., Id., Accertamento della ‘veritas rei’ e principio dispositivo nel processo postclassico-giustinianeo, in Princìpi generali e tecniche operative del processo civile romano nei secoli IV-VI d.C., Atti del Convegno (Parma, 18 e 19 giugno 2009), a cura di S. Puliatti - U. Agnati, Parma, 2010, p. 122 s., Id., ‘Innovare cum iusta causa’. Continuità e innovazione nelle riforme amministrative e giurisdizionali di Giustiniano, Torino, 2021, p. 311 s.; S. Di Maria, La cancelleria imperiale e i giuristi classici: “reverentia antiquitatis” e nuove prospettive nella legislazione giustinianea del Codice, Bologna, 2010, p. 26 s.

[48] Secondo la proposta ricostruttiva di O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, Leipzig, 1889, c. 820, Papiniano avrebbe espresso l’opinione ricordata dai giustinianei nel libro IV delle quaestiones. Sulla citazione papinianea v. S. Di Maria, La cancelleria imperiale, cit., 26 s.

[49] In particolare da U. Zilletti, Studi, cit., p. 185. In senso adesivo, tra gli studiosi contemporanei, v. S. Puliatti, ‘Officium iudicis’, cit., p. 118 s., Id., Accertamento della ‘veritas rei’, cit., 123, Id., ‘Innovare cum iusta causa’, cit., 311 s.

[50] A quanto mi risulta, l’unico ad aver considerato questa seconda possibilità in aggiunta a quella dell’azione riconvenzionale è F. Goria, Valori e princìpi, cit., p. 29, nt. 42, ora in Diritto romano d’Oriente. Scritti scelti di Fausto Goria, cit., p. 530, nt. 42.

[51] Così U. Zilletti, Studi, cit., p. 185.

[52] Cfr. B. Biondi, La compensazione, cit., p. 299 ss. con rinvio sul punto a A. Brinz, Lehrbuch der Pandekten, II.1, Erlangen, 1879, p. 420, nt. 2.

[53] Così B. Biondi, La compensazione, cit., p. 300.

[54] Oltre a P. Pichonnaz, Da Roma a Bologna, cit., p. 344, nonché Id., La compensation, cit., p. 271 s., valorizzano l’impiego di queste espressioni, tra gli altri, B. Biondi, La compensazione, cit., p. 301, S. Solazzi, La compensazione, cit., p. 170, G. Astuti, s.v. Compensazione (premessa storica)’, cit., p. 10.

[55] Sul tema v. F. Goria, C. 3.1.12 e la celerità del processo civile come valore nella legislazione giustinianea, in Valori e principii del diritto romano. Atti della Giornata di studi per i 100 anni di Silvio Romano Maestro di Istituzioni (Torino, 12 ottobre 2007), a cura di A. Trisciuoglio, Napoli, 2009, p. 129 ss., ora in Diritto romano d’Oriente. Scritti scelti di Fausto Goria, cit., p. 455 ss.

[56] Emblematica, a questo proposito, la testimonianza gaiana conservata in Gai. 4.63: Liberum est tamen iudici nullam omnino invicem conpensationis rationem habere; nec enim aperte formulae verbis praecipitur, sed quia id bonae fidei iudicio conveniens videtur, ideo officio eius contineri creditur.

Sciandrello Enrico



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