“Meritevolezza” e processo nel pensiero di Emilio Betti (riflessioni sparse)
Marino Marinelli
Professore ordinario di Diritto processuale civile, Università di Padova
“Meritevolezza” e processo nel pensiero di Emilio Betti (riflessioni sparse)*
English title: “Meritableness” and Process in the Works of Emilio Betti (some Reflections)
DOI: 10.26350/18277942_000054
Sommario: 1. Premessa (la grandezza di Betti e la sua “duplice e discorde ricchezza”). 2. La “meritevolezza” e la diversa “accordatura” delle questioni che suscita nella transizione dal campo sostanziale a quello processuale. 3. La “ricomposizione” del pensiero bettiano sul tema. 4. Il monito che proviene dalla riflessione di Betti.
- Premessa (la grandezza di Betti e la sua “duplice e discorde ricchezza”)
Nel trattare e affrontare la “meritevolezza” nel pensiero di Emilio Betti, ho preso (e ripreso) in mano, letto (e riletto) diverse sue pagine, anche extra-vaganti (tra le quali quell’“esame di coscienza” – sovente amaro e doloroso – che sono Le notazioni autobiografiche)rispetto al tema che ci ha fatto convenire oggi. E devo confessare che, ogniqualvolta mi accosto (o riaccosto) ai lavori bettiani, a prescindere dalla condivisione o dal rifiuto di questa o quella tesi sostenuta, il mood è sempre lo stesso: una profonda e, a tratti, irresistibile fascinazione.
Trafiggono come un dardo (pure nei suoi lavori “minori”, come le note a sentenza) lo scrupolo ossessivo dell’indagine e della completezza dell’informazione, la resa di conti con vecchie e nuove dottrine in un continuum storico in cui il diritto romano – ben lungi dall’essere trattato come un hortus conclusus – s’intreccia e s’interseca con il diritto moderno (sostanziale e processuale) innervandone l’interpretazione, l’originalità delle prospettive che si dischiudono al lettore, lo stile denso e serrato che s’incatena in proposizioni definitorie e nessi vincolanti, che il mio Maestro additava come modello di lingua scientifica.
Ma soprattutto, quel che affascina in Betti (giurista e Kulturkritiker “a tutto tondo” come, in quei tempi, pochi altri: Carnelutti da noi, Kohler e Goldschmidt in Germania, Klein in Austria) è, se così posso dire, la coincidentia (che, talora, si tramuta in lacerante discordia) oppositorum; l’essere capace insieme della più severa dogmatica e dell’ardita apertura verso il gioco degli interessi e degli scopi. È specialmente questo – lo ha già messo mirabilmente in luce Irti[1], con la devozione e l’affetto dell’allievo che ne mantiene vivo e vitale l’insegnamento – che, ai miei occhi, rende la sua opera sempre feconda e fa di lui (di questo “doctor umbratilis”, come Egli stesso si definì ripensando a una parte del suo percorso di vita)uno dei giuristi più grandi. Grandezza che ancor oggi rifulge, pur a fronte di minuziose fatiche “ridimensionatrici” o di riconoscimenti (che a me paiono) riduttivi, come le definizioni di “dotto antico” (Mengoni) o di “ultimo dei giuristi romantici” (Satta).
Ebbene, quest’ansia di rigore teorico, di gusto per la simmetria logica, di stretta e, a tratti, tenace aderenza al dato positivo e insieme, di vitale e mobile sensibilità verso il gioco degli interessi, insomma questa duplice e discorde tensione – come si vedrà – sembra percorrere pure le pagine e le riflessioni di Betti sulla “meritevolezza” nel processo.
- La “meritevolezza” e la diversa “accordatura” delle questioni che suscita nella transizione dal campo sostanziale a quello processuale
È questo un tema che, quando si trascorre dal campo del diritto sostanziale a quello processuale, assume inevitabilmente fattezze e contorni diversi da quelli privatistici, su cui si è concentrata la bella relazione di Gentili (che, a questo specifico riguardo, si è soffermato sulla vena socioeconomica – che, però, come si è osservato, non è l’unica – del pensiero bettiano). Tema che, se guardiamo alle trattazioni che gli ha dedicato la letteratura giuridica italiana e (soprattutto) tedesca[2], le sole che vale la pena (ancor oggi) di compulsare su questo argomento, potremmo, in sintesi, condensare nelle seguenti quaestiones.
A) Si dà anche per l'esercizio dell'azione una “causa” da vagliare ope iudicis, diversa e distinta dai motivi che hanno determinato ad esperirla? Si può, cioè, ragionare anche con riguardo all'azione di una “meritevolezza” della tutela richiesta, con la conseguenza che se l’azione esercitata in concreto si riveli agli occhi del giudice “non meritevole” (perché ad es. abusiva o emulativa) la si dovrebbe, proprio e solo per questo, rigettare de plano?
Maria Francesca Ghirga, che tra i processualisti, in questi anni, ha dedicato al tema importanti studi[3], ritiene di sì, con una ricostruzione articolata e raffinata sotto il profilo diacronico e sincronico, la quale fa soprattutto leva sulla disposizione (in thesi)“poli-semantica” dell’interesse ad agire ex art. 100 cpc. Norma che, pur continuando a designare l’esigenza di un’utilità tra l’affermazione della lesione del diritto e la tutela giudizialmente richiesta, consentirebbe, al lume di un’esegesi costituzionalmente orientata ai valori di cui agli artt. 24 e 111 della Carta fondamentale, pure di sottoporre a verifica la domanda giudiziale, di cui si esalta la valenza anche negoziale e così, di atto di disposizione del diritto, per scrutinarne giustappunto la causa, ossia la meritevolezza della tutela richiesta, sanzionando con un’absolutio ab instantia le ipotesi di “Schikanerie”(emulazione, frode o venire contra factum proprium) nell’esercizio dell’azione[4].
