fbevnts The enlargment of the Episcopal order of the Cardinals College: the cooptation of four Cardinals equated to the Cardinal Bishops (rescriptum)

L’ampliamento dell’ordine episcopale del Collegio cardinalizio: la cooptazione di quattro porporati equiparati ai Cardinali Vescovi (rescriptum ex aud

21.02.2019

Manuel Ganarin

Assegnista di ricerca in diritto ecclesiastico e canonico, Alma Mater Studiorum, Università degli Studi di Bologna

 

L’ampliamento dell’ordine episcopale del Collegio cardinalizio: la cooptazione di quattro porporati equiparati ai Cardinali Vescovi (rescriptum ex audientia SS.mi del 26 giugno 2018)*

 

The enlargment of the Episcopal order of the Cardinals College: the cooptation of four Cardinals equated to the Cardinal Bishops (rescriptum ex audientia SS.mi of 26 giuny 2018)

 

Sommario: 1. Il rescritto pontificio quale lex singularis. Una concisa riflessione preliminare. – 2. Le innovazioni strutturali apportate al Collegio cardinalizio nel corso del XX secolo. – 2.1. Gli interventi riformatori promossi da Giovanni XXIII e da Paolo VI. – 2.2. La progettata soppressione dei tre ordini cardinalizi (e la risoluzione pontificia contraria) nella fase di revisione del Codice piano-benedettino. – 2.3. La portata essenzialmente ricognitiva dei canoni sui Cardinali di Santa Romana Chiesa nel Codex Iuris Canonici del 1983. – 3. Le ragioni poste alla base del rescriptum di Francesco. – 3.1. La rilevanza funzionale degli ordini cardinalizi durante la vacanza della Sede Apostolica. L’applicabilità della costituzione apostolica Universi Dominici Gregis. – 3.2. La valorizzazione di un ‘coetus restrictus’ di Cardinali di provenienza curiale ai quali affidare la conduzione del conclave. – 4. Criticità della soluzione adottata (e qualche proposta di riforma risolutiva). – 4.1. La ‘staticizzazione’ della composizione dell’ordine dei Vescovi del Collegiocardinalizio… – 4.2. …e la menomazione della romanitas del consesso elettorale (e dunque dell’elezione pontificia). – Appendice. Rescriptum ex audientia Ss.mi: Rescritto del Santo Padre Francesco con cui ha deciso di cooptare nell’Ordine dei Vescovi, equiparandoli in tutto ai Cardinali insigniti del titolo di una Chiesa suburbicaria, i Cardinali Parolin, Sandri, Ouellet e Filoni.

 

1. Il rescritto pontificio quale lex singularis. Una concisa riflessione preliminare

 

Nell’udienza del 26 giugno 2018 concessa al Sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato, Angelo Becciu[1], Papa Francesco ha disposto che tre Cardinali presbiteri ed un Cardinale diacono fossero cooptati nell’ordine episcopale del Collegio cardinalizio e giuridicamente equiparati ai Cardinali Vescovi ai quali è assegnato il titolo di una chiesa suburbicaria. Il provvedimento, reso immediatamente di pubblico dominio nel Bollettino telematico della Sala stampa della Santa Sede[2], è stato promulgato nella forma ‘straordinaria’ prevista dal can. 8, § 1 del Codex Iuris Canonici per mezzo della sua pubblicazione nell’edizione del 27 giugno 2018 del quotidiano L’Osservatore romano[3], entrando in vigore il giorno successivo[4].

Del rescritto, di cui si cercherà in questa sede di individuare tanto le implicazioni giuridiche quanto, soprattutto, le ragioni fondanti, pare opportuno porre anzitutto in risalto le specificità in ordine al posizionamento nel sistema delle fonti dello ius Ecclesiae.

Il tipo di atto adottato e la promulgazione cui si è fatto ricorso rivelano senza ombra di dubbio come, sul piano formale, Francesco abbia esercitato la potestas legislativa. D’altra parte, il rescriptum ex audientia Sanctissimi consta di una sorta di certificazione ‘notarile’ che attesta per iscritto una risoluzione disposta oralmente dal Romano Pontefice. Una simile certificazione, effettuata da colui che è stato ricevuto in udienza – solitamente un capo dicastero della Curia romana –, persegue il fine di positivizzare la voluntas legislatoris in un atto ascrivibile al novero delle leggi ecclesiastiche. Non si tratterebbe dunque di un rescritto in senso proprio, ossia di un atto amministrativo singolare con il quale l’autorità esecutiva, su petizione di qualcuno, concede un privilegio, una dispensa, un’altra grazia (can. 59, § 1) o, se non consta altrimenti, una licenza e un oraculum vivae vocis (§ 2)[5], posto che la suprema autorità della Chiesa non ha inteso avvalersi della potestas exsecutiva.

L’accostamento del rescriptum ex audientia agli atti amministrativi singolari di cui al Libro I del Codice (cann. 35-93) potrebbe tuttavia ipotizzarsi in relazione al contenuto. A ben vedere l’atto pontificio non contempla infatti una norma generale ed astratta, munita dei crismi tipici delle fonti legislative. Da un lato, esso presenta la caratteristica della singolarità, in quanto è rivolto non alla comunità dei christifideles ma solamente a quattro destinatari ben individuati – i Cardinali Pietro Parolin, Leonardo Sandri, Marc Ouellet e Fernando Filoni[6] –; dall’altro, introduce una norma concreta, dispiegando un effetto giuridico immediato[7], ossia l’‘assimilazione’ in iure ai Cardinali Vescovi dei porporati espressamente menzionati. Quanto stabilito dal Romano Pontefice pertanto difetta di astrattezza, perché non è stata introdotta una fattispecie nella quale poter sussumere un caso verificabile in futuro[8]. I tratti di singolarità e di concretezza che contraddistinguono il rescritto de quo sembrano quindi attestarne la divaricazione tra l’intitolazione formale e la statuizione materiale, tanto da avvicinare il rescritto ex audientia alla categoria della ‘norma singolare’, espressione coniata dalla canonistica allo scopo di identificare un atto amministrativo emanato in deroga alle prescrizioni legislative per ragioni di giustizia afferenti al bonum commune Ecclesiae[9]. Segnatamente emergono, palmari, le somiglianze tra il rescritto del 26 giugno 2018 e il privilegio, una grazia concessa mediante atto peculiare (il rescritto) dal legislatore o dall’autorità esecutiva cui il legislatore medesimo abbia conferito tale potestà in favore di persone fisiche o giuridiche determinate (can. 76, § 1).

