L’evoluzione del rapporto tra la Pubblica Amministrazione e le persone nel prisma dello sviluppo della «trasparenza amministrativa»
di Stefano Vaccari
SOMMARIO: 1. Premessa.– 2. «Trasparenza amministrativa»: polisemia dell’espressione e riflessi sul rapporto P.A./persone. – 3. Il graduale sviluppo della trasparenza amministrativa nell’ordinamento italiano. – 3.1. La situazione originaria. La segretezza come regola, la trasparenza come eccezione. – 3.2. La «svolta epocale» realizzata dalla l. 241/1990 e ss.mm.ii. La trasparenza come regola, il segreto come eccezione. Pro e contra di tale assetto normativo. – 3.3. Il nuovo equilibrio del rapporto trasparenza/segretezza operato dal d.lgs. 33/2013. Verso un sistema «open to all» basato su obblighi normativi di pubblicazione e favor (quasi) totale per la trasparenza. – 3.4. Confronto con il «F.O.I.A.» statunitense e i limiti propri del «F.O.I.A. “all’italiana”». – 4. Una (possibile) conclusione. Il (necessario) ribilanciamento di alcuni squilibri della nuova «disclosure» totale rispetto alla tutela del diritto costituzionale delle persone alla riservatezza. Aspetti positivi del percorso evolutivo esposto e risultati raggiunti.
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Premessa
Lo scopo del presente lavoro è di offrire al lettore una breve analisi in merito al tema della c.d. «trasparenza amministrativa» affrontato attraverso un percorso critico/ricostruttivo che prende l’avvio dalla constatazione di un fenomeno di costante evoluzione, sotto il profilo della «visibilità del potere», dei rapporti P.A./amministrati per opera di una stratificazione d’interventi normativi succedutisi nel tempo.
In particolare, si cercherà dapprima di fornire alcuni chiarimenti concettuali in ordine alle ambiguità ed alle oscurità interpretative della locuzione «trasparenza amministrativa» per mezzo della dimostrazione del suo carattere «metaforico» e «polisenso», per poi tratteggiarne il forte valore, nell’ottica di una moderna visione costituzionale delle relazioni intercorrenti tra le istituzioni e la società, sotto il punto di vista degli incrementi della funzione di controllo diffuso nonché della c.d. «demarchia», definibile come implementazione degli apporti partecipativi della collettività nella gestione della «cosa pubblica».
Ciò premesso, si dovranno tratteggiare, seppure per sommi capi e limitatamente ai profili d’interesse per il presente lavoro, alcuni punti di svolta salienti di questo graduale sviluppo della trasparenza amministrativa nell’ordinamento italiano: nello specifico, sarà opportuno prendere l’avvio dal passato regime definibile come “a segretezza generalizzata”, per passare poi al ribaltamento prospettico, quanto all’impostazione del rapporto trasparenza/segretezza, operato dalla l. 7 agosto 1990, n. 241, per approdare, infine, a considerazioni di sistema originate dalle novità, in tema di trasparenza amministrativa, apportate dal recente d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33.
Tale intervento normativo da ultimo citato (del quale andranno, in breve, tratteggiati alcuni confronti — in chiave critica — con il sistema statunitense introdotto dal cd. “F.O.I.A.” - «Freedom of information act»), infatti, imponendo alle Pubbliche Amministrazioni tutta una serie di nuovi obblighi di pubblicazione di atti, documenti, informazioni, etc., sembra sbilanciare il sistema del rapporto trasparenza/riservatezza verso un favor (quasi) totale per la trasparenza.
A questo punto sarà occasione per rassegnare alcune conclusioni che diano conto, da un lato, degli aspetti positivi del percorso evolutivo esposto e dei risultati raggiunti sotto il profilo del costante incremento in senso collaborativo e paritario del rapporto tra governanti e governati; dall’altro, dell’imprescindibile necessità di ribilanciare alcuni squilibri generati dalla nuova «disclosure» totale rispetto alla tutela del diritto costituzionale delle persone alla riservatezza.
- «Trasparenza amministrativa»: polisemia dell’espressione e riflessi sul rapporto P.A./persone
Il tentativo di elaborare una definizione (ed una spiegazione compiuta) in senso giuridico del concetto di «trasparenza amministrativa»
[1] è compito assai arduo. Tale difficoltà dipende (forse), com’è stato peraltro acutamente osservato
[2], dal carattere metaforico dell’espressione «trasparenza», la quale, presa di per sé, non appartiene al campo lessicale proprio delle scienze giuridiche ma, semmai, di quelle fisiche, ove, per l’appunto, si è soliti usare tale locuzione per indicare una proprietà fisica dei materiali quale è la loro capacità di essere attraversati dalla luce.