L’idea dell’interesse ad agire, come valvola di “meritevolezza” dell’azione, per il cui tramite qualificare e sanzionare, in via generale, l’abuso dell’azione giudiziale (al pari, del resto, di quella che considera l’abuso del diritto una nozione trapiantabile, senza soverchie difficoltà, nel campo delle situazioni processuali) divide gli studiosi in un partage fra sostenitori (più o meno) convinti e un altro partito che, pur composito, esprime nella sostanza una posizione conservatrice o comunque più sceveratrice, facendo leva sulle interpretazioni – confacenti e specifiche – dei singoli istituti per debellare eventuali condotte emulative, senza ricorrere a ipostatizzazioni di sorta[5].
B) E ancora: può darsi pure nel processo una “meritevolezza” di interessi sul tipo di quella prevista dall’art. 1322 c.c.? Possono, cioè, le parti, nel perseguire interessi giuridicamente meritevoli di tutela – e così, nell’esercizio della loro autonomia privata – disporre dei poteri processuali loro attribuiti (in primis, dell’azione) e soprattutto, incidere convenzionalmente (o anche in via unilaterale) sulla disciplina formale del processo anche al di fuori dei (più o meno limitati) casi consentiti dalla legge?
Si pensi, sol per portare qualche esempio pratico, ai diversi patti sulle prove, alle convenzioni con cui le parti introducono speciali condizioni di ammissibilità o “filtri” di procedibilità della domanda, oppure a quella sulla esclusione della azionabilità della pretesa (c.d. pactum de non petendo) alla rinunzia preventiva a determinati atti processuali (ivi compreso l’esercizio dell’azione e del potere di gravame) e alla cosa giudicata, nonché alle convenzioni in materia esecutiva (pactum de non exequendo e pactum de retrovendendo). Si ponga mente, inoltre, alle questioni poste dalla legittimazione, conferita su base pattizia, all’esercizio nel processo di un diritto non appartenente a chi agisce in giudizio (cd. sostituzione processuale “volontaria”), pervenendosi, così, in via negoziale ad una “scissione” tra la titolarità dell’affermato diritto e la legittimazione ad azionarlo in nome proprio.
Il tema del “Konventionalprozess”(per usare un sintagma antico[6] ma sempre attuale), ossia dell’incidenza che si deve riconoscere all’autonomia privata nella dinamica del processo, appare (ancor oggi) meno frequentato dalla dottrina italiana[7], se la si paragona a quella tedesca, questa peraltro con un orientamento ben preciso e da tempo prevalente (formatosi a partire dal saggio monografico di Schiedermair[8] ma forsanche prima, con la lezione di Goldschmidt[9]), che valorizza al massimo i poteri dispositivi delle parti, nel contesto di una regolamentazione che esalta la matrice liberale del sistema processuale della ZPO, improntato nel 1877 e sopravvissuto fino ad oggi, pur tra varie tempeste[10].
All’epoca di Betti, invece, la dottrina (non solo italiana, ma anche tedesca) vedeva il Konventionalprozess come uno “spauracchio”, un “fantasma maligno” contro il quale intonare il “vade retro”(secondo l’efficace e scherzosa immagine di Max Rümelin)[11]. Lo spazio per l’autonomia privata nel processo era, così, angusto. Certo, sulla scia di Bülow e del suo “diritto processuale dispositivo”, si ammetteva che potevano darsi convenzioni processuali, per quanto poi assai discusse nella loro identificazione e disciplina, ma queste avevano, fatalmente e inevitabilmente, un carattere tipico e residuale, con la conseguenza che, in mancanza di una specifica disposizione di legge, valeva per il diritto processuale l’antico adagio “ius publicum privatis pactis mutari non potest”:era perciò precluso alle parti d’incidere sulla disciplina del processo[12].
- La “ricomposizione” del pensiero bettiano sul tema
Si tratta di problemi – quelli sunteggiati sopra sub A) e B) – su cui si può certamente stare a discutere all’infinito. C’è peraltro subito da dire che il Maestro camerte non affronta sempre tali questioni in modo frontale, “di petto” – come invece fa con la “meritevolezza” iure civili – ma sovente per “scorci” laterali, financo con cenni talora né punto né poco svolti.
Insomma – a voler insistere – cercare di ricostruire, in parte qua, la visione di Betti non è come mirare le forze traenti, le masse di colore o le figure di un grande affresco, ma è come posare lo sguardo sui singoli particolari e così, anche sulle Kleinigkeiten magari, a prima vista, poco – o financo per nulla – significanti, di una pittura a cavalletto.
Ecco perché, nel compiere quest’opera, non facile (che, in certi suoi svolgimenti – ma ciò è forse inevitabile – potrà financo apparire un po’ arbitraria), di “ricomposizione” del suo pensiero o meglio, nel cercare di rendere trasparente la densa ma anche rapsodica (e talora, almeno in apparenza, antinomica) riflessione di Betti sul tema, è parso essenziale dare qui voce agli snodi e passaggi e così, citare expressis verbis quei passi che, nelle sue pagine, sono (o quantomeno chi scrive reputa essere) a tal fine preziosi e rilevanti.
Principiamo allora dalla Teoria generale del negozio giuridico e in particolare, dall’esordio del capitolo intorno all’autonomia privata e al suo riconoscimento. Scrive Betti[13]: “gli interessi, che il diritto disciplina, esistono nella vita sociale indipendentemente dalla tutela giuridica e circolano in perenne vicenda, ovunque sia riconosciuta ai singoli una cerchia di beni di loro spettanza, sotto l’impulso dell’iniziativa individuale”. E poi, proseguiamo con l’“ultimo” Betti (quello) della Teoria generale dell’interpretazione e, più in particolare, con la dura e recisa critica, ivi contenuta, alle tesi di chi contrappone gli interessi ai concetti, l’interpretazione sub lege a quella ad finem. Si tratta di antitesi che, per Betti[14], “menano fuor di strada: la valutazione comparativa degli interessi tipici considerati dal diritto esige pure una elaborazione dogmatica”.
Proposizioni, spunti rivelatori non solo di una chiara presa di posizione nel Methodenstreit – gli interessi, soggetti alla ponderazione “comparativa” del legislatore (ben lungi dall’essere separabili dai) sono traducibili e determinabili nei Rechtsbegriffe – ma, più in generale (come notavo prima), di un’ispirazione di fondo non solo teleologica, ma anche antiformalistica.