Come noto, il privilegio è dato praeter o contra legem per migliorare la condizione pregressa nella quale versano una o più persone, conferendo un favor consistente in una situazione giuridica soggettiva attiva (diritto, facoltà, potestà) del tutto inedita, che sino a quel momento il diritto comune non riconosceva ai beneficiari del provvedimento amministrativo[10]. Non dissimilmente Francesco ha migliorato lo status giuridico dei Cardinali cooptati nell’ordine episcopale del Collegio cardinalizio: in effetti, questi ultimi attualmente possono avvalersi di diritti o di facoltà di cui non sarebbero titolari in forza della loro appartenenza originaria agli ordini cardinalizi dei presbiteri e dei diaconi. Un apporto migliorativo conseguito attraverso la deroga esplicita a talune prescrizioni del Codice di Diritto Canonico che disciplinano la tripartizione in ordines del Collegio dei Cardinali (can. 350, §§ 1 e 2) e la voce attiva e passiva in merito alla provvisione degli uffici di Decano e di Sottodecano del Collegio stesso (can. 352, §§ 2 e 3). Il rescritto pontificio perciò non si colloca armonicamente nel sistema normativo, prospettando un favore perpetuo (cfr., per analogia, can. 78, § 1) la cui stabilità si rende necessaria per fare in modo che il bene pubblico della Chiesa possa trarre, seppure indirettamente, un qualche giovamento[11] nei termini che si tenterà di illustrare appresso[12]. Ma oltre alla contrarietà alla legge canonica e alla perpetuità dell’atto di concessione, il rescritto possiede un ulteriore elemento distintivo proprio del privilegio: quello della personalità, tant’è che l’equiparazione in esso prevista potrebbe venire meno – invero non solo integralmente ma anche parzialmente – per morte di uno o più (se non di tutti i) soggetti beneficiari (cfr., per analogia, can. 78, § 2) o per mutamento delle circostanze che a suo tempo ne giustificarono la concessione, in modo tale che a giudizio dell’autorità competente il suo uso diventi illecito o risulti dannoso (cfr., per analogia, can. 83, § 2: si pensi alla privazione della dignità cardinalizia quale misura sanzionatoria); o, ancora, per riduzione o esaurimento del numero dei casi per i quali fu concesso (cfr., sempre per analogia, can. 83, § 1)[13]: un’eventualità, questa, prospettabile quando, per esempio, il Papa decida di confermare l’incorporazione nell’ordine dei Vescovi di uno o più Cardinali cooptati, agendo in ossequio al diritto universale tramite l’assegnazione del titolo di una chiesa suburbicaria divenuto vacante, ponendo fine per causa sopravvenuta alla ragione fondante l’equiparazione anteriormente disposta.

Al di là delle similitudini tra i due istituti, la divergenza tra il rescritto qui esaminato e il privilegio permane, come già riscontrato, sul piano potestativo: se il primo discende dalla potestà legislativa, il secondo figura quale estrinsecazione dalla potestà esecutiva. Alla luce della distinzione delle funzioni di governo operata dal Codice del 1983, un favor concesso mediante una norma generale non può essere definito tecnicamente un privilegio quale ‘norma singolare’ di natura esecutiva[14]. Ma prescindendo in questa sede dal dibattito che ha animato la canonistica circa la natura giuridica del privilegio[15], la qualifica ad esso attribuita di atto amministrativo non preclude la possibilità che il legislatore accordi un beneficio anche per modum legis, emanando una lex singularis che non è evidentemente sottoposta al regime codiciale né del rescritto (cann. 59-75) né del privilegio (cann. 76-84)[16]. Ciò è quanto accaduto con il rescritto ex audientia Sanctissimi del 26 giugno 2018, con il quale il Romano Pontefice ha posto una norma legislativa, sostanzialmente singolare e concreta invece che generale ed astratta.

 

2. Le innovazioni strutturali apportate al Collegio cardinalizio nel corso del XX secolo

 

Allo scopo di comprendere appropriatamente la portata dell’intervento di Francesco, nonché le motivazioni che lo hanno sospinto ad ‘immettere’ mediante equiparazione tre Cardinali presbiteri ed un Cardinale diacono nell’ordine dei Vescovi del Collegio cardinalizio, riteniamo utile a questo punto ripercorrere le tappe del percorso riformatore che ha in parte innovato la conformazione strutturale ed organica del Collegio stesso nel corso del XX secolo. Un excursus storico-giuridico che a nostro avviso permetterà, nel prosieguo della trattazione, di porre in evidenza come Papa Bergoglio per taluni aspetti abbia confermato e rivalutato la suddivisione tradizionale in tre ordini del coetus di porporati, non introducendo elementi di rottura rispetto a quanto disposto in passato dai suoi predecessori nell’ufficio petrino.

 

2.1. Gli interventi riformatori promossi da Giovanni XXIII e da Paolo VI

 

Nel capitolo III («De Sanctae Romanae Ecclesiae Cardinalibus») della sezione II («De clericis in specie») della parte prima («De clericis») del libro II («De personis») del Codice di Diritto Canonico del 1917 (in seguito: CIC17), dopo avere premesso che i Cardinali costituivano il senato del Romano Pontefice per assisterlo come consiglieri e collaboratori principali nel governo della Chiesa (can. 230), si ribadiva la disciplina radicata nella tradizione canonica circa la tripartizione del Sacro Collegio e la predeterminazione del numero fisso dei membri di ciascun ordine di Cardinali[17].

