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L’autonomia normativa e giurisdizionale delle confessioni religiose nel sistema degli statuti personali in Libano

28.11.2015
L’autonomia normativa e giurisdizionale delle confessioni religiose
nel sistema degli statuti personali in Libano

di Leonardo Caprara
 
SOMMARIO: Introduzione. – 1. Statuto personale: un chiarimento terminologico. – 2. Le fonti normative dell’ordinamento libanese in materia di statuto personale: uno sguardo d’insieme. – 3. Il diritto comunitario laico. – 3.1. La Costituzione libanese del 23 maggio 1926. – 3.2. I decreti n°60/L.R. del 13 marzo 1936 e n. 146/L.R. del 18 novembre 1938. – 3.3. La legge 2 aprile del 1951. – 4. Il diritto musulmano e il diritto comunitario non musulmano. – 5. Il cambiamento e l’abbandono della comunità religiosa di appartenenza - 6. La lacuna legislativa in materia di matrimonio civile. - 7. I matrimoni misti. –– Conclusioni.
 

Introduzione
Il Libano rappresenta il caso paradigmatico di Stato multiconfessionale, democratico, basato sul principio costituzionale della separazione dei poteri e sul rispetto delle libertà politiche e civili in cui, però, l’identità religiosa influenza il diritto in una dimensione assai ampia. Infatti, i cittadini libanesi, in materia di diritto di famiglia e delle persone nonché in materia di successione ereditaria, soggiacciono non alla legge statale ma alla legislazione prevista dalla propria religione di appartenenza. È il “sistema degli statuti personali”, cioè dell’applicazione a fatti sostanzialmente identici di leggi diverse sulla base dell’appartenenza confessionale dei soggetti coinvolti. È un’eredità storica del modello ottomano dei “millet”. Nell’Impero Ottomano, difatti, l’autorità imperiale riconosceva alle comunità religiose (millet) la personalità morale. Ogni “millet” aveva il proprio statuto, godeva di una giurisdizione autonoma nell'ambito delle materie oggetto dello statuto personale dei propri appartenenti  (diritto di famiglia e delle successioni); le autorità religiose godevano di alcune potestà normative e di rappresentanza politica della propria comunità nei confronti del Sultano[1].
Contrariamente ai sistemi stabiliti nelle democrazie occidentali basati, tendenzialmente, sulla piena ed esclusiva sovranità dello Stato in materia legislativa e giurisdizionale, il diritto costituzionale libanese, dunque, si caratterizza per il riconoscimento dell’autonomia legislativa e giudiziaria nelle materie che formano oggetto dello statuto personale dei cittadini accordato alle comunità religiose. Poiché esso è accordato ufficialmente alle sole comunità riconosciute dal legislatore si parla di “privilegio comunitario”[2].
Da questo punto di vista, il Libano offre un terreno fertile per studiare la concorrenza di diverse istituzioni nella produzione del diritto delle persone. Infatti, ognuna delle diciotto comunità religiose riconosciute dal legislatore beneficia di un monopolio giuridico in materia di statuto personale dei propri fedeli, cosicché la disciplina del matrimonio, del divorzio, della filiazione e dell’eredità è dettata dalle comunità religiose e le relative controversie sono decise dai tribunali comunitari sotto il potere del giudice religioso avente una formazione canonica, sharitica o ebraica a seconda dei casi.
Ciò determina la coesistenza, nell’ambito del medesimo ordinamento giuridico, di una pluralità di statuti personali riconosciuti dalle autorità pubbliche e, dunque, un vero e proprio pluralismo giuridico di diritto e di fatto che contrasta con il modello classico e monista che vede nello Stato l’unica autentica fonte del diritto[3].
Lo scopo del presente studio sarà quello di fornire una ricognizione delle fonti normative e dei principali aspetti giuridici del sistema degli statuti personali in Libano. Seguirà, infine, l’identificazione di alcune questioni aperte e la prospettazione di possibili linee evolutive.
  1. Statuto personale: un chiarimento terminologico
Il concetto giuridico di statuto personale è direttamente collegato al principio di personalità della legge - alternativo a quello di territorialità - caratteristico dei sistemi giuridici noti come ordinamenti plurilegislativi nei quali ad identici rapporti giuridici vengono applicate leggi diverse in base allo status soggettivo delle persone coinvolte.
Il principio di personalità della legge determina, dunque, l’applicabilità ad alcuni o, meno frequentemente, a tutti i rapporti giuridici, prevalentemente di diritto privato, di leggi differenti per i membri dei diversi gruppi di popolazione che compongono la comunità statale. La ratio che sta alla base del principio in commento è quella secondo la quale l’individuo porta con sé un complesso di diritti differenziati rispetto a quelli della collettività in cui si muove ed opera, con conseguente apertura dell’ordinamento dello Stato ad altri ordinamenti[4]
 
Il principio di territorialità della legge suppone, a contrariis, che tutte le persone presenti sul territorio dello Stato siano sottomesse alla sua legislazione e che a fattispecie identiche vengano applicate, in base al principio della generalità della legge, le medesime norme giuridiche con conseguente chiusura (totale o parziale) dell’ordinamento statale ad altri ordinamenti.
Il sistema degli statuti personali è caratteristico di quegli ordinamenti basati sulla diversità “formale” degli individui, per cui ogni persona ha un habitus giuridico ed un connesso e completo insieme di diritti e doveri dipendenti dalla propria appartenenza ad una religione, etnia, lingua e, talora, all’interno di detti gruppi ulteriormente conseguente al proprio genere, maschile o femminile[5]. È, insomma, un sistema che non conosce una legge comune, ma tante leggi per quante sono le variabili del fattore identitario preso a base (religione, etnia, lingua, genere etc.) e che non va, quindi, confuso con la diversità di trattamento concessa dal moderno Stato di diritto occidentale, in attuazione del principio di uguaglianza sostanziale e del pluralismo ideologico-religioso, basata sulla logica dell’uguale in casi uguale, diseguale in casi diseguali[6].
Quando si parla di statuti personali il riferimento è, per parte della dottrina, a quella “legal category to which a person belongs owing either to his natural condition […] or to his legal condition[7]. Altra dottrina, invece, definisce lo status come “l'ensemble des qualités et des rapports de droit qui constituent la condition juridique d'une personne, qui lui marquent sa place[8] ovvero come “un ensemble de lois qui disposent directement des personnes”[9].