E di qui, dunque, l’idea di trasporre tale caratteristica dall’area delle scienze naturali al mondo del diritto — in particolare amministrativo — per indicare un’«idea» di come dovrebbe apparire l’amministrazione in una compiuta società democratica, o meglio, verso quale obiettivo dovrebbe tendere la strutturazione degli apparati pubblici per mezzo di una consistente varietà d’istituti i quali, proprio per la loro varietà e diversità, sono accomunabili (nell’ottica della finalità e del «disegno comune») nell’ampio genus della «trasparenza amministrativa».
Tale notazione ci fa comprendere come ogniqualvolta si faccia uso della formula «trasparenza amministrativa» non ci si riferisca ad un istituto giuridico dal volto preciso e ben delineato ma, semmai, ad un più generale «modo di essere»
[3] degli apparati amministrativi che, stante il citato carattere metaforico della locuzione, denota la trasparenza come «polisemia»,
id est, come espressione passibile di una pluralità di interpretazioni e ricostruzioni di significato a seconda delle varie concezioni esistenti nella società circa i modelli di rapporto/relazione tra la P.A. e le persone o,
lato sensu, la comunità.
A tal proposito, autorevole dottrina
[4], in esito ad uno studio (anche in chiave storica) delle varie configurazioni che l’espressione «trasparenza amministrativa» ha assunto nel corso dell’ultimo secolo, ha raggruppato le varie interpretazioni susseguitesi entro due macro-significati corrispondenti a due diversi angoli visuali (il primo dei quali, più datato e — si potrebbe sostenere — interamente assorbito dal secondo).
La prima teoria, definibile come (concezione della) «trasparenza interna», ci mostra una visione della trasparenza amministrativa, risalente ai primi del ‘900
[5], rivolta al versante interno del potere
[6], ovvero intesa quale riflesso della volontà del legislatore, così come mediata dal Governo, in uno spazio ove il ruolo dell’amministrazione è unicamente quello di porsi come mera «cinghia di trasmissione» di una volontà che è presa a monte dall’organo politico (e, dunque, legittimata democraticamente). Nell’ottica della realizzazione concreta delle decisioni, dai vertici ai livelli inferiori, la P.A. non dovrebbe assumere alcuna volontà politica ma riflettere (come uno «specchio d’acqua» per proseguire con la visione per metafore) senza alcuna «distorsione» la volontà del legislatore.
Viceversa, la seconda macro-teoria sulla trasparenza amministrativa è definibile come (concezione della) «trasparenza esterna»
[7] giacché, in tal caso, il bisogno di visibilità è riferito, non tanto al «canale interno» del circuito del potere politico nella sua realizzazione dall’alto al basso, bensì agli amministrati e, più latamente, alla società nel suo complesso (dunque, su un piano orizzontale). Infatti, con la presa d’atto della non piena veridicità dell’idea di un’amministrazione completamente neutrale e meccanica nella traduzione in atti dei propri poteri in attribuzione
[8] (giacché è noto come la discrezionalità amministrativa, riferibile ad ampi spazi dell’azione dei soggetti di amministrazione, comporti opzioni e spazi di scelta di tipo valutativo spesso fortemente dilatati), si levò sempre più la spinta “dal basso” in ordine ad una pressante richiesta di visibilità dall’esterno dei processi decisionali e dei meccanismi d’implementazione delle misure amministrative e, dunque, di una legittimazione dell’azione amministrativa che non può più fondarsi unicamente sul mero rispetto della legge
[9].
Sono evidenti i caratteri di stretta inter-relazione tra questa impostazione di visibilità esterna dei circuiti di attuazione del potere ed una certa concezione di «democrazia»
[10]. Infatti, il mutamento di paradigma comportante un’apertura dell’amministrazione verso la società, anche nel farsi della funzione, al fine di consentire uno spazio aperto, di dialogo e confronto (ma anche di controllo diffuso), fa sì che quest’ultima contribuisca, insieme alle altre «formazioni sociali», a consentire, a mente degli artt. 2 e 3 Cost., il «[...] pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione [...] all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» di ogni persona
[11].