Questa Stimmung si fa poi ancor più intensa se volgiamo lo sguardo a certe pagine del Betti processualista (che, stando a quanto Egli stesso scrive, ci pare un frutto di quella “rivoluzione vicissitudinale” – come l’avrebbe chiamata l’ingegno barocco di Giordano Bruno – provocatagli dalle bocciature ai concorsi a cattedra nel biennio 1915-1916[15] e dal consiglio ad occuparsi anche di processo, dispensatogli da Vittorio Scialoja che, di quei concorsi, aveva presieduto le commissioni[16]).
Torno allora, di nuovo, alla Teoria generale dell’interpretazione e specialmente, alla ruvida e ferma difesa dell’interesse ad agire dalle sue rivisitazioni in chiave “critico-analitica” (soprattutto di Attardi[17] e Allorio[18]) che ne rastremano o financo ne annullano la portata pratica o la stessa rilevanza giuridica; difesa che si conclude con un’affermazione che pare un manifesto ideologico: “La verità è che, senza la nozione di interesse – sia esso da considerare in conflitto con altri, sia esso un interesse superiore, o sia un interesse rivolto alla composizione del conflitto – resta incomprensibile non solo la funzione di tutela degli interessi, ma tutta la vita del diritto come fenomeno sociale […] Una hermeneutica iuris che abbandonasse quella nozione per correre dietro alle astrazioni dei Kelsen, mostrerebbe di non aver tratto profitto dal grande insegnamento di Jhering”[19].
Ecco che emerge nitidamente quella particolare sensibilità bettiana – di cui discorrevo prima – verso la complessa e variegata nozione dell’interesse come criterio e valore, sia esso da considerare in contrapposizione con altri, sia esso un interesse sovraordinato o teso a dirimere il conflitto fra i consociati oppure esterno al diritto soggettivo o sia un quid che nel processo è visto calarsi nella forma dell’interesse (o anche della legittimazione) ad agire o sia ancora un interesse appartenente alla fase nomo-genetica che, proprio perché tale, per Betti guida l’interprete nello spiegare e costruire l’istituto.
Veniamo, quindi, al Diritto processuale civile italiano, vera e propria summa del pensiero di Betti (nonché silloge di suoi vari studi)[20] nel campo del processo, di cui aspira a far intendere “l’intima logica”[21].
Nella parte dedicata alla “iniziativa del processo come potere-onere della parte”[22], leggiamo: “in quanto aspira a un provvedimento favorevole a chi la propone, la domanda giudiziale va inoltre considerata come atto (negozio) giuridico processuale, col quale s’intraprende l’esercizio di un diritto (il diritto di azione)”[23].
E ancora: “il negozio è essenzialmente atto di autonomia con cui il privato detta legge a sé stesso, regola cioè in modo impegnativo interessi o rapporti suoi proprii, creando rispetto ad essi poteri e vincoli giuridici che prima non esistevano. Con l’esercizio del diritto, invece, il privato soddisfa un interesse che già gode la protezione della legge, realizzando lo stato di fatto o di diritto che vi corrisponde, sia da sé, sia con la volontaria cooperazione altrui. Ma, sebbene la distinzione vada tenuta ferma in linea di massima, bisogna tuttavia riconoscere che proprio nella domanda giudiziale i due profili coincidono nel senso che in essa l’autonomia privata interferisce con la difesa del diritto”[24].
“Invero – scrive Betti – con la domanda giudiziale, mentre si dà vita a un nuovo rapporto giuridico con l’avversario (il rapporto processuale), si dispone in pari tempo della tutela giurisdizionale in suo confronto, ponendone in essere la prima e fondamentale condizione”[25].
Proposizioni che si pongono sulla scia della tesi di Kohler[26] (e poi, pure di Stein)[27], peraltro già allora minoritaria nella dottrina tedesca, che qualificava la proposizione della domanda come “negozio” ma, al tempo stesso, se ne differenziano giacché Betti non solo riannoda la “negozialità” della domanda al “quid sensibilmente nuovo che questa apporta, ossia la creazione del rapporto giuridico processuale”[28], ma anche e soprattutto al “momento” dispositivo che la caratterizza in punto di tutela giurisdizionale[29].
Domanda che, per Betti, oltre ad avere una “ragione” (o “fondamento”)[30] e un “oggetto” (o “petitum”), ha anche, proprio perché negozio, una “causa” che ne mette, appunto, “in relazione l’oggetto, quale mezzo, col fondamento”[31].
Si consideri ancora, nel Diritto processuale civile italiano, la parte sulle forme e limiti della “autodifesa privata”[32], posta subito dopo quella sulla giurisdizione civile (che esordisce con la “affermazione totalitaria dello Stato moderno”).
“Non si deve credere – osserva Betti – che l’avocazione della tutela processuale allo Stato negli ordini giuridici moderni escluda del tutto e in ogni caso una tutela operata direttamente dallo stesso interessato, escluda cioè l’autodifesa privata”, intesa come potere del privato interessato “di provvedere a conservare o ad attuare quello stato di fatto che sia conforme al suo diritto insoddisfatto o minacciato”[33].
Di qui, si dipana un’articolata tassonomia distinguendosi, in seno al genus dell’autodifesa privata, tra una “autodifesa unilaterale” attiva (che, a sua volta, si suddivide in “preventiva” e “reattiva”) e passiva, nonché una “autodifesa consensuale” (che, dal canto suo, può essere “a scopo di accertamento”, “con prevalente funzione satisfattoria” o “con prevalente funzione cautelare”). Tassonomia caratterizzante questo status negativus che, per organicità, complessità e respiro della trattazione, non trova eguali tra gli studiosi di quei tempi[34]; neppure in Chiovenda (di cui Betti era un “apostolo critico”, non condividendone, ad es., la concezione “concreta” dell’azione e la tesi – poi normativamente recepita nell’art. 2932 c.c. – del ricorso alla tutela costitutiva nel caso di contratto preliminare inadempiuto)[35] e nella prediletta dottrina tedesca (che pure – con il fondamentale lavoro di Seckel – aveva disvelato i cd. Selbsthilferechte)[36].