Si può dedurre da questi due orientamenti, che nella nozione di “statuto” coesistono due elementi, quello naturale, di fatto (status) e quello giuridico, di diritto (statutum). Il termine “statuto” si riferisce, allora, a quelle situazioni naturali che scandiscono la vita di una persona nella società e alle quali la legge attribuisce specifici effetti giuridici – situazioni ora attive, ora passive - una volta opportunamente riconosciute[10].
L'aggettivo “personale”, invece, come evidenziato dal Tedeschi, non indica una qualifica dello status ma ha semplicemente il significato tecnico di soggetto alla legge personale e si riferisce, pertanto, allo statutum[11].
Operato tale chiarimento terminologico, non si può nascondere un certo carattere ambivalente dell’oggetto dello statuto personale, il quale varia a seconda del contesto geografico preso a riferimento.
Se nell’accezione europea lo statuto personale ha per oggetto solo lo stato e la capacità delle persone[12], in Africa e Medio Oriente esso comprende una parte più estesa del diritto civile[13]. In tali contesti geografici, infatti, il sistema degli statuti personali risente delle dottrine confessionali (in particolare quella musulmana) per le quali il criterio che governa l'applicazione della legge personale è essenzialmente quello dell'appartenenza religiosa e si basa su tre norme basilari: (i) a ciascuno la sua religione e quindi la sua legge; (ii) esistono sullo stesso territorio tante leggi quante sono le religioni; (iii) ad ogni comunità religiosa le sue leggi e i suoi tribunali per giudicare le controversie nelle quali sono parti i propri fedeli[14].
Il concetto orientale di statuto personale è, dunque, più ampio rispetto all'omologo concetto occidentale.
Infatti, l’espressione ahwāl šaĥşiyyah comprende tutte le questioni relative allo stato e alla capacità delle persone, così come ciò che attiene al diritto di famiglia e al diritto successorio. Vi sono, anche, comprese la giurisdizione spirituale propriamente detta e la disciplina civile dei ministri di culto. In altre parole, in Oriente “tout entre dans le statut personnel, sauf les obbligations[15].
  1. Le fonti normative dell’ordinamento libanese in materia di statuto personale: uno sguardo d’insieme
L’ordinamento giuridico libanese è formato da tre sistemi di fonti[16]: il diritto laico dello Stato, il diritto musulmano e il diritto comunitario[17] dei non musulmani.
Pertanto, la disciplina degli statuti personali non è contenuta in un testo di legge unico ed organico, ma andrà ricostruita attraverso la ricognizione di diversi testi normativi presenti nei tre anzidetti sistemi di fonti.
Tuttavia, ed è bene precisarlo sin d’ora, la pluralità delle fonti legislative è caratterizzata da un filo rosso di coerenza da individuare nella sempre crescente istituzionalizzazione delle comunità religiose.
Il legislatore libanese, infatti, ha dapprima elevato le comunità religiose al rango di entità autonome con la Costituzione del 1926, per poi iscriverle definitivamente nell’ordinamento giuridico libanese con i decreti n. 60/L.R. del  1936 e n. 146/L.R. del 1938.
Quindi ha determinato, con la legge 2 aprile del 1951, le competenze dei tribunali confessionali non musulmani anche se con una visibile deminutio rispetto alle competenze riconosciute ai tribunali sharitici. Questi ultimi, infatti, possono conoscere anche di questioni relative al diritto successorio sottratte, invece, alla cognizione dei tribunali comunitari non musulmani. 
Infine, il legislatore ha invitato le comunità cristiane e quella ebraica a codificare, nel termine di un mese dall’entrata in vigore della legge 2 aprile del 1951, le norme relative allo statuto personale dei propri fedeli affinché venissero approvati dallo Stato. Benché le comunità non musulmane abbiano presentato, tempestivamente, i propri Codici sullo statuto personale, essi non hanno mai ricevuto approvazione ufficiale da parte Governo libanese.
 
  1.  Il diritto comunitario laico
3.1.   La Costituzione libanese del 23 maggio 1926
Il Libano è stato per secoli una terra di asilo divenuta il rifugio per molti popoli[18].
La Carta del Mandato francese sul Libano del 1922, nel prendere atto di ciò, stabiliva all’art. 6[19] l’obbligo per i Mandatari francesi di garantire il rispetto dei diversi popoli e dei rispettivi interessi religiosi. Inoltre, all’art. 8 essa prevedeva che “le Mandataire garantira à toute personne la plus complète liberté de conscience ainsi que le libre exercice de toutes les formes de culte compatibles avec l'ordre public et les bonnes moeurs. Il n'y aura aucune inégalité de traitement entre les habitants de la Syrie et du Liban du fait des différences de race, de religion ou de langue. […] Il ne sera porté aucune atteinte au droit des communautés de conserver leurs écoles en vue de l'instruction et de l'éducation de leurs membres dans leur propre langue, à condition de se conformer aux prescriptions générales sur l'instruction publique édictées par l'administration”.
Il Paragrafo “C” del Preambolo della Costituzione del 1926 promulgata sotto il Mandato francese e riformata nel 1990, coerentemente alle anzidette prescrizioni, precisa che il Libano è una Repubblica democratica fondata sul rispetto delle libertà pubbliche e, in primo luogo, della libertà di opinione e di coscienza[20]. Questa disposizione costituzionalizza l’impegno del legislatore di fondare la democrazia libanese sulla libertà di coscienza considerata come la prima delle libertà.
 
Questa scelta è rafforzata dal Paragrafo “B” del Preambolo costituzionale che, dopo aver ricordato l’adesione del Libano alla Lega Araba, dichiara di aderire alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo approvata dalle Nazioni Unite e individua tra i propri obiettivi l’abolizione del confessionalismo[21] ed il riconoscimento della piena libertà di pensiero e di religione in tutti campi senza eccezione.
Il presupposto giuridico di un simile riconoscimento è costituito dall’art. 9 della Costituzione il quale dispone solennemente che “la liberté de conscience est absolue. En rendant hommage au Très-Haut, l'Etat respecte toutes les confessions et en garantit et protège le libre exercice à condition qu'il ne soit pas porté atteinte à l'ordre public[22]. Il garantit également aux populations, à quelque rite qu'elles appartiennent, le respect de leur statut personnel et de leurs intérêts religieux”.
