Note in tema di piattaforme digitali e pratiche commerciali scorrette
Laura Guffanti Pesenti
Ricercatore di Diritto privato, Università Cattolica del Sacro Cuore
Note in tema di piattaforme digitali e pratiche commerciali scorrette*
English title: Digital platforms and Unfair commercial practices
DOI: 10.26350/18277942_000055
Sommario: 1. Piattaforme on-line e asimmetria digitale. 2. Libertà di scelta del consumatore e repressione delle pratiche commerciali scorrette. 3. Pratiche commerciali scorrette poste in essere dalle piattaforme digitali. 4. Pratiche commerciali scorrette poste in essere sulle piattaforme digitali. 5. Scorrettezza delle pratiche commerciali e rimedi privatistici.
- Piattaforme on-line e asimmetria digitale
Le piattaforme digitali costituiscono oggi un pressoché irrinunciabile strumento di interazione nei più diversi ambiti in cui si articola la vita di relazione[1].
Anche a cagione della loro diversa dimensione e dei diversi scopi che esse si propongono, non si rinviene nell’ordinamento una definizione unitaria di piattaforma digitale[2].
In dottrina si sono messe in evidenza due possibili significati di detto sintagma[3]: in un’accezione più ampia, reperibile ad esempio, nel linguaggio della Commissione europea[4], le piattaforme digitali sono soggetti «operanti in mercati bilaterali o plurilaterali che si avvalgono di internet per consentire l’interazione di due o più gruppi di utenti distinti ma interdipendenti, così da generare valore almeno per uno dei due gruppi»[5]. In senso più ristretto le piattaforme digitali corrispondono ai c.d. servizi della società dell’informazione, di cui all’art. 2 lett. a dir. 2000/31/CE, che richiama a sua volta la direttiva 98/34/CE, la quale li definisce come «qualsiasi servizio prestato normalmente dietro retribuzione, a distanza, per via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario di servizi»[6].
Un’ulteriore definizione, più recente, si trova nel Regolamento 1150/2019/UE: ai sensi del cui art. 2, punto 2, lett. a, b, c, sono servizi di intermediazione on-line «i servizi che soddisfano tutti i seguenti requisiti: a) sono servizi della società dell’informazione ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, lettera b), della direttiva (UE) 2015/1535 del Parlamento europeo e del Consiglio; b) consentono agli utenti commerciali di offrire beni o servizi ai consumatori, con l’obiettivo di facilitare l’avvio di transazioni dirette tra tali utenti commerciali e i consumatori, a prescindere da dove sono concluse dette transazioni; c) sono forniti agli utenti commerciali in base a rapporti contrattuali tra il fornitore di tali servizi e gli utenti commerciali che offrono beni e servizi ai consumatori».
Questa definizione, evidentemente, riguarda le sole piattaforme nelle quali ha luogo lo scambio di beni e servizi, rimanendone esclusi ad esempio i c.d. social network. Ma anche questi ultimi sembrerebbero doversi ricomprendere nella più ampia formula elaborata dell’Unione europea nella Proposta di regolamento Digital Services Act (DSA)[7]: per la quale è piattaforma digitale il «prestatore di servizi di hosting che, su richiesta di un destinatario del servizio, memorizza e diffonde al pubblico informazioni, tranne qualora tale attività sia una funzione minore e puramente accessoria di un altro servizio e, per ragioni oggettive e tecniche, non possa essere utilizzata senza tale altro servizio e a condizione che l'integrazione di tale funzione nell'altro servizio non sia un mezzo per eludere l'applicabilità del presente regolamento».
Peraltro, sia che ci si riferisca alle piattaforme digitali nell’accezione più estesa da ultimo richiamata, sia che si considerino unicamente le piattaforme a vocazione commerciale, il fenomeno è unitariamente caratterizzato da un doppio volto[8].
Da un lato è indubbio che le piattaforme digitali arrechino beneficio ai propri utenti agevolandone le relazioni. Quanto ai consumatori, le piattaforme ne incrementano le opportunità di soddisfare i bisogni personali[9] ampliandone significativamente la scelta di beni e servizi[10], o la possibilità di entrare in relazione con altri soggetti per ragioni di socialità o ad altro scopo; quanto agli utenti professionali, le piattaforme ne aumentano significativamente le opportunità di attingere ad un bacino vasto di clienti[11] rispetto a quanto accade nei mercati c.d. off-line.
D’altro lato, tuttavia, le tecnologie della comunicazione e dell’informazione di cui le piattaforme si avvalgono rendono inevitabilmente asimmetrico il rapporto tra le stesse e i loro fruitori[12]. Le piattaforme infatti, traendo linfa dalla miriade di interazioni che ‘ospitano’ al proprio interno, sono in grado di estrarre dati e informazioni relativi a tutti indistintamente coloro che operano su di esse: dati che vengono processati e riutilizzati[13], consentendo alle piattaforme di incidere, ad esempio, sulle preferenze e abitudini di acquisto dei consumatori[14]; o sulle modalità di presentazione delle offerte dei c.d. utenti commerciali[15].
Non si tratta, con tutta evidenza, dell’asimmetria che ha caratterizzato storicamente il rapporto di consumo[16], la quale è fondata sul differente grado di informazione che caratterizza il consumatore, rendendolo contraente debole rispetto al professionista[17].
Nel caso delle piattaforme si tratta piuttosto di un’asimmetria c.d. digitale[18], che vede contrapporsi la piattaforma come soggetto forte, caratterizzato da quella che è stata detta «supremazia tecnologica»[19] e la folla generalizzata di coloro che della medesima si avvalgono come fruitori[20] (siano essi professionisti o consumatori[21]): soggetti deboli, incapaci di penetrarne e così di controllarne le modalità di funzionamento[22].
Ciò non significa il superamento dell’impianto tradizionale dei rapporti di forza tra professionisti e consumatori che eventualmente si incontrino sulla piattaforma digitale per vendere e acquistare beni e servizi[23]: perché il professionista venditore, o prestatore del servizio, è pur sempre soggetto forte rispetto al consumatore che con esso stipula il contratto[24]. Resta dunque operante la disciplina a tutela del consumatore, così come quella del commercio elettronico[25], anche ove il contratto si stipuli non già direttamente sul sito web del professionista, ma tramite l’intermediazione della piattaforma.
E però, a questa versione ‘originaria’ dell’asimmetria, che si manifestava nella dimensione microeconomica del contratto, se ne aggiunge una nuova[26]: quella che vede contrapporsi la piattaforma digitale a tutti coloro che variamente se ne avvalgano (professionisti o consumatori che essi siano) per le più svariate forme di interazione on-line.
In questo scenario, come è stato di recente osservato, «il singolo contratto non è più soltanto lo strumento per una transazione economica, ma diventa l’occasione di rilascio di informazioni, di dati personali, … raccolti e archiviati dal nuovo soggetto che rende possibile lo svolgimento degli scambi, la “piattaforma”, tecnicamente soggetto terzo rispetto alle parti, ma “padrone” dell’interfaccia tecnologica nella quale quegli scambi si svolgono, spesso senza altra alternativa»[27].
Per questa via si va dunque rimodulando la categoria già ampia e articolata del ‘contraente debole’[28] nel mercato. Esso non è più soltanto il consumatore nei confronti del professionista, o il professionista debole nei confronti del professionista dotato di maggior forza contrattuale[29]; contraente debole è infatti oggi anche qualunque professionista che si avvalga di una piattaforma digitale per offrire al pubblico i propri beni e servizi. Il quale, a fronte dei benefici che ottiene per il tramite della piattaforma, ne diviene tuttavia in certa misura dipendente[30], e perciò soggetto al potere di quest’ultima e ai meccanismi non sempre trasparenti di cui essa si avvale nel porre in essere la propria attività di intermediazione[31].
Con specifico riguardo a questa forma nuova di debolezza, che si manifesta nel rapporto tra piattaforma e c.d. utente commerciale[32], è stata recentemente adottata da parte dell’Europa una disciplina protettiva dei soggetti professionali dal prepotere delle piattaforme.
Si tratta del Regolamento 1150/2019/UE[33] la cui finalità è quella di «contribuire al corretto funzionamento del mercato interno stabilendo norme intese a garantire che gli utenti commerciali di servizi di intermediazione online e gli utenti titolari di siti web aziendali che siano in relazione con motori di ricerca online dispongano di un’adeguata trasparenza, di equità e di efficaci possibilità di ricorso»[34]. Il regolamento, a tale scopo, reca tra l’altro: obblighi di trasparenza circa ‘termini e condizioni’ di utilizzo della piattaforma da parte degli ‘utenti commerciali’ (art. 3); obblighi di comunicazione in capo alla piattaforma a riguardo delle vicende del rapporto con l’utente commerciale (art. 4); obblighi di comunicazione in capo alla piattaforma a riguardo dei criteri mediante cui essa decide il posizionamento dell’offerta dell’utente commerciale tra altre analoghe (art. 5-7); modalità di risoluzione delle controversie anche alternative alla via giudiziale (artt. 11-14); una disciplina relativa all’accesso ai dati da parte della piattaforma e degli utenti commerciali che operino su di essa (art. 9)[35].
- Libertà di scelta del consumatore e repressione delle pratiche commerciali scorrette
Anche nei rapporti tra piattaforme digitali e consumatori i profili entro i quali possono annidarsi condotte abusive delle piattaforme, frutto della già richiamata asimmetria digitale, sono molteplici[36].
Anzitutto la piattaforma digitale può presentarsi al consumatore come venditore di beni, o prestatore di servizi, oltre che come intermediario (in tal caso ponendosi in concorrenza con gli utenti commerciali che essa ospiti presso di sé[37]). Ma, per questo profilo, il rapporto tra la piattaforma e l’utente non commerciale non pare differire da quello tradizionale tra professionista e consumatore: e le tutele a disposizione di quest’ultimo sembrerebbero dover essere anzitutto quelle scaturenti dall’omonimo diritto secondo, così come dalla disciplina del commercio elettronico.
Più incerta è apparsa invece alla dottrina[38] la qualificazione del rapporto tra consumatore e piattaforma digitale nel caso in cui quest’ultima si limiti a svolgere un servizio di intermediazione: dibattendosi in particolare se esso possa essere considerato o meno un rapporto contrattuale[39].
Da altra prospettiva ancora ci si può porre il problema di stabilire se la piattaforma possa ritenersi responsabile per condotte illecite poste in essere dai suoi utenti nei confronti di altri fruitori: ad esempio da parte dei professionisti nei confronti dei consumatori cui essi offrano i propri beni e servizi per il tramite della piattaforma.
Vi è poi il noto profilo della raccolta e dell’utilizzo dei dati personali degli utenti, che potrebbe avvenire da parte della piattaforma senza adeguata informazione al consumatore[40].