Secondo la ricostruzione storiografica maggioritaria, il cardinalato è un’istituzione ecclesiastica che avrebbe conosciuto un graduale processo di formazione e di consolidamento a partire dal medioevo[18], nonostante persistano ancora oggi incertezze in merito alle fasi che ne hanno scandito la parabola evolutiva[19]. In particolare suole ritenersi che gli ordini del coetus cardinalizio discendano da tre distinte figure di ‘ausiliari’ del Vescovo di Roma, i quali lo aiutavano nella trattazione delle questioni di governo e nelle celebrazioni liturgiche specialmente quando si affermò in Occidente il primato pontificio. In primo luogo vi era il presbyterium, che riuniva i sacerdoti incardinati nelle chiese più importanti di Roma – denominate tituli –, dai quali deriverebbe l’ordine dei Cardinali presbiteri. L’ordine dei Cardinali diaconi, invece, trarrebbe le sue origini sia dal gruppo dei diaconi regionari, ai quali era affidata per la gestione delle opere di carità la direzione delle regioni, circoscrizioni amministrative con le quali era suddiviso il territorio della città di Roma; sia dal gruppo dei diaconi palatini, che prestavano servizio liturgico presso la corte pontificia. Infine, alcuni Vescovi preposti alle diocesi più vicine a quella di Roma figuravano tra i consultori principali del Pontefice, risultando integrati nel clero romano tramite incardinazione nella cattedrale papale, tanto da prestare un regolare servizio liturgico ebdomadario. Tali Vescovi, che rappresentarono il primigenio ordine episcopale dei Cardinali, reggevano le rispettive diocesi dette suburbicarie: sebbene vi siano stati in passato molteplici interventi di accorpamento e di scorporamento[20], attualmente il loro numero è di sette e corrispondono alle sedi episcopali di Albano, Frascati, Ostia, Palestrina, Porto-Santa Rufina, Sabina-Poggio Mirteto e Velletri-Segni[21]. Inizialmente dunque la distinzione tra gli ordini cardinalizi ebbe una duplice valenza, non soltanto ‘sacramentale’, relativamente cioè all’ordine ricevuto, ma altresì funzionale[22], anche se nel secondo millennio prevalse l’apporto consultivo al papato dato dai Cardinali, al punto da allentare significativamente il vincolo che li univa alle diocesi suburbicarie, ai titoli e alle diaconie cardinalizie: dall’XI secolo, infatti, i Cardinali contribuirono precipuamente in forma collegiale al regimen Ecclesiae sia nel concistoro per coadiuvare il Pontefice regnante, sia durante la vacanza della Sede Apostolica per provvedere all’elezione del nuovo Papa, mentre ad alcuni Vescovi ed ecclesiastici fu conferita la dignità cardinalizia ancorché risiedessero fuori Roma[23].

Quanto al numero dei componenti, nel Codice del 1917 fu recepita la costituzione Postquam del 3 dicembre 1586 di Papa Sisto V[24], ispirata ad un passo veterotestamentario[25]. Il Collegio dei Cardinali pertanto doveva comporsi di settanta porporati, così distribuiti: sei Cardinali Vescovi posti a capo delle sedi episcopali suburbicarie; cinquanta Cardinali presbiteri e quattordici Cardinali diaconi, ai quali il Papa assegnava rispettivamente un titolo e una diaconia nell’Urbe (can. 231, §§ 1 e 2). Il Codice prevedeva ulteriori disposizioni tanto sulla struttura interna del Collegio quanto sui diritti e le prerogative dei singoli porporati, differenziati tuttavia a seconda dell’ordine cui erano stati ascritti. Così, a favore dei Cardinali degli ordini presbiterale e diaconale il legislatore riconosceva la facoltà, esercitabile mediante opzione in concistoro approvata dal Romano Pontefice, di transitare o da un titolo ad un altro dell’ordine presbiterale o da una diaconia ad un’altra dell’ordine diaconale o, infine, di passare dall’ordine dei diaconi a quello dei presbiteri laddove un Cardinale risultasse ininterrottamente aggregato per dieci anni all’ordine dei diaconi (can. 236, § 1)[26]. I Cardinali presbiteri, inoltre, in considerazione della priorità di promozione al cardinalato potevano optare per una sede suburbicaria divenuta vacante, se presenti in Curia o temporaneamente assenti per il disbrigo di un affare loro affidato dal Romano Pontefice, facendo ingresso perciò nell’ordine dei Cardinali Vescovi (can. 236, § 3). Per questi ultimi, invece, era proibito optare per una diversa sede suburbicaria, mentre colui che ricopriva l’ufficio di Decano del Sacro Collegio cumulava la titolarità della sua diocesi con quella di Ostia (can. 236, § 4)[27]. Secondo quanto previsto dal can. 237, il Decano presiedeva il Collegio cardinalizio, figurando però solo quale primus inter pares nei confronti degli altri Cardinali, sui quali non esercitava giurisdizione alcuna. Egli corrispondeva ipso iure al Cardinale Vescovo promosso per primo a una sede suburbicaria (§ 1); a lui succedeva, sempre per il diritto stesso e sulla base dello stesso criterio di promozione,il Sottodecano (§ 2). Nel sistema anteriore, dunque, la scelta di una parte dei membri degli ordini dei presbiteri e dei Vescovi era sottratta alla decisione discrezionale del papa; e le modalità con le quali si procedeva alla provvista dell’ufficio di Decano e al transito all’ordine episcopale, incentrate sul criterio dell’anzianità di promozione, faceva sì che l’età media dei Cardinali Vescovi fosse piuttosto elevata. Ciascuno di essi peraltro esercitava la stessa potestà con la quale i Vescovi residenziali governavano le rispettive diocesi (can. 240, § 1), mentre nei titoli e nelle diaconie ai Cardinali dell’ordine presbiterale e diaconale spettava tutto ciò che competeva all’Ordinario del luogo nella sua chiesa, «exceptis ordine iudiciorum et qualibet iurisdictione in fideles, sed salva potestate in iis quae ad disciplinam, morum correctionem, servitium ecclesiae pertinent» (can. 240, § 2).

Dalla lettura del can. 239, infine, poteva evincersi un tratto qualificante la dimensione funzionale del Sacro Collegio, nel senso che l’appartenenza ad un ordine cardinalizio piuttosto che ad un altro rilevava specialmente nel corso del processo elettorale che, una volta concluso, poneva fine al periodo transitorio di vacanza dell’ufficio petrino: se il Cardinale Decano o, in caso di sua assenza, il Sottodecano o il Cardinale Vescovo più anziano godeva del privilegio di ordinare e consacrare il neoeletto «si hic ordinatione vel episcopali consecratione indigeat» (§ 2), il Cardinale Protodiacono, vale a dire il più anziano per promozione al cardinalato dell’ordine diaconale[28], aveva il compito di annunciare al popolo il suo nome (§ 3).