Il legislatore è ben cosciente dell’importanza della religione nella società libanese e per questa ragione, come negli Stati Uniti d’America, rende omaggio all’Altissimo nella sua Carta fondamentale. Questo omaggio costituisce una sorta di “giuramento costituzionale” che garantisce la sincerità e l’effettività del rispetto da parte dello Stato per la libertà religiosa.
Il riconoscimento di tutte le confessioni e la garanzia della libertà religiosa per ciascun cittadino costituiscono la nota che distingue il Libano dagli altri Paesi arabi del Medio Oriente e dell'Africa Settentrionale.
Mentre questi ultimi, infatti, riconoscono l'Islam come religione di Stato e il Corano come fonte di legislazione, il Libano non è uno Stato teocratico ma uno Stato pluriconfessionale che non riconosce nessuna religione di Stato e non conferisce ad alcuna comunità o diritto comunitario, cristiano o musulmano, una predominanza sugli altri.
Il Libano è il solo Paese arabo[23] senza determinazione di una religione di Stato e dove il sistema consensuale di governo si propone di assicurare la partecipazione, l’uguaglianza e la libertà religiosa in una società multicomunitaria[24].
L’art. 9 della Costituzione, infatti, prevede l’eguaglianza delle comunità religiose nei confronti dello Stato, il quale rispetta le differenze e la specificità di ciascuna di esse conferendo loro lo stesso statuto e le stesse prerogative in campo legislativo e giudiziario.
La norma costituzionale istituisce quella che potremmo definire come “laicità comunitaria” che permette allo Stato libanese di favorire la tolleranza e il rispetto dell’altro, di assicurare il pluralismo confessionale in seno alla società libanese e di svolgere il ruolo di garante neutro e imparziale della pace religiosa in una società democratica.
Questa laicità comunitaria si esprime anche e soprattutto nella garanzia dell’autonomia confessionale delle comunità religiose nel senso che lo Stato non ha alcun potere di ingerenza relativamente alla loro organizzazione e accorda loro, all’art. 10 Cost., la capacità di creare i propri istituti di insegnamento prevedendo che «l'enseignement est libre en tant qu'il n'est pas contraire à l'ordre public et aux bonnes mœurs[25] et qu'il ne touche pas la dignité des confessions. Il ne sera porté aucune atteinte au droit des communautés d'avoir leurs écoles, sous réserve des prescriptions générales sur l'instruction publique édictées par l'État»[26].
Non solo. L’art. 9 prevede l’obbligo per lo Stato di rispettare gli statuti personali delle comunità religiose ed, in caso di violazione di questa prescrizione, conferisce a queste ultime (art. 19 Cost.[27]) la facoltà di adire il Consiglio Costituzionale affinché censuri le scelte normative statali che dovessero essere lesive degli statuti personali e degli interessi religiosi comunitari[28].
Il dettato dell’art. 9 della Costituzione, dunque, costituisce la base giuridica di quello che la dottrina chiama “confessionalismo dello statuto personale”[29], nel senso che tutto ciò che riguarda lo stato e la capacità delle persone o la famiglia (matrimonio, filiazione e in certa misura le successioni) è affidato alla legge stabilita dalle diverse comunità religiose e le controversie relative a queste materie sono trattate dai tribunali confessionali.
Il Libano, pertanto, in virtù di una garanzia o privilegiocostituzionale della legislazione e della giurisdizione accordato alle comunità religiose, si caratterizza per la coabitazione nell’ambito di un ordine giuridico nazionale di diversi ordini giuridici comunitari in materia di statuto personaleche si applicano ai cittadini in base alla loro appartenenza religiosa[30].
In altri termini, al pluralismo religioso corrisponde un pluralismo legislativo e giurisdizionale per quel che concerne lo statuto personale dei cittadini libanesi. Le differenti comunità religiose regolano lo statuto personale dei propri fedeli con potere normativo (limitato dalla non contrarietà all’ordine pubblico) e i tribunali confessionali sono gli unici tribunali competenti a dirimere le controversie relative alle materie che formano l’oggetto dello statuto personale. Immediata conseguenza di questo stato di cose è che all’unità politica del territorio libanese non corrisponde un’unità giuridica in materia di statuto personale.
Da notare che la norma costituzionale riconosce la preesistenza rispetto allo Stato, non solo delle singole religioni, ma anche degli statuti personali. Preesistenza logica e cronologica: quello che le singole religioni hanno stabilito in materia di statuto personale deve essere rispettato dallo Stato che, al proposito, si asterrà sia dal legiferare che dal giudicare[31].
È indubbio, tuttavia, che un tale sistema ha delle immediate ripercussioni anche sull’esercizio dei diritti soggettivi. Infatti, non solo il cittadino libanese dovrà necessariamente appartenere ad una delle comunità religiose riconosciute dalla legge ai fini dell’applicazione delle norme sullo statuto personale (data l’assenza di una disciplina civile in materia), ma l’appartenenza dell’individuo ad una comunità piuttosto che ad un’altra determinerà, inoltre, l’applicazione di uno statuto politico e civile differenziato.
Pertanto, i cittadini libanesi non possono “non appartenere” ad una comunità confessionale e non c’è spazio per una comunità laica relativamente al diritto delle persone, al diritto di famiglia o a quello delle successioni[32]. In altre parole, l’appartenenza comunitaria, per queste materie giuridiche, è necessaria nella misura in cui non esiste uno spazio pubblico non assoggettato all’appartenenza confessionale.
È evidente che, da questo punto di vista, il sistema libanese non prende in considerazione gli atei, gli agnostici e gli indifferenti in quanto l’individuo non esiste giuridicamente e socialmente che per la sua appartenenza esclusiva ad una comunità religiosa che gli impone una serie di norme che regolano la sua vita privata dalla nascita alla morte per ciò che concerne il matrimonio, il divorzio, la filiazione e le successioni. L’appartenenza comunitaria è una necessità che segna l’individuo nella sua natura più profonda. Per questa ragione, taluni qualificano l’anzidetta appartenenza come identità primaria in opposizione alle identità acquisite come, per esempio, lo statuto professionale[33].