Tanta varietà suggerisce immediatamente l’applicazione di discipline differenti, tratte dal bacino ampio del diritto privato: sia di quello generale, sia di quello specificamente dedicato alla tutela dei consumatori. Si tratta anzitutto delle norme in materia di commercio elettronico, di cui al d.lgs. 70/2003, trasposizione della dir. 2000/31/CE; inoltre di quelle numerose che regolano i vari aspetti del rapporto di consumo, raccolte nel d.lgs 206/2005; così come di quelle poste a tutela della privacy dal d.lgs. 196/2003, come modificato in attuazione del regolamento dell’Unione europea 2016/679.
E però, come già accaduto nei rapporti asimmetrici che prendono forma fuori dalle piattaforme, anche in questo ambito la tutela del consumatore si va realizzando anzitutto ad opera dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, mediante l’applicazione della disciplina repressiva delle pratiche commerciali scorrette: la quale, grazie al suo carattere ‘orizzontale’[41] e alla sua formulazione per fattispecie generali[42], si sta rivelando strumento elettivo di tutela del consumatore anche nei confronti delle piattaforme digitali[43].
L’applicazione della disciplina repressiva delle pratiche commerciali scorrette alle piattaforme digitali, peraltro, richiede una sintetica panoramica dei caratteri e degli scopi della stessa, introdotta brevemente la quale si volgerà all’esame di alcune significative ipotesi applicative.
A tal fine vale la pena anzitutto di rammentare che la disciplina oggi contenuta negli articoli 18 e seguenti del codice del consumo trae origine dalla direttiva europea 2005/29/CE, che si proponeva al contempo di contribuire “al corretto funzionamento del mercato” e “al conseguimento di un livello elevato di tutela dei consumatori”[44].
Elementi essenziali della fattispecie generale sono la contrarietà alla diligenza professionale, articolata nelle due specie dell’ingannevolezza e dell’aggressività[45], e l’idoneità della pratica a falsare il comportamento economico del consumatore medio, inducendolo ad assumere una decisione commerciale che non avrebbe altrimenti preso[46]. Accanto alla fattispecie generale e alle sue menzionate specificazioni – pratiche commerciali ingannevoli (artt. 21, 22 cod. cons.) e pratiche commerciali aggressive (artt. 24, 25 cod. cons.) – vi è poi una lista nera di pratiche in ogni caso scorrette (artt. 23 e 26 cod. cons.), al ricorrere delle quali, senza necessità di ulteriori verifiche, la condotta del professionista sarà oggetto di repressione[47].
Volendola ridurre all’essenza, la disciplina in esame mira a salvaguardare la libertà di scelta del consumatore, vietando le condotte del professionista che possano incidere su di essa deviandola o conculcandola[48].
Questa libertà di scelta, tuttavia non è protetta dalla dir. 2005/29 nell’ambito del singolo rapporto, attraverso la tecnica rimediale che ha caratterizzato il diritto europeo dei consumi nei suoi episodi più significativi[49]. La libertà di scelta del consumatore è tutelata piuttosto sul piano generale del mercato, quale componente essenziale del buon funzionamento della concorrenza[50]. L’interesse perseguito attraverso la repressione delle pratiche commerciali scorrette è dunque un interesse di natura non individuale bensì generale, che precipuamente si caratterizza per essere comune a consumatori, concorrenti e all’intero mercato.
Nel senso indicato depone il fatto che la direttiva 2005/29/CE (e di conserva la normativa di recepimento) non si presenti – come è stato rilevato da molti – come disciplina dell’atto bensì dell’attività[51]del professionista. Il terreno di applicazione della medesima non è il contratto, ma la pratica commerciale; il criterio su cui si misura la scorrettezza non è il consumatore individuo ma il consumatore medio (mediamente informato e ragionevolmente avveduto: ossia un modello astratto di consumatore)[52]; la formulazione della fattispecie non è nei termini dell’obbligo ma in quelli del divieto[53]; la pratica commerciale è scorretta non solo se effettivamente falsa, ma anche solo se è idonea a falsare il comportamento economico del consumatore medio[54]. E ancora, la repressione delle condotte vietate avviene attraverso sanzioni ‘effettive, proporzionate e dissuasive’[55].
Coerentemente, per quanto riguarda il nostro ordinamento, l’applicazione di questa disciplina è affidata all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, investita del potere di far cessare le condotte scorrette e di eliminarne gli effetti, ma altresì di un potere sanzionatorio nei confronti di chi ponga in essere una condotta rientrante nel genere di quelle vietate dalla direttiva.
Il quadro così sinteticamente descritto è peraltro destinato ad arricchirsi nel breve periodo di elementi ulteriori. La recente dir. 2019/2161/UE[56] infatti ha introdotto nella dir. 2005/29/CE il nuovo art. 11-bis,in forza del quale gli ordinamenti dovranno dotarsi di rimedi privatistici di cui il consumatore possa avvalersi avverso le pratiche commerciali scorrette[57]. E detti rimedi varranno naturalmente anche nei confronti delle piattaforme digitali, ove queste ultime risultassero autrici di condotte vietate ai sensi degli artt. 18 e seguenti del codice del consumo.
Proprio a questo ultimo riguardo, tuttavia, tornando alla materia che ci occupa, va precisato che non ogni forma di scorrettezza che si verifichi su una piattaforma digitale in danno dei consumatori può considerarsi per ciò solo pratica commerciale scorretta imputabile alla piattaforma. Vi sono infatti casi nei quali, stante l’attuale quadro normativo, l’esito di responsabilità della piattaforma non è (o non dovrebbe essere) scontato, sebbene la scorrettezza si verifichi sulla piattaforma stessa, ad opera di suoi fruitori.
- Pratiche commerciali scorrette poste in essere dalle piattaforme digitali
Prima di considerare tale eventualità, conviene tuttavia partire dalla considerazione dell’ipotesi più piana, nella quale sia stata la piattaforma ‘in proprio’ a porre in essere condotte qualificabili alla stregua di pratiche commerciali scorrette.
A tale proposito va detto anzitutto che la piattaforma riveste la qualità di soggetto professionale ai sensi della direttiva 2005/29/CE, quest’ultimo essendo definito, all’art. 2 lett. b, come «qualsiasi persona fisica o giuridica che, nelle pratiche commerciali oggetto della presente direttiva, agisca nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale e chiunque agisca in nome o per conto di un professionista»[58].
In quanto soggetto professionale, la piattaforma è chiamata a comportarsi secondo lo standard di diligenza previsto dalla fattispecie generale ‘pratica commerciale scorretta’ e definito (dall’art. 18, co. 1, lett. h, cod. cons.) come «il normale grado della specifica competenza ed attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti rispetto ai principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista».
Là dove detto standard sia violato (anche eventualmente attraverso condotte specificamente riconducibili alle fattispecie delle pratiche commerciali ingannevoli, o di quelle aggressive[59]) questo varrà a far sorgere una responsabilità in capo alla piattaforma, sol che ricorra anche l’altro presupposto di cui alla (rectius alle) fattispecie richiamate: ossia l’idoneità a falsare il comportamento economico del consumatore medio, consistente «nell’impiego di una pratica commerciale idonea ad alterare sensibilmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole, inducendolo pertanto ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso» (art. 18, co. 1, lett. e, cod. cons.).
Ebbene, nel caso in cui tutti tali requisiti sussistano non vi è ragione di escludere che la piattaforma debba rispondere alla luce della disciplina repressiva delle pratiche commerciali scorrette. Il che, come si è anticipato, è avvenuto con riguardo a condotte variamente articolate, e in diversi ambiti dell’intermediazione on-line.
In un procedimento recente[60], ad esempio, una nota piattaforma «dove è possibile vendere e acquistare oggetti di abbigliamento e articoli per la casa»[61] descriveva il proprio servizio d’intermediazione come ‘gratuito’, così inducendo gli utenti a preferirla ad altre, allettati dall’assenza di oneri aggiuntivi al prezzo dei beni e servizi commerciati sulla piattaforma. Sennonché il servizio prestato dalla piattaforma era effettivamente gratuito solo per coloro che su di essa vendevano i propri beni: non invece per coloro che detti beni ambivano a comprare; i quali, in concomitanza con l’acquisto, si trovavano a dover pagare una inattesa commissione sull’operazione effettuata.
Nell’ipotesi descritta, come è facile intuire, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha dichiarato l’ingannevolezza del comportamento posto in essere dalla piattaforma[62], e ciò in quanto il consumatore, «secondo il paradigma individuato nelle norme del Codice del Consumo poste a tutela della libertà di scelta del medesimo, [deve] disporre contestualmente – fin dal primo contatto – di tutte le informazioni utili ad assumere la decisione di natura commerciale»[63].
Ugualmente, in un caso di qualche tempo precedente[64], una piattaforma di raccolta fondi[65] dichiarava di svolgere il proprio servizio in modo ‘veloce gratuito e sicuro’. Ma quando il donatore si apprestava a dare l’ordine di pagamento, trovava preimpostata una percentuale di commissioni destinate alla piattaforma, che in taluni casi risultava impossibile modificare.
Anche in questo caso l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha ritenuto che la condotta posta in essere dalla piattaforma fosse ascrivibile al genere di quelle vietate dalla dir. 2005/29/CE. Come si legge nel provvedimento sanzionatorio infatti «i comportamenti oggetto di contestazione sono apparsi contrari alla diligenza professionale e idonei a indurre il consumatore medio all’assunzione di decisioni di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso, sulla base di una ingannevole rappresentazione della realtà circa la gratuità dei servizi offerti e di una modalità aggressiva che condizione la scelta dell’ammontare di commissione prevista su ogni donazione»[66].
Su presupposti analoghi, sebbene in un contesto tutt’affatto diverso, perché non si trattava dello scambio di beni e servizi, l’Autorità ha sanzionato la più nota piattaforma di social network per non avere adeguatamente rappresentato ai suoi utenti che l’iscrizione avrebbe comportato l’acquisizione da parte della stessa dei loro dati personali[67]. Anche in questo caso la contestazione riguardava l’asserita ‘gratuità’[68] della piattaforma, della quale tuttavia l’Autorità ha ritenuto di dubitare in considerazione del fatto che, in cambio dell’iscrizione, il consumatore avrebbe dovuto cedere i propri dati personali[69]. L’ingannevolezza della pratica commerciale si è ritenuta consistere, in estrema sintesi, nello «sfruttamento, inconsapevolmente per l’utente, dei dati da costui offerti al momento dell’iscrizione»[70].
La difficoltà, nella specie, era rappresentata dal fatto che l’ingannevolezza imputata alla piattaforma non riguardava profili economici delle scelte di consumo, ma l’acquisizione dei dati personali del consumatore, con conseguente afferenza della questione alla tutela della privacy, prima ancora che alla materia delle pratiche commerciali scorrette, intesa quest’ultima come finalizzata a garantire la libertà di scelta del consumatore sul piano economico.