Se poi, si lascia (per un momento) il Diritto processuale civile italiano per compulsare la voce “Negozio giuridico” nel Novissimo Digesto, si legge che, per Betti[37], deve riconoscersi uno spazio al negozio giuridico “anche nel processo (giacché il negozio è atto con cui il privato dispone un assetto impegnativo di propri interessi, assetto informato ad una funzione tipica socialmente utile), in quanto è innegabile che anche nel processo le parti possono definire l’assetto dei propri interessi”. Insomma, si sarebbe forse indotti a pensare: autonomia privata versus norma processuale “legificata”!
Infine, tornando di nuovo al Diritto processuale civile italiano, mi piace evidenziare qui pure il passo sull’agire o resistere emulativo in giudizio, che Betti ritiene psicologicamente incompatibile con una sincera aspirazione ad aver ragione che, come tale, “esclude un legittimo interesse ad agire o contraddire”[38].
È questo un “caleidoscopio” di pagine, spunti e cenni che, isolatamente considerati o radunati insieme, potrebbero (il condizionale – come vedremo – è d’obbligo) sembrare espressivi non solo di un’ispirazione anti-concettualistica e antiformalistica, ma anche di una scelta di campo abbastanza precisa in ordine alla soluzione delle questioni che ci occupano e ai quali andrebbe certamente il plauso di un Peter Schlosser cui, sino ad oggi in dottrina, si deve il tentativo più radicale e suggestivo di sospingere il processo verso i lidi della meritevolezza sostanziale[39].
Tuttavia, se consideriamo questi “tasselli” nell’ampio “mosaico” del pensiero bettiano (e così, contestualizzandoli debitamente), essi ci paiono piuttosto come i segni, le spie di una tentazione – aprire il processo e i suoi istituti alla “meritevolezza” sostanziale, nonché alle clausole generali e ai concetti elastici a questa connessi – resistita e poi abbandonata (un po’, verrebbe fatto di pensare, come in tutt’altro tempo e ambiente accadde al Beethoven dei “Lieder all'Amata lontana” e alla tentazione, che egli prova in quel momento e da cui però dopo rifugge, di aprire la sua opera al colore sensuale e struggente del suono proprio del Romanticismo).
Infatti, la “causa” della domanda-negozio consiste, secondo Betti[40], “nell’interesse all’attuazione della legge per opera degli organi giurisdizionali in ordine alla medesima ragione: vale a dire l’interesse all’accertamento incontrovertibile, o alla esecuzione forzata, o alla garanzia preventiva del diritto con essa affermato”.
In altri termini, la valutazione (positiva) circa la sussistenza della “causa”, qui, è scontata con il fatto stesso della concessione della tutela, è già stata fatta, una volta per tutte, dal legislatore quando ha previsto la possibilità di agire in giudizio per l’accertamento e la condanna (o in via costitutiva). Non residua, allora, spazio alcuno per un sindacato giudiziale sulla “meritevolezza” dell’azione, così come esercitata nel singolo caso concreto.
Lo stesso discorso vale per lo “spunto” (come lo abbiamo definito sopra) in tema di agire o resistere emulativo e carenza di interesse ad agire o contraddire che, a ben vedere, Betti confina rigorosamente nel campo della responsabilità (e così dell’azione o contestazione) temeraria[41] già prevista ex lege. Pure qui, dunque, la valutazione (negativa) in punto d’interesse ad agire (o a contraddire) è già stata fatta, a monte, dalla legge finendo, così, per essere completamente assorbita dal precetto normativo che sanziona la lite temeraria.
E ancora: le forme in cui si concreta la cd. “autodifesa o autotutela privata”, se ci addentriamo nella tassonomia bettiana[42], sono soltanto quelle “previste e tassativamente determinate dalla legge”; non si concede alcun margine, nel processo, alla “creatività dispositiva” delle parti. Financo la convenzione per arbitrato libero è bandita perché ritenuta un “negozio in frode alla legge processuale”[43]. “Naturalmente – scrive Betti[44] – le parti restano libere di provvedere altrimenti alla composizione della lite con negozî rivolti a regolare direttamente lo stesso rapporto di diritto sostanziale su cui la lite verte: la transazione e, come negozio indiretto delle parti, l’arbitraggio – negozî, che rientrano perfettamente nell’orbita della loro privata autonomia”.
In buona sostanza, si riconosce all’autonomia dei privati uno spazio fuori dal processo e con efficacia sul diritto sostanziale che ne costituisce l’oggetto, giammai la possibilità (al di là dei casi previsti ex lege) di incidere direttamente sul processo con negozi posti in essere prima o in seno a questo. Ed invero, nella transizione bettiana dal campo sostanziale a quello processuale, non è più l’autonomia privata a far la parte del leone, ma l’“auto-responsabilità” (che, poi, altro non è che la figura della “colpa o obbligo verso sé stessi” che il genio di Zitelmann aveva “scovato” indagando varie disposizioni del BGB tedesco e poi Goldschmidt posto a pietra angolare del suo processo come “situazione giuridica”)[45]. Auto-responsabilità “la quale significa, per la parte, necessità di sopportare essa stessa, ed essa sola, le conseguenze impreviste ed eventualmente dannose di un uso pigro o malaccorto dell’iniziativa a lei deferita”[46].
- Il monito che proviene dalla riflessione di Betti
Ecco, dunque, “ricomposto” (o almeno, così mi pare) il pensiero di Betti sul tema che qui ci occupa: far entrare nel processo la cd. “meritevolezza” e le sue categorie è operazione che, in qualche misura, sembra tentare, ma non ammaliare il Maestro che da essa, in ultima analisi, rifugge (a tratti con un moto di ripulsa), costringendola e sigillandola nel “microcosmo” del singolo precetto normativo che finisce, così, per assorbirla (e “sterilizzarla”) integralmente[47].
