Lo scambio virtuoso tra giurisdizione e riflessione giurisprudenziale
Giovanni Papa*
Lo scambio virtuoso tra giurisdizione e riflessione giurisprudenziale**
English title:The fruitful exchange between jurisdiction and jurisprudential viewpoint
DOI: 10.26350/18277942_000203
Sommario: 1. Sulla traccia dei maestri. 2. Exceptiones e strategie processuali. 3. Un più largo orizzonte.
1. Sulla traccia dei maestri
“[L]’interdipendenza fra diritto e processo (almeno se guardata dall’angolo visuale romanistico) non è da supporsi a priori a senso unico. Il processo ha […] una funzione in qualche modo strumentale rispetto al diritto, ma il diritto è condizionato dal processo: l’ipotesi da prospettare è quella di un rapporto circolare tra l’uno e l’altro”. Questa è la suggestiva osservazione con la quale Giovanni Pugliese si avviava a rimarcare, nella sua magistrale relazione pronunciata nell’ambito delle giornate di studi dedicate alla memoria di Giuseppe Provera, i tratti distintivi della dialettica tra diritto e processo nell’esperienza giuridica romana sino a tutto il III secolo d.C.[1]. Parole che in una certa misura mi sono subito tornate alla mente appena ho avuto l’opportunità di leggere l’agile quanto interessante volume di Enrico Sciandrello sulle cdd. exceptiones in factum.
E in effetti, il consilium di ridisegnare il perimetro applicativo di quei rimedi che, in quanto descrittivi di situazioni meritevoli di protezione, erano accordati al reus al di fuori della cornice edittale risulta senz’altro degno di nota[2], se soltanto trova adeguato spazio all’interno di un percorso ricognitivo che si dipana nel segno – per dirla ancora con le parole del maestro torinese – “della creazione del diritto nel e per effetto del processo, sia attraverso l’opera interpretativa ed evolutiva dei giudici, sia per l’esercizio dei particolari poteri riconosciuti ai pretori urbano e peregrino e ad altri magistrati giurisdizionali”. Se, dunque, non trascura di considerare che le clausole e i provvedimenti contenuti nel ‘manifesto’ del giusdicente rimasero tuttavia annodati – almeno fino a quando quest’ultimo fu caratterizzato da una sorta di “fluidità compositiva”[3] – a quell’ampia flessibilità che contrassegnava l’attività magistratuale e che si traduceva essenzialmente nell’accordare durante l’anno tutele decretali idonee a tramutarsi (se del caso e comunque sotto l’egida del praetor successivo) in vere e proprie rubriche dell’album, oppure nel denegare il rimedio edittale invocato dai litiganti, allorché fosse apparso palesemente iniquo. Se, infine, non tralascia di tenere in conto che dopo la ‘svolta’ adrianea del 130 d.C. – malgrado il progressivo isterilimento della spinta creativa del ius honorarium e dunque nonostante l’acquisita, sostanziale immutabilità del testo annuale[4] – persisteva in ogni modo la possibilità di concedere, sempre in via decretale, espedienti utili a offrire soluzioni che andassero al di là di una mera estensione analogica dei mezzi edittali.
Ebbene, tutto questo mi sembra sia stato oggetto della riflessione dell’autore, seppure talora un po’ troppo cursoriamente, attraverso rapidi, impliciti cenni. Abbandonato l’iniziale criterio sistematico, egli ha preferito privilegiare una prospettiva diacronica, che gli ha consentito di guardare in controluce l’incidenza del nostro mezzo, di valutarne in qualche maniera la vicenda evolutiva nell’ambito di quella più ampia storia del ius Romanorum incentrata sulla relazione tra pretore, giuristi e potere imperiale. Di quella storia che, già nella seconda metà del I secolo a.C., permette di scorgere i segnali del futuro assetto dei piani normativi ereditati dalla tradizione. Di quella storia che, nel mutato quadro ‘costituzionale’ di inizio principato, si snoda sulla base del cambiamento dei rapporti di ‘forza’ fra giusdicente e iurisconsulti: nello sfondo dei differenti equilibri di potere che vedono ‘scendere in campo’ come nuovo interlocutore il princeps, furono infatti i prudentes ad assumere (affrancati oramai dalla mediazione pretoria) ruolo-guida nella produzione del diritto[5].
2. Exceptiones e strategie processuali
In quest’ottica e nel solco di un’efficace traccia venutasi a delineare nel dibattito storiografico a partire dalla metà dell’Ottocento facente leva sulla circostanza che – stando a Gai 4.118 – ogni indagine sulle eccezioni non edittali dovesse finire per includere sia quelle in factum sia quelle utiles[6], pure Sciandrello prende l’avvio nella sua ricerca dalla locuzione exceptiones casusa cognita accomodatae, riportata nella porzione iniziale della testimonianza del maestro antoniniano.
Recuperata nella sua portata ‘concreta’ grazie ad alcune sententiae di epoca severiana, nelle quali – al di là degli specifici contesti[7] – la salvaguardia di istanze equitative sembra orientare verso l’uso di strumenti decretali; non esclusa, anche se in ragione per lo più di argomenti e silentio, la possibilità di ricomprendere nella menzionata espressione sia le exceptiones utiles sia quelle in factum, l’autore avverte anzitutto l’esigenza di circoscrivere i contorni applicativi delle prime.
Ora, se la lectio conservata nei Digesta e nei testi imperiali lo autorizza a prendere le distanze da un recente indirizzo[8], e a porsi a valle di quell’itinerario favorevole a delimitare la qualifica di utiles alle sole eccezioni fondate su leges o senatusconsulta[9], alcune fattispecie tramandate dalle (non numerose, ma eloquenti) fonti lo inducono, nondimeno, a un’ulteriore messa a fuoco in ordine a plausibili connessioni tra dette exceptiones e quelle in factum. E ciò dal momento che l’impiego di queste ultime sembrerebbe ipotizzabile anche per estendere la tutela solitamente assicurata da un rimedio edittale[10].