Nella seconda metà del XX secolo i Sommi Pontefici Giovanni XXIII e Paolo VI apportarono importanti innovazioni alla conformazione strutturale del Collegio perché rispondesse più adeguatamente alle necessità dei tempi. Segnatamente i provvedimenti assunti potrebbero ricondursi a tre macrocategorie che riflettono un elemento causale comune posto alla loro base.

In una prima categoria vi sono gli interventi che ‘internazionalizzarono’ il Collegio dei Cardinali affinché esprimesse in modo più confacente la nota di universalità della Chiesa: radunando porporati provenienti da ogni continente in un’epoca contrassegnata dall’espansione del cattolicesimo e dall’incremento della popolazione mondiale[29]. In tale prospettiva può comprendersi il superamento di cinque unità del limite sistino di settanta Cardinali (can. 231, § 1 CIC17), disposto da Giovanni XXIII nel concistoro segreto del 15 dicembre 1958[30], con conseguente attribuzione di ulteriori titoli e diaconie cardinalizie[31]; così come, analogamente, il ‘posto singolare’ riservato nel Collegio cardinalizio ai Patriarchi orientali, alcuni dei quali a tutt’oggi sono integrati nell’ordine episcopale pur conservando il titolo della loro sede patriarcale. Essi pertanto non sono insigniti del titolo di una diocesi suburbicaria e non fanno parte del clero dell’Urbe (motu proprio Ad purpuratorum Patrum Collegium dell’11 febbraio 1965, nn. I-II)[32], assumendo una posizione che, esprimendo l’unione del tutto originale tra i Patriarchi e la Chiesa di Roma all’insegna della sollicitudo omnium Ecclesiarum del suo Vescovo, mira ad evitare che si congiunga «la dignità patriarcale con l’origine storica del cardinalato»[33]. La vocazione universale ‘effettiva’ del coetus di Cardinali fu ulteriormente corroborata allorquando Paolo VI nel concistoro segreto del 5 marzo 1973 stabilì che non più di centoventi Cardinali (infraottantenni) avrebbero provveduto all’elezione del successore di Pietro[34], incrementando di cinquanta unità il numero di elettori rispetto al limite massimo previsto dal Codex del 1917: una norma, questa, poi riprodotta nel n. 33 della costituzione apostolica Romano Pontifici eligendo sulla vacanza della Sede Apostolica e l’elezione del Romano Pontefice del 1° ottobre 1975[35].

Entro un secondo raggruppamento di atti normativi si possono riunire quelle disposizioni che accentuarono l’indole strumentale del Collegio e, in particolare, la centralità del servizio prestato dai singoli Cardinali a supporto del governo della Chiesa universale, distogliendoli dalla cura pastorale delle sedi suburbicarie, dei titoli e delle diaconie cardinalizie, tanto che il legame che li univa ad essi divenne sostanzialmente simbolico. Giovanni XXIII con il motu proprio Suburbicariis sedibus dell’11 aprile 1962 rifondò il sistema di governo delle diocesi suburbicarie definito dal can. 240, § 1 CIC17 al fine di liberare i Cardinali Vescovi residenti in Curia dagli incarichi che avrebbero potuto ostacolare, se non impedire la trattazione degli affari della Santa Sede (anche se fino ad allora erano assistiti da Vescovi ausiliari)[36]. Si decise allora che i Cardinali promossi a una sede suburbicaria avrebbero ottenuto soltanto il nome o il titolo di essa, esclusa qualsiasi potestà di giurisdizione sulla diocesi (n. I), esercitata da un altro Vescovo appositamente nominato (n. V)[37] – ancora oggi rappresenta tuttavia un’eccezione la diocesi di Ostia, affidata alla cura del Cardinale Vicario per la diocesi di Roma[38] in qualità di amministratore apostolico[39] –. Allo stesso modo Paolo VI abrogò il § 2 del can. 240 CIC17, prevedendo che i Cardinali presbiteri e diaconi si limitassero a promuovere con il loro consiglio e la loro protezione il bene delle chiese di cui avevano ricevuto il titolo o la diaconia, sulle quali tuttavia non esercitavano più alcuna giurisdizione, non potendo ingerirsi nelle questioni riguardanti l’amministrazione, la disciplina, la moralità e il servizio della chiesa (motu proprio Ad hoc usque tempus del 15 aprile 1969, n. I)[40]. Oltre ad assicurare la piena disponibilità dei porporati, Papa Montini volle ulteriormente preservare la loro attitudine a svolgere uffici ecclesiali di importanza cruciale, che poteva diminuire o venire meno con l’avanzare dell’età. Per tale ragione furono promulgati il motu proprio Ecclesiae sanctae (6 agosto 1966)[41] ed il motu proprio Ingravescentem aetatem (21 novembre 1970)[42], le cui ripercussioni sulla condizione giuridica dei Cardinali furono incisive. In essi, infatti, si pregavano rispettivamente i Vescovi diocesani e i soggetti loro equiparati (inclusi quelli elevati alla dignità cardinalizia: I, n. 11), da una parte, nonché i Cardinali preposti ai Dicasteri della Curia romana e ad altri organismi permanenti della Santa Sede e della Città del Vaticano (n. I), dall’altra, di presentare o spontaneamente non più tardi dei settantacinque anni compiuti o al compimento del settantacinquesimo anno di età la rinuncia al loro ufficio al Pontefice: il quale, una volta accettata, avrebbe azionato un meccanismo di ricambio dei vertici delle istituzioni ecclesiastiche apicali. Il motu proprio del 1970 inoltre dispiegò i suoi effetti anche con riferimento all’elezione papale, privando del diritto di eleggere il Romano Pontefice i Cardinali ottuagenari (n. II.2) – non escluso quindi il Decano, sostituito dal Sottodecano o da un altro Cardinale secondo l’ordine generale delle precedenze (n. VII) –, che avrebbero potuto partecipare soltanto alle Congregazioni generali e particolari precedenti il conclave (n. V).