E tuttavia, in ragione della c.d. patrimonializzazione dei dati caratteristica della realtà odierna[71], si è ritenuto che la loro acquisizione senza adeguata informazione al consumatore potesse assugere a condotta rilevante anche ai sensi della disciplina repressiva delle pratiche commerciali scorrette[72].
Anche in quest’ultimo caso, peraltro, come negli altri che si sono considerati negli esempi sopra riportati, si trattava di condotte poste in essere dalla piattaforma digitale, autrice di scorrettezze di varia foggia nello svolgimento della propria attività di intermediazione, e alla quale conseguentemente si è ritenuta riferibile la pratica commerciale scorretta e la relativa reazione (nelle varie forme in cui essa è consentita dall’art. 27 cod. cons.) dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato.
- Pratiche commerciali scorrette poste in essere sulle piattaforme digitali
Non così pacifica invece sembra essere l’applicazione della disciplina richiamata nei casi in cui la condotta scorretta sia stata posta in essere non già dalla piattaforma digitale, bensì dai suoi ‘utenti commerciali’: ossia da coloro che sulla piattaforma variamente operano, ad esempio vendendo i propri beni e servizi.
Per fare un esempio significativo – anche perché inerente all’epidemia da Covid-19 – si può considerare un caso recentemente deciso dall’Autorità nel quale, su una piattaforma digitale intermediaria nella vendita di beni e servizi si era assistito alla «pubblicazione di inserzioni di vendita di prodotti sanitari e/o parasanitari, tra i quali mascherine filtranti e kit test per l’autodiagnosi, connotati da claim relativi all’asserita capacità di prevenzione rispetto al contagio da Covid-19 o di rilevazione del virus nel sangue umano»[73].
Condotte come quelle descritte rientrano certamente nel novero dei comportamenti vietati dalla direttiva 2005/29/CE, dal momento che esse forniscono al consumatore informazioni non corrispondenti al vero sulle proprietà dei beni venduti, e sono idonee ad incidere sul comportamento economico del consumatore[74], reso ulteriormente vulnerabile dai timori indotti dalla pandemia.
Sennonché, nel caso di specie, dette condotte non erano direttamente riconducibili alla piattaforma digitale[75] nei confronti della quale l’Autorità garante ha aperto il procedimento. Si trattava infatti di «comportamenti posti in essere … da venditori terzi sulla piattaforma …», come rileva la stessa Autorità. Cionondimeno, quest’ultima ha ritenuto che «con riferimento alle condotte sopra descritte, assume rilievo la responsabilità gravante su […] nella sua qualità di titolare della piattaforma di marketplace, il quale è responsabile delle vendite effettuate sulla propria piattaforma ed è pertanto tenuto, anche sulla base dello standard di diligenza professionale di cui all’articolo 20 del Codice del Consumo, ad adottare misure volte ad evitare fenomeni di speculazione, ovvero ad impedire e prevenire l’utilizzazione di claime diciture orientati ad indurre i consumatori in errore circa l’acquisto di prodotti presentati, o comunemente indicati, per limitare la diffusione del coronavirus».
Il procedimento si è chiuso, invero, mediante l’accettazione da parte dell’Autorità di impegni assunti dalla piattaforma, volti a prevenire nuovi analoghi episodi di scorrettezza: impegni che l’Autorità ha ritenuto «idonei a sanare i possibili profili di illegittimità delle condotte contestate» (cfr. punto 49 del relativo provvedimento). E però: anzitutto l’accettazione degli impegni non equivale a negare (anzi ne è una conferma) che la piattaforma possa astrattamente rispondere di illeciti commessi su di essa anche eventualmente da altri soggetti[76]; ulteriormente, l’assunzione degli impegni da parte della piattaforma rafforza l’idea per cui la piattaforma stessa, che pur non sia autrice di condotte scorrette, debba tuttavia premurarsi affinché queste non abbiano luogo su di essa.
In un caso non dissimile peraltro, nel quale analogamente si trattava di condotte scorrette poste in essere non già direttamente dalla piattaforma, bensì dagli utenti professionali operanti sulla stessa, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha concluso il procedimento irrogando una sanzione nei confronti della piattaforma[77].
Con riferimento a entrambe queste ipotesi, va subito detto che l’atteggiamento repressivo dell’Autorità suona di primo acchito condivisibile negli esiti cui esso ha condotto. La potenza delle piattaforme – sia per le ragioni di asimmetria ‘digitale’ che si sono menzionate in apertura, sia per il fatto che esse traggono profitto grazie agli scambi (o più ampiamente alle interazioni) che sono in grado di ospitare – le elegge infatti a centro d’imputazione naturale, se non addirittura ideale, delle condotte lesive che per loro tramite vengano poste in essere, anche eventualmente da altri soggetti[78].
E tuttavia, la cornice giuridica su cui si regge l’affermazione della responsabilità delle piattaforme per le pratiche commerciali scorrette poste in essere dagli utenti che si avvalgano della loro intermediazione, esibisce qualche fragilità su cui vale la pena di soffermarsi.
L’Autorità garante della concorrenza e del mercato in particolare, nel primo caso che si è riportato, afferma che sussisterebbe una responsabilità della piattaforma per pratiche commerciali scorrette, in ragione del fatto che la piattaforma sarebbe tenuta – «anche sulla base dello standard di diligenza professionale di cui all’articolo 20 cod. cons.» – «ad adottare misure volte ad evitare fenomeni di speculazione come quelli rilevati, ovvero ad impedire e prevenire l’utilizzazione di claime diciture orientati ad indurre i consumatori in errore circa l’acquisto di prodotti presentati»[79].
Ma l’adozione di misure volte ‘ad evitare fenomeni di speculazione’ così come ‘ad impedire e prevenire l’utilizzazione di claim e diciture orientati ad indurre i consumatori in errore’ presupporrebbe un’attività di sorveglianza da parte della piattaforma sui contenuti che per suo tramite siano proposti agli utenti: sorveglianza cui, tuttavia, la piattaforma non è tenuta, per espressa previsione di legge.
L’art. 17, co. 1, d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, infatti – rubricato ‘Assenza dell’obbligo generale di sorveglianza’ – prevede che «nella prestazione dei servizi di cui agli articoli 14, 15 e 16, il prestatore non è assoggettato ad un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza, né ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite»[80].
Questa previsione del resto è in linea con il regime generale di (ir)responsabilità[81] scaturente dal d.lgs. 70/2003[82], ai sensi del quale, com’è noto, «nella prestazione di un servizio della società dell'informazione, consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: a) non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l'attività o l'informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l'illiceità dell'attività o dell' informazione; b) non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l'accesso»[83].
Vi è dunque da chiedersi se affermare la responsabilità della piattaforma per pratiche commerciali scorrette, quando della scorrettezza siano autori soggetti terzi, pur se attivi sulla piattaforma, non contrasti con l’impianto della disciplina da ultimo richiamata, che detta responsabilità – sebbene con specifico riguardo al piano civile – sembra invece escludere in radice[84], sul presupposto dell’assenza di alcun dovere di sorveglianza in capo alla piattaforma su quanto la stessa ‘trasmette o memorizza’ (così l’art. 17 già richiamato).
La questione è affrontata proprio in questi termini nella recente sentenza 18 maggio 2021, n. 3851, dal Consiglio di Stato, il quale, da un lato osserva come «non vi sia una oggettiva incompatibilità tra la figura del professionista, ai sensi della normativa sulle pratiche commerciale scorrette, e quella di hosting provider, ai sensi della normativa sul commercio elettronico»[85]; d’altro lato, tuttavia, afferma che dette discipline «devono essere coordinate, nel senso che è possibile sanzionare le condotte che violano le regole della correttezza professionale, ma non è consentito che mediante l’applicazione della disciplina sulle pratiche scorrette si impongano all’hosting provider prestazioni non previste dalla disciplina sul commercio elettronico e dallo specifico contratto concluso»[86].
Questo non comporta, peraltro, la radicale immunità delle piattaforme digitali per le pratiche commerciali scorrette poste in essere dai loro utenti professionali, ritiene sempre il Consiglio di Stato. Ciò che andrebbe verificato caso per caso è semmai se vi sia un qualche coinvolgimento della piattaforma digitale nella pratica commerciale, nei termini che verranno nel prosieguo meglio specificati: giacché, nell’ipotesi in cui quest’ultimo sussista, potrà affermarsi la responsabilità anche della piattaforma, per la condotta scorretta pur direttamente attribuibile ad altro soggetto su di essa operante[87].
Su analoga linea, sebbene in ambito civile, anche la giurisprudenza della nostra Corte di Cassazione[88] ha recentemente distinto tra due modi possibili di svolgere il servizio di hosting, cui si riconnetterebbero differenti esiti sul piano della responsabilità. Accanto all’hosting provider passivo, che non partecipa alla elaborazione dei contenuti pubblicati dai suoi fruitori, e al quale si applica la disciplina di cui all’art. 16 d.lgs. 70/2003, si è elaborata la figura dell’hosting provider attivo[89], il quale invece compie «attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione, uso, modifica, estrazione o promozione dei contenuti pubblicati dagli utenti, operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio, come pure l'adozione di una tecnica di valutazione comportamentale degli utenti per aumentarne la fidelizzazione»[90]: dirimente nello stabilire di quale tipologia di hosting si tratti, è il fatto se la piattaforma ponga in essere o meno «condotte che abbiano … l’effetto di completare ed arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte degli utenti, il cui accertamento in concreto non può che essere rimesso al giudice di merito»[91].
Questo distinguo – mediante cui si è «teorizza[ta], in via definitiva, … una figura di hosting attivo, superando i conflitti giurisprudenziali sul punto, e delineando, proprio per quella peculiare funzione, non meramente passiva … una forma di responsabilità che meglio si attaglia all’evoluzione, ormai spregiudicata, della rete»[92] – è considerato valevole dalla giurisprudenza amministrativa anche per la responsabilità da pratiche commerciali scorrette[93], che può e deve essere affermata là dove vi sia la «dimostrazione della presenza di elementi, nell’attività del professionista, idonei a dimostrare una “conoscenza e controllo preventivo” dell’informazione contestata, ovvero il potere di “manipolazione” del contenuto memorizzato dai terzi intermediati»[94].
Gli approdi giurisprudenziali che si sono richiamati sembrano dunque deporre nel senso di un rafforzamento progressivo della responsabilità delle piattaforme, rispetto al regime di generale irresponsabilità proprio del d.lgs. 70/2003, e originariamente dovuto alla necessità di favorire l’espansione del mercato digitale. Oggi si avverte piuttosto la necessità di protezione dei soggetti deboli – e primamente dei consumatori – che delle piattaforme variamente si avvalgano, con conseguente maggior rigore nei confronti di queste ultime sul piano della responsabilità.