La pagina di Sciandriello si rivela, al riguardo, alquanto apprezzabile, offrendo una chiave di lettura diversa sia da quella (più recente) fautrice di una netta cesura tra i campi d’elezione di entrambi i mezzi difensivi[11], sia da quella (più risalente) fautrice dell’idea che mentre le eccezioni utiles avrebbero supplito alla mancanza di un presupposto contemplato nel modello edittale, le eccezioni in factum avrebbero ampliato i confini di quest’ultimo[12]. Una terza via, si diceva, quella prospettata dallo studioso, il quale per superare l’ostacolo punta sull’elemento soggettivo posto a monte della fattispecie di volta in volta presa in considerazione. All’atteggiamento fraudolento alluderebbe infatti Africano in D. 16.1.19.5 (ma forse Giuliano, verosimile autore del responso) per estendere al mutuante delegato dalla donna, mediante modifica dei verba dell’eccezione edittale, la protezione del senatoconsulto Velleiano. Parimenti alla fraus si richiamerebbe Ulpiano in D. 14.6.7 pr.-1 (e prima di lui Giuliano, espressamente citato dal giurista severiano) per permettere al correus del filius, sempre grazie a un’eccezione utile, di giovarsi del senatoconsulto Macedoniano. Ma con buona probabilità, già Giuliano in D. 4.4.41 individuerebbe nella frode alla legge Letoria la ratio giustificante l’adattamento dell’eccezione prevista in albo, evitando così all’adulescens di essere pregiudicato dal comportamento tenuto dal terzo nell’intervallo successivo alla conclusione del negozio.
In definitiva, tutto ruoterebbe attorno a un aspetto comune, quello di sanzionare l’agere in fraudem legis, che del resto spiegherebbe il limitato ricorso alle eccezioni utiles da parte dei giureconsulti contemporanei o posteriori allo scolarca sabiniano e viceversa darebbe ragione (sebbene indirettamente) della maggiore ‘fortuna’ goduta da quelle in factum. Fortuna che, dal canto suo, sembra trovare ulteriore e stringente conferma – nota Enrico Sciandrello – sia in suggestioni che, proprio perché insistono su profili generali di tecnica formulare, appaiono difficilmente contestabili, sia nelle testimonianze collocabili entro un arco temporale assai ampio, racchiuso tra la fine della repubblica e l’epoca dioclezianea.
È dunque la giurisprudenza attiva tra I secolo a.C. e I d.C. a restituirci le prime coordinate di un percorso in forza del quale, oltre a risalenti previsioni circoscritte alla materia interdittale[13], sarebbero ipotizzabili exceptiones in factum che, con il precipuo scopo di fornire una congrua risposta alle esigenze fatte valere dal reus, giacché sostanzialmente prive di adeguata ‘copertura’ edittale, si inseriscono nelle fattispecie più svariate. E ciò, quantunque la concessione di siffatti rimedi, recuperando nell’aequitasil principale elemento di sviluppo, l’estremo per un’efficace ricomposizione, venga a porsi nell’orbita di quel bipolarismo in virtù del quale le eccezioni decretali sarebbero servite a estendere una disciplina già fissata nel programma pretorio, ovvero avrebbero avuto una portata del tutto innovativa (direi quasi dirompente) entro contesti fino ad allora sguarniti di protezione[14].
L’andamento fin qui tratteggiato non muta, anzi si arricchisce di ulteriori articolazioni, allorché – seguendo le sollecitazioni del libro – ci inoltriamo nel II e III secolo d.C. Accanto infatti a rimedi riconosciuti al convenuto per il caso specifico e comunque senza alcun aggancio ai modelli contemplati nell’album[15], accanto a exceptiones decretali che, prendendo invece le mosse da rimedi edittali, finivano per allargarne l’applicabilità a tutte quelle situazioni nelle quali essi non avrebbero trovato idoneo spazio[16], si fa strada una nuova tutela per il reus all’insegna dell’alternativa tra exceptio in factum ed exceptio doli, tra due strumenti che si dispiegano su piani paralleli, eppure si intrecciano in vario modo, condizionandosi reciprocamente.
Ed è proprio a questa dinamica che Sciandrello volge lo sguardo, ripercorrendone la linea evolutiva lungo circa due secoli.
Se infatti a Giuliano sono riconducibili le prime manifestazioni di una difesa incentrata sul ‘doppio binario’[17], è soltanto con Ulpiano che si perviene a un’effettiva riflessione teorica in ordine ai rapporti tra le due tipologie di eccezioni[18]. All’interno di uno sfondo così tratteggiato è in specie la testimonianza del giurista severiano, preservata nel suo commento edittale all’exceptio doli[19], a suscitare l’interesse dell’autore. Affrancatosi da antichi condizionamenti e senza (comunque) disperdersi in affannose ricerche di verosimili alterazioni testuali, egli ne propone un’interpretazione che si focalizza sull’impianto espositivo nella sua globalità e suggerisce stimolanti spunti di approfondimento riguardo sia al momento genetico, sia a quello applicativo della nostra duplice forma di protezione.
Manifestazioni di una medesima tendenza ‘correttiva’ diretta a paralizzare pretese rivelatesi in contrasto con le istanze della giustizia distributiva, i due rimedi rappresenterebbero le facce della stessa medaglia. Sicché è opinione dello studioso che – nella visuale ulpianea (e forse della giurisprudenza di III secolo) – operasse fra di essi una sorta di automatismo (non sempre enunciato a chiare lettere nei testi) grazie al quale, ogniqualvolta è ammissibile una tutela decretale, è implicito il ricorso alternativo a una difesa finalizzata a dare rilievo al dolo. Automatismo che tuttavia non è da ipotizzarsi se non in una prospettiva evidentemente a senso unico. Così nel caso, per esempio, della mancata numeratio pecuniae da far valere nei confronti del parens o del patronus[20], in cui ragioni connesse alla salvaguardia della reputazione di tali soggetti inducono il maestro di Tiro a negare in modo espresso la (più antica) exceptio doli[21] e a prevedere in sua vece soltanto un’exceptio in factum. Un’exceptio, cioè, attraverso la quale viene superato il limite soggettivo del dolo e considerato piuttosto il profilo oggettivo della mancata corresponsione del danaro[22].
Da qui la conclusione cui già si accennava: l’eccezione decretale avrebbe svolto una funzione non tanto sussidiaria, quanto piuttosto – si direbbe – integrativa, essendo assai spesso rivolta a portare aiuto al reo in tutte quelle circostanze in cui egli non avrebbe potuto giovarsi di un’eccezione edittale.
Tutto quanto finora detto non esclude però che, nella realtà delle singole vicende processuali, la scelta effettiva fra le due soluzioni difensive fosse in sostanza rimessa al convenuto, magari sulla base di considerazioni di mera convenienza. Più delle esigenze di ordine sistematico, sarà l’assetto degli interessi via via coinvolti – la convinzione che fosse più proficuo addurre fatti circostanziati, o viceversa allegare generici comportamenti iniqui dell’attore – a indirizzare la preferenza del reus verso l’una oppure l’altra eccezione.