Ovviamente il cittadino libanese sarà libero di essere ateo, agnostico e scettico ma, esemplificando, per sposarsi o divorziare dovrà necessariamente appartenere ad una comunità religiosa riconosciuta per legge.
La libertà religiosa collettiva, pertanto, prevale su quella individuale. In altre parole, il singolo esercita il proprio diritto alla libertà religiosa indirettamente beneficiando del riconoscimento della libertà religiosa accordato dal legislatore alla sua comunità d’appartenenza[34].
L’edificio comunitario libanese è completato delle previsioni dell’art. 95[35] della Costituzione le quali, per un verso, pongono l’equilibrio della rappresentanza comunitaria in seno alle istituzioni pubbliche come condizione dell’organizzazione e del funzionamento dello Stato e, per altro verso, instaurano un ulteriore privilegio comunitario per l’accesso agli impieghi pubblici.
La suddetta norma consacra il “confessionalismo politico”, cioè un sistema consensuale di organizzazione del potere[36] che implica che le cariche politiche e gli incarichi amministrativi siano ripartiti tra le differenti comunità. In virtù di questa regola, il Presidente della Repubblica, eletto dalla Camera dei Deputati, deve appartenere alla confessione cristiana maronita, il Presidente della Camera dei Deputati ai musulmani sciiti, il Primo Ministro ai musulmani sunniti. I Ministeri e i seggi in Parlamento sono ripartiti per quote specificamente riservate a ciascuna comunità.
Il Paragrafo “G” del Documento d’Intesa Nazionale del 22 ottobre 1989, l“Accord de Taef[37], ha previsto la soppressione graduale del confessionalismo politico[38] e ha condotto, il 21 settembre 1990, alla revisione della Costituzione[39]. Il nuovo Preambolo adottato in questa occasione prevede, nel suo Paragrafo 4, la graduale soppressione del confessionalismo politico. Allo stesso modo l’art. 95 novellato[40] prevede che “La Chambre des députés élue sur une base égalitaire entre les musulmans et les chrétiens doit prendre les dispositions adéquates en vue d'assurer la suppression du confessionnalisme politique, suivant un plan par étapes”, ma la soppressione del confessionalismo incontra ancora delle resistenze[41].
Così come per il confessionalismo in materia di statuto personale, anche il confessionalismo politico suppone che ciascun cittadino abbia fatto una scelta religiosa in favore di una delle confessioni riconosciute dalla legge: non si potrà essere candidati ad un ruolo politico o alle alte funzioni pubbliche se non sotto l’egida di una delle comunità religiose e nei limiti delle direttive impartite da queste ultime. Ciò comporta l’esclusione degli atei dalla vita pubblica e conferisce ai fedeli delle comunità religiose di beneficiare di taluni privilegi politici, economici e sociali che variano a seconda dell’importanza della comunità di appartenenza[42].
Ciò che è interessante notare, a conclusione di questa analisi sul quadro costituzionale libanese, è che, proprio in ragione di questo duplice confessionalismo in materia di statuto personale e di partecipazione al potere, la struttura dello Stato è una struttura federale ma a base personale e non territoriale[43] in quanto, per un verso, lo Stato è fondato sulla rappresentanza delle comunità che hanno una dimensione extraterritoriale e, per altro verso, l’autonomia e la coesistenza di queste comunità, che è la ragion d’essere della nazione libanese, deve essere preservata sul suo territorio.
3.2.   I decreti n°60/L.R. del 13 marzo 1936 e n. 146/L.R. del 18 novembre 1938
L’istituzionalizzazione delle comunità religiose nell’ordinamento libanese è avvenuta attraverso due decreti dell’Alto Commissario francese per il Libano che hanno reso effettivo sul piano sociale il principio di uguaglianza tra le minoranze cristiana ed ebraica e la maggioranza musulmana[44] in attuazione di quanto previsto dall’art. 9 della Costituzione: il primo (decreto n. 60/L.R. del 13 marzo del 1936) istituisce e definisce la nozione di comunità storica; il secondo (decreto n. 146/L.R. del 18 novembre del 1938) completa e modifica il primo.
Con il decreto del 1936 sulla “organisation des communautés religieuses au Liban” che ancora oggi rappresenta la pietra miliare dell’organizzazione del sistema comunitario libanese, i Mandatari francesi hanno riconosciuto ufficialmente diciassette comunità religiose (dodici cristiane, quattro musulmane e una ebraica) conferendo loro lo statuto di persona morale di diritto pubblico[45], cioè di comunità giuridicamente istituita con diritto di partecipazione alla vita politica dello Stato e con potere normativo e giurisdizionale nelle materie che formano oggetto dello statuto personale.
Va segnalato, come problema tutt’ora aperto, la mancanza in dottrina di una definizione unanime di comunità in Libano[46]. Secondo un’antica pronuncia della Corte Permanente di Giustizia dell’Aja (31 luglio 1930[47]), esse rappresentano “une collectivité de personnes vivant dans un pays ou une localité donnée, ayant une race, une religion, une langue et des traditions qui leur sont propres et unies par 1' identité de cette race, de cette langue et de ces traditions, dans un sentiment de solidarité, à 1 'effet de conserver leurs traditions, de maintenir leur culte, d'assurer l'instruction et l'éducation de leurs enfants conformément au génie de leur race et de s'assister mutuellement”. Sulla stessa scia si pone quella parte della dottrina che afferma che «les communautés ne sont pas juste des communautés de fidèles, mais de groupements culturels»[48], mentre altra preferisce una definizione più ampia, che supera la religione e la cultura, secondo la quale “une communauté est plus qu'une adhésion à une foi, c'est un cadre social, politique, voire économique[49].
Altri autori accolgono, invece, una definizione ristretta di comunità, limitata all’appartenenza alla medesima fede religiosa e, pertanto, definiscono le comunità religiose in Libano come “communautés confessionnelles de culte qui se réunissent autour de la religion[50].
A prescindere dal dibattito dottrinale, ciò che è necessario rilevare è che non tutte le comunità religiose possono esercitare in Libano le attribuzioni legislative e giudiziarie nelle materie ricomprese nello statuto personale o possono essere rappresentate in seno ai diversi organi dello Stato.