Una disposizione, quella volta a delimitare il diritto di elettorato attivo, pure essa contemplata nel n. 33 della costituzione apostolica Romano Pontifici eligendo e che non restò immune da rilievi critici. Vi fu, infatti, chi la contestò perché contraria alla tradizione canonica e verosimilmente finalizzata a marginalizzare i porporati ostili alla stagione riformatrice del Concilio Vaticano II[43]; e chi ne rilevò la contraddittorietà, avendo privato i Cardinali solo della voce attiva ma non anche di quella passiva[44]. Comunque sia, la norma varata da Paolo VI determinò una ‘scissione’ nel distinguere il Collegio cardinalizio qua talis, cui si è assunti a vita, dal coetus di elettori composto dai Cardinali non ancora ottantenni[45]: un coetus,tuttavia, il cui numero era destinato a scendere ripetutamente ratione aetatis al di sotto della soglia massima di centoventi unità, delineando così un sistema che indusse, ieri come oggi, il Pontefice a disporre la convocazione a cadenza fissa di concistori per la creazione di nuovi Cardinali[46]. Tutto ciò, al di là del cospicuo ampliamento del numero di Cardinali e, conseguentemente, dei titoli e delle diaconie dell’Urbe[47], pone tuttora la suprema autorità della Chiesa nelle condizioni di mutare in breve tempo la ‘fisionomia’ del Collegio cardinalizio, nel quale i porporati elettori da lui stesso nominati possono dare luogo ad una maggioranza soverchiante rispetto all’insieme di quelli designati dai Pontefici precedenti[48].

Infine vi è una terza categoria nella quale è possibile raggruppare ulteriori motu proprio che hanno riformato il coetus cardinalizio mediante la valorizzazione, emergente soprattutto a seguito della vacanza dell’ufficio primaziale per morte o per rinuncia, della distinzione funzionale sussistente tra gli ordini dei porporati. Anzitutto, con il motu proprio Cum gravissima (15 aprile 1962), Giovanni XXIII provvide a uniformare sul piano sacramentale il Collegio nel disporre che ogni Cardinale fosse elevato alla dignità episcopale alla luce della rilevanza ecclesiale e delle specificità del cardinalato, che non ammettavano più differenziazioni basate sul grado dell’ordine ricevuto[49]. La norma era rivolta in particolare all’ordine dei Cardinali diaconi, che sino ad allora riuniva presbiteri ai quali non era conferita la consacrazione episcopale[50]. Il provvedimento, se anticipò in certa misura la dottrina conciliare sulla collegialità episcopale della costituzione dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa (21 novembre 1964) – peculiarmente concretatasi nell’ambito di un coetus di soli Vescovi[51] –, non sancì tuttavia il superamento della struttura consolidata del Sacro Collegio, tanto che Giovanni XXIII si premurò di precisare che, in esso, «[…] tripertitus Cardinalium Episcoporum, Presbyterorum ac Diaconorum ordo firmus stabilisque manet, quorum unusquisque iura facultatesque ad translaticias consuetudines, ad S. Liturgiam et ad alia munera spectantia, integra servat […]». Oltre alla necessità di salvaguardare tali diritti e facoltà[52], vi era altresì un fondamento ‘giurisdizionale’ della triplice ramificazione del Collegio che poteva rinvenirsi nel tipo di incarico specificatamente affidato ai singoli porporati: in effetti, mentre i Cardinali Vescovi e buona parte dei Cardinali diaconi figurano tuttora tra i più stretti collaboratori del papa nel governo della Chiesa universale, i Cardinali che compongono l’ordine più consistente, vale a dire quello presbiterale, sono solitamente preposti alle rispettive Chiese particolari[53].

Assecondando la prospettiva ermeneutica dischiusa dal motu proprio Cum gravissima possono valutarsi pure le leggi pontificie che rafforzarono la valenza funzionale dell’ordine dei Cardinali Vescovi, revocando la normativa previgente incentrata sul criterio dell’anzianità di promozione o di appartenenza a un dato ordine cardinalizio. Giovanni XXIII, preso atto dell’aumento demografico che rendeva maggiormente gravoso l’esercizio del ministero pastorale di governo delle diocesi suburbicarie, dispose l’abrogazione dello ius optionis di cui al can. 236, § 3 CIC17, riservando unicamente al Pontefice il diritto di scegliere i membri dell’ordine episcopale del Sacro Collegio (motu proprio Ad Suburbicarias Dioeceses del 10 marzo 1961)[54]: fu così evitato che potessero fare ingresso nell’ordine dei Vescovi mediante opzione i Cardinali presbiteri più anziani per promozione al cardinalato. Paolo VI, in aggiunta, abrogò i §§ 1 e 2 del can. 237 CIC17, per fare sì che gli uffici di Decano e di Sottodecano del Collegio cardinalizio non fossero più affidati ipso iure al Cardinale Vescovo che risultava in ordine cronologico il primo assegnatario di una sede suburbicaria. Fu perciò prevista la provvisione di tali incarichi mediante elezione, cui potevano partecipare solo i Cardinali Vescovi delle diocesi suburbicarie o insigniti del titolo delle medesime, e non anche i Patriarchi assunti nel Sacro Collegio (motu proprio Sacro Cardinalium Consilio del 26 febbraio 1965, nn. II e III)[55].

Queste misure, se lette congiuntamente, rivelano come il superamento di ogni sorta di automatismo selettivo assicurasse l’ingresso nell’ordine episcopale e dunque la potenziale eleggibilità di persone idonee ad assolvere efficacemente alle funzioni decanali e subdecanali, il cui espletamento poteva risultare difficoltoso a motivo dell’età avanzata[56]. Eppure, il successivo motu proprio Ingravescentem aetatem di Paolo VI del 1970 diede vita ad un’incongruenza normativa mai sanata, per la quale gli uffici di Decano e di Sottodecano e, parimenti, la titolarità delle diocesi suburbicarie erano attribuite a tempo indeterminato, con la conseguenza che una volta raggiunto l’ottantesimo genetliaco i Cardinali Vescovi non potevano più partecipare al conclave: risultando così impossibilitati ad assumere quel ruolo direttivo o taluni diritti spettanti anzitutto a loro in forza della legislazione speciale sull’elezione del Romano Pontefice[57]. Un’ipotesi, questa, che laddove coinvolga tutti i porporati de quibus determinerebbe l’estromissione di gran parte, se non di tutto l’ordine episcopale dalla procedura elettorale. E l’esigenza di ovviare ad un’evenienza che potrebbe verificarsi ancora ai nostri giorni sembra giustificare – come si tenterà di dimostrare – le ragioni poste alla base della cooptazione nell’ordine episcopale del Collegio cardinalizio di quattro porporati disposta dal rescritto di Francesco.