3. Un più largo orizzonte
Dalla lettura di questo buon libro si trae netta la sensazione che la storia delle exceptiones in factum rappresenti senza dubbio quella che si potrebbe definire ‘une petite historie de la grande historie’: come si rimarcava in limine a queste brevi osservazioni, un segmento cruciale, un tratto significativo di quella lunga e complessa trama che annoda giurisdizione e giurisprudenza, evoluzione del testo edittale ed evoluzione delle sue interpretazioni. Una storia, d’altro canto, leggibile a mo’ di parabola che, a partire dalla tarda repubblica e fino a Diocleziano, si snoda all’insegna dell’idea – si diceva sempre innanzi – secondo cui la formazione del diritto avvenne ‘nel e per effetto del processo’, nella misura in cui anche attraverso la concessione del nostro rimedio si venne in qualche modo a incidere sullo sviluppo di istituti centrali del diritto privato.
Prerogativa, quest’ultima, che a mio avviso può essere colta in tutta la sua intrinseca forza se, fra i tanti contesti passati in rassegna dall’autore, si ferma l’attenzione soprattutto su quelli nei quali si registra l’intervento dei prudentes incline ad ampliare (per il tramite appunto di un’eccezione decretale) il ‘raggio d’azione’ di filoni ordinamentali differenti, talvolta antichi. E qui, facendo comunque salvi gli esiti cui lo studioso è pervenuto, pare tuttavia necessario spingersi oltre, e guadagnare un più ampio orizzonte problematico, dando voce pure a quelle testimonianze che, muovendosi sempre nell’ambito del rigoroso e imprescindibile sillogismo caratterizzante il iudicium formulare, risultano estrinsecazione, viceversa, di una logica tesa a limitare l’operatività di siffatti modelli prescrittivi.
Penso segnatamente a quelle attestazioni di II e III secolo d.C. dalle quali emerge un lavorio interpretativo della giurisprudenza e degli scrinia imperiali tendente a ridurre la portata applicativa della lex Cincia, che – com’è noto – fissava un modus al di là del quale le personae non exceptae non avrebbero potuto conseguire quanto loro assegnato a titolo liberale. Un lavorio che si traduce nella formulazione di una sorta di massima, ‘morte Cincia removetur’, la quale, introdotta con buona probabilità dalla prassi o da un risalente (e ignoto) provvedimento imperiale, ricevette evidenza normativa grazie a un rescritto di Caracalla[23].
Ebbene, la maggior parte di tali fonti, a prescindere dalle specifiche fattispecie prese in considerazione, ci restituiscono il medesimo scenario. Qualora il donator fosse morto senza mutare il proprio intento, al di lui erede, chiamato in giudizio dal donatario al fine di dare esecuzione alla voluntas defuncti, non era consentito di respingere l’azione proposta facendo leva sulla contrarietà dell’atto di elargizione al precetto legislativo. In buona sostanza, la vis dell’exceptio legis Cinciae sarebbe stata neutralizzata da un’ulteriore pars formulae, diretta a chiamare in gioco profili di dolo processuale, ravvisabili, dal canto loro, nell’aver avanzato una difesa che, sebbene in abstracto legittima, perseguiva in concreto finalità inique. Il fatto che il donante avesse perseverato durante tutta la vita nella voluntas donandi, rendeva quest’ultima definitiva e irrevocabile, sicché all’erede era successivamente impedito di tenere condotte a essa contrarie, era cioè preclusa la possibilità di disattenderla[24].
Questo è infatti quanto si legge in due frammenti di Papiniano, escerpiti dal dodicesimo libro dei responsa, ora rispettivamente in
Fr. Vat. 259: Mulier sine tutoris auctoritate praedium stipendiarium instructum non mortis causa Latino donaverat. Perfectam in praedio ceterisque rebus nec mancipii donationem esse apparuit, servos autem et pecora, quae collo vel dorso domarentur, usu non capta. Si tamen voluntatem mulier non mutasset, Latino quoque doli profuturam duplicationem respondi; non enim mortis causa capitur quod aliter donatum est, quoniam morte Cincia removetur
e in
Fr. Vat. 294.1: Quod pater filiae, quam habuit ac retinuit in potestate, donavit, cum eam donationem testamento non confirmasset, filiae non esse respondi; nam et peculia non praelegata communia fratrum esse constabat. Diversa ratio est contra legem Cinciam factae donationis. Tunc enim exceptionem voluntatis perseverantia doli replicatione perimit; cum pater filiis, quos habuit ac retinuit in potestate, donat, nihil prodest non mutari voluntatem, quoniam quod praecessit totum inritum est. Unde cum filius in divisione bonorum penes fratrem quod pater donaverat errore lapsus reliquit, portionem eius non esse captam usu Servio Sulpicio placuit, quod neque frater ipse donaverat neque pater donare poterat.
È ciò che altresì tramanda Ulpiano nel primo commentario all’editto de rebus creditis, pervenuto in
Fr. Vat. 266: Indebitum solutum accipimus non solum si omnino non debebatur, sed et si per aliquam exceptionem peti non poterat, id est perpetuam exceptionem. Quare hoc quoque repeti poterit, si quis perpetua exceptione tutus solverit. Unde si quis contra legem Cinciam obligatus non excepto solverit, debuit dici repetere eum posse, nam semper exceptione Cinciae uti potuit, nec solum ipse, verum, ut Proculeiani contra Sabinianos putant, etiam quivis, quasi popularis sit haec exceptio, sed et heres eius, nisi forte durante voluntate decessit donator: tunc enim doli replicationem locum habere imperator noster rescripsit in haec verba.
È infine quanto ci restituisce un rescritto imperiale databile al 293 (con buona probabilità confezionato dal giurista-burocrate Ermogeniano)[25], e precisamente
Divi Diocl. et Const. Aurelio Onesimo Fr. Vat. 312: Successoribus donatoris perfectam donationem revocare non permittitur, cum inperfectam perseverans voluntas per doli mali replicationem confirmet. Unde aditus praeses provinciae, si de possessione te pulsum animadvertit nec annus excessit, ex interdicto ‘unde vi’ restitui te cum sua causa providebit, vel si hoc tempus finitum est, ad formulam promissam, quasi nullas vires donationem habuisse dicatur, quaestione facti examinata, iudicem praeses provinciae sententiam ferre curabit.Proposita VIIII kal. Mart. Diocletiano V et Maximiano IIII conss.