Tali prerogative sono riservate, infatti, alle sole “comunità storiche” ufficialmente riconosciute dal legislatore ed espressamente enumerate in un’apposita tabella di cui all’Allegato I del decreto n. 60/L.R. del 1936. Si tratta delle suddette diciassette comunità e, più precisamente, dodici di queste sono cristiane di cui sei comunità cattoliche (Maronita, Greco-Melkita, Armena, Sira, Caldea e Latina), cinque ortodosse (Greca, Armena-Gregoriana, Sira-giacobita, Assira-nestoriana e Copta) e una comunità protestante/Evangelica; quattro musulmane (Sunnita, Shiita, Drusa e Alawita) e, infine, una comunità israelitica[51].
Il legislatore del 1936, per un verso, accorda alle predette comunità la qualifica di “storiche o tradizionali”, in quanto storicamente esistenti al momento dell’entrata in vigore del decreto, conferendo loro la personalità morale e, per altro verso, statuisce la necessità della “reconnaissance par l’Etat, dans un acte législatif, de leur organisation, de leur juridiction, de leur législation” (art.1).
Tale riconoscimento ad opera della Stato ha il duplice fine, precisato dall’art. 2, di conferire forza di legge agli statuti comunitari e di  porre ciascuna comunità riconosciuta sotto la protezione dello Stato[52].
Le norme citate confermano l’autonomia delle comunità religiose in Libano ma, allo stesso tempo, subordinano l’esercizio di questa autonomia al riconoscimento preliminare da parte dello Stato dell’organizzazione, della legislazione e della giurisdizione di ciascuna di esse nonché all’approvazione dei relativi statuti.
Un simile riconoscimento permette allo Stato di verificare il carattere tradizionale (“historique”) delle comunità religiose e di assicurare la conformità dei loro statuti legislativi e giudiziari con le prescrizioni della legge libanese.
La dottrina si è domandata se questo intervento statale abbia per risultato quello di integrare il potere comunitario a quello statale considerando le prerogative delle comunità come una emanazione del potere pubblico. Questa tesi secondo la dottrina maggioritaria è difficilmente accettabile[53]. Il potere comunitario, infatti, risiede all’esterno del potere statale che altro non fa che riconoscere, senza pregiudicare l’autonomia comunitaria, gli  statuti presentati dalle comunità religiose purché essi siano “conformes à l’ordre public[54] et aux bonnes moeurs[55], aux lois organiques de l’Etat et des communautés” (art. 5 del decreto n. 60/L.R. del 1936).
 
La conformità alle “lois organiques de l’Etat et des communautés” significa mutuo rispetto delle reciproche competenze nel senso che lo Stato dovrà rispettare l’autonomia comunitaria nelle materie riservate alla competenza delle comunità religiose così come queste ultime non potranno sconfinare nelle materie regolate dalla legge civile.
Qualche problema, invece, crea la conformità all’ordine pubblico. Se essa comportasse un confronto tra il diritto dello Stato e i diritti delle autorità comunitarie che le sono esterne, si riconoscerebbe allo Stato la possibilità di esaminare nel merito le prescrizioni degli statuti delle comunità. Ciò, però, urterebbe, non solo, con l’art. 9 della Costituzione che fa obbligo allo Stato di rispettare gli statuti personali comunitari ma, anche, con la realtà dei fatti. Infatti, il diritto dello Stato non disciplina le materie rientranti nello statuto personale ma ne attribuisce la normazione alle comunità religiose. Manca, in altre parole, un diritto comune, da prendere a base per il confronto, nelle materie che costituiscono l’oggetto dello statuto personale. Nelle predette materie, infatti, lo Stato si dichiara incompetente e,  in base al principio di eguaglianza fra le comunità religiose, gli è fatto divieto di far prevalere un diritto comunitario piuttosto che un altro.
La giurisprudenza non ha mai utilizzato lo strumento dell'ordine pubblico per negare riconoscimento agli statuti comunitari ma si è assestata su una accezione processuale di esso al fine di impedire l’esecuzione delle decisioni rese dai tribunali confessionali disconoscendo i principi fondamentali del processo come il difetto di notifica degli atti processuali al difensore[56] o la violazione del giudicato da parte dei tribunali confessionali[57].
3.3.   La legge 2 aprile del 1951[58]
La legge libanese del 2 aprile 1951 concentra in un unico testo le norme relative alla “détermination de la compétence des autorités religieuses des communautés chrétiennes et israélite” e costituisce il presupposto giuridico per il riconoscimento degli statuti personali delle comunità storiche non musulmane. Essa enumera ancora una volta  le comunità non musulmane che godono delle attribuzioni legislative e giudiziarie in materia di statuto personale, precisa la competenza delle loro giurisdizioni e le incrementa in alcune materie.
 
L’art. 1 definisce la “délimitation de la compétence” delle giurisdizioni confessionali cristiane e ebraica; la disciplina dei conflitti fra queste comunità o fra queste e quelle delle altre giurisdizioni confessionali o civili; l’esecuzione delle sentenze emesse dai tribunali confessionali.
Quanto alla delimitazione della competenza, la regola generale è che, per un verso, le autorità confessionali non possono esercitare il loro potere di ius dicere se non sui propri fedeli (art. 31) aventi nazionalità libanese[59] e, per altro verso, il potere giurisdizionale può essere esercitato solo con riferimento alle materie indicate dagli artt. 2- 13 e dall’art. 20. 
Tali materie sono: 1) fidanzamento (validità, rottura, nullità; caparra); 2) matrimonio (celebrazione, validità, nullità, divorzio e separazione); 3) filiazione (legittima e illegittima), adozione, patria potestà, sorveglianza ed educazione dei figli fino alla maggiore età; 4) pensione alimentare[60] nel corso dell’istanza di separazione, divorzio o nullità; l’ indennità in caso di sentenza di nullità matrimoniale; 5) tutela dei minori, nomina e sostituzione del tutore, controllo dei suoi conti; 6) costituzione di un “waqf[61], sua amministrazione, scelta degli aventi diritto, nomina del suo amministratore, mutamento della sua destinazione e giudizio sulla sua validità; 7) erezione e amministrazione dei luoghi di culto, dei monasteri, dei cimiteri, delle istituzioni di beneficienza, di educazione e di sanità; 8) testamento e successioni dei chierici e dei rabbini; validità della procura alle liti nella controversie riservate alla cognizione dei tribunali confessionali; 9) spese giudiziarie, gratuito patrocinio ed onorari degli avvocati; 11) azioni riguardanti il credo religioso, conflitti tra membri del clero e quelli tra i rabbini ed applicazione delle sanzioni previste dalla legge confessionale.