Si assiste, dunque, sotto il «prisma» della trasparenza amministrativa ad un’evoluzione dei rapporti tra l’amministrazione e le persone corrispondente al modello di «demarchia» (o «democrazia partecipativa») teorizzato dalla più illustre dottrina del “nuovo diritto amministrativo” del secolo scorso
[12]. Ci si riferisce, cioè, ad un modello di amministrazione paritaria e condivisa con il cittadino al quale, nell’esercizio della funzione amministrativa, viene conferito il ruolo di co-amministrante dotato di posizioni di libertà attiva nei confronti della P.A. detentrice del potere d’impero. Un cittadino, dunque, che si ritrova non più nella posizione di “suddito” nei confronti di una “amministrazione-autorità” ma che (con essa) dialoga all’interno di un rapporto con i pubblici poteri che si viene a caratterizzare, per effetto dei mutamenti
de qua, in senso collaborativo più che conflittuale.
Tuttavia, la creazione di una nuova «funzione di informazione»
[13] che dovrebbe discendere dalla trasparenza dell’agire amministrativo (e che potrebbe condurre il «nuovo cittadino»
[14] ad acquisire una consapevolezza maggiore della propria partecipazione, in quanto titolare di una frazione di sovranità, alla vita politica, sociale e amministrativa della propria comunità di riferimento e della propria Nazione) non deve, comunque, ingenerare confusioni circa indebite sovrapposizioni (e assimilazioni) tra il concetto di «trasparenza amministrativa» e il similare (ma differente) istituto della «pubblicità»
[15].
Infatti, il controllo diffuso sull’esercizio del potere, che si è detto essere stimolato dagli incrementi della trasparenza amministrativa, non pone, di per sé, alcuna equivalenza con il fatto di avere una forma estesa di pubblicità dell’azione amministrativa che si ponga aldilà dei passati spazi di opacità e di «segreto amministrativo» generalizzato. Detto altrimenti, la pubblicità dell’operato dei soggetti di pubblica amministrazione è soltanto uno di quegli strumenti che, come si diceva pocanzi, consentono di raggiungere quel «modo di essere» che è la «trasparenza amministrativa», la quale, dunque, postula un
quid pluris rispetto alla mera offerta al pubblico
[16] di dati, documenti, informazioni, etc.
Tentando di aggiungere un grado di approfondimento al tema, di per sé complesso, si potrebbe cominciare con l’asserire che l’attività di «pubblicizzare» rimanda ad un’operazione di tipo statico consistente nella mera estrinsecazione di un complesso di conoscenze e di informazioni sulla base di obblighi di fonte legale.
A contrario, il concetto di «trasparenza», non equipollente all’accennata «pubblicità», non può trovare un rapporto d’identità nella mera ostensione al pubblico dei dati informativi, bensì partecipa di un elemento aggiuntivo, definibile come momento dinamico, legato a precise caratteristiche qualitative
[17] quali «chiarezza», «comprensibilità» e «intellegibilità» delle informazioni precedentemente pubblicate. Si assiste dunque, ad un tipico rapporto da mezzo a fine, ove mezzo è la «pubblicità» la quale, allorché cumula a sé determinate caratteristiche che consentano la comprensibilità del dato, raggiunge il fine rappresentato dalla «trasparenza»
[18].
Infatti, mentre un’attività amministrativa secretata è, con certezza, non conoscibile, il problema si situa, allora, in quella zona grigia tra attività amministrativa pubblica, la quale è sì conoscibile in astratto ma potrebbe non essere conosciuta e compresa in concreto per una serie di vizi di chiarezza e intellegibilità, e vera ed autentica trasparenza amministrativa, la quale postula, invece, un necessario combinato di conoscibilità, conoscenza e comprensione
[19]; unica via, quest’ultima, per realizzare una consapevole funzione partecipativa e di controllo informato da parte dei governati e, dunque, autentica «demarchia».
In conclusione preme ribadire i due punti salienti che si è cercato di precisare, ovvero, in primis, l’idea che la «trasparenza amministrativa» non si risolva, nel senso di completa sovrapposizione, con un singolo strumento giuridico come il diritto di accesso ai documenti amministrativi, la partecipazione al procedimento amministrativo o alcune forme di pubblicazione, in quanto, come si è rilevato, la formula «trasparenza amministrativa» non denota uno specifico istituto ma, figurandosi come metafora indicante un obiettivo, un’idea e un modo di essere tendenziale dell’amministrazione, proprio come un “prisma” può essere guardata da più fronti ognuno dei quali (ma non solo) si pone come mezzo in rapporto al fine; in secondo luogo, che non vi è alcuna coincidenza terminologica e (soprattutto) di significato tra la locuzione «trasparenza amministrativa» e il concetto di «pubblicità», il quale individua anch’esso uno degli strumenti (al pari del diritto di accesso ed altri ancora) per realizzare trasparenza amministrativa, visibilità del potere e, di qui, «demarchia».