Certo, può sembrare che Betti, anche nelle sue pagine più tarde, si aggiri entro l’orizzonte culturale e il linguaggio metodologico degli anni Trenta; e che taluni profili del suo indagare siano ormai consunti e spenti (come la visione rigorosamente – a tratti soverchiamente – statualistica della tutela giurisdizionale) o, comunque, anacronistici (come la “battaglia” contro l’arbitrato libero o irrituale). Ma, a mio avviso, dalla riflessione bettiana può trarsi, per il processualista odierno, l’insegnamento o – se si vuole – il caveat, che è quello di non farsi (troppo) ammaliare dalle clausole generali e dai concetti giuridici cd. elastici o indeterminati, sui cui contorni e confini reciproci, peraltro, la stessa dottrina civilistica dimostra, ormai da tempo, poca chiarezza di idee[48].
Importare nel processo, con annessi e connessi, concetti come “meritevolezza”, “causa”, “autonomia privata”, “buona fede”, “abuso del diritto” et similia, sovente pure “affaticando” disposizioni (come, ad es., gli artt. 2, 24 e 111 Cost. o l’art. 100 c.p.c.) che già portano su di sé pesi gravosi, è indubbiamente fascinoso ma, al postutto, forse rischia di nuocere più che giovare.
Da un lato, infatti, il giudice potrebbe – se così può dirsi – farsi troppo “prendere la mano”, sul presupposto che la “clausola generale/concetto indeterminato” gli assegni un margine di discrezionalità così largo da rimuovere il “controllo sistematico”, il quale impone che la “soluzione valutativa” che ne è ricavata “passi al vaglio della dimostrazione della sua capacità di tenere insieme tutto il complesso sistematico”[49].
Lo dimostra, ad es., il caotico stato dell’arte (soprattutto) giurisprudenziale in tema di frazionamento del credito[50], che a me richiama la nota immagine di chi usa il cannone per uccidere le zanzare. Infatti, per debellare la brutta abitudine della “parcellizzazione” bastava lavorare sulla disciplina delle spese, il cui spirito lucrativo ne era (ed è) il movente e ne disegna e disvela, così, l’intero orizzonte (banalmente empirico e non concettuale), anziché fare del frazionamento scelto dall’attore – quantomeno, di regola – un odioso “feticcio”.
Ma, dall’altro lato, potrebbero essere pure le parti che si fanno “prender troppo la mano”. Concedere nel processo un ampio spazio all’”agire convenzionale” dei privati e così, alla loro libertà e “creatività” dispositiva[51] – come, ad es., testimoniano certe storture del “Konventionalprozess” statunitense[52] – significa certamente privilegiare l’autonomia individuale (e anche i rapporti di forza tra le parti con tutto quel che, peraltro, ne può derivare in punto di assenza o diminuzione delle garanzie procedimentali), ma potrebbe altresì far perdere o incrinare alcuni valori fondamentali, dall’imparzialità del giudice alla razionalità e alla trasparenza del procedimento (delle sue fasi e scansioni), che sono invece normalmente assicurati e predeterminati nel processo “legificato”.
Occorrono dunque (ecco il monito finale della riflessione bettiana), soprattutto quando si “maneggiano” temi come quello in parola, solidità costruttiva, proporzionalità di soluzioni e misura, che sono poi le qualità che deve avere (il buon giurista e soprattutto) il buon processualista.
Abstract: The study explores the positions and the actuality of the works of Emilio Betti (one of the greatest jurists of the last century) about the problematic and difficult relationship between the so-called “meritableness” (including its fundamental concepts) and the civil procedural rules.
Key words: “Meritableness”, Action, Private Autonomy, Contract, Abuse, Process.
* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review. Il saggio trae spunto dall’intervento svolto in seno al convegno di studi “La meritevolezza nella prospettiva di Emilio Betti” tenutosi il 15 aprile 2021, con la relazione di A. Gentili in dialogo con T. Beggio, A.M. Garofalo, A. Zambon e chi scrive.
[1] V. N. Irti, Enrico Allorio e la scuola bettiana, in L’opera di Enrico Allorio fra teoria generale e sensibilità storica, a cura di C. Consolo, Padova, 2004, 113 ss.; Id., Presentazione, in Diritto sostanziale e processo (Betti e Carnelutti), Milano, 2006, V ss.
[2] Dottrina germanica da Betti (e da molti altri in quei tempi) prediletta, a differenza dei giuristi – teorici e pratici – inglesi (e pure francesi), aspramente criticati: v. ad es., la Prefazione al Diritto processuale civile italiano, II ed., Roma, 1936, XI, ove degli “anglosassoni” Egli dice che “parlano e scrivono di diritto in una maniera addirittura infantile, piuttosto che da giuristi, da legulei e da trattatisti di logica formale”. Il giudizio tagliente può oggi, nella sostanza, condividersi in parte con riguardo alle cavillosità e pignolerie infinite proprie del “Soliciting” (di cui, post Brexit, nessuno o quasi, nello spazio giuridico UE, sentirà la mancanza); non certo, però, quanto alla – se così posso dire – vibrante fantasia costruttiva di giudici e barristers (il cd. “Bar and Bench”), corpo intellettuale e sociale organicamente tuttora molto unitario e “circolare” (sui cui rapporti con il “Continente”, v. il succoso saggio di C. Consolo, Ascendenze tra gli stili e i sistemi di diritto processuale civile nel XX secolo e ragioni della loro tutt'ora difficile "osmosi", in Riv. it. sc. giur., 2015, 127 ss.) che, sovente, sa congiungere in maniera fascinosa economia e diritto, pratica e teoria, positivismo e creatività.
[3] V. M.F. Ghirga, La meritevolezza della tutela richiesta. Contributo allo studio dell’abuso dell’azione giudiziale, Milano, 2004, spec. 147 ss., Ead., Abuso del processo e sanzioni, Milano, 2012, spec. 51 ss.; Ead., Frazionamento dei crediti, rapporto di durata e interesse ad agire, in Riv. dir. proc., 2017, 1302 ss.; Ead., Principi processuali e meritevolezza, in Riv. dir. proc., 2020, 13 ss.