Le Corti sharitiche hanno una competenza per materia più ampia. Infatti, tali tribunali possono conoscere anche le controversie che hanno per oggetto l’interdizione, l’assenza e le successioni in generale[62]. Ciò trova spiegazione nel fatto che il diritto successorio è parte integrante del diritto delle comunità musulmane a differenza delle comunità non musulmane che affidano il diritto successorio al diritto civile, in particolare alla legge del 23 giugno 1959[63].
Parte della dottrina afferma che l’art. 1 della legge 2 aprile de 1951 conferisce effettività al precetto costituzionale dell’art. 9 della Costituzione libanese in quanto ribadisce che lo Stato, nelle materie che formano l’oggetto dello statuto personale, è incompetente e si riconosce il potere legislativo e giurisdizionale delle comunità confessionali. Qui lo Stato libanese non delega una funzione legislativa e giudiziaria ad altra autorità[64], nella specie religiosa, quanto ne riconosce il potere legislativo e giurisdizionale esclusivo e non concorrente con quello dello Stato, potere che preesiste a quello dello Stato medesimo[65]. Altra dottrina[66] e la giurisprudenza maggioritaria[67]., tuttavia, sono di diverso avviso e affermano che la piena giurisdizione appartiene ai tribunali civili e che i tribunali religiosi beneficiano soltanto di una delega di potere in materia di statuto personale.
Delimitata la competenza delle giurisdizioni confessionali nei termini che precedono, il legislatore del 1951 appresta, poi, una serie di norme finalizzate a determinare i criteri per risolvere i conflitti di competenza - che dovessero sorgere in relazione alle controversie aventi ad oggetto le materie ricomprese nello statuto personale - in seno alle giurisdizioni comunitarie o fra queste e quelle delle altre giurisdizioni confessionali o, ancora, fra queste e i tribunali civili libanesi.
A tal fine, l’art. 31 prevede che le giurisdizioni religiose applicheranno i loro regolamenti confessionali esclusivamente nei riguardi dei loro fedeli (salvo i casi di matrimonio misto di cui si dirà in seguito) e dovranno rigettare d’ufficio per incompetenza e senza che possa essere sollevata opposizione l’azione in una materia che non rientra nella loro competenza. Allo stesso modo i tribunali civili, qualora sia sollevata una questione pregiudiziale relativa alle materie facenti parte dello statuto personale la cui decisione appartenga alla giurisdizione confessionale e che tali tribunali stimino sia necessaria per la decisione, dovranno sospendere il giudizio e fissare alle parti un termine per adire il tribunale confessionale al fine di ottenere dall’autorità competente la decisione sulla questione pregiudiziale.
A ciò si aggiunga che l’art. 95, comma IV, del Codice di procedura civile libanese[68] ha affidato ad un tribunale statuale, la Corte di Cassazione[69], il compito di definire le relazioni che devono essere stabilite tra le diverse giurisdizioni comunitarie e tra queste e le giurisdizioni civili[70] nei casi in cui dovessero sorgere dei conflitti di giurisdizione.
I conflitti di giurisdizione verosimilmente più frequenti sono quelli del primo tipo (conflitti di giurisdizione tra tribunali confessionali) e riguardano, soprattutto, la materia matrimoniale.
L’art. 14 della legge 2 aprile 1951 dispone chiaramente che l’autorità comunitaria che decide sul matrimonio e sui suoi effetti è quella che ha celebrato il matrimonio[71].
Un conflitto, tuttavia, può sorgere in due casi: quando uno solo dei coniugi cambia comunità; quando entrambi i coniugi cambiano comunità.
In entrambi i casi, parte della dottrina e la giurisprudenza maggioritaria ritengono applicabile l’unica regola di conflitto attualmente in vigore, quella dell’art. 14 della legge del 1951[72], ritendendo abrogato l’art. 23 del decreto n. 146/L.R. del 1938. La norma da ultimo citata statuisce che mentre il cambiamento unilaterale di comunità (o di rito) da parte di uno degli sposi non determina la modifica della competenza del tribunale della comunità che ha celebrato il matrimonio, il cambiamento bilaterale di comunità (o di rito) da parte di entrambi gli sposi, invece, rende competente il tribunale della nuova comunità.
La Corte di Cassazione, tuttavia, in alcune decisioni rese prima del 1994, si è pronunciata a favore della vigenza dell’art. 23 del decreto del 1938 anche dopo l’entrata in vigore della legge del 1951[73]. Tale soluzione, sarebbe confermata dal fatto che il legislatore non ha mai preso posizione espressa sull’abrogazione delle regole di conflitto dettate dai decreti n°60/L.R. del 13 marzo 1936 e n. 146/L.R. del 18 novembre 1938 i quali continuano, ancora oggi, a reggere l’esistenza e il funzionamento del sistema comunitario libanese.
Infine, la Corte di Cassazione deve assicurare che le decisioni delle giurisdizioni confessionali, prima di essere eseguite sul territorio libanese, non contrastino con il cd. ordine pubblico processuale. È così che la Corte di Cassazione ha potuto censurare a più riprese le giurisdizioni confessionali allorquando le loro decisioni hanno comportato la lesione del diritto di difesa, del principio del contraddittorio, del principio dell’intangibilità del giudicato[74]
L’ultimo aspetto disciplinato dalla legge 2 aprile del 1951 riguarda l’esecuzione delle decisioni rese dai tribunali confessionali.
L’art. 29 della legge in esame dispone che le sentenze dei tribunali religiosi divenute definitive sono eseguite per mezzo di appositi uffici denominati “bureaux exécutifs[75] che, ai sensi dell’art. 828 c.p.c., sono i soggetti deputati a dare esecuzione alle sentenze, alle ordinanze o agli altri atti giurisdizionali dei tribunali comunitari.
Il citato art. 29 desta un particolare interesse perché bene evidenzia come in Libano le sentenze pronunciate dai tribunali confessionali, nelle materie loro riservate, godono di immediato valore esecutivo per lo Stato.