3. Il graduale sviluppo della trasparenza amministrativa nell’ordinamento italiano
Nel considerare la parabola evolutiva della trasparenza amministrativa nell’ordinamento italiano si è convenzionalmente optato per la selezione di tre «momenti», intesi come “punti di svolta” a forte carattere distintivo, che consentono di svolgere alcune considerazioni di sistema e, soprattutto, offrire una base argomentativa per le considerazioni finali circa lo stato attuale d’implementazione di quel «modo di essere» o obiettivo finalistico che è la trasparenza amministrativa. Tali «momenti», vagliati in progressione e per sommi capi nei paragrafi che seguono, sono: la situazione “originaria” (intesa come antecedente l’anno 1990) contraddistinta da un regime che potremmo definire “a segreto generalizzato”; il ribaltamento prospettico seguito alla legge 7 agosto 1990, n. 241, caratterizzato dalla contrazione delle “sacche di opacità” in favore di una nuova “trasparenza come regola generale”; infine, lo stato attuale, nella vigenza applicativa delle misure di cui al nuovo d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, nel quale si assiste ad uno spostamento dell’asse di equilibrio del rapporto trasparenza/riservatezza verso un favor assolutizzante (con alcune problematiche) della prima.
3.1. La situazione originaria. La segretezza come regola, la trasparenza come eccezione
Quando ancora era prevalente una concezione della burocrazia degli apparati pubblici come “sistema chiuso”, impermeabile e isolato dalla società e dalla comunità degli amministrati, l’istituto del «segreto amministrativo»
[20] era la colonna portante
[21] di un regime politico/amministrativo la cui autorità si ergeva proprio sulla “distanza da ogni interessato”
[22].
Così in Italia, ma del resto in quasi tutta l’Europa (salvo, per alcuni profili di anticipata innovazione, l’ordinamento svedese
[23]), nella “situazione originaria” (dove per originaria intendiamo convenzionalmente, nel presente lavoro, la situazione
ante l. 7 agosto 1990, n. 241) forte era l’enunciazione, e dunque la dominanza concettuale, del c.d. «segreto amministrativo discrezionale» che pervadeva ogni settore dell’agire amministrativo secondo un rapporto regola/eccezione strutturato in modo tale che tutto fosse coperto da segreto, salvi casi residuali regolati da norme espresse. Plurime erano le ragioni e i fattori che concorrevano a spiegare, quale
ratio sottesa, un simile assetto
[24], prima tra tutte il “pesante” retaggio delle prerogative reali, fondate chiaramente sul segreto, tramandatosi per tradizione (o, forse, più per “comodità”) anche ben dopo la conclusione dell’epoca del c.d. “
Ancien Régime”. Ma, in second’ordine, ha sicuramente contribuito anche la circostanza che lo Stato liberale delle origini assumesse la fisionomia di uno “Stato guardiano” con funzioni “minime”, limitate essenzialmente al controllo dell’ordine pubblico al fine di garantire la difesa e la pace dei consociati, ove il segreto assumeva un ruolo necessario al fine di garantire l’efficacia delle predette funzioni amministrative di polizia. Tuttavia, la forza trainante e rivoluzionaria che comportò l’evoluzione ed il passaggio dalla forma di “Stato liberale” al c.d. “Stato sociale” non ha avuto la capacità di “rompere” con l’impianto del “segreto generalizzato” che, in realtà, non appariva più consono a quel novero aggiuntivo di funzioni in attribuzione ai soggetti di pubblica amministrazione funzionali alla realizzazione di una nuova forma di amministrazione c.d. “di prestazione”
[25]. Da ultimo, v’è anche, sicuramente, il “valore” proprio del «documento amministrativo»
[26], il quale, in un passato antecedente all’avvento delle moderne tecnologie (anche informatiche), costitutiva un esemplare unico difficilmente duplicabile e ostensibile, con la conseguenza che la sua preziosa (anche in termini di costo) funzione ne imponesse un’oculata custodia e, dunque, la privazione della conoscenza delle informazioni in esso contenute.