Proprio in questa direzione sembra muoversi da ultimo anche il legislatore europeo nel Digital Services Act (attualmente, peraltro, al mero stadio di proposta di Regolamento[95]). L’impostazione tradizionale, invero, non è stravolta, nella proposta di Regolamento: si tratta infatti ancora di regole formulate nella chiave dell’irresponsabilità, come era nella disciplina originaria del commercio elettronico[96]. E però, ai sensi dell’art. 5 co. 3, della proposta medesima, detto regime «non si applica in relazione alla responsabilità prevista dalla normativa in materia di protezione dei consumatori per le piattaforme online che consentono ai consumatori di concludere contratti a distanza con operatori commerciali, qualora tali piattaforme online presentino informazioni specifiche o rendano altrimenti possibile l'operazione in questione in modo tale da indurre un consumatore medio e ragionevolmente informato a ritenere che le informazioni, o il prodotto o il servizio oggetto dell'operazione, siano forniti dalla piattaforma stessa o da un destinatario del servizio che agisce sotto la sua autorità o il suo controllo».
La formulazione, invero non del tutto limpida, sembra tuttavia significare che là dove il consumatore medio possa essere indotto a ritenere che il prodotto o il servizio che intende acquistare – o le informazioni fornite a riguardo di esso – provengano direttamente dalla piattaforma, ovvero da suoi ausiliari, tanto basta a neutralizzare il regime di irresponsabilità della piattaforma.
Questa previsione, che inasprisce l’atteggiamento dell’ordinamento nei confronti delle piattaforme, favorendo per contro la protezione dei consumatori, parrebbe fissare perciò un nuovo punto di equilibrio tra il favor per l’espansione del mercato digitale (posto a base del regime di irresponsabilità di cui al d.lgs. 70/2003 più volte richiamato[97]) e la protezione degli utenti che si avventurino nel terreno insidioso delle piattaforme[98]: candidando quest’ultima a ragione prevalente, in questo nuovo corso del commercio elettronico[99].
- Scorrettezza delle pratiche commerciali e rimedi privatistici
L’applicazione alle piattaforme digitali della disciplina repressiva delle pratiche commerciali scorrette per il tramite dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, come i numerosi casi da quest’ultima decisi sono in grado di mostrare, costituisce senz’altro efficace strumento di tutela dei consumatori a fronte della forza delle piattaforme.
Tuttavia, quella cui ci si è riferiti, si configura quale forma di protezione indiretta: connotata da una funzione deterrente e al contempo afflittiva dell’operato della piattaforma, e non in grado tuttavia di incidere direttamente nella sfera individuale del singolo consumatore. Si pone dunque anche per il caso delle pratiche commerciali scorrette imputabili alle piattaforme digitali il problema della tutela di quest’ultimo sul piano del diritto privato.
A questo proposito lo sguardo deve inevitabilmente volgere alla dir. 2019/2161/UE, già precedentemente richiamata, in forza della quale gli ordinamenti, nella materia delle pratiche commerciali scorrette, saranno chiamati ad adottare «rimedi proporzionati ed effettivi, compresi il risarcimento del danno subito dal consumatore e, se pertinente, la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto» (così dispone il nuovo art. 11-bis dir. 2005/29/CE inserito dall’art. 3 co. 5, dir. 2161/2019/UE[100]).
La trasposizione di detta previsione all’interno dell’ordinamento non sarà peraltro agevole, come in altra sede si è tentato di mostrare[101], stante la difficoltà di stabilire quali siano i mezzi più idonei, entro il nostro diritto privato, a realizzare gli obiettivi posti dalla direttiva[102].
Ma oltre a ciò, in questo ambito forse ancor più che in altri, si porrà il problema dell’effettivo interesse del consumatore ad avvalersi di detti rimedi. E la necessità di trovare soluzioni atte ad agevolare la via del c.d. private enforcement[103].
Perché, come già si è anticipato, da un lato le piattaforme digitali rappresentano entità in grado di accrescere il benessere del consumatore sotto il profilo della maggior scelta di beni e servizi, o della più agevole possibilità di interazione con altri soggetti. Per il che interrompere il rapporto con la piattaforma, come accadrebbe per il tramite della ‘risoluzione’ del contratto, di cui fa parola il nuovo art. 11-bis dir. 2005/29/CE, potrebbe non essere soluzione auspicabile per l’utente, il quale realisticamente continuerà a desiderare di utilizzare la piattaforma traendone i noti benefici, malgrado sia stato vittima di sue condotte scorrette.
Per altro verso, quanto alla riduzione del prezzo pur essa prevista dal nuovo art. 11-bis, non sempre sarà facile individuare un ‘prezzo’ da ridurre, quando si tratti del rapporto tra il consumatore e la piattaforma digitale. Quest’ultima, infatti, trae la sua ricchezza anzitutto dall’acquisizione dei dati che scaturiscono dalle operazioni che hanno luogo su di essa: dati che proprio perciò sono considerati essi stessi alla stregua di corrispettivo imposto al consumatore per la fruizione dei servizi offerti dalla piattaforma[104].
È dunque anche tenendo conto della protezione dei dati personali che dovrà orientarsi la tutela del consumatore nei confronti delle piattaforme digitali[105]: giacché – come è stato scritto di recente – «la dimensione microeconomica del contratto telematico non è più sufficiente a comprendere giuridicamente le dinamiche del mercato digitale»[106].
Abstract: The article focuses on the phenomenon of digital platform and the connected digital asymmetry between platforms and users (both professionals and consumers). After some premises regarding the user’s weakness in facing the platform, the author analyses the centrality of unfair commercial practices discipline in this area. Two hypotheses are taken into consideration: that of unfair commercial practices carried out by the platform, and that of unfair commercial practices put in place by platform’s users. In this second hypothesis, the need emerges to evaluate case by case the actual involvement of the platform, as mere ‘passive’ or instead ‘active’ hosting provider.
Key words: digital platforms, consumer protection, digital asymmetry, unfair commercial practices.
* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
[1] Ciò in quanto, come osserva più ampiamente R. Clarizia, Mercato, persona e intelligenza artificiale: quale futuro? in Juscivile, 3(2020), p. 690, «l’informatica, internet, non soltanto incide sulle tecniche commerciali, ma su ogni aspetto delle relazioni interpersonali; sicché è la società civile stessa che si sta e si è già ampiamente trasformata in pochi decenni».
[2] Come mostra la rassegna dei diversi tipi di piattaforma svolta da A. Quarta - G. Smorto, Diritto privato dei mercati digitali, Firenze 2020, p. 117 ss. Le piattaforme digitali sono descritte dagli stessi autori (ivi, p. 116) come «uno speciale tipo di impresa che ha lo scopo di consentire agli utenti del web di interagire tra loro grazie a una interfaccia tecnologica. Queste piattaforme digitali svolgono la funzione di intermediari, ossia di luoghi di incontro fra gruppi interdipendenti di agenti economici, ciascuno situato su un versante del mercato».
[3] Cfr. G. Resta, Digital platforms and the law: contested issue, in Media laws, https://www.medialaws.eu, 1(2018), p. 232.
[4] Come evidenzia ancora G. Resta, ibidem.
[5] Similmente, piattaforma digitale è detta qualunque «servizio di intermediazione che favorisce l’interazione diretta tra due o più gruppi distinti di utenti tra loro connessi per il tramite di ‘effetti di rete indiretti’», secondo quanto afferma la Commissione tedesca dei monopoli, richiamata da G. Resta, Digital platforms and the law: contested issue, cit., p. 232.
[6] La norma prosegue precisando che «ai fini della presente definizione si intende:— “a distanza”: un servizio fornito senza la presenza simultanea delle parti;— “per via elettronica”: un servizio inviato all’origine e ricevuto a destinazione mediante attrezza-ture elettroniche di trattamento (compresa la compressione digitale) e di memorizzazione di dati, e che è interamente trasmesso, inoltrato e ricevuto mediante fili, radio, mezzi ottici o altri mezzi elettromagnetici;— “a richiesta individuale di un destinatario di servizi”: un servizio fornito mediante trasmissione di dati su richiesta individuale».
[7] Si tratta della proposta di regolamento [COM(2020)825] del Parlamento europeo e del Consiglio “relativo a un mercato unico dei servizi digitali (legge sui servizi digitali) e che modifica la direttiva 2000/31/CE”, del 15 dicembre 2020.
[8] Come emerge sin dal primo considerando del Regolamento (UE) 2019/1150 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 che promuove equità e trasparenza per gli utenti commerciali dei servizi di intermediazione online: ivi si legge che «i servizi di intermediazione online, che possono contribuire a migliorare il benessere dei consumatori e sono sempre più utilizzati nei settori sia privato che pubblico, sono elementi determinanti per l’imprenditorialità e per nuovi modelli di business, il commercio e l’innovazione. Offrono accesso a nuovi mercati e opportunità commerciali permettendo alle imprese di esplorare i vantaggi del mercato interno. Permettono ai consumatori dell’Unione di sfruttare tali vantaggi, in particolare grazie alla maggiore possibilità di scelta di beni e servizi nonché contribuendo all’offerta di prezzi competitivi online, ma sollevano anche sfide che devono essere affrontate al fine di garantire la certezza giuridica».
[9] È infatti per la loro soddisfazione che essenzialmente il consumatore agisce, anche in questo risiedendo le ragioni della sua debolezza al cospetto del professionista A. Nicolussi, I consumatori negli anni settanta del diritto privato. Una retrospettiva problematica, in Europa dir. priv., 4(2009), p. 908 ss.
[10] Cfr., ancora, il considerando 1 del Reg. 2019/1150/UE; nel considerando 5 Reg. 2019/1150/UE si legge che «i consumatori hanno accolto favorevolmente l’utilizzo dei servizi di intermediazione online».
[11] Considerando 2 e considerando 4 Reg. 2019/1150/UE. Ai rapporti tra piattaforme digitali e utenti commerciali è principalmente dedicato il testo di A. Palmieri, Profili giuridici delle piattaforme digitali, Torino 2019.