In altri termini, le sentenze emesse dai tribunali religiosi non abbisognano di alcun riconoscimento formale da parte dello Stato ai fini della loro esecutorietà, non necessitano di alcuna delibazione, essendo ritenute valide ed efficaci fin dall’origine.
Tuttavia, ai sensi dell’art. 26, ibureaux exécutifs possono rifiutare l’esecuzione qualora la sentenza sia stata emessa da una giurisdizione religiosa incompetente o perché la sentenza che si intende eseguire è contraria ad altra sentenza emessa da un tribunale religioso o civile. In tali casi, l’interessato che ritenga illegittimo il rifiuto del competente ufficio, può proporre ricorso alla Corte di Cassazione.
  1. Il diritto musulmano e il diritto comunitario non musulmano
In base all’art. 33 della legge 2 aprile del 1951, per poter godere delle prerogative ivi previste, le comunità non musulmane avrebbero dovuto presentare al Governo il proprio Codice di statuto personale ed il Codice di procedura seguito dai tribunali confessionali, entro un mese dall’entrata in vigore della legge medesima, per essere poi approvati dallo Stato nel termine di sei mesi dalla presentazione. Al medesimo procedimento sono soggette anche le modifiche al diritto interno della comunità.
La norma prevede, con formula identica a quella contenuta nell’art. 5 del decreto n. 60 del 1913, che lo Stato prima di riconoscere i codici delle comunità non musulmane dovrà verificare “leur conformité avec l’ordre publique et les lois organiques de l’Etat et des communautés”. Su questo aspetto sia consentito, pertanto, rinviare a quanto esposto al precedente paragrafo 3.2.
Per le comunità che non si fossero conformate alle prescrizioni della norma in commento l’applicazione della legge 2 aprile del 1951 sarebbe stata sospesa.
Prima di proseguire nell’analisi delle fonti normative in materia di statuto personale, appartenenti all’ultimo dei tre sistemi di fonti del quale si compone l’ordinamento libanese, è necessario precisare che  non bisogna confondere l’approvazione degli statuti da parte dell’autorità pubblica con il riconoscimento delle comunità religiose. Attenta dottrina ha sottolineato, infatti, che  l’approvazione dei codici di statuto personale richiesta dall’art. 33 non è necessaria ai fini del riconoscimento delle comunità, il quale è già avvenuto per atto legislativo, cioè con il decreto n. 60 del 1936[76], ma è necessaria esclusivamente ai fini dell’applicazione alle comunità non musulmane della legge 2 aprile del 1951.
Ritornando alla previsione dell’art. 33 in commento, le comunità cattoliche presentarono tempestivamente un unico Codice di Statuto Personale e di Procedura, mentre le comunità ortodosse, protestante e israelita depositarono ciascuna il proprio Codice[77]. Nessuno di questi Codici, tuttavia, ha mai ricevuto approvazione da parte dello Stato e ciò ha determinato notevoli incertezze circa il loro carattere obbligatorio.
L’inerzia del legislatore, però, non ha impedito, da un lato, alle giurisdizioni comunitarie di applicare i testi normativi (seppur non approvati) e, dall’altro, ai bureaux exécutifs di eseguire le decisioni rese dai tribunali confessionali[78].
A fronte dei numerosi ricorsi presentati per bloccare l’esecuzione delle decisioni rese dai tribunali confessionali sulla base dei codici non approvati, la Corte di Cassazione non ha potuto rigettare in blocco le sentenze dei tribunali religiosi non musulmani, pena la paralisi della giustizia libanese[79].
Per uscire da questo impasse, la Corte di Cassazione ha dovuto sostituirsi al legislatore inerte affermando che, affinché le norme comunitarie siano applicabili è sufficiente che le comunità abbiano presentato al Governo nei termini previsti dall’art. 33 della legge 2 aprile del 1951 i relativi codici, anche se questi non hanno avuto approvazione ufficiale[80]. Tuttavia, i nuovi testi, precisa la Corte, avranno forza obbligatoria sul territorio libanese nella misura in cui le loro prescrizioni esprimano le consuetudini tradizionali delle comunità senza sconfinare nelle attribuzioni dell’autorità civile[81]. Ciò, però, non significa che i testi depositati e non approvati siano applicabili solo nella misura in cui essi sono fedeli agli antichi costumi. Questi costumi, infatti, hanno subito nel corso dei secoli delle modifiche determinate dagli apporti del diritto moderno. Tali modifiche, tuttavia, avranno forza obbligatoria solo in quelle materie in cui i dogmi religiosi non siano in causa[82]. Il riferimento alle tradizioni delle comunità, dunque, marca nel contempo i confini del potere comunitario e di quello dello Stato.
Un discorso diverso da quello che precede vale, invece, per le comunità musulmane non soggette alla disciplina dettata dalla legge 2 aprile del 1951.
Le comunità musulmane sunnite e shiite sono soggette al Codice ottomano della famiglia del 1917 così come alle legge del 16 luglio 1962 sui relativi tribunali. Lo statuto personale della comunità drusa, invece, è regolato anch’esso dal Codice ottomano del 1917, mentre l’organizzazione dei tribunali è regolata dalla legge 24 febbraio 1948 e dal decreto n. 3473 del 5 marzo del 1960[83]. Solo lo statuto personale della comunità sunnita, tuttavia, è stato codificato in un vero e proprio testo organico approvato dallo Stato con la legge del 16 gennaio 1962[84].
Questa disparità di trattamento tra le confessioni non musulmane e quelle musulmane è giustificata dal fatto che il sistema giuridico delle comunità musulmane si integra all’apparato legislativo e giudiziario dello Stato con la conseguenza che è proprio lo Stato ad occuparsi dell’organizzazione legislativa e giudiziaria delle comunità musulmane[85]. I tribunali musulmani sono una delle branche della giustizia statuale e i giudici musulmani sono dei funzionari dello Stato soggetti al controllo del Ministero della giustizia libanese[86].
 
Le comunità non musulmane posseggono, al contrario, un’organizzazione legislativa e giudiziaria propria, indipendente da quella dello Stato con la conseguenza che i relativi tribunali fanno capo esclusivamente alle autorità religiose di ciascuna comunità e lo Stato si limita a controllarne le competenze al momento dell’esecuzione delle loro decisioni[87].