[4] Questa tesi, secondo M.F. Ghirga, La meritevolezza della tutela richiesta cit., passim, troverebbe poi riscontro nel “diritto vivente” (specie nella casistica sulla “parcellizzazione” della pretesa nel giudizio e sull’impugnazione delle delibere societarie) e pure conforto nel diritto positivo (precisamente, nell’art. 9 della L. n. 40/2004 che, in tema di fecondazione eterologa, dispone che, quando si ricorre a siffatte tecniche di procreazione, il coniuge o il convivente, il cui consenso è ricavabile da atti concludenti, non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità ex art. 235 cc).
[5] I riferimenti potrebbero essere assai ampi, il lettore può rendersi conto dello “stato dell’arte” compulsando il bel volume L’abuso del processo (Quaderni dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, LXI), Bologna, 2012.
[6] Sul quale, v. per tutti, M. Rümelin, Zur Lehre von den Schuldversprechen und Schuldanerkenntnissen, in AcP, 1905 (vol. 97), 326 ss.
[7] Sia consentito qui rinviare al mio La natura dell’arbitrato irrituale. Profili comparatistici e processuali, Torino 2002, 147 s., per una ricostruzione dei profili fondamentali del tema (e della relativa letteratura – italiana e tedesca – di riferimento), nonché delle conseguenti linee sistematiche; più di recente, v. anche R. Caponi, Autonomia privata e processo civile: gli accordi processuali, in Riv. trim dir. proc. civ., 2008, 99 ss.; A. Motto, Poteri sostanziali e tutela giurisdizionale, Torino, 2012, 221 ss.; A. Chizzini, Konventionalprozess e poteri delle parti, in Riv. dir. proc., 2015, 45 ss.
[8] V. G. Schiedermair, Vereinbarungen im Zivilprozeß, Bonn 1935, spec. 57 ss. e poi, in tutta l’opera.
[9] V. J. Goldschmidt, Der Prozeß als Rechtslage. Eine Kritik des prozessualen Denkens, Berlin 1925, spec. 299 ss.
[10] Le citazioni di dottrina potrebbero essere assai nutrite, mi limito qui a ricordare i più rilevanti e meno risalenti contributi monografici sul tema: v. amplius soprattutto l’ampia e dettagliatissima analisi di G. Wagner, Prozeßverträge: Privatautonomie im Verfahrensrecht, Tübingen 1998, spec. 11 ss., l’intenso studio di P. Schlosser, Einverständliches Parteihandeln im Zivilprozeß, Tübingen, 1968, spec. 9 ss. e 43 ss., nonché H.J. Hellwig, Zur Sistematik des zivilprozessualen Vertrages, Bonn, 1968, spec. 82 ss.
[11] V. M. Rümelin, Zur Lehre von den Schuldversprechen cit., 326 nt. 190.
[12] Sia consentito rinviare ancora a M. Marinelli, La natura dell’arbitrato irrituale cit., spec. 156 ss.
[13] V. E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Trattato di diritto civile, diretto da F. Vassalli, II ed., Torino, 1950, 39 ss.
[14] V. E. Betti, Teoria generale dell’interpretazione, II, Milano, 1955, 864-866 (testo e nt. 83).
[15] V. E. Betti, Notazioni autobiografiche, cit., 15 ss.
[16] V. E. Betti, Efficacia delle sentenze determinative in tema di legati d’alimenti (“Prefazione”), Camerino, 1921; Id., Diritto Metodo Ermeneutica. Scritti scelti, a cura di G. Crifò, Milano, 1991, 7.
[17] V. A. Attardi, L’interesse ad agire, Padova, 1955, spec. 158 ss.; Id., Diritto processuale civile, I, Padova, III ed., 1999, 74 ss.
[18] V. E. Allorio, Bisogno di tutela giuridica, in Id., Problemi di diritto. L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale e altri studi, I, Milano, 1957, 227 ss.; ma v. anche E. Garbagnati, Azione e interesse, in Jus, 1955, 316 ss.
[19] V. E. Betti, Teoria generale cit., 864-866 (testo e nt. 83).
[20] V. E. Betti, Diritto processuale civile italiano (Prefazione), cit., VIII, ove il rilievo che l’opera “si rifà, infine, ad uno studio scientifico del processo civile, che fu rivolto sin dal 1916 a problemi costruttivi fondamentali (sentenza di condanna, praeceptum de solvendo del processo romano-comune, genesi logica della sentenza, cosa giudicata, azione, presupposti processuali, domanda giudiziale, atti processuali di parte) e si venne estendendo man mano a svariate questioni di diritto positivo”.
[21] V. E. Betti, Op. ult. cit., VIII.
[22] V. E. Betti, Diritto processuale cit., 55 ss.
[23] V. E. Betti, Diritto processuale cit., 61.
[24] V. E. Betti, Op. ult. cit., loc. cit.
[25] Così, E. Betti, Op. ult. cit., 61.
[26] V. J. Kohler, Der Prozeß als Rechtsverhältnis, 1888 (rist. Aalen, 1969), 34 ss.; Id., Zivilprozeßrecht und Konkursrecht, in Enzyklopädie der Rechtswissenschaft, a cura di F. v. Holtzendorff e J. Kohler, VII ed., Berlin, 1913, Tomo III, 251 ss., spec. 307 ss.
[27] V. F. Stein, Die ZPO (X ed. del Commentario di Gaupp), Tomo I, München, 1911, Nr. IV 3 e V della Premessa al § 128; Id., Über Hellwig, Prozeßhandlung und Rechtsgeschäft, in ZZP, Tomo 41, 417 ss., spec. 419 ss., il quale riconosceva natura negoziale non solo alla domanda giudiziale, ma anche a tutti gli altri atti processuali.
[28] Così, J. Kohler, Der Prozeß cit., 34.
[29] “Valenza” dispositiva della domanda che in Kohler (e anche in Stein) è, invece, del tutto sottaciuta.