 

2.2. La progettata soppressione dei tre ordini cardinalizi (e la risoluzione pontificia contraria) nella fase di revisione del Codice piano-benedettino

 

Contrariamente alla voluntas legislatoris espressa e alla ratio sottesa ai motu proprio preconciliari e postconciliari testé illustrati, la Pontificia Commissione per la revisione del Codice di Diritto Canonico prospettò a più riprese soluzioni innovative tali da rivoluzionare l’assetto tradizionale del Collegio cardinalizio.

Già in occasione della prima ricognizione dei canoni del Codex del 1917 sui Cardinali di Santa Romana Chiesa svolta nel febbraio 1974, il coetus studii «De Sacra Hierarchia» ne pose in discussione l’assetto tripartito (can. 231, § 1 CIC17), adducendo motivazioni anche di natura teologica[58], evidentemente rintracciabili nella parificazione sul piano sacramentale dei Cardinali, che a partire dal motu proprio Cum gravissima di Giovanni XXIII ricevevano indistintamente la consacrazione episcopale: sebbene lo stesso motu proprio avesse ribadito esplicitamente la preservazione degli ordines di porporati. Il testo delle norme approntate dai consultori tuttavia non intaccava le prerogative dei Cardinali titolari di una diocesi suburbicaria stabilite dalla normativa all’epoca vigente: infatti, soltanto questi ultimi erano chiamati ad eleggere il Decano e il Sottodecano (can. 5, §§ 1 e 2)[59]; inoltre, unicamente al Decano – o, se assente o impedito, al Sottodecano o al Cardinale Vescovo più anziano per assegnazione del titolo di una diocesi suburbicaria – competeva ordinare e consacrare il Pontefice eletto qualora fosse stato necessario (can. 7, § 4)[60].

Il coetus revisore dunque propose subito nella stessa sessione di lavoro di emendare e di integrare i canoni già approvati, prospettando una riforma del Collegio cardinalizio decisamente radicale. Così, in merito alla provvisione canonica degli uffici di Decano e di Sottodecano si stabilì che fosse riservata a tutti i Cardinali aventi il diritto di prendere parte al conclave, i quali potevano scegliere tra di loro soltanto uno dei Cardinali domiciliati nell’Urbe (can. 6, §§ 2 e 3)[61]. Si propose in seguito con esito positivo di estendere a tutti i Cardinali elettori il diritto di voce passiva «ad roborandum quoque vigorem et praestantiam Collegii»[62]: un diritto, pertanto, riconosciuto pure a chi, per esempio, fosse stato Vescovo diocesano preposto alla rispettiva circoscrizione ecclesiastica, che se eletto avrebbe acquisito il domicilio nell’Urbe[63]. Al Decano o al Sottodecano o, in caso di impedimento, al Cardinale più anziano per promozione al cardinalato e con diritto di voce attiva in conclave spettava sia l’ordinazione e la consacrazione del Papa neoletto sia l’annuncio del suo nome (can. 8)[64], funzione quest’ultima tradizionalmente espletata dal Cardinale Protodiacono. Ma in questa fase ciò che rileva soprattutto è l’intenzione dei redattori di assicurare la coerenza della lex Ecclesiae, armonizzando la norma del motu proprio Ingravescentem aetatem che privava i Cardinali ottuagenari del diritto di partecipare all’elezione del successore di Pietro – recepita nel can. 7, § 1, n. 1[65] – con il conferimento a vita degli uffici decanale e subdecanale, prevedendone la cessazione della titolarità al compimento dell’ottantesimo anno di età (art. 6, § 4)[66] «quia congruum non videtur ut sint Decanus vel Subdecanus Cardinales qui iure electionis careant»[67]: a riprova della necessità di non vanificare mediante l’estromissione di questi ultimi dall’iter elettorale l’utilità funzionale dei rispettivi incarichi, il cui conferimento rifletteva la volontà collegialmente espressa di una parte considerevole del coetus cardinalizio.

Nella successiva sessione di lavoro del dicembre 1974 furono introdotte correzioni marginali alle disposizioni precedentemente ratificate con il consenso unanime o maggioritario del coetus studii (cfr. cann. 6, 8 e 9)[68]. Ma, sorprendentemente, la versione di tali disposizioni non coincideva con quella dei canoni inclusi nello Schema canonum Libri II De Populo Dei del 1977, essendo sopravvenute delle modifiche penetranti al progetto legislativo presumibilmente operate o quantomeno autorizzate in prima persona da Paolo VI. Come riporta la praefatio al Codice di Diritto Canonico del 1983, infatti, tra il 1972 ed il 1977 gli schemata predisposti dai singoli gruppi di esperti – tra i quali vi era quello sul Popolo di Dio – furono previamente inviati al Pontefice, che stabiliva se potessero sottoporsi oppure no all’attenzione dell’episcopato e di taluni organismi di consultazione, invitati ad esprimere un parere in merito ai loro contenuti[69]. Tali modifiche finirono col ripristinare parte della disciplina del Codex del 1917 sulla falsariga dei motu proprio di Giovanni XXIII e di Paolo VI, i quali riformarono la struttura del Collegio cardinalizio. Così nello schema ricomparvero la triplice distinzione in ordini del Sacro Collegio (can. 165, § 1), lo ius optionis di cui potevano usufruire i Cardinali presbiteri e diaconi (can. 165, § 4), la riserva a favore dei soli Cardinali ai quali fosse stato assegnato il titolo di una diocesi suburbicaria del diritto di eleggere il Decano ed il Sottodecano (can. 167, §§ 2 e 3) e, infine, il privilegio accordato a questi ultimi o, laddove impediti, al Cardinale Vescovo più anziano per promozione di ordinare il Pontefice eletto, mentre al Cardinale Protodiacono fu nuovamente affidato il compito di annunciarne pubblicamente il nome (can. 170, §§ 1 e 2)[70]. Inoltre fu espunta la norma sulla perdita per raggiunti limiti di età degli uffici di Decano e di Sottodecano, che perciò tornarono ad essere conferiti ai loro titolari per un arco temporale illimitato.