  1. Il cambiamento e l’abbandono della comunità religiosa di appartenenza
In un Paese in cui “la religion s’achète et se vend[88], nel quale, cioè, i cittadini sono naturalmente portati a speculare sulla molteplicità dei diritti applicabili per sfuggire all’applicazione di un statuto personale sfavorevole[89], l’intervento dello Stato si rende necessario non solo per evitare che la libertà religiosa accordata ai cittadini dalla Costituzione possa essere esercitata in maniera fraudolenta, ma anche per introdurre meccanismi finalizzati a ridurre il forum shopping vale a dire la ricerca del tribunale confessionale più favorevole davanti al quale può essere conveniente promuovere o accettare il giudizio. Il pluralismo comunitario, infatti, importa che l’appartenenza dell’individuo ad una comunità piuttosto che ad un’altra determinerà l’applicazione di uno statuto giuridico, politico e civile differente: un cristiano cattolico sarà soggetto al diritto canonico, un musulmano si vedrà applicare le norme del diritto islamico e un ebreo sarà soggetto al diritto ebraico.
L’appartenenza comunitaria avrà, dunque, delle immediate ripercussioni, per esempio, in materia matrimoniale: la poligamia lecita per il diritto islamico sunnita e shiita è illecita al contrario per il diritto della comunità drusa e per il diritto delle comunità cristiane; il divorzio non permesso dalla comunità cattolica in base al principio di indissolubilità del vincolo matrimoniale sarà, invece, ammesso dalla comunità cristiana protestante e dalle comunità musulmane.
In un simile contesto, lo Stato prevede una serie di procedure di controllo con l’obbiettivo, da un lato, di rendere pubblica l’appartenenza confessionale e, dall’altro, di tutelare i diritti dei terzi nei casi di cambiamento o abbandono dalla comunità di appartenenza.
 
Per il perseguimento di tali finalità il legislatore ha previsto un duplice meccanismo di tutela: uno di natura amministrativa e l’altro di natura giurisdizionale[90].
Il primo consiste nell’annotazione nei registri dello stato civile della confessione a cui appartiene ciascun cittadino (la quale, pertanto, costituisce uno degli elementi dello stato civile delle persone), nonché delle sue eventuali modificazioni.
Questa iscrizione rende tale appartenenza opponibile allo Stato e ai terzi. Generalmente l’iscrizione di tale dato nei registri dello stato civile non desta particolari problemi dal momento che l’appartenenza confessionale si trasmette per nascita così come il nome e la nazionalità. Dispone, infatti, l’art. 12 del decreto n. 60 del 1936 che “tant qu'il n'est pas majeur, l'enfant ne peut pas changer de communauté et suit automatiquement celle de son père”.
I problemi sorgono nel momento in cui il cittadino libanese, divenuto maggiorenne, decida di esercitare il diritto di cambiare o abbandonare la propria comunità religiosa[91]. A differenza degli altri Stati arabi, in cui il cambiamento di comunità è permesso solo da una comunità non musulmana a quella musulmana, in Libano, in virtù del carattere pluriconfessinale dello Stato e dell’egualitarismo comunitario, il cambiamento di comunità è sempre permesso, anche qualora avvenga da una comunità musulmana ad una non musulmana.
Tuttavia, il cambiamento di comunità è permesso in costanza di talune condizioni espressamente indicate all’art. 11 del decreto del 1936 : “quiconque a atteint sa majorité et jouit de son libre arbitre peut, avec effet civil, sortir d'une Communauté à statut personnel reconnue ou y entrer, et obtenir la rectification des inscriptions concernant au registre de l'état civil, en produisant au bureau de l'état civil de sa résidence un acte contenant sa déclaration de volonté et, le cas échéant, un certificat d'acquiescement de l'autorité compétente de la Communauté où il entre”.
Il procedimento amministrativo finalizzato al cambiamento di comunità e alla rettifica dell’iscrizione dell’appartenenza confessionale nel registro dello stato civile è disciplinato dall’art. 41 della legge 7 dicembre del 1951.
La domanda, dovrà essere presentata all’ufficio dello stato civile del luogo di residenza dell’interessato, corredata dal certificato dell’autorità religiosa alla quale si desidera aderire che attesti la volontà di accogliere l’istante.
L’ufficiale di stato civile convoca, quindi, il richiedente e gli domanda, in presenza di due testimoni, se egli vuole spontaneamente dar corso al cambiamento di comunità. In caso di risposta positiva l’ufficiale redige processo verbale e rettifica l’iscrizione nel registro.
Il cambiamento di comunità non avrà efficacia ex tunc in quanto i suoi effetti decorreranno solo dalla data d’iscrizione nel registro dello stato civile[92].
Il legislatore ha previsto una dichiarazione della sola autorità religiosa della nuova comunità, probabilmente per il fatto che, quand'anche un diritto confessionale contemplasse la possibilità per un fedele di abbandonare il proprio credo, questi si sarebbe inevitabilmente dovuto scontrare con la renitenza della comunità di appartenenza a riconoscere e dichiarare la validità di un tale atto, con conseguente violazione del diritto alla libertà religiosa[93].
Colui che intende abbandonare la comunità di appartenenza senza sceglierne un’altra dovrà, invece, semplicemente presentare all’ufficiale di stato civile un atto scritto dal quale risulti la sua volontà in tal senso. Non è necessario alcun certificato dell’autorità confessionale della confessione religiosa di appartenenza. L’abbandono di comunità, tuttavia, pone il problema di individuare quale sarà lo statuto personale applicabile e come sarà garantita la partecipazione alle cariche pubbliche e alla vita politica dello Stato. Infatti, nonostante l’art. 14 del decreto n. 60 L.R. del 1936 preveda l’istituzione di una comunità di diritto comune cui far aderire coloro che non manifestano alcuna scelta comunitaria, questa comunità “non comunitaria” non è stata ancora istituita[94].
Il legislatore ha, però, previsto che i cittadini libanesi che non appartengono a nessuna comunità ovvero che desiderano abbandonare la propria comunità di appartenenza, in virtù degli artt. 10, 14 e 17 del decreto n. 60 del 1936 “organisent et administrent leurs affaires dans les limites de la législation civile”.

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