[12] Il consumatore, come osserva G. Grisi, Le magnifiche sorti progressive del turismo 5.0, in Europa dir. priv., 2(2020), p. 482, «della varietà dell'offerta … coglie il lato positivo e, spettando a lui scegliere, è comunque portato a credere di avere il dominio della situazione, di essere pienamente padrone delle proprie azioni e solo artefice delle proprie decisioni; è pervaso — potremmo dire — da un senso di onnipotenza, crede di poter comandare il gioco e, quando gli capita di rendersi conto che così non è, è troppo tardi. Ovviamente, non è detto che il giocatore esca sempre perdente dalla sfida: ove dimostri abilità ed eviti le insidie può effettivamente arrivare a compiere una buona scelta. Ma quel che è certo è che il banco non perde mai ed, anzi, sarebbe meglio dire che vince sempre, avendo avuto comunque occasione di esercitare, seppure in modo non esplicito e palese, un'influenza, spesso determinante, nell'orientare la decisione del turista/giocatore. La persuasione occulta ha radici antiche, ma chi può mettere in dubbio il fatto che le moderne tecnologie ne amplifichino i richiami?».
[13] Anche attraverso l’utilizzo di algoritmi. Emblematiche le vicende che hanno riguardato le piattaforme digitali dei c.d. rider, su cui si vedano i recenti contributi di V. Ferrante, Ancora in tema di qualificazione dei lavoratori che operano grazie ad una piattaforma digitale, in Dir. rel. Ind., 1(2021), p. 215 e F. Carinci, Tribunale Palermo 24/11/2020 L’ultima parola sui rider: sono lavoratori subordinati, in Lavoro Diritti Europa, 1(2021).
[14] In questo senso, ancora G. Grisi, Le magnifiche sorti progressive, cit. p. 482, rileva che «in verità, la rete è uno sterminato supermarket ricco di luci ed offerte mirabolanti che, non solo stimolano, ma creano la domanda e – per essere più precisi – un certo tipo di domanda. Fare turismo è la risposta ad un bisogno insopprimibile dell'individuo, ma molti fattori esogeni – la rete, in primis – hanno un ruolo decisivo nel conformare quel bisogno e, quindi, nella definizione delle modalità di soddisfazione».
[15] Nel Reg. 2019/1150/UE, al considerando 2, si legge che le piattaforme digitali «possono imporre unilateralmente agli utenti commerciali prassi che deviano considerevolmente da un comportamento commerciale corretto o contravvengono ai principi della buona fede e della correttezza».
[16] Nel quale, come rileva A. Albanese, I contratti dei consumatori tra diritto privato generale e diritti secondi, in Jus, 2(2009), p. 351, «la parità formale tra i contraenti non è sufficiente a garantire l’effettivo esercizio della libertà contrattuale in quelle situazioni in cui il difetto di determinati presupposti di fatto non consenta ad alcuni soggetti di partecipare al traffico giuridico senza subire l’abuso del contraente più forte».
[17] Cfr. A.M. Benedetti, Rapporto asimmetrico (voce), Enc. dir., Milano 2012, il quale osserva che «sulla debolezza come categoria contrattuale la letteratura è ormai vastissima … essa viene usualmente identificata in un’asimmetria (che è poi la “componente fondamentale” sulla quale si costruisce la categoria che qui si analizza), la quale si misura sul deficit di potere contrattuale che contraddistingue una parte rispetto all’altra, inteso, però, come condizione fisiologica da cui scaturisce la necessità, legislativamente avvertita, di proteggere la parte debole (… il consumatore) arginando i poteri di quella forte (il professionista)».
[18] Della quale nel recente lavoro di N. Helberger - O. Lynskey - H-W. Micklitz - P. Rott -M. Sax - J. Strycharz, EU Consumer Protection 2.0, Structural asymmetries in digital consumer markets. A joint report from research conducted under the EUCP2.0 project, 2021, p. 51 (https://www.beuc.eu/publications/eu-consumer-protection-20-structural-asymmetries-digital-consumer-markets-0) si legge che «digital asymmetry will and may never be reduced to information asymmetry. Digital asymmetry is a structural phenomenon that affects all consumers and that cannot be overcome by providing ever more information. As the consumer is structurally and universally unable to ‘understand’ the digital architecture, information in whatever form cannot remedy the existing asymmetry».
[19] Cfr. C. Camardi, Contratti digitali e mercati delle piattaforme. Un promemoria per il civilista, in Jus civile, 2021, p. 909.
[20] Ibidem. Dove si descrive il fenomeno come connotato da «una folla di destinatari del servizio nonché users senza tregua delle svariate funzionalità offerte, fronteggiata da un soggetto accentrato, detentore dell’accesso e di tutti i poteri di policy e di organizzazione dei servizi che la disponibilità tecnica gli consente di svolgere».
[21] Sulle modalità attraverso cui possono svolgersi i rapporti economici sulle piattaforme, con particolare alle relazioni c.d. peer to peer, cfr. A. Quarta, Il diritto dei consumatori ai tempi della peer economy. Prestatori di servizi e prosumers: primi spunti, in Europa dir. priv., 2(2017), p. 667.
[22] Uno degli ambiti in cui si manifesta l’asimmetria tra la piattaforma digitale e l’utente commerciale che se ne avvale per offrire ai consumatori i propri beni o servizi è quello c.d. del ‘posizionamento’. A questo riguardo il Reg. 2019/1150/UE al considerando 24 spiega che «il posizionamento dei beni e dei servizi da parte del fornitore dei servizi di intermediazione online ha un impatto importante sulla scelta del consumatore e, di conseguenza, sul successo commerciale degli utenti commerciali che offrono tali beni e servizi ai consumatori. Il posizionamento si riferisce alla rilevanza relativa delle offerte degli utenti commerciali o alla rilevanza attribuita ai risultati della ricerca come presentati, organizzati o comunicati dai fornitori di servizi di intermediazione online o dai fornitori di motori di ricerca online, risultante dall’utilizzo di meccanismi algoritmici di ordinamento in sequenza, valutazione o recensione, dalla messa in evidenza visiva o da altri strumenti di messa in rilievo, o da una combinazione tra questi». In ragione di ciò, il richiamato regolamento prevede, all’art. 5, obblighi di trasparenza circa i parametri che determinano il posizionamento dell’utente commerciale e circa gli effetti del versamento di un corrispettivo alla piattaforma sul posizionamento medesimo.
[23] Si tratta dei rapporti tra professionista e consumatore costituiti per il tramite della piattaforma (e perciò definiti ‘sottostanti’ rispetto a quelli che legano la piattaforma e i suoi fruitori): a essi dedica ampia attenzione C. Camardi, Contratti digitali e mercati delle piattaforme. Un promemoria per il civilista, cit., pp. 884-896.
[24] Diverso è il caso delle relazioni c.d. peer to peer, ossia dei rapporti tra soggetti non professionali che vendono e acquistano beni e servizi sulle piattaforme. Il problema in questo caso è stabilire se e a quali condizioni a questi rapporti si possa applicare la disciplina protettiva del consumatore: ciò potrebbe accadere se uno dei due soggetti non professionali acquisisse una posizione tale da generare uno squilibrio di potere contrattuale analogo a quello che corre tra professionista e consumatore. Della questione si occupa A. Quarta, Il diritto dei consumatori, cit., p. 667 ss.
[25] Cfr. ancora C. Camardi, Contratti digitali e mercati delle piattaforme. Un promemoria per il civilista, cit., 884 ss.
[26] Contribuendo a rendere più complessa la realtà dei rapporti asimmetrici, cui si attaglia l’osservazione per cui in essa «si coniugano il trend che si propone di tutelare i consumatori nei loro rapporti con i professionisti e il trend che si propone di tutelare gli utenti dei mezzi informatici nei loro rapporti con i fornitori dei servizi e con gli utenti professionali degli stessi servizi», così G. Alpa, Tecnologie e diritto privato, in Riv. it. scienze giuridiche, 8(2017), p. 305.
[27] Cfr. Camardi, Contratti digitali e mercati delle piattaforme, cit., p. 878.
[28] Cui è dedicata la monografia di A.P. Scarso, Il contraente debole, Torino 2006.
[29] Su tali rapporti si veda V. Roppo, I paradigmi di comportamento del consumatore, del contraente debole e del contraente professionale nella disciplina del contratto, in Oltre il soggetto razionale. Fallimenti cognitivi e razionalità limitata, a cura di G. Rojas Elgueta e N. Vardi, Roma, 2014, p. 25.
[30] Così ancora il Reg. 2019/1150/UE, considerando 2, dove si osserva che «l’incremento delle intermediazioni delle transazioni attraverso i servizi di intermediazione online, alimentati da forti effetti indiretti di rete basati su dati, conduce a un aumento della dipendenza da tali servizi degli utenti commerciali, in particolare le microimprese, piccole e medie imprese (PMI), per raggiungere i consumatori. Dato l’aumento della dipendenza, i fornitori di tali servizi spesso hanno un potere contrattuale superiore, che consente loro di agire di fatto unilateralmente in un modo che può essere iniquo e quindi dannoso per gli interessi legittimi dei loro utenti commerciali e, indirettamente, anche dei consumatori dell’Unione».
[31] Per una analisi delle possibili condotte scorrette della piattaforma nei confronti dell’utente commerciale cfr. M.W. Monterossi, La tutela dell’utente commerciale nei mercati digitali, Contratto e Impresa, 3(2021), p. 925.
[32] Definito come «un privato che agisce nell’ambito delle proprie attività commerciali o professionali o una persona giuridica che offre beni o servizi ai consumatori tramite servizi di intermediazione online per fini legati alla sua attività commerciale, imprenditoriale, artigianale o professionale» (art. 2 Reg. 2019/1150/UE).
[33] Che già si è già supra richiamato (cfr. paragrafo 1, e altresì nt. 8).
[34] Art. 1 co. 1 Reg. 2019/1150/UE.
[35] All’art. 1, co. 4, peraltro, vi si precisa che «il presente regolamento non pregiudica il diritto civile nazionale, segnatamente il diritto contrattuale, nella fattispecie le norme sulla validità, la formazione, gli effetti o la risoluzione di un contratto, nella misura in cui le norme nazionali di diritto civile sono conformi al diritto dell’Unione e gli aspetti pertinenti non sono contemplati dal presente regolamento». Il che induce a ritenere che il professionista che subisca il comportamento scorretto dalla piattaforma possa ricorrere da un lato al diritto privato generale, dall’altro alle regole protettive dell’impresa debole: sebbene a quest’ultimo riguardo l’ordinamento non disponga di una disciplina generale, a meno che tale si voglia ritenere quella dell’abuso di dipendenza economica, pur se contenuta nella legge sulla subfornitura: si tratta dell’art. 9 della l. 18 giugno 1998, n. 192, intitolata “Disciplina della subfornitura nelle attività produttive”. Non condivide questa impostazione C. Castronovo, Eclissi del diritto civile,Milano 2015,103 s., spec. 105.Di diversa opinione A. Albanese, Abuso di dipendenza economica: nullità del contratto e riequilibrio del rapporto, in Europa dir. priv., 4(1999), p. 1182, per il quale destinatario della relativa tutela non è solo il “subfornitore” «ma qualsiasi imprenditore che si trovi in una situazione di dipendenza economica nei confronti della controparte. In tal senso depone anzitutto l’art. 9 co. 1, che individua l’eventuale soggetto passivo con esplicito riferimento alle imprese clienti e non soltanto fornitrici. L’ampia portata del divieto trova poi riscontro nella previsione del secondo comma che contempla tra le ipotesi di comportamento abusivo anche il rifiuto di vendere».