[30] “Ragione dell’azione”, da Betti intesa come “materia che si tratta di far valere in giudizio attraverso un apprezzamento unilaterale del quid iuris” che a me pare sia semplicemente un altro modo di etichettare la nota (e composita) figura del “prozessualer Anspruch” (la pretesa nel senso assertorio o processuale di “Behauptung”,ossia di “affermazione”) di cui parlano la ZPO e la dottrina tedesca (sul “prozessualer Anspruch” come “affermazione” rimangono ineguagliabili le pagine di J. Goldschmidt, Der Prozeß als Rechtslage cit., 422 ss., nonché, riassuntivamente, Id., Zivilprozessrecht, Berlin, 1932, 128-130). Non saprei peraltro dire se e sino a qual punto nella “ragione” bettiana – intesa come “affermazione” processuale – sia presente il “tassello” (e così, il retaggio) romanistico della fase in iure del processo formulare, in cui la cognitio del magistrato era limitata alle “ragioni-affermazioni” di ciascuna delle parti (secondo l’insegnamento di Wlassak per il quale, inoltre, nella formula non era il pretore, ma le parti che si pronunciavano: v. M. Wlassak, Praescriptio und bedingter Prozess, in ZRG., XXXIII 81 ss., spec. 95 nt. 1; Id., Der Gerichtsmagistrat im gesetzlichen Spruchverfahren, ibidem, XXV, 139); ma v. anche A. Wach, Handbuch des deutschen Zivilprozeßrechts, I, Leipzig, 1885, 27, per il quale la formula aveva lo stesso effetto di un provvedimento (del giudice) che individua i fatti rilevanti (da una parte e dall’altra) per definire la lite, similmente alla formulazione del quesito al jury (ad es. circa la colpevolezza dell’imputato).
[31] V. E. Betti, Diritto processuale cit., 62.
[32] V. E. Betti, Diritto processuale cit., 29 ss.
[33] V. E. Betti, Op. ult. cit., 29-30. Pagine di cui un lettore attento non tarderà a riconoscere la “genesi” romanistica. Ed infatti, sul piano del diritto pubblico – dell’imperium – lo stato romano non incontrava limitazioni di sorta quanto al singolo, la cui sfera privatistica, però, di per sé considerata, era “libera dallo stato” e dominata, fin dal principio, dal potere – di per sé, pure illimitato – di “autotutela” (lo notava, con la consueta finezza, già J. Goldschmidt, Der Prozeß als Rechtslage cit., 92 ss.).
[34] Circostanza di cui lo stesso Betti era ben conscio, v. Diritto processuale cit., 29 nt. 1: “Nei manuali correnti l’argomento di questo paragrafo non suole avere una trattazione adeguata e una sistemazione organica nella intera complessità de’ suoi aspetti (per tutti Chiovenda, Principii, 64 sg., 106 sgg.). Solo il compromesso forma oggetto di una trattazione apposita, anche troppo dettagliata […] nel che è forse da ravvisare un’eco della vecchia idea che ravvisava la finalità esclusiva del processo civile nella definizione di controversie. Non ci si è accorti che il compromesso non è che un aspetto singolo di un fenomeno molto più vasto e complesso”.
[35] V. amplius, E. Betti, Diritto processuale cit., 71 ss.
[36] V. E. Seckel, Die Gestaltungsrechte des bürgerlichen Rechts, in Festgabe der Berl. Jurist. Gesellsch. für Koch, Berlin, 1903, 205 ss.; v. anche, per ulteriori riferimenti di letteratura, il classico lavoro di E. Bötticher, Gestaltungsrecht und Unterwerfung im Privatrecht, Berlin, 1964, 10 ss., nonché, più di recente, S. Klingbeil, Die Not- und Selbsthilferechte, Tübingen, 2017, 22 ss. Peraltro, oggi il possente e straordinario corso solare della processualistica tedesca – iniziato con Oskar Bülow – è ormai giunto al crepuscolo (se non già tramontato). Del resto, è la sorte di ogni creatura umana, dalle più auguste alle più umili, d’avere una giovinezza, una maturità e una vecchiaia. Oswald Spengler, che io considero tra i massimi Kulturkritiker del secolo scorso, lo ha insegnato per le civiltà e gli imperi, che dell’opera umana sono le creature maggiori. Ma vale anche per la dottrina giuridica.
[37] V. E. Betti, Negozio giuridico, voce in Noviss. Dig. it., IX, Torino 1965, 220.
[38] V. E. Betti, Diritto processuale cit., 560.
[39] V. amplius, P. Schlosser, Einverständliches Parteihandeln cit., spec. 43 ss. e poi, in tutta l’opera, per il quale, in virtù del principio di libertà nell’agire, immanente nei sistemi costituzionali moderni, può (anzi: deve) senz’altro dirsi, anche per il processo, “in dubio pro libertate”e così che, pure in questo campo, tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge sia consentito (è notevole osservare come Schlosser fondi la propria tesi su di un principio che si riconnette sul piano costituzionale ad una garantita “presunzione di libertà” che caratterizzerebbe non solo il diritto privato, ma anche quello pubblico).
[40] V. E. Betti, Diritto processuale cit., 62.
[41] V. E. Betti, Diritto processuale cit., 560.
[42] V. E. Betti, Diritto processuale cit., 31 ss.: in particolare, Betti ricomprende nella “autotutela consensuale a scopo di accertamento” il compromesso in arbitrato rituale, la confessione e l’inventario, in quella “con prevalente funzione satisfattoria” l’anticresi e la cessione dei beni ai creditori e, infine, nella “autotutela consensuale con prevalente funzione cautelare” il sequestro convenzionale, il pegno e le cauzioni.
[43] V. amplius, E. Betti, Diritto processuale cit., 41 ss., ove il rilievo che “riconoscere la validità dell’arbitrato libero anche nel campo delle vere e proprie liti, significherebbe dare ai privatimodo di raggiungerne la composizione facendo a meno dei mezzi e delle forme previsti e disciplinati minutamente dall’ordine giuridico. Significherebbe consentire una frode alla legge processuale che tali mezzi dispone, e permettere una deroga più larga di quella che essa legge consente, al monopolio statuale della tutela dei diritti”. Nello stesso senso, v. già E.T. Liebman, Sul tema degli arbitrati liberi, in Riv. dir. proc. civ., II, 1927, 98 s.
[44] V. E. Betti, Diritto processuale cit., 40.
[45] V. amplius, E. Zitelmann, Das Recht des BGB., Allgemeiner Teil, Leipzig, 1900, 166 ss., spec. 170, nonché J. Goldschmidt, Der Prozeß als Rechtslage cit., spec. 122 ss., 335 ss. e poi, in tutta l’opera.