Se dunque Papiniano, Ulpiano e gli officia palatini affidano alla replicatio (ovvero alla duplicatio) doli il ‘compito’ di sbarrare i possibili soprusi dell’erede del donante, che con il suo agire sleale avrebbe tentato di ledere il diritto del donatario, Paolo, ricorrendo sempre alle articolate ‘misure’ processuali, si fa invece assertore di un quid novi, viene a stabilire un inedito confine alla sfera di influenza dell’antica disposizione di legge.
E difatti in
71 ad ed. D. 44.4.5.2: Si donavi alicui rem nec tradidero, et ille cui donavi non tradita possessione in eo loco aedificaverit me sciente, et cum aedificaverit, nanctus sim ego possessionem, et petat a me rem donatam, et ego excipiam, quod supra legitimum modum facta est: an de dolo replicandum est? Dolo enim feci, qui passus sum eum aedificare et non reddo impensas
il giureconsulto prevede che il perdurare dell’animus donandi debba estendere i suoi effetti anche nei confronti del donante, nel senso che la scientia donatoriscirca alcuni comportamenti positivi del donatario con riguardo alla res donata vada configurata quasi come un implicito (tacito) consenso, una sorta di passiva acquiescenza alla donazione medesima, e in quanto tale ostacoli il successivo tentativo del donante di giovarsi dell’eccezione fondata sulla legge Cincia. Circostanza che, ad avviso del giurista, è possibile far valere ancora una volta adducendosi per mezzo della replicatio l’‘ingiustizia’ insita nell’esercizio stesso dell’eccezione, la quale, sebbene formalmente ‘iusta’, si rivela nella sostanza ‘iniqua’ per aver il donate mantenuto inalterata, appunto, la propria volontà di donare.
In definitiva, a me sembra che alla decisione paolina, forse di più delle altre qui considerate, debba attribuirsi un posto di rilievo in seno al dibattito che vede giurisprudenza e uffici imperiali impegnati a delimitare il margine di manovra del provvedimento di fine III secolo a.C. Con essa, infatti, si supera la concezione formalistica del diritto, si avvertono e si recepiscono, oltre la regola, anche le istanze e le necessità di una realtà in continuo movimento. Detto altrimenti, essa viene a imprimere una ‘virata’ decisiva all’interno di quel processo incline a riconoscere la voluntas del donante come vero e proprio criterio ermeneutico, canone fondante la distinzione tra donatio perfecta e donatio imperfecta[26]. E questo è un particolare di non poco momento, tenuto conto che proprio il giurista severiano in altri luoghi allude all’esistenza di un’exceptio in factumche, se si accede alla ricostruzione di Sciandrello[27], sarebbe stata posta “a completamento d[ella] […] disciplina […] dettata dalla lex Cincia”, ne avrebbe esteso lo spettro di impiego, sanzionando tutti quei “casi […] riconducibili a stipulazioni donationis causa non aventi a oggetto una somma determinata di denaro”.
Un atteggiamento, questo di Paolo, che deve essere senz’altro letto alla luce del fatto che a Roma, com’è noto, la necessità di adeguare risalenti previsioni normative ai costumi, alle sollecitazioni sociali, alle esigenze contingenti non conduceva quasi mai alla riscrittura delle norme stesse, ma restava piuttosto affidata all’interpretatio dei giuristi: solo essi capaci di pervenire, attraverso “il ricorso alle tecniche ermeneutiche proprie del [loro] strumentario logico-argomentativo”[28], a soluzioni innovative, confacenti alle spinte di una realtà assai mutevole. In altri termini, una siffatta necessità trovava adeguata risposta nella meticolosa, capillare operazione di ‘decantazione’ cui i prudentes davano luogo nel solco di un consilium attualizzante: di un consilium, dunque, sostanzialmente finalizzato a interpretare, spiegare la ratio legis, ora ampliandone, ora restringendone l’applicazione, in ogni caso assicurandone sempre la stabilità nel sistema ordinamentale.
La persistenza, nella tarda età severiana, di visuali orientate a modificare antichi precetti secondo logiche di segno opposto mi pare ricevere conferma anche se voltiamo pagina, se cioè procediamo a un’esplorazione sommaria delle dinamiche relative al decretum senatorio di età vespasianea che privava di protezione processuale i mutui di danaro erogati in favore dei filii familias[29].
Pure in questo caso, l’esigenza di tutela dei differenti interessi che entravano in gioco nel rapporto negoziale faceva sì che a soluzioni come quella prospettata da Pomponio – diretta ad accordare al mutuatario un’exceptio in factum allo scopo di “paralizzare la pretesa nascente da un atto […] contrario al senatoconsulto Macedoniano, anche se […] non sanzionabile attraverso l’eccezione tipica”[30] – si contrapponessero tuttavia alcune decisioni assunte tra II e III d.C. da cancelleria imperiale e giurisprudenza[31].
Mi riferisco, nel dettaglio, al rescritto dell’imperatore Pertinace, emanato nel 193 e indirizzato a un certo Atilio, in
C. 4.28.1: Si filius, cum in potestate patris esset, mutuam a te pecuniam accepit, cum se patrem familias diceret, eiusque adfirmationi credidisse te iusta ratione edocere potes, exceptio ei denegabitur. PP.X k. April. Falcone et Claro conss.
nonché ai frammenti di Paolo e Ulpiano, rispettivamente in
69 ad ed. D. 46.2.19: Doli exceptio, quae poterat deleganti opponi, cessat in persona creditoris, cui quis delegatus est. Idemque est et in ceteris similibus exceptionibus, immo et in ea, quae ex senatus consulto filio familias datur: nam adversus creditorem, cui delegatus est ab eo, qui mutuam pecuniam contra senatus consultum dederat, non utetur exceptione, quia nihil in ea promissione contra senatus consultum fit: tanto magis, quod hic nec solutum repetere potest. Diversum est in muliere, quae contra senatus consultum promisit: nam et in secunda promissione intercessio est. Idemque est in minore, qui circumscriptus delegatur, quia, si etiamnunc minor est, rursum circumvenitur: diversum, si iam excessit aetatem viginti quinque annorum, quamvis adhuc possit restitui adversus priorem creditorem. Ideo autem denegantur exceptiones adversus secundum creditorem, quia in privatis contractibus et pactionibus non facile scire petitor potest, quid inter eum qui delegatus est et debitorem actum est aut, etiamsi sciat, dissimulare debet, ne curiosus videatur: et ideo merito denegandum est adversus eum exceptionem ex persona debitoris
e in
29 ad ed. D. 14.6.9 pr.: Sed si pater familias factus rem pignori dederit, dicendum erit senatus consulti exceptionem ei denegandam usque ad pignoris quantitatem.