Nel sistema anzidetto, la disposizione cardine
[27] che ha costituito l’“archetipo” in materia di «segreto amministrativo», o, detto altrimenti «segreto d’ufficio» (o, ancora, «segreto in senso stretto») è stata l’art. 15 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (“
Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato”)
[28] la cui lettera stabiliva che «[l]’impiegato deve mantenere il segreto d’ufficio e non può dare a chi non ne abbia diritto, anche se non si tratti di atti segreti, informazioni o comunicazioni relative a provvedimenti od operazioni amministrative di qualsiasi natura ed a notizie delle quali sia venuto a conoscenza a causa del suo ufficio, quando possa derivarne danno per l’Amministrazione o per i terzi. Nell’ambito delle proprie attribuzioni, l’impiegato preposto ad un ufficio rilascia, a chi ne abbia interesse, copie ed estratti di atti e documenti di ufficio nei casi non vietati dalle leggi, dai regolamenti o dal capo del servizio».
È noto come, a causa della formulazione ambigua e poco felice di tale disposizione, si generò un vero e proprio “rompicapo” tra gli autori
[29] dell’epoca che affrontarono lo sforzo esegetico di ricavare delle norme coerenti e un significato precettivo dalla lettura di tale articolo, che, infine, portò Autorevole dottrina
[30] al giudizio assertivo (condiviso dai molti) che l’art. 15 cit. «[…] è una norma incomprensibile per la quale tutto e nulla può essere segreto».
Il caos interpretativo è dipeso, soprattutto, dalla difficile convivenza — in quanto fondata sulla contraddizione — tra due diverse concezioni del segreto definibili, secondo la trama teorica ordita in dottrina
[31], come «soggettivo-personale», l’una, e «oggettivo-reale», l’altra.
La prima concezione (quella c.d. «soggettivo-personale»), ravvisata dalla dottrina
[32] nella prima parte della disposizione in commento ove si prevede che «[l]’impiegato deve mantenere il segreto d’ufficio […]», pareva fondare l’obbligo/dovere al segreto più sulla qualità in senso soggettivo (l’essere “pubblico dipendente”) dell’organo che detiene una data informazione, che non sul “contenuto” intrinseco del documento bisognoso di protezione a causa di considerazioni afferenti all’interesse pubblico/privato implicato.
La seconda concezione (c.d. «oggettivo-reale»), invece, veniva ricavata dalla restante lettera della disposizione
[33]: ivi, infatti, il riferimento al «[…] danno per l’Amministrazione o per i terzi» derivanti da un’(eventuale) ostensione di informazioni conferenti ad operazioni amministrative sembrava mettere in (forte) risalto l’aspetto contenutistico dell’informazione — più che la caratteristica soggettiva del funzionario onerato — facendo apparire il segreto amministrativo come strumento funzionale alla protezione di interessi sostanziali, pubblici o privati che siano, sottesi al dato informativo e (ritenuti) meritevoli di tutela
[34].
Dal raffronto tra le due diverse concezioni appena esposte, a difficile co-abitazione nel passato testo dell’art. 15 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, si può (tentare di) trarre la seguente considerazione: mentre il segreto c.d. «soggettivo-personale» denotava una forma di chiusura/separatezza radicale dell’amministrazione nei confronti degli amministrati
[35] perché imponeva un dovere
ex ante e generalizzato di secretazione in capo al dipendente pubblico (a prescindere dalla tipologia di informazione in questione), anche la forma di segreto c.d. «oggettivo-reale», tuttavia, non era da meno.
Infatti, tale forma di secretazione, seppur preferita e incentivata dalla dottrina dell’epoca rispetto alla prima concezione “soggettiva”, tuttavia, per com’era formulata (in senso vago e indeterminato) la disposizione in questione, conduceva, nella prassi, al medesimo risultato di opacità. Ciò (forse) anche a causa dell’eccessiva discrezionalità consegnata in capo al funzionario onerato, il quale, in base alla ricostruzione «oggettivo-reale» del segreto, si trovava nella necessità di compiere una ponderazione (d’interessi) volta alla decisione in merito alla segretezza o, viceversa, all’autorizzazione circa la circolazione dell’informazione, in assenza di precisi parametri oggettivi che potessero guidare la sua scelta. Quest’ultima, perciò, finiva per essere, di fatto, fortemente soggettiva se non anche arbitraria e (nella maggior parte dei casi) funzionale alla tutela delle prerogative dell’amministrazione di appartenenza.