[46] V. Betti, Diritto processuale cit., 57-58 ove il rilievo che, in sintesi, “l’auto-responsabilità di parte consiste nel rischio di conseguenze svantaggiose imputabili alla deficiente o incauta condotta propria”.
[47] Un po’ come – a voler insistere con l’ardito accostamento di cui sopra – accadde al Beethoven della Terza sinfonia, ispiratagli dal fascino di Bonaparte, poi in corso d’opera tramutatosi ai suoi occhi nell’”Orco di Corsica” e, come tale, rinchiuso e sepolto idealmente nella (meravigliosa) “cassa” armonica del secondo movimento (la celeberrima Marcia funebre).
[48] Oggi – soprattutto in virtù dell’influsso esercitato dagli studi di Karl Engisch (v. K. Engisch, Die Idee der Konkretisierung in Recht und Rechtswissenschaft unserer Zeit, Heidelberg, 1953, 10 ss.; Id., Einführung in das juristische Denken, IX ed., Stuttgart, 1997, spec. 156 ss.) – la “clausola generale” è perlopiù intesa come sinonimo di disposizione che impiega uno o più “concetti indeterminati” o “elastici”, il cui contenuto può, così, variare al mutare della realtà storica e sociale in cui si colloca la fattispecie normativa (v., ex multis, F. Roselli, Il controllo della Cassazione civile sull’uso delle clausole generali, Napoli, 1983, spec. 7 ss.; A. Röthel, Normkonkretisierung im Privatrecht, Tübingen, 2004, 2 ss., nonché, con specifico riguardo alle norme di provenienza euro-unitaria, P.C. Müller-Graff, Elemente einer gemeinschaftsprivatrechtlichen Dogmatik der Generalklausel, in Die Generalklausel im Europäischen Privatrecht, a cura di C. Baldus e dello stesso P.C. Müller-Graff, München, 2006, 129 ss., spec. 132; si tratta, per giunta, di un’accezione avallata pure dai processualcivilisti: v. per tutti, E. Fabiani, Clausole generali e sindacato della Cassazione, Torino, 2003, spec. 25 ss.). Tuttavia, in tal modo si è finito per offuscare il significato originario di questa formula che è stata coniata dalla dottrina tedesca sul modello del § 242 BGB, ai sensi del quale l’obbligato deve eseguire la prestazione secondo quanto impone la buona fede con riguardo agli “usi e costumi della gente onesta nel traffico”. In realtà, se (come è stato ben fatto da Marietta Auer, Materialisierung, Flexibilisierung, Richterfreiheit, Tübingen, 2005, passim, spec. 102 ss., 126 ss. e 138 ss.) si ritorna alle radici del concetto di clausola generale, ricostruendo il milieu storico-culturale in cui esso è germinato (che è, in particolare, quello della Germania della fine Ottocento e della prima metà del secolo scorso), ci si rende conto che il proprium di queste risiede non già nella indeterminatezza del contenuto, quanto piuttosto nella circostanza che esse indicano imperativi metagiuridici e sociali con la funzione di rendere il diritto positivo più rispondente alle esigenze etiche. È questa una radice – culturale e spirituale – che, negli ultimi lustri, la prevalente letteratura giuridica (in primis quella tedesca) ha sostanzialmente reciso, finendo per individuare l’essenza di tale fenomeno nella sua “vaghezza contenutistica”. La clausola generale è divenuta, così, una figura dai contorni slabbrati ed evanescenti tramutandosi in un surrogato del concetto giuridico cd. “elastico” (cui, del resto, fa spesso ricorso la normativa interna e pure europea). Di qui, la perniciosa tendenza – nell’analisi del dato positivo – a intravvedere a ogni piè sospinto clausole generali: accanto alla buona fede, al buon costume e al dovere di lealtà e probità delle parti e dei loro patroni trovano posto, ex multis, la “giusta causa” e il “giustificato motivo” del licenziamento, la “slealtà” nella concorrenza, la “negligenza, imprudenza e imperizia”, “l’interesse dei coniugi e della prole”, “l’interesse patrimoniale” alla prestazione, i “giusti motivi”, le “eccezionali e gravi ragioni”, “l’urgenza”, “l’equità”, il “buon padre di famiglia”, “l’abuso del diritto”, “l’interesse ad agire”, il “difetto di motivazione” della sentenza e via discorrendo. Una torre babelica, al cospetto della quale Adrian Bueckling, giocando ironicamente con le parole che formano il titolo del celebre libello di J.W. Hedemann (“die Flucht in die Generalklauseln” – la fuga nelle clausole generali), ha parlato di una vera e propria “maledizione” delle clausole generali (“der Fluch der Generalklauseln”): v. amplius, A. Bueckling, Der Fluch der Generalklauseln, in ZRP, 1983 (Heft 8), 190 ss.
[49] In questi termini, con riferimento alle “clausole generali/concetti elastici” giuslavoristici, L. Nogler, La disciplina dei licenziamenti individuali nell’epoca del bilanciamento tra i “principi” costituzionali, in Dir. lav. rel. ind., 2007, 593 ss., spec. 651 ss., ma è rilievo che vale (e soggiungo: a maggior ragione) anche per il processo.
[50] Su cui v., tra i contributi più recenti, anche per ulteriori riferimenti di letteratura e giurisprudenza (apicale e di merito), E. Bivona, Frazionamento “abusivo” del credito e controllo giudiziale sull’interesse ad agire, in Riv. dir. civ., 2018, 1163 ss. e C. Asprella, Il frazionamento dei diritti connessi nei rapporti di durata e nel processo esecutivo, in Corr. giur., 2017, 975 ss.
[51] Come vorrebbe, ad es., P. Schlosser, Einverständliches Parteihandeln cit., 9 ss. e 43 ss.
[52] Su cui, v. le acute osservazioni di M. Taruffo, Diritto processuale civile nei paesi anglosassoni, in Dig. disc. priv., VI, Torino, 1997, spec. 409-410.
Marinelli Marino
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