Pur svolgendosi fra analoghi protagonisti, pur mirando all’identico obiettivo di negare al filius la possibilità di avvalersi dello scudo dell’eccezione basata sul decreto senatorio, le vicende processuali contemplate nei documenti appaiono tuttavia fondarsi su differenti motivazioni. Se invero per l’imperatore del II secolo la fine delle ostilità, raggiunta mediante denegatio exceptionis, si giustifica alla luce della falsa dichiarazione rilasciata dall’alieni iuris di essere giuridicamente autonomo, per il giurista di Tiro, invece, è l’effettivo conseguimento dell’autonomia familiare a precludere la possibilità di azionare la protezione del senatoconsulto in ordine a tutti quegli atti compiuti dopo siffatto conseguimento e in qualche modo collegati alla datio mutui. Altrettanto diversa è la ragione che orienta Paolo: all’interno di un giudizio che trova avvio da una stipulatio ex delegatione, intervenuta verosimilmente dopo la definizione del mutuo, al filius non è concesso di opporre l’exceptio senatusconsulti Macedoniani nei confronti del proprio delegatario, dal momento che – precisa in chiusura il giureconsulto – nihil in ea promissione contra senatus consultum fit.
In sintesi, laddove quest’ultimo punta sull’effettiva ignoranza del creditore, laddove Ulpiano insiste su profili di natura oggettiva, la cancelleria di Pertinace sembra porre l’accento, invece, su entrambi i criteri: l’operatività della delibera del senato sarà infatti inibita solo qualora il creditore dia prova in modo inconfutabile sia della falsa dichiarazione di autonomia familiare resa dal mutuatario, sia, al contempo, della propria buona fede, vale a dire di essersi intimamente convinto di prestare denaro a un sui iuris.
Fautori di quel movimento che si delinea quando alla “paura [subentra la] ragione”[32], Pertinace, da un lato, e Paolo e Ulpiano, dall’altro, ci restituiscono dunque un ulteriore, chiaro esempio dell’intima coesione tra piano sostanziale e piano processuale. Esprimono una comune linea di pensiero che, nell’ottica di una possibile ricomposizione tra ius ed aequitas, viene a individuare una soglia oltre la quale ‘cessat senatusconsultum’, allo scopo di recupere un nuovo punto di equilibrio tra “autonomia del figlio […] potere di controllo paterno”[33] e interesse del creditore.
A completare il quadro un altro frammento di Ulpiano, nel quale però lo scontro processuale fra i litiganti è destinato a sfociare non già in un provvedimento di denegatio exceptionis, ma in una sentenza di condanna del figlio-mutuatario, che trova la sua giustificazione nell’ulteriore supplemento d’indagine sollecitato dalla replicatio. Si tratta di
76 ad ed. D. 44.4.4.14: Contra senatus consulti quoque Macedoniani exceptionem de dolo dandam replicationem ambigendum non esse eamque nocere debere etiam constitutionibus et sententiis auctorum cavetur
ove, nonostante il silenzio del testo, l’exceptio senatusconsulti Macedoniani risulterebbe ‘svuotata’, quanto all’interesse protetto, da un’attività dolosa del filius. Detto altrimenti, sarebbe sempre l’inganno (o forse soltanto l’omissione) da parte del figlio in ordine al proprio status a scolorire di illiceità il contegno del mutuante, e di conseguenza a giustificare la ‘paralisi’ del rimedio invocato dall’alieni iuris subiectus.
Nulla di nuovo, quindi, al livello dei principî invocati. Diversamente con riguardo alla tecnica giudiziale: qui la novità vi è ed è di rilievo, atteso che al giusdicente è concessa una nuova strada per dare séguito alle pretese del mutuante. Spinto forse da ragioni di mera opportunità, ovvero da più stringenti motivi connessi in vario modo alla vicenda di causa, ma comunque basandosi solo sul suo personale apprezzamento, egli, permettendo all’attore di inserire nella formula la replicatio, viene a rimettere ogni decisione al iudex, la cui pronunzia, come si sa, avrebbe avuto effetti definitivi nell’ambito dei rapporti fra le parti.
Ebbene, a leggere insieme i testi innanzi menzionati, a confrontarli nel loro andamento con il passo di Pomponio richiamato da Sciandrello, ne deriva un quadro d’insieme decisamente mosso, e tuttavia non in grado di scalfire la convinzione che anche stavolta prudentes e scrinia imperiali si siano destreggiati lungo una traccia in forza della quale, per dare voce alle incalzanti istanze della prassi e ai principî che questa porta con sé (indipendenti, e talora addirittura in controtendenza, rispetto alle previsioni edittali) si rivela opportuno puntare sull’interpretazione della ratio legis, piuttosto che sulla radicale riformulazione della norma. Una traccia, dunque, dalla quale affiora nitido lo sviluppo di un confronto – per così dire – ‘orizzontale’ fra opinioni differenti, ma in ogni caso idonee a fornire valide opzioni operative, secondo una logica non già escludente, ma all’evidenza complementare. Una traccia, in definitiva, che viene a condizionare la successiva evoluzione del decretum vespasianeo, fino a permetterne in qualche modo la sopravvivenza all’interno di quel più ampio movimento “che Giustiniano definì, con un’incisiva locuzione, nova hominum conversatio: […] l’inesauribile potenza di crescita della dignità umana”[34]. E ciò facendosi leva ancora su denegatio actionis, exceptio e, allorché la questione si presenti più articolata, pure su denegatio exceptionis, replicatio e clausole a essa annodate. Dunque, su tutti quei rimedi che, concepiti entro il contesto formulare, risultano in vigore anche nel nuovo processo cognitorio, quantunque “depurati da una impostazione sillogistica che non consentiva al giudice soluzioni diverse da quelle imposte da tale costruzione logica”[35].
Non vado oltre, pur consapevole che molti, significativi esempi si potrebbero portare a testimonianza dell’assunto prescelto, tutti peraltro ugualmente preziosi a corroborare l’idea dell’esistenza, nell’esperienza giuridica romana, di un “rapporto circolare” tra diritto e processo, di una sorta di osmosi in forza della quale – si diceva in premessa riprendendo il pensiero di Pugliese – entrambi si influenzarono reciprocamente.
Sono proprio gli stimoli a sollecitare un approccio siffatto e a eleggerlo come punto di osservazione di indagini come quella qui in esame: stimoli che rappresentano, a mio avviso, un ulteriore, indubbio motivo di plauso. Con questo libro Sciandrello ha infatti fornito l’opportunità e gli incentivi migliori per una riflessione e una conseguente discussione su temi che potrebbero sembrare oramai privi di vis attrattiva ma che, viceversa, grazie pure al rinnovato confronto con una letteratura che si sbaglia a pensare ‘passata di moda’, possono tuttora rappresentare occasioni di reale progresso nelle discipline storico-giuridiche.