In conclusione, si può sostenere che la formulazione contradditoria e confusa della disposizione chiave in materia di segreto amministrativo fu, probabilmente, proprio la causa dell’affermazione di una nozione di segreto dal volto ambiguo e dall’estensione fortemente dilatata
[36] finendo, nella prassi e nel “
day to day” dell’amministrare, con l’alimentare quel senso di forte ostilità (accompagnato da atteggiamenti ostruzionistici e di chiusura) verso qualsiasi istanza di conoscenza.
E, dunque, come anticipato, la “macchina” dell’amministrazione, nella pratica e in punto di diritto, era assettata sulla seguente formula: «La segretezza come regola, la trasparenza come eccezione».
3.2. La «svolta epocale» realizzata dalla l. 241/1990 e ss.mm.ii. La trasparenza come regola, il segreto come eccezione. Pro e contra di tale assetto normativo
Tuttavia, un sistema che, come si è visto, si ergeva e si barricava dietro le fitte maglie del segreto amministrativo generalizzato, non poteva ritenersi più compatibile, dopo l’avvento della Costituzione Repubblicana del 1948, con un modello costituzionale di amministrazione che fonda le sue solide radici sulle esigenze di buon andamento e di imparzialità
ex art. 97 Cost.
[37]
E di qui, dunque, il lento cammino di erosione e di “smantellamento” del segreto amministrativo onnicomprensivo per cercare di realizzare un “mutamento di paradigma” circa il rapporto trasparenza/segretezza. Si assiste, cioè, ad un passaggio da un segreto visto come “canone fondamentale dell’organizzazione amministrativa”
[38] ad un principio generale di trasparenza e visibilità dell’operato delle P.A., ridimensionando il ruolo del segreto (che inizia ad essere più frequentemente nominato come esigenza/e di «riservatezza») quale eccezione relegata alla (pur importante) funzione di protezione di interessi aventi copertura costituzionale
[39] (e quindi, idonei a giustificare le deroghe al nuovo sistema, ove la regola generale diviene, per l’appunto, la trasparenza).
Il “punto di svolta”, giunto con una portata definita dalla dottrina come “dirompente”
[40], si ebbe con l’introduzione della l. 7 agosto 1990, n. 241
[41] la quale, non si limitò unicamente a porre la disciplina generale sulla procedura amministrativa, ma comportò una vera e propria rivoluzione positiva per le esigenze di democratizzazione dei rapporti tra la pubblica amministrazione e le persone
[42].
Infatti, per la prima volta sono state positivizzate nell’ordinamento giuridico italiano alcune disposizioni di carattere generale dirette a enucleare un modello di amministrazione trasparente, nello sfondo di una cornice di principi generali dell’attività amministrativa, di cui all’art. 1 della l. 241/1990, alla quale s’impone di perseguire «[…] i fini determinati dalla legge» ed essere retta «[…] da criteri di economicità, di efficacia e di pubblicità»
[43].
Il principio generale di «pubblicità», che assurge a ricoprire il ruolo di (nuova) regola dei rapporti tra P.A. e amministrati, costituisce una delle “anime” del nuovo sistema consegnato dalla l. 241/1990 trovando sviluppo e “ramificazione”
[44] in una serie di disposizioni ed istituti contenuti nell’articolato della legge, in particolare: l’ideazione della figura del «responsabile del procedimento»
[45] ex artt. 4 ss. come interlocutore privilegiato tra l’amministrazione procedente e l’esterno; gli obblighi di circolazione interna delle informazioni tra i vari apparati amministrativi di cui all’art. 18, comma 2; l’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento
ex art. 7 come strumento di garanzia e conoscenza del principio di un iter procedurale; i diritti di partecipazione di cui all’art. 10; l’obbligo di conclusione del procedimento con un provvedimento espresso imposto dall’art. 2; la predeterminazione dei criteri e delle modalità per l’assegnazione di contributi e vantaggi economici (
lato sensu) come strumento di auto-vincolo della discrezionalità previsto dall’art. 12; l’obbligo di motivazione del provvedimento amministrativo come garanzia di visibilità dell’iter logico/argomentativo seguito dall’amministrazione
[46].
Tale elenco, sicuramente non esaustivo, mostra la pervasività della regola di «pubblicità» (e, in senso ancora più valoriale, della «trasparenza amministrativa», elevata anch’essa a principio positivo nella stessa legge per opera della novella introdotta con l. 11 febbraio 2005, n. 15) in ogni ambito dell’azione amministrativa rendendo, pertanto, non possibile una trattazione esauriente di ogni suo versante.