[36] E tuttavia privi di una regolazione apposita, diversamente da quanto s’è detto avvenire per i rapporti tra piattaforma digitale e utente commerciale. Parla di un vero e proprio ‘vuoto’ C. Camardi, Contratti digitali, cit., p. 907, che evidenzia la «mancata regolamentazione del rapporto tra piattaforma e fruitore quando quest’ultimo non è un operatore commerciale, ma un consumatore o semplice fruitore, o un soggetto che promuove uno scambio peer to peer».
[37] Si tratta di una delle preoccupazioni emerse nella Comunicazione del 10 maggio 2017 dedicata a ‘Mid-Term Review on the implementation of the Digital Single Market Strategy. A Connected Digital Single Market for All, COM (2017) 228 final (ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2017/IT/COM-2017-228-F1) dove si legge (p. 8) che «There is widespread concern that some platforms may favor their own products or services, otherwise discriminate between different suppliers and sellers and restrict access to, and the use of, personal and non-personal data, including that which is directly generated by a company's activities on the platforms. Lack of transparency, e.g. in ranking or search results, or lack of clarity in relation to certain applicable legislation or policies have also been identified as key issues. A significant proportion of disagreements between professional users and online platforms remain unresolved, which can create important negative impacts for the affected businesses».
[38] C. Camardi, Contratti digitali e mercati delle piattaforme, cit., p. 900, la quale si sofferma in particolare sulla lettura proposta da A. Quarta, Mercati senza Scambi. le Metamorfosi del Contratto nel Capitalismo, Napoli 2020.
[39] Ancora C. Camardi, Contratti digitali e mercati delle piattaforme, cit., p. 917.
[40] Sul tema si veda la recente monografia di C. Irti, Consenso “negoziato” e circolazione dei dati personali, Torino 2021, spec. 173 s. Alla tutela della persona sotto il profilo della riservatezza in un mercato permeato dall’informatica dedica ampia attenzione R. Clarizia, Mercato, persona e intelligenza artificiale: quale futuro? cit. 689 ss.; 698 ss.
[41] Cfr. L. Rossi Carleo, Consumatore, consumatore medio, investitore e cliente: frazionamento e sintesi nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in Europa dir. priv., 3(2010), p. 706. Scrive G. De Cristofaro, Le «pratiche commerciali sleali» tra imprese e consumatori,Torino 2007, p. 3 che quella di pratica commerciale scorretta è «nozione amplissima, che include qualsivoglia comportamento (attivo o anche solo meramente passivo) tenuto da un professionista anteriormente, contestualmente o anche posteriormente alla conclusione di un qualsivoglia contratto con un consumatore, che sia finalizzato a promuovere la stipulazione di un contratto siffatto o comunque presenti una “diretta connessione” con un tale contratto».
[42] La disciplina si articola infatti in una pluralità di fattispecie, combinate in una struttura a piramide, costituita da una norma generale (art. 5 dir. 2005/29/CE, art. 20 cod. cons.), che detta i requisiti essenziali che una certa condotta deve presentare per poter essere qualificata come pratica commerciale scorretta, e da successive norme di dettaglio. Si tratta innanzitutto delle pratiche commerciali ingannevoli (nella forma commissiva di cui all’art. 6 e in quella omissiva di cui all’art. 7, dir. 2005/29/CE) e delle pratiche commerciali aggressive (di cui all’art. 8 dir., come ulteriormente dettagliate nel «ricorso a molestie, coercizione o indebito condizionamento» all’art. 9), le quali sono state dette small general clauses (da H. Micklitz, The General Clause on Unfair Practices, in European fair trading law, a cura di G. Howells, H.-W.Micklitz, T. Willhemson, Ashgate Aldershot 2006, p. 85.) in ragione della minore ampiezza che apparentemente le caratterizza rispetto a quella di cui all’art. 5 (nel nostro codice del consumo sono disciplinate agli artt. 21,22 e 24, 25). Ad esse si aggiunge la cosiddetta black list (in allegato alla direttiva) che prevede una serie di condotte tassativamente individuate, e qualificate, come “in ogni caso scorrette” (nel nostro codice del consumo, artt. 23 e 26).
[43] Secondo una linea di tendenza che ha spostato il baricentro della tutela del consumatore dal private enforcement al public enforcement (da ultimo ne dà conto C. Irti, Consenso “negoziato” e circolazione dei dati personali, cit., 170 ss.). Un’inversione di tendenza sembra aver voluto imprimere però l’Unione europea mediante la dir. 2019/2161/UE, nella quale si introducono nuovi rimedi privatistici avverso le pratiche commerciali scorrette, come si dirà.
[44] Cfr. art. 1 dir. 2005/29/CE.
[45] Cfr. Considerando 13, ai sensi del quale “il divieto generale si articola attraverso norme riguardanti le due tipologie di pratiche commerciali più diffuse, vale a dire le pratiche commerciali ingannevoli e quelle aggressive”.
[46] Cfr. art. 18 cod. cons.
[47] Cfr. art. 23 e 26 cod. cons.
[48] Nella menzionata direttiva 2005/29, al considerando 14, si legge che «è auspicabile che nella definizione di pratiche commerciali ingannevoli rientrino quelle pratiche, tra cui la pubblicità ingannevole, che inducendo in errore il consumatore gli impediscano di scegliere in modo consapevole» (corsivi aggiunti). E al considerando 16, ancora, si legge che «le disposizioni sulle pratiche commerciali aggressive dovrebbero riguardare le pratiche che limitano considerevolmente la libertà di scelta del consumatore» (corsivi aggiunti).
[49] A. di Majo, Obbligazioni e tutele, Torino 2019, p. 141 s., rileva come il diritto europeo sia un diritto orientato alle forme di tutela. Il ‘rimedio’, che è lo strumento attraverso cui la tutela si attua, «è a stretto ridosso della violazione» e proprio perciò è stato definito come «cura contro i torti» (ivi, p. 144).
[50] Dice A. Barba, Capacità del consumatore e funzionamento del mercato (Torino 2021), p. 51, che «la protezione dell’autodeterminazione economica del consumatore assicura il corretto funzionamento del mercato interno in quanto realizza la condizione di efficienza e di efficacia della dinamica concorrenziale».
[51] Tra i primi a metterlo in evidenza L. Rossi Carleo, Consumatore, consumatore medio, investitore e cliente: frazionamento e sintesi nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, cit., p. 704.
[52] Considerando 18 dir. 2005/29/CE, art. 1 della medesima, art. 18 cod. cons.
[53] Sia la direttiva sia il codice del consumo che ne ricalca il testo si esprimono nei termini per cui ‘le pratiche commerciali scorrette sono vietate’.
[54] Art. 5 dir. 2005/29/CE, art. 18 cod. cons.
[55] Art. 13 dir. 2005/29/CE, trasposto nel più esteso art. 27 cod. cons.
[56] Essa è il risultato del c.d. ‘New deal for consumers’, il cui contenuto e i cui obiettivi sono illustrati da S. Tommasi, The ‘New Deal’ for Consumers: Towards More Effective Protection?, in ERPL, 2(2020), p. 311.
[57] Ai sensi di tale norma in particolare: «1. I consumatori lesi da pratiche commerciali sleali devono avere accesso a rimedi proporzionati ed effettivi, compresi il risarcimento del danno subito dal consumatore e, se pertinente, la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto. Gli Stati membri possono stabilire le condizioni per l’applicazione e gli effetti di tali rimedi. Gli Stati membri possono tener conto, se del caso, della gravità e della natura della pratica commerciale sleale, del danno subito dal consumatore e di altre circostanze pertinenti. 2. Detti rimedi non pregiudicano l’applicazione di altri rimedi a disposizione dei consumatori a norma del diritto dell’Unione o del diritto nazionale». Sul tema sia consentito di rinviare a L. Guffanti Pesenti, Pratiche commerciali scorrette e rimedi nuovi. La difficile trasposizione dell’art. 3, co. 1, n. 5), dir. 2019/2161/UE, in Europa dir. priv., 4(2021), in corso di pubblicazione.
[58] La definizione è riportata pressoché identica nell’art. 18, co. 1, lett. b cod. cons.
[59] Nonché naturalmente dove le condotte della piattaforma siano ascrivibili alle c.d. liste nere, in tal caso, peraltro, non essendo necessario verificare null’altro che la corrispondenza del fatto alla fattispecie (cfr. supra, nt. 42).
[60] Si tratta del procedimento PS12003.
[61] Si veda il relativo provvedimento dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, 20 luglio 2021, n. 29788.
[62] Rilevando in particolare (cfr. il provvedimento richiamato nella nota precedente, al n. 19) come «i messaggi pubblicitari in esame, incentrati … sull’assenza di commissioni dei consumatori venditori, sono comunque suscettibili di indurre in errore i consumatori potenziali “acquirenti”, ossia certamente la gran parte dei fruitori del servizio della piattaforma … potendoli ingannare in ordine all’effettiva “gratuità” e “assenza di commissioni” delle operazioni da realizzare sulla piattaforma; infatti, tali messaggi non indicano chiaramente, come invece dovrebbero, la circostanza che gli acquisti … sono in realtà soggetti all’applicazione di importanti commissioni da parte della Piattaforma e che gli utenti-acquirenti sono tenuti al pagamento di commissioni e spese per ogni transazione online» (corsivi aggiunti: sia i venditori sia gli acquirenti, in questa piattaforma, sono consumatori, ossia soggetti non professionali, secondo il modello c.d. peer to peer, cfr. supra nt. 24).
[63] Per l’Autorità (nel medesimo provvedimento, n. 20) «si palesa del tutto ininfluente, al riguardo, l’eventuale possibilità per i consumatori di reperire sul sito web del professionista informazioni sulle modalità di funzionamento della Piattaforma e sui relativi costi che poi risultano a carico dell’acquirente: questo anche perché, una volta determinato il c.d. “aggancio pubblicitario” del consumatore in base al claim sulla gratuità, il solo fatto che sia indotto a consultare il sito per ottenere ulteriori informazioni aumenta la possibilità che egli si determini effettivamente a fruire delle prestazioni del professionista».
[64] È il procedimento PS11726, conclusosi con decisione del 27 marzo 2020.