Abstract: Review article of Enrico Sciandrello, ‘Exceptiones in factum’. Contributo allo studio dell’eccezione nel processo formulare, Napoli, 2023, pp. 1-157. The essay, in discussing the content of the monograph, broadens its problematic horizon through the reading of some jurisprudential sententiae and decisions of the imperial chancery on lex Cincia and senatusconsultum Macedonianum
Keywords: exceptio in factum, replicatio doli, lex Cincia, senatusconsultum Macedonianum
*Università degli Studi di Napoli “Parthenope” (giovanni.papa@uniparthenope.it).
** A proposito di E. Sciandrello, ‘Exceptiones in factum’. Contributo allo studio dell’eccezione nel processo formulare, Napoli, 2023, pp. 1-157. Il saggio è stato sottoposto a double blind peer review
[1] G. Pugliese, Diritto e processo nell’esperienza giuridica romana, in Diritto e processo nell’esperienza giuridica romana. Atti del seminario torinese in memoria di G. Provera, Torino 4-5 dicembre 1991, Napoli, 1994, p. 7 ss., p. 12 s.
[2] Consilium che – precisa l’autore nella Introduzione (p. 1 ss.) – mira a colmare un ‘vuoto’ della scienza giusromanistica, la quale, pur essendosi ampiamente dedicata alle diverse questioni connesse con lo studio del processo civile romano, non sembra aver mai fornito un’elaborazione complessiva del rimedio in parola, impedendo di coglierne molte problematiche, lasciate talvolta sotto silenzio.
[3] L’inciso virgolettato è tratto da A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino, 2005, p. 310 s., ma per una più efficace messa a fuoco cfr. dello stesso autore anche il precedente lavoro dal titolo Forme normative e generi letterari. La cristallizzazione del ‘ius civile’ e dell’editto fra tarda repubblica e primo principato, in La codificazione del diritto dall’antico al moderno, Atti degli Incontri di studio, Napoli gennaio-novembre 1996, Napoli, 1998, p. 51 ss. Secondo lo studioso, tale condizione si protrasse verosimilmente per tutto il II secolo a.C., “un’epoca in cui la pratica della scrittura non aveva ancora trasformato il sapere giuridico romano”: solo, infatti, nella seconda metà del secolo successivo “l’organizzazione normativa in cui si veniva delineando la iurisdictio del magistrato” perse la “magmaticità del suo stato nascente, per diventare […] progetto, previsione, programma”. E ciò grazie soprattutto all’attività interpretativa portata avanti dalla giurisprudenza, la quale, fissando “importanza e campi d’applicazione delle nuove norme, finiva col sottrarle all’annuale precarietà della loro vita – scandita formalmente dai limiti dell’imperium del magistrato proponente – per consegnarle […] ai tempi ben più lunghi del ius civitatis” (Forme normative e generi letterari, cit., p. 66 s.).
[4] Come ha di recente ribadito C. Giachi, Per una storia dell’editto (I-III secolo). Note preliminari, in TSDP 16 (2023), p. 1 ss., spec. p. 8 s., cui si rinvia anche per la ricognizione bibliografica, “la questione della stabilità dell’editto […] è forse concepibile più compiutamente se articolata in due ordini di considerazioni riguardanti, da un lato, la complessità del testo pretorio e quindi il progressivo strutturarsi del suo contenuto, e, dall’altro, la disposizione dei singoli editti all’interno dell’albo. Una stabilità dei contenuti, dunque, e una stabilità dell’ordine affermatesi ciascuna per la propria via e con i propri tempi”. In buona sostanza, Giuliano non sarebbe intervenuto sulle singole “previsioni normative, già presenti quasi nella loro totalità, ma verosimilmente sulla loro disposizione, mettendole in ordine e conferendo al testo una sistemazione definitiva che avrebbe consentito di definirlo edictum perpetuum nel senso di stabile da ogni punto di vista” (ivi, p. 10). Propenso invece a respingere l’idea di un progetto ‘codificatorio’ realizzato con il coinvolgimento di Giuliano, R. Basile, “Minima de edicto perpetuo” tra passato e presente, in Index 43 (2015), p. 49 ss., il quale riconosce all’intervento adrianeo di cui v’è ricordo nella constitutio Tanta-Dedoken una “portata generalizzante, verosimilmente diretta a sancire una sostanziale chiusura delle ordinarie dinamiche edittali, per effetto dell’impressione di un ne varietur e della contestuale previsione a carico dei pretori dell’obbligo di far capo all’autorità imperiale ogni qualvolta si profilassero questioni per le quali mancava un’apposita regolamentazione” (ivi, p. 73). Nondimeno, e senza con ciò voler entrare nel merito di un evento dai contorni tuttora assai nebulosi, resta il fatto che dopo la ‘manovra’ predisposta da Adriano non sarebbe comunque venuta meno la possibilità di accordare (magari sotto l’attento controllo della cancelleria imperiale) nuovi rimedi decretali, e dunque di favorire in qualche modo l’ulteriore sviluppo dell’editto.
[5] Una stagione di profondi mutamenti, dunque, di cui è dato cogliere le linee fondamentali – ha osservato C. Giachi, Per una storia dell’editto, cit., p. 12 ss. – nelle pieghe delle opere ad edictum di Labeone, Pedio e Ulpiano: “tre commenti […] concatenati nelle sequenze di citazioni pervenute fino all’ultimo strato, quello ulpianeo, e appartenenti a tre epoche significative per la storia dell’editto: l’età della prima stabilizzazione, i decenni precedenti l’intervento giuliano adrianeo, e l’età severiana, nella quale la spinta evolutiva dell’editto è oramai esaurita”. Se infatti dai libri labeoniani – a noi giunti tramite la mediazione di Pomponio, Paolo e Ulpiano – emerge che “l’editto […] potrebbe aver subito, tra la fine del I secolo a.C. e i primi anni del I secolo d.C., le oscillazioni proprie di una struttura ancora almeno in parte mobile” (ivi, p. 15 s.); se da quelli pediani traspare l’esistenza di un “testo […] verosimilmente già stabile al punto da poter assumere il carattere di testo canonico, ma ancora potenzialmente fluido, tanto da consentire modifiche, e da richiedere interventi precisi diretti alla codificazione” (ivi, p. 19), da quelli ulpianei si manifesta, “nello loro tensione alla ricapitolazione, la temperie di un tempo nel quale la cultura giuridica intraprendeva la via di un proprio consolidamento, e di una rifondazione delle stesse istituzioni politiche guardando al futuro dell’impero da una salda prospettiva ancorata ad un passato ancora parlante” (ivi, p. 33).