Pur tuttavia è opportuno svolgere alcune considerazioni, in quanto maggiormente funzionali al tema del presente lavoro, su quello che può considerarsi come il principale mezzo giuridico volto a dare concretezza alla trasparenza amministrativa nel sistema costruito dalla l. 241/1990: il «diritto di accesso ai documenti amministrativi»
[47] nella formulazione di cui agli artt. 22 ss. della legge in commento.
L’art. 22 cit., infatti, (nella sua versione originaria) disponeva chiaramente che il diritto di accesso ai documenti amministrativi era riconosciuto «[a]l fine di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa e di favorirne lo svolgimento imparziale […]» e, ancora più perspicuamente, a seguito della modifica dell’articolo ad opera della l. 11 febbraio 2005, n. 15, al comma 2, si sottolinea che l’accesso «[…] attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza, ed attiene ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale ai sensi dell’articolo 117, comma 2, lettera m), della Costituzione»
[48].
Tuttavia, accanto all’enunciazione enfatica di principi (sicuramente importante nella sottolineatura della nuova “idea di amministrazione” sottesa alla riforma), nella formulazione definitiva dell’art. 22 si può notare una restrizione in termini di legittimazione soggettiva che fa discostare la versione dell’articolato positivizzata dall’originario schema proposto dalla “Commissione Nigro”
[49].
Infatti, come noto, il progetto originario contenuto nello schema di disegno di legge elaborato dalla commissione Nigro, s’ispirava per l’elaborazione della nuova figura del diritto di accesso
[50] al vicino modello francese
[51], discostandosi, però, da quest’ultimo per un aspetto essenziale, ovvero nella parte in cui s’intendeva, per ovviare ad alcune carenze riscontrate nella prassi francese nonché per implementare al meglio il nuovo impianto ove la trasparenza amministrativa fosse la regola dominante dell’agire pubblico, riconoscere il diritto di accesso a “chiunque” e non soltanto agli “interessati” (in senso tecnico-giuridico).
In realtà, a causa delle modifiche accorse sullo schema originario presentato dalla Commissione Nigro, il “chiunque” in punto di legittimazione aperta alla richiesta di accesso ai documenti amministrativi fu sostituito dal (ben) più ristretto «[…] chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti […]»
[52] ove il soggetto interessato, grazie al combinato con l’art. 25 l. 241/1990, nel presentare la propria istanza d’accesso doveva (
rectius: deve, stante l’ancora attuale applicazione del sistema in commento) “motivare” la richiesta alla luce della propria situazione giuridica soggettiva bisognosa di tutela e collegata al documento.
La
ratio di tale divergenza della versione definitiva rispetto alla formulazione (ben più aperta alla visibilità del potere) contenuta nello schema della Commissione Nigro è (forse) stata quella di apporre una sorta di “filtro” alle richieste di accesso in base al neo-nato istituto onde evitare un eccessivo numero di esse che potesse ingolfare gli apparati amministrativi già alle prese con tutti gli adattamenti “dirompenti” (come accennato) di cui alla nuova legge generale sulla procedura amministrativa. Nei fatti, tuttavia, tale innesto normativo comportò uno sviamento del nuovo diritto di accesso, dal senso più conforme ad un’autentica visione di trasparenza dei rapporti amministrazione/amministrati funzionale ai citati obiettivi di controllo democratico diffuso sull’esercizio del potere, a strumento di tutela individuale di posizioni giuridiche soggettive proprie del singolo
[53].
Questo è, dunque, l’aspetto di maggior limite del nuovo sistema consegnato dalla l. 241/1990, che ebbe l’enorme pregio di ideare una “nuova concezione” dell’amministrazione esprimibile con la formula «la trasparenza come regola, il segreto come eccezione» (all’opposto, dunque, del sistema antecedente descritto nel paragrafo precedente). Quanto, invece, allo strumento cardine (per il raggiungimento delle finalità di trasparenza amministrativa), rappresentato dal diritto di accesso ai documenti amministrativi, si impedì espressamente che quest’ultimo fosse un mezzo in grado di far conoscere ai governati l’operato delle pubbliche amministrazioni (e, conseguentemente, di esprimere valutazioni di senso politico connesse alla posizione istituzionale del popolo come detentore della sovranità) relegandolo, viceversa, alla logica conflittuale e individualistica tipica della garanzia delle posizioni soggettive propedeutica ad un (eventuale) contenzioso in sede giurisdizionale
[54].