Nonostante la ‘restaurazione’ del regime giuridico allora vigente, al momento di esaminare, nel gennaio 1980, le osservazioni allo Schema del 1977 inoltrate dagli organi consultivi coinvolti nell’iter nomogenetico, il coetus studiorum «De Populo Dei» rilevò come fossero in molti ad auspicare l’abolizione della triplice divisione del Collegio cardinalizio, ritenuta «superata» e fondata soltanto su ragioni di carattere storico[71]. Si decise pertanto di fare presente al Romano Pontefice «che il […] Gruppo di studio, tenendo anche conto delle osservazioni giunte, preferisce la soppressione dei tre Ordini»[72].

I canoni de quibus, sostanzialmente immutati, furono poi inseriti nello Schema codiciale del 1980 (cann. 285-296)[73] e quindi discussi nel corso della sessione plenaria della Pontificia Commissione riformatrice, riunitasi dal 20 al 28 ottobre 1981. Anche in quella sede non mancò chi sollecitava l’eliminazione della distinzione in tre ordini del Collegio cardinalizio: o, come sosteneva il Cardinale Philippe, «quia hodie non amplius congruit, cum realitate Ecclesiae et ipsius Collegii»; o, come lamentava il Cardinale Willebrands, perché la norma appariva «contra principium reformationis liturgiae, nempe “veritas rei”». Le istanze tuttavia non trovarono accoglimento: Giovanni Paolo II, nell’udienza concessa al Presidente della Commissione il 28 marzo 1981 manifestò la volontà di preservare l’impianto storicamente consolidato del Collegio[74]. In aggiunta il Pontefice espresse l’intenzione di includere le norme del motu proprio Ingravescentem aetatem nel nuovo Codice, senza apportare innovazione alcuna. Fu così respinta la proposta del Cardinale Wyszyński di introdurre un’eccezione secondo la quale il Cardinale Decano, anche se ottuagenario, non sarebbe stato privato del diritto di elettorato attivo durante la vacanza della Sede Apostolica. Una norma di carattere eccezionale motivata nei seguenti termini: «Incongruum enim videtur hoc factum: octogenarius Decanus Collegii praeest Congregationibus Cardinalium; Sede vacante, tamen exclusus est a Conclave»[75]. Ancora una volta, dunque, fu rilevata una contraddizione insita nel sistema normativo, che poteva vanificare la consistenza funzionale della figura del Decano del Collegio cardinalizio, riducibile ad una carica meramente onorifica. Al termine dei lavori della Congregatio plenaria, i canoni sul Collegio dei Cardinali di Santa Romana Chiesa, confluiti nello Schema novissimum presentato il 22 aprile 1982 al Romano Pontefice per un esame finale (cann. 347-358), non subirono pertanto rilevanti mutamenti[76].

 

2.3. La portata essenzialmente ricognitiva dei canoni sui Cardinali di Santa Romana Chiesa nel Codex Iuris Canonici del 1983

 

L’esito cui è giunta l’opera di redazione del Codice giovanneo-paolino promulgato nel 1983 evidenzia come il diritto universale della Chiesa oggi vigente (cann. 349-359) abbia sostanzialmente riprodotto la normativa codiciale anteriore, pur se adattata alle novità introdotte nel corso degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso da Giovanni XXIII e da Paolo VI[77].

Richiamando le disposizioni che rilevano ai fini della nostra indagine, il Collegio cardinalizio, cui spetta eleggere il Romano Pontefice (can. 349), è distinto in tre ordini (can. 350, § 1); e quello episcopale, in particolare, comprende anche i Patriarchi orientali ivi assunti, i quali tuttavia mantengono il titolo della loro sede patriarcale (§ 3): si riprende dunque quanto disposto dal motu proprio Ad purpuratorum Patrum Collegium dell’11 febbraio 1965. Quanto al diritto di opzione dei Cardinali presbiteri e diaconi, il Codice si limita a reiterare quanto statuiva il can. 236, §§ 1 e 2 CIC17, riconfermando implicitamente al tempo stesso il motu proprio Ad Suburbicarias Dioeceses che aveva abrogato il diritto dei Cardinali presbiteri più anziani per promozione di transitare all’ordine episcopale (can. 236, § 3 CIC17). I christifideles almeno costituiti nell’ordine del presbiterato che sono elevati alla dignità cardinalizia, conformemente a quanto prescritto da Giovanni XXIII con il motu proprio Cum gravissima, devono ricevere la consacrazione episcopale (can. 351, § 1) – eccettuata l’ipotesi in cui l’autorità competente conceda la dispensa per un caso particolare, come peraltro accaduto[78] –. Ad ogni Cardinale è assegnato il titolo di una sede suburbicaria ovvero un titolo o una diaconia nell’Urbe, su cui però non ha alcuna potestà di governo (can. 357, § 1): una disposizione, questa, in origine prevista dai motu proprio Suburbicariis sedibus e Ad hoc usque tempus.