[6] E ciò quantunque, soltanto a cominciare dagli studi di Max Kaser (Das römische Zivilprozessrecht, München, 1966, p. 195), la romanistica appare incline a riconoscere anche alle eccezioni utiles una possibile natura decretale. Significativa, al riguardo, la rassegna riportata nella parte iniziale del lavoro di Sciandrello (pp. 1-12), la quale, dando conto in rapida sintesi delle svariate opinioni prospettate dalla storiografia lungo un periodo che va dalla prima metà dell’Ottocento e giunge quasi sino ai nostri giorni, introduce il lettore alla disamina svolta nei tre capitoli successivi, a loro volta seguiti da brevi conclusioni e dagli abituali indici degli autori e delle fonti.
[7] Segnatamente, le opere conpiute ripae muniendae causa (Ulp. D. 43.13.1.6), gli onera imposti in adiacenza alla manumissio (Ulp. D. 44.5.1.6), il vadimonium desertum (Ulp. D. 2.11.2.8), la vendita dell’eredità (Pap. D. 2.15.17).
[8] Di recente, C. Gómez Buendía, ‘Exceptio utilis’ en el procedimento formulario del derecho romano, Madrid, 2015, passim, la quale ha ampliato il novero delle exceptiones utiles, prevedendone appunto l’operatività in contesti diversi e ulteriori rispetto al Macedoniano e al Velleiano: sei sarebbero, in specie, le ipotesi di eccezioni edittali estese in via utile, vale a dire quella rei iudicatae, quella sc. Macedoniani, quella sc. Velleiani, quella doli, quella quod praeiudicium hereditati non fiat e quella pacti.
[9] Così G. Nicosia, Exceptio utilis, in ZSS 75 (1958), p. 251 ss. [poi in Silloge. Scritti 1956-1996, 1, Catania, 1998, p. 69 ss.] e G. Wesener, Nichtediktale Einreden, in ZSS112 (1995), p. 109 ss. Di quest’ultimo si veda – quantunque non proprio centrato su tale argomento – anche Zu ediktalen und dekretalen Exzeptionen im Interdiktenrecht, in Fides humanitas ius. Studii in onore di L. Labruna, 8, Napoli, 2007, p. 5909 ss.
[10] Come lascerebbero inferire talune attestazioni, ove l’esercizio di un’eccezione in factum rappresenterebbe un’alternativa all’exceptio redhibitionis in tema di auctiones argentariae (Alf. D. 44.1.14), ovvero all’exceptio rei venditae et traditae in materia di acquisti realizzati dallo schiavo con il patrimonio peculiare (Ulp. D. 21.3.1.4), ovvero ancora all’exceptio legis Cinciae nel caso di donazioni effettuate in favore delle cd. personae exceptae (Fr. Vat. 310), ovvero infine all’exceptio senatusconsulti Macedoniani nell’ipotesi in cui il filius, nelle more pater familias factus, abbia novato il debito originario mediante stipulatio (Pomp. D. 14.6.20).
[11] In tal senso C. Gómez Buendía, ‘Exceptio utilis’, cit., p. 75 ss.
[12]Così G. Wesener, Nichtediktale Einreden, cit., p. 143 ss.
[13] Cfr. in argomento Ulp. D. 43.24.7.4 che riporta un parere di Aquilio Gallo cui aderisce Servio, nonché Cic. ad fam. 7.13.2.
[14]In questa direzione andrebbero lette sia l’exceptio concessa da Alf. D. 44.1.14 al compratore di uno schiavo per far valere l’avvenuta redibizione dello stesso, sia quelle riconosciute da Labeone, rispettivamente, in favore dell’argentarius qualora, perfezionatosi il receptum, costui fosse stato invitato dal titolare del rapporto a non adempiere (Ulp. D. 13.5.27), nonché a vantaggio dei municipes contro il positor che avesse rivendicato la statua precedentemente elargita all’amministrazione cittadina (Lab. pith. a Paul. epit. D. 44.4.23).
[15] Così gli espedienti cui alludono Pomponio, Venuleio e Ulpiano tesi a rafforzare la posizione, nell’ordine, del debitore oppignorante, dell’usufruttuario e del superficiario.
[16] Numerose le corrispondenze che si colgono (per lo più) nella giurisprudenza di III secolo d.C.: frammenti di Papiniano, Paolo e Ulpiano ci hanno restituito, infatti, svariati esempi di tale impiego delle eccezioni decretali in fattispecie riguardanti il Macedoniano, la lex Falcidia, il giudicato, la lex Cincia, la proprietà bonitaria. Ma nello stesso senso anche un rescritto dioclezianeo del 293 in tema di restituzione della somma data a mutuo.
[17] Due le sententiae giulianee che avrebbero previsto una siffatta forma di sostegno: la prima è tramandata da Pomp. D. 21.3.2, nonché Ulp. D. 6.1.72 e D. 44.4.4.32; la seconda è contemplata nei Digesta del giurista sabiniano (D. 46.1.14).
[18] Così in D. 44.4.2.5. Ulteriori testimonianze ulpianee toccano la dazione in dote e l’usufrutto. Ma cfr. anche un passo di Paolo attinente a una stipulatio ob turpem causam (D. 12.5.8) e un rescritto dioclezianeo del 294 in materia di accordi transattivi (C. 2.4.28.1).
[19] Si tratta – si rammentava alla nt. precedente – di D. 44.4.2.5, che l’autore analizza congiuntamente a Pap. D. 44.4.12 e a Ulp. D. 44.4.4.16.
[20] Fattispecie descritta in Ulp. D. 44.4.4.16.
[21] Di essa è vivo il ricordo ancora in Gai 4.116a.
[22] Sull’argomento si veda anche la mia recensione al volume di Maria Rosa Cimma sulla non numerata pecunia, in Index 18 (1990), p. 476 ss., poi in Studi in tema di processo formulare, Torino, 2012, p. 109 ss., spec. p. 117 ss.