Chiaro, infatti, risuona il monito di cui al (nuovo) art. 24, comma 3, (così come risultante post modifica ex l. 15/2005), contrario ad una concezione collettiva ed informativa del diritto di accesso, che, con formula che non lascia residuare dubbi di alcuna sorta, comunica in maniera lapidaria (per una compiuta trasparenza amministrativa) che «[n]on sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni».
Dunque, si è visto come l’entrata in vigore della l. 241/1990 e ss.mm.ii. ha segnato una tappa fondamentale, o meglio, l’inizio di un nuovo percorso verso l’obiettivo finalistico della “visibilità del potere” e una democratizzazione dei rapporti con gli amministrati attraverso il ribaltamento prospettico del rapporto tra trasparenza, da un lato, e segreto, dall’altro.
Sennonché è doveroso segnalare che, sebbene la trasparenza (e, dunque, la pubblicità) siano poste dall’impianto normativo in commento come regola, tuttavia il segreto non è stato annullato ed eliso del tutto ma, semplicemente, ha mutato il suo volto assumendo, con alcune caratteristiche cui infra, il ruolo di eccezione/deroga alla pubblicità/accesso.
Ciò in quanto è noto che, seppur la metafora dell’amministrazione “casa di vetro” (richiamata più volte nel corso del presente lavoro) sia un monito costante e dalla valenza assiologica positiva (nel suo complesso), pur tuttavia essa non deve condurre ad alcuna mistificazione
[55] o assolutizzazione erronea.
S’intende dire che l’immagine dell’amministrazione come “casa di vetro”, essendo una metafora, va intesa come tale nel suo carattere programmatico più che immediatamente precettivo, in quanto, ad una riflessione più profonda, emerge la permanenza dell’istituto del segreto giacchè non tutto ciò che si compie nella “casa” dell’amministrazione può essere sottoposto ad uno sguardo libero e generalizzato, pena il sacrificio (indebito) di interessi d’importanza ordinamentale.
Ciò che, in realtà, è davvero fondamentale è la scelta dei segreti da mantenere (abbandonando una logica generalizzante quale quella esistente in precedenza, su cui vd. par. 3.1.) nonché la procedimentalizzazione delle modalità di apposizione del segreto in quanto istituto, sì necessario, ma relegato alla posizione di eccezione dalla (nuova) regola di trasparenza
[56].
Ecco, dunque, perché autorevole dottrina, al fine di creare un equilibrio più ragionevole del sistema complessivo, intende modificare (lievemente) la metafora del Turati affermando che «[…] se si vuole utilizzare un’immagine, quella corretta è se mai l’immagine della casa di vetro con molte finestre schermate o schermabili»
[57].
Questa, infatti, sembra essere stata la strada seguita dagli ideatori della l. 241/1990 che hanno introdotto, quale garanzia, una disciplina procedimentalizzata della segretazione che correla quest’attività alla “qualità” degli interessi coinvolti da certe informazioni più che alla “qualità” del soggetto che le detiene segnando, così, il passaggio da una concezione c.d. «soggettivo-personale» ad un compiuto modello c.d. «oggettivo-reale» più in sintonia con una moderna amministrazione
[58].
Infatti, da un lato l’art. 24 della l. 241/1990 disciplina i casi di esclusione del diritto di accesso procedendo con una tecnica di normazione per formule generali (nel caso di specie indicando le diverse materie e situazioni nelle quali il diritto di accesso deve essere escluso), in luogo di procedere per tassonomie ed elencazioni analitiche di casi come nella vicina legislazione francese
[59]; dall’altro l’art. 28 della medesima legge comporta una sostituzione dell’art. 15 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (vd. par. prec.) riformulando la definizione di segreto amministrativo d’ufficio
[60].
La nuova formulazione rimuove quelle incertezze interpretative che avevano affannato, come nella risoluzione di un impossibile “rompicapo”, la dottrina che si era impegnata nell’esegesi della precedente versione della disposizione de qua, in quanto ora correla la disciplina del segreto d’ufficio alle disposizioni in materia di accesso contenute nella l. 241/1990.
Il risultato raggiunto è tale per cui il segreto tanto si dilata quanto sono dilatati i limiti di cui all’art. 24 l. 241/1990, i quali, essendo riferiti non a qualità soggettive dei funzionari preposti ma a determinati interessi di forte rilievo pubblicistico disegnano, come anticipato, un’unica figura di segreto declinata in senso “oggettivo-reale” e collocata in rapporto di eccezione rispetto ai più generali principi cardine di «pubblicità» e «trasparenza»
[61].
3.3. Il nuovo equilibrio del rapporto trasparenza/segretezza oper
Vaccari Stefano
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