[65] Nella descrizione che ne fa l’Autorità, si tratta «di una delle più grandi piattaforme mondiali per la raccolta fondi». A. Renda, Donation-based crowdfunding, raccolte fondi oblative e donazioni “di scopo”, Milano 2021, 559 s., obietta peraltro che la disciplina delle pratiche commerciali scorrette non dovrebbe essere applicata al fundraiser, dal momento che la raccolta fondi operata dalla piattaforma «non è funzionale a provocare un comportamento economico del consumatore, suscettibile di essere falsato dalla scorrettezza del modo in cui la pratica è esercitata». Osserva ancora l’a. che « … nel fundraising … non si offre un servizio funzionale a soddisfare un bisogno di consumo … in cambio di un bene suscettibile di sfruttamento patrimoniale (quali sono i dati personali degli utenti), ma si stimola puramente e semplicemente un comportamento retto da spirito di liberalità … insomma fintantoché la nozione di pratica commerciale resterà ancorata al fatto di avere un oggetto di commercio, la conclusione non potrà che essere negativa».
[66] Cfr. il provvedimento 27 marzo 2020, n. 28204 (in fatto). Il procedimento PS11726 si è chiuso peraltro senza conseguenze per la piattaforma, dal momento che essa aveva nel frattempo adottato misure idonee a «evitare il rischio che … le pratiche commerciali oggetto di contestazione continuino a produrre effetti pregiudizievoli per i consumatori».
[67] Il Procedimento era il PS11112. Su di esso si veda la recente sentenza C.d.S. 29 marzo 2021, n. 2631. Della questione si occupa C. Irti, Consenso “negoziato” e circolazione dei dati personali, Torino 2021, spec. 173 s., spec. 177.
[68] Per l’autorità, «il Professionista non informerebbe adeguatamente e immediatamente l’utente, in fase di attivazione dell’account, dell’attività di raccolta dei suoi dati a fini commerciali ovvero finalizzata alla loro monetizzazione, rendendolo edotto della sola gratuità della fruizione del servizio, così da indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso (registrazione al social network e permanenza nel medesimo)» (provv. n. 27432, n.7).
[69] Afferma ancora l’Autorità che «il business model del gruppo … si fonda proprio sulla raccolta e sfruttamento dei dati degli utenti a fini remunerativi configurandosi, pertanto, tali dati come contro-prestazione del servizio offerto dal social network, in quanto dotati di valore commerciale. In particolare, i ricavi provenienti dalla pubblicità on-line, basata sulla profilazione degli utenti a partire dai loro dati, costituiscono l’intero fatturato [dell’una] e il 98% del fatturato [dell’altra piattaforma] » (provv. n. 27432, n. 18).
[70] Come evidenzia il Consiglio di Stato nella sentenza 2631/2021, cit. (n. 9) «il rimprovero rivolto al professionista consiste[…] nel non aver informato l’utente … nel momento in cui rende disponibili i propri dati al fine di potere utilizzare gratuitamente i servizi offerti [dalla piattaforma]» del fatto che, «a fronte del vantaggio si realizza una automatica profilazione ad uso commerciale, non chiaramente ed immediatamente indicata all’atto del primo accesso, quale inevitabile conseguenza della messa a disposizione dei dati».
[71] S. Tommasi, The ‘New deal’ for Consumers,cit., p. 328, osserva come «personal data constitute the new currency in the networkand that some contracts, through the screen of gratuity, seem to attribute only advantages to the consumer, which, in reality, is the true depleted subject» (riportando un’espressione coniata da A. Palmieri - R. Pardolesi, Clausole «unfair» e abuso da sfruttamento, in Mercato Concorrenza Regole, 2018, p. 14; il corsivo è aggiunto). Sul fenomeno dello scambio tra beni (e servizi) e dati personali si sofferma anche Camardi, Contratti digitali,cit., p. 886.
[72] A tale riguardo C.d.S. 2631/2021 afferma che la patrimonializzazione del dato «nel caso di specie … costituisce il frutto dell’intervento delle società attraverso la messa a disposizione del dato – e della profilazione dell’utente – a fini commerciali» (ivi, n. 8). Si precisa infatti (ibidem) che «non viene in emersione la commercializzazione del dato personale da parte dell’interessato, ma lo sfruttamento del dato personale reso disponibile dall’interessato in favore di un terzo soggetto che lo utilizzerà a fini commerciali».
[73] Oltre che all’indicazione di prezzi «in modo ambiguo e notevolmente incrementati rispetto al periodo precedente alla pandemia». Il procedimento è il PS11734, chiuso con provvedimento 28445, nell’adunanza dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, del 10 novembre 2020.
[74] Nel provvedimento si legge che (punto 7) «le comunicazioni commerciali dirette a promuovere la vendita dei prodotti oggetto del procedimento, in particolare mascherine filtranti e kit test per l’auto-diagnosi, apparivano idonee a ingenerare nei destinatari l’erroneo convincimento che fosse possibile evitare il contagio del Covid-19 mediante l’impiego delle mascherine e/o auto-diagnosticare la presenza del virus attraverso test-kit a domicilio (non autorizzati). Tali condotte risultavano quindi contrarie alla diligenza professionale e idonee a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio, in relazione al prodotto, inducendolo ad assumere decisioni di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso, sulla base di una ingannevole e ambigua rappresentazione della realtà, che sfruttava la situazione di emergenza sanitaria esistente ed era suscettibile di porre in pericolo la salute e la sicurezza dei consumatori. Inoltre, la condotta consistente nell’applicazione durante la crisi pandemica di significativi incrementi di prezzo per alcuni prodotti di difficile reperimento a causa della rapida diffusione del virus, sembrava sfruttare indebitamente la situazione di grave crisi epidemica e la conseguente vulnerabilità dei consumatori».
[75] Quest’ultima, in proprio, aveva violato obblighi di informazione circa le condizioni del servizio di intermediazione, secondo quanto si evince dalla ricostruzione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato: e per dette violazioni era certamente responsabile per pratiche commerciali scorrette.
[76] Cfr. art. 27, co. 7, cod. cons., ai sensi del quale «ad eccezione dei casi di manifesta scorrettezza e gravità della pratica commerciale, l’Autorità può ottenere dal professionista responsabile l’assunzione dell’impegno di porre fine all’infrazione, cessando la diffusione della stessa o modificandola in modo da eliminare i profili di illegittimità. L’Autorità può disporre la pubblicazione della dichiarazione dell’impegno in questione a cura e spese del professionista. In tali ipotesi, l’Autorità, valutata l’idoneità di tali impegni, può renderli obbligatori per il professionista e definire il procedimento senza procedere all’accertamento dell’infrazione».
[77] È il caso che sarà oggetto del giudizio conclusosi con la sentenza C.d.S. 18 maggio 2021, n. 3851, richiamata infra nel testo.
[78] Cfr. C.d.S. 18 maggio 2021, n. 3851 (n. 3.7) che osserva come «nel vigente ordinamento, se per un verso, viene riconosciuta l’importanza di questi soggetti sia dal punto di vista economico – essi intermediano la maggior parte delle attività imprenditoriali che hanno luogo in rete – sia dal punto di vista socio-culturale – essi permettono la circolazione e l'accesso all'informazione – per altro verso, da più parti si lamenta che gli illeciti telematici avvengano proprio in virtù dell'attività svolta dagli intermediari di Internet, che devono dunque essere coinvolti nella responsabilità o almeno nelle operazioni di prevenzione e rimozione di tali illeciti».
[79]PS11734, chiuso con provvedimento 28445, nell’adunanza dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, 10 novembre 2020.
[80] Precisando poi, al co. 3, che il prestatore è civilmente responsabile del contenuto di tali servizi solo «nel caso in cui, richiesto dall’autorità giudiziaria o amministrativa avente funzioni di vigilanza, non ha agito prontamente per impedire l'accesso a detto contenuto, ovvero se, avendo avuto conoscenza del carattere illecito o pregiudizievole per un terzo del contenuto di un servizio al quale assicura l'accesso, non ha provveduto ad informarne l'autorità competente».
[81] Cfr. C. Castronovo, Responsabilità civile, Milano 2018, p. 289 il quale a proposito degli artt. 14, 15, 16 d.lgs. 70/2003 afferma che «una considerazione d’insieme della disciplina ora esaminata ne mette in luce la singolarità. Le regole che la costituiscono, infatti, diversamente da quelle che potremmo dire ordinarie in materia non sono di responsabilità ma di irresponsabilità. La legge cioè, agli art. 14, 15 e 16 invece di individuare, come in genere fa, una fattispecie di responsabilità, descrive come aliene da responsabilità determinate fattispecie, per poi enucleare una serie di fatti impeditivi della non responsabilità, soltanto al verificarsi dei quali sorge la responsabilità».
[82] E prima ancora dalla dir. 2000/31/CE di cui esso è trasposizione nel nostro ordinamento.
[83] Così dispone l’art. 16, trasposizione dell’art. 14 dir. 2000/31/CE.
[84] Tranne che nei casi espressamente previsti dagli artt. 14-16 d.lgs. 70/2003. Rispetto ai quali scrive ancora Castronovo «da un lato norme così costruite servono a fornire subito l’impressione sintetica che la responsabilità è esito eccezionale rispetto a un contesto di irresponsabilità. Dall’altro, sul piano strettamente tecnico, servono a impedire quella applicazione analogica alla quale disposizioni costruite in chiave positiva potrebbero sollecitare. Se cioè il legislatore avesse posto una norma del tenore: il prestatore di servizi informatici è responsabile quando, ecc., avrebbe consentito all’interprete di ampliare analogicamente lo spazio della fattispecie, laddove l’affermazione della responsabilità in termini di eccezione rispetto alla non responsabilità rende inutilizzabile, stante il divieto dell’art. 14 disp. l. gen., lo strumento dell’analogia in funzione di ampliamento delle varie fattispecie».
[85] Ai sensi della direttiva 2005/29/CE, è considerato professionista «qualsiasi persona fisica o giuridica che, nelle pratiche commerciali oggetto della presente direttiva, agisca nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale e chiunque agisca in nome o per conto di un professionista» (art. 18, lett. b, cod. cons.),ossia «le singole persone fisiche che entrano in contatto con i consumatori in veste di mandatari (con o senza rappresentanza) agenti o ausiliari di tale soggetto, nonché gli imprenditori che, su incarico di questi ultimi, diffondono tali messaggi indirizzandoli e facendoli pervenire al pubblico dei consumatori»: così G. De Cristofaro, Pratiche commerciali scorrette, Enc. dir., Milano 2012, p. 1083.
[86] C.d.S. 18 maggio 2021, n. 3851 (3.6).