[23] Come espressamente ricordato in Ulp. Fr. Vat. 266. A tale proposito, da ultimo, D. Dursi, Ricerche sulla donazione in diritto romano, Napoli, 2024, p. 134 ss., il quale, collocando l’emanazione del provvedimento “nelle prime fasi del […] governo solitario” dell’imperatore, ritiene che la ‘massima’ “dovesse essere quanto meno frutto della riflessione dei giuristi e infine accolta anche nel rescritto di Caracalla” (ivi, p. 135 s.).
[24] Si tratta di quattro responsa giurisprudenziali e di un rescritto imperiale pervenutici attraverso i Fragmenta Vaticana e i Digesta di Giustiniano, dei quali ebbi modo di occuparmi in La replicatio. Profili processuali e diritto sostanziale, Napoli, 2009, p. 211 ss.; pertanto, per una diffusa interpretazione dei testi, alla luce anche delle svariate diagnosi ricostruttive approntate dalla storiografia, faccio rinvio all’analisi lì svolta, evitando in questa sede di entrare nel vivo di ogni singola esegesi.
[25] È opinione diffusa tra gli studiosi che nel biennio 293-294 (anni in cui si registra il maggior numero di rescritti emanati durante il regno dei tetrarchi, quasi quattrocento per il 293 e quasi cinquecento per il 294: T. Honoré, ‘Imperial’ Rescripts A.D. 193-305: Authorship and Authenticity, in JRS 69 [1979], p. 51 ss.; Emperors and Lawyers. With a Palingenesia of Third-Century Imperial Rescripts 193-305 A.D., Oxford, 19942, p. 48 ss., p. 187 ss.; S. Corcoran, The Empire of the Tetrarchs. Imperial Pronouncements and Government A.D. 284-324, Oxford, 20002, p. 115 ss., p. 131 ss.) l’attività rescrivente di Diocleziano rappresenti essenziale ‘portato’ della sapienza del giurista-burocrate Ermogeniano; e ciò in quanto è assai probabile che proprio in tale torno di tempo costui avesse rivestito la carica di magister libellorum. Deporrebbero in questo senso “sia ragioni legate allo stile del linguaggio burocratico adoperato nei tanti documenti imperatòri dell’epoca, ove si evidenzia uno scrivere sintatticamente non lontano, per molti versi, da quello di vari luoghi dei libri iuris epitomarum, sia argomenti di più stretto riguardo prosopografico concernenti da vicino, tra l’altro, il presumibile percorso, i luoghi e i tempi, della carriera del funzionario Ermogeniano”: così E. Dovere, “Hereditas personam dominae sustinet”. Giacenza ereditaria e tradizione romanistica, in SDHI 70 (2004) p. 13 ss., spec. p. 52; si veda dello stesso autore anche F.M. d’Ippolito (a cura di), CI. 4.34.9: giacenza ereditaria, “depositum per servum”, legittimazione processuale, in Φιλία. Scritti per Franciosi, 2, Napoli, 2007, p. 739 ss., spec. p. 755 (cui si rinvia anche per le indicazioni bibliografiche).
[26] In argomento si veda D. Dursi, Ricerche sulla donazione, cit., 111 ss., 164 ss., secondo cui le innovazioni registratesi in età severiana sarebbero essenzialmente riconducibili a Papiniano, il quale avrebbe «orienta[to] tutta la sua riflessione in materia al favor donationis […] e, pertanto, può essere considerato il giurista che più di ogni altro operò nella prospettiva di riconoscere validità ed efficacia alle donazioni nel modo più ampio possibile, allo scopo, altresì, di preservare al massimo grado la voluntas donandi» (ivi, p. 161).
[27] P. 57 ss., spec. p. 59 s., p. 115.
[28] Così persuasivamente L. Vacca, La svolta adrianea e l’interpretazione analogica, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate a Gallo, 2, Napoli, 1997, p. 462.
[29] In una prospettiva affatto diversa da quella della maggior parte della storiografia, S. Longo, Senatusconsultum Macedonianum. Interpretazione e applicazione da Vespasiano a Giustiniano, Torino, 2012, p. 85 ss. (alla quale si rimanda anche per i ragguagli sulla letteratura), ritiene che “il senato mirò a colpire non tanto il mutuo di denaro in quanto tale […] bensì […] una categoria ulteriormente delimitata, precisa, ben individuata, di prestiti pecuniari che nella pratica venivano richiesti e ottenuti da figli alieno iuris subiecti, in quanto, offrendo materia peccandi ai mali mores, specificatamente e unicamente quella rappresentava un potenziale allarme pericolosissimo per l’esistenza fisica dei patres” (ivi, p. 139). Concorde invece la ricostruzione sulle modalità attuative del provvedimento: se i verba senatusconsulti alludono espressamente alla denegatio actionis, i testi dei giuristi che commentano il decreto ci restituiscono un ampio impiego anche dell’exceptio, tanto da considerarsi, “di fatto, il principale strumento di attuazione del senatoconsulto, ed essere in tal modo indicat[a] nel linguaggio giurisprudenziale classico con la comune denominazione di exceptio senatusconsulti Macedoniani” (ivi, p. 15 ss.).
[30] P. 61 s., p. 101 ss., spec. p. 102.
[31] Quattro sono le fonti qui di séguito esaminate, per vero già oggetto di alcune mie riflessioni in La replicatio, cit., p. 69 ss., p. 110 ss., e, più di recente, in F. Fasolino (a cura di), Dialettiche processuali e poteri pretorî, in Ius hominum causa constitutum. Studi in onore di Antonio Palma, 2, Torino, 2022, p. 1285 ss., spec. p. 1287 ss.: a essi si rinvia per un’ampia lettura dei testi e delle svariate opinioni prospettate nel tempo dagli studiosi.
[32] Così F. Lucrezi, Senatusconsultum Macedonianum, Napoli, 1992, p. 313, il quale ritiene – sulla scia di D. Dalla, Senatus consultum Silanianum, Milano, 1980, p. 103 – che un analogo fenomeno sia riscontrabile anche in altri casi, come quello disciplinato dal Silaniano che infliggeva tortura e supplizio a tutti gli schiavi presenti nella casa del dominusassassinato.
[33] In questo senso ancora F. Lucrezi, Senatusconsultum Macedonianum, cit., p. 313, ad avviso del quale si realizza nel tempo “una sostanziale trasformazione della funzione del Sc.M.: da precetto indiscriminatamente proibitivo e dissuasivo, in selettivo strumento di disciplina e di regolamentazione del credito”.
[34] Così B. Albanese, Le persone nel diritto privato romano, Palermo, 1979, p. 288 s.
[35] In questo sensoG. Provera, Lezioni sul processo civile giustinianeo, I -II, Torino, 1989, p. vi.
Papa Giovanni
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