[87] In altra sede, a proposito della responsabilità del venditore di un bene che non sia anche autore del messaggio pubblicitario scorretto, si era ritenuto di affermare che «è pur sempre necessario, affinché sorga a [suo] carico una responsabilità per pratiche commerciali scorrette …che [esso] partecipi[…] della scorrettezza della pratica, e che sia accertata perciò, in capo a [esso], la violazione degli artt. 20 e ss. cod. cons.: non potrà dunque essere considerato responsabile il mero tramite del messaggio che non abbia concorso con il proprio comportamento al compimento dell’illecito, ma sarà necessario verificare, in capo a chiunque si voglia sanzionare, la partecipazione nell’infrazione del divieto», cfr. L. Guffanti Pesenti, Scorrettezza delle pratiche commerciali e rapporto di consumo, Napoli 2020, p. 245.
[88] Si tratta di Cass. 19 marzo 2019, n. 7708, cui dedica un ampio commento R. Bocchini, La responsabilità civile plurisoggettiva, successiva ed eventuale dell’ISP, in Giur. it., 2019, p. 2606.
[89] Si tratta di figura elaborata dalla Corte europea di giustizia, come si desume dalla ricostruzione operata da Cass. 19 marzo 2019, n. 7708 (n. 4.2), ove si legge che «la nozione di “hosting provider attivo”, [è] riferita a tutti quei casi che esulano da un’ “attività dei prestatori di servizi della società dell’informazione (che) sia di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, con la conseguenza che detti prestatori non conoscono nè controllano le informazioni trasmesse o memorizzate dalle persone alle quali forniscono i loro servizi”, mentre “(p)er contro, tali limitazioni di responsabilità non sono applicabili nel caso in cui un prestatore di servizi della società dell’informazione svolga un ruolo attivo”». A riguardo di esso scrive Bocchini, La responsabilità civile,cit., p. 2607, che «il peculiare concetto di hosting attivo non si rinviene in alcuna fonte normativa in quanto non è profilata siffatta distinzione di hosting attivi o passivi nell’enucleazione della responsabilità dell’hosting nella direttiva sull’e-commerce, ma è ascrivibile ad una, ormai consolidata, prassi giurisprudenziale, di matrice comunitaria, a tal punto che, come evidenziato dalla sentenza, questa nozione può, ormai, ritenersi un approdo acquisito in ambito comunitario».
[90] C.d.S. 18 maggio 2021, n. 3851 (3.8).
[91] C.d.S. 18 maggio 2021, n. 3851 (3.8). Sull’evoluzione della responsabilità dell’hosting provider ad opera della giurisprudenza della Corte europea di giustizia si vedano G. Smorto – A. Quarta, Diritto privato dei mercati digitali, cit., p. 287 ss. Gli stessi autori intraprendono un percorso d’indagine atto a esaminare i più recenti sviluppi della responsabilità dell’hosting provider in svariati ambiti, senza entrare tuttavia nel merito delle condotte degli utenti professionali qualificabili alla stregua di pratiche commerciali scorrette.
[92] Così ancora Bocchini, La responsabilità,cit., p. 2609.
[93] La quale è anzitutto responsabilità amministrativa, giacché, ove accertata, determina l’irrogazione di una sanzione ad opera dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ai sensi dell’art. 27 cod. cons., come in altra sede si è più ampiamente illustrato (cfr. L. Guffanti Pesenti, Scorrettezza delle pratiche commerciali e rapporto di consumo, cit., p. 112 s., 132 s., ma anche, per i rapporti con la responsabilità civile, p. 191 ss.).
[94] C.d.S. 18 maggio 2021, n. 3851 (3.9.4).
[95] Si veda la già richiamata Proposta di regolamento [COM(2020)825] del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 dicembre 2020.
[96]All’art. 5 della proposta di regolamento si prevede che «nella prestazione di un servizio della società dell'informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate su richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: a) non sia effettivamente a conoscenza delle attività o dei contenuti illegali e, per quanto attiene a domande risarcitorie, non sia consapevole di fatti o circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dei contenuti; oppure b) non appena viene a conoscenza di tali attività o contenuti illegali o diviene consapevole di tali fatti o circostanze, agisca immediatamente per rimuovere i contenuti illegali o per disabilitare l'accesso agli stessi».
[97] Cfr. R. Bocchini, La centralità della qualità del servizio nel dibattito in tema di network neutrality, in Diritto dell'Informazione e dell'Informatica, 3(2016), p. 518, per il quale «l'Unione Europea, come è sempre avvenuto nella storia dell'economia, aveva alleggerito la responsabilità dei provider per aiutare l'iniziativa economica privata nella fase pioneristica del settore».
[98] Del progressivo mutamento di atteggiamento dell’ordinamento (anzitutto della giurisprudenza, anche prima del DSA) a riguardo della responsabilità dell’hosting provider dà conto ancora Bocchini, La responsabilità, cit., p. 2615, che osserva come «si è passati … dagli albori del fenomeno con la legge di settore nel 2003, allorquando la normativa aveva quale preciso obiettivo la tutela e la promozione della crescita e dello sviluppo del mercato e degli operatori economici che investivano nel “nuovo mondo” di internet … all’odierna battuta di arresto … la vera affermazione del mercato elettronico evoluto non poteva prescindere da una maggiore tutela dell’utente della rete che corrisponde, di converso, ad un aggravamento delle forme di responsabilità a carico dell’intermediario del commercio elettronico».
[99] La proposta di regolamento [COM(2020)825], come già evidenziato, è volta a elaborare regole per un mercato unico dei servizi digitali (legge sui servizi digitali)”, e modifica la direttiva 2000/31/CE. Come osserva S. Tommasi, Algoritmi e nuove forme di discriminazione: uno sguardo al diritto europeo, Revista de Direito Brasileira, Florianópolis, 10(2020), p. 112-129, Set./Dez. 2020, p. 113 «l’obiettivo di promuovere lo sviluppo della rete e del mercato digitale ha, per molto tempo, giustificato il favor nei confronti dei provider. Oggi, però, la diffusione online di contenuti che possono violare le basi dei valori democratici e i diritti fondamentali delle persone, le novità tecnologiche, che consentono l’individuazione e la rimozione di contenuti in rete, sembrano incentivare l’individuazione di una responsabilità più stringente e di un obbligo di agire in maniera proattiva».
[100] Per un primo esame del quale si veda C. Dalia, Sanzioni e rimedi individuali “effettivi” per il consumatore in caso di pratiche commerciali scorrette: le novità introdotte dalla direttiva 2161/2019/UE, Riv. dir. ind., 2020.
[101] Si veda il già richiamato Guffanti Pesenti, Pratiche commerciali scorrette e rimedi nuovi, in Europa dir. priv., 4(2021), in corso di pubblicazione.
[102] Giacché la direttiva, stando all'art. 288 del Trattato FUE, è fonte che «vincola lo Stato membro ... per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi».
[103] In dottrina – da un punto di vista generale, e dunque non con specifico riferimento alle piattaforme digitali – si è posta particolare attenzione alla cosiddetta risoluzione alternativa delle controversie, anche sulla scorta della dir. 2013/11/UE, la quale ha previsto, per i rapporti tra professionisti e consumatori, la «risoluzione extragiudiziale delle controversie attraverso l’intervento di un organismo ADR che propone o impone una soluzione o riunisce le parti al fine di agevolare una soluzione amichevole … gli organismi ADR possono effettuare procedure facilitative (l’organismo riunisce le parti al fine di agevolare una soluzione amichevole), valutative (l’organismo propone una soluzione alle parti)»: così E. Minervini, Le negoziazioni paritetiche tra prassi e norme in Le nuove leggi civili commentate, 1(2018), p. 108. Altra dottrina ha ritenuto potersi valorizzare – in funzione di tutela diretta del consumatore pregiudicato dalle pratiche commerciali scorrette – il procedimento dinnanzi all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, come sede nella quale il professionista assuma impegni atti a eliminare le conseguenze pregiudizievoli della pratica nelle sfere dei singoli (cfr. C. Granelli, Pratiche commerciali scorrette: le tutele (voce), in Enc. dir., Il contratto, Milano 2021, p. 828).
[104] Il fenomeno è ampiamente trattato nel caso poc’anzi richiamato e definitivamente deciso con la sentenza C.d.S. 29 marzo 2021, n. 2631. Si tratta di quella che è stata detta la ‘nuova frontiera’ della «interferenza tra sistemi finalizzati alla circolazione e allo scambio di beni e servizi e sistemi di circolazione dei dati personali dei soggetti attori dello scambio e/o fruitori dei servizi. Una interferenza ormai resa irreversibile da due fattori interconnessi che giocano un ruolo cruciale nell’economia digitale: il consolidamento dei processi di estrazione ed elaborazione dei dati personali resi possibili dall’utilizzo sistematico delle tecniche di Intelligenza artificiale; e contestualmente, il consolidamento dei nuovi modelli di (intermediazione nello) scambio che incorporano la raccolta dei dati personali nelle loro strutture di funzionamento» Camardi, Contratti digitali e mercati delle piattaforme, cit., p. 876.
[105] All’interazione tra tutela della privacy e disciplina repressiva delle pratiche commerciali scorrette è dedicata una parte del già richiamato studio di N. Helberger - O. Lynskey - H-W. Micklitz - P. Rott – M. Sax - J. Strycharz, EU Consumer Protection 2.0, Structural asymmetries in digital consumer markets. A joint report from research conducted under the EUCP2.0 project, 2021, come si legge nelle sue premesse: «The goal of this study is to critically assess the fairness paradigm enshrined in the Unfair Commercial Practices Directive (UCPD)in light of the proliferation of data-driven commercial marketing strategies. In this context, we will revisit some key concepts of the Directive, including the vulnerable consumer and aggressive practices. Moreover, the study will explore ways towards fruitful interaction between consumer law and data protection law (GDPR) to help consumers effectively manage their data and improve their legal standing vis-à-vis advertisers». Sul tema si veda anche G. Marino, Internet e tutela dei dati personali: il consenso ai cookie, in Juscivile, 2020, p. 424 ss., che osserva come «s’intesse una trama sempre più fitta di interazioni, e quindi anche di possibili frizioni, tra le regole di circolazione dei dati personali e dei contratti del consumatore, oggi emersa a livello del diritto positivo nell’ambito dei considerando e delle previsioni della menzionata Digital Content and Service Directive (dir. UE 2019/770). In altri termini, si è avviato un processo di avvicinamento delle logiche e dei dispositivi di tutela dei dati personali allo statuto consumeristico. Le ripercussioni più rilevanti di questa consumerizzazione della regolamentazione del trattamento dei personali si avvertono sul piano della integrazione e del rafforzamento delle tutele attivabili dall’interessato/consumatore per il caso di trattamento di dati personali non trasparente, scorretto, “illecito” nel linguaggio del GDPR, da parte di un operatore economico. Nel quadro raffigurato, è destinata a giocare un ruolo centrale la normativa in materia di pratiche commerciali scorrette.
[106] Camardi, Contratti digitali e mercati delle piattaforme, cit., p. 876.
Guffanti Pesenti Laura
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