Dalla lettura del can. 352 è possibile ricavare in quale misura – invero assai limitata – rileva sede plena la distinzione in tre ordini del Collegio cardinalizio. Così, relativamente ai Cardinali dell’ordine episcopale, una volta ribadito che al Decano o, se impedito, al Sottodecano compete la presidenza del Collegio quale primus inter pares (§ 1)[79], il Codice recepisce le norme del motu proprio Sacro Cardinalium Consilio circa la provvisione mediante electio degli uffici decanale e subdecanale, riservata ai soli Cardinali Vescovi titolari di una diocesi suburbicaria (rimangono quindi esclusi dal voto i Cardinali Patriarchi orientali) e perfezionata con l’approvazione pontificia dell’eletto (§§ 2 e 3)[80]. Un ulteriore elemento differenziatore esistente tra gli ordines emerge ancora una volta in relazione alla sopravvenuta assenza del titolare dell’ufficio primaziale per morte o per rinuncia: non dissimilmente da quanto prevedeva il can. 239, §§ 2 e 3 CIC17, il Cardinale Decano o, se impedito, il Sottodecano o il Cardinale più anziano nell’ordine episcopale ha il compito di ordinare il Pontefice eletto, qualora non fosse stato ordinato (can. 355, § 1), mentre il Cardinale Protodiacono annuncia al popolo il suo nome (§ 2). La ripartizione in tre ordini del Collegio cardinalizio dunque non sembra essere, com’è stato scritto, «ridotta a una mera formalità ma conserva ancora una certa rilevanza istituzionale»[81], nonostante vi sia chi sottolinei l’attenuazione delle peculiarità funzionali esistenti tra gli ordini stessi[82], al punto da scorgere una valenza piuttosto delimitata di natura storica[83], formale[84], simbolica e onorifica[85] o nominale[86] di un simile assetto tripartito, alla luce anche dell’eguaglianza sacramentale dei suoi membri e della possibilità che, a prescindere dall’ordine cui si è legati, i Cardinali possano indistintamente prendere parte all’elezione del Vescovo di Roma. Per quanto concerne infine le norme del motu proprio Ingravescentem aetatem, il can. 354 riporta solamente l’invito ai Cardinali preposti ai dicasteri e agli altri organismi permanenti della Curia romana e della Città del Vaticano di presentare la rinuncia all’ufficio di cui sono titolari al Sommo Pontefice una volta compiuti i settantacinque anni di età[87].

 

3. Le ragioni poste alla base del rescriptum di Francesco

 

Nell’incipit del rescriptum ex audientia del 26 giugno 2018 sono illustrate le motivazioni che hanno sospinto Francesco a cooptare mediante aequiparatio quattro porporati nell’ordine episcopale del Collegio cardinalizio. Il provvedimento attesta come la risoluzione pontificia sia stata determinata dalla «necessità di allargare l’attuale composizione dell’Ordine dei Vescovi», in quanto il «numero» di coloro che ne fanno parte «è rimasto costante e invariato nel tempo».

Il proemio dunque menziona un duplice elemento, l’uno di natura oggettiva, l’altro di natura soggettiva, nel prendere atto della costanza e dell’invarianza del numero di Cardinali Vescovi: da un lato, infatti, il rescritto pare richiamare l’esperienza giuridica consolidata della Chiesa, che tradizionalmente vede affidare a sei Cardinali Vescovi la titolarità delle sette diocesi suburbicarie – queste ultime, si ripeta, non sono sette, perché il Decano del Collegio cardinalizio cumula il titolo della diocesi di Ostia unitamente a quello della diocesi suburbicaria che già possedeva in precedenza (can. 350, § 4) –; dall’altro, invece, vi sarebbe un riferimento implicito ai sei ecclesiastici titolari delle sedi suburbicarie, come se si intendesse veicolare il messaggio che allo stato attuale è assai difficile procedere ad un ricambio interno all’ordine dei Cardinali Vescovi, tanto da avere indotto Papa Bergoglio a impiegare la figura giuridicamente fittizia del ‘Cardinale assimilato’.

Ma quali sono i motivi sottesi all’integrazione ‘forzata’ della schiera dei Cardinali Vescovi? Per rispondere a tale interrogativo appare utile procedere ad una ricostruzione in chiave sistematica della ratio legis, percorrendo un tragitto ermeneutico nel quale il contenuto dispositivo del rescritto deve necessariamente ricollegarsi alla lex peculiaris (can. 359) che regola la vacanza della Sede Apostolica e l’elezione del Romano Pontefice: la costituzione apostolica Universi Dominici Gregis di Giovanni Paolo II del 22 febbraio 1996 (in seguito: UDG)[88], in parte modificata da Benedetto XVI con il motu proprio Constitutione apostolica dell’11 giugno 2007[89] ed il motu proprio Normas nonnullas del 22 febbraio 2013[90]. Oltre alla legislazione speciale sul conclave, occorre tenere presente l’Ordo Rituum Conclavis (in seguito: ORC), approvato nell’udienza concessa da Papa Wojtyla al Maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie il 5 febbraio 1998[91]. Trattasi di fonti normative sulla cui applicazione eserciterebbe un condizionamento indiretto il rescritto del 2018, che si constaterà come abbia in certa misura riscoperto l’utilità, per così dire, ‘operativa’ dell’ordine dei Cardinali Vescovi.

 

3.1. La rilevanza funzionale degli ordini cardinalizi durante la vacanza della Sede Apostolica. L’applicabilità della costituzione apostolica Universi Dominici Gregis

 

Come noto, Giovanni Paolo II con la costituzione apostolica Universi Dominici Gregis ha riproposto i tratti salienti del sistema elettorale prefigurato da Paolo VI, privando indistintamente i Cardinali della voce attiva nel caso in cui, prima del giorno della morte del Sommo Pontefice o nel giorno in cui la Sede Apostolica resti vacante, abbiano già compiuto ottant’anni, in modo da precludere il loro coinvolgimento diretto nella procedura finalizzata alla provvista dell’ufficio petrino; e riconfermando il numero massimo di centoventi Cardinali elettori (n. 33). Nel proemio della costituzione il Pontefice giustificava le ragioni sottese alla riproposizione dei due aspetti forse maggiormente innovativi che hanno contraddistinto la normativa precedente sul conclave: l’esclusione dei Cardinali ottuagenari intende esonerare i porporati più anziani di età dalla grave responsabilità di designare colui che dovrà condurre adeguatamente il popolo di Dio secondo le necessità dei tempi presenti; la predeterminazione di un limite massimo di partecipanti all’elezione – ben più elevato in raffronto al numero fisso di settanta Cardinali prescritto nel XVI secolo da Sisto V – mira invece ad esprimere l’universalità della Chiesa, che si riflette in un gruppo di ‘grandi elettori’ composto da persone di provenienza geografica e culturale eterogenea[92].

Com’è già stato riscontrato in precedenza[93], le disposizioni introdotte da Paolo VI hanno determinato l’insediamento di una prassi di governo volta ad integrare periodicamente il Collegio dei Cardinali, per fare sì che il corpo elettorale non scenda al di sotto delle centoventi unità al punto da compromettere il tasso di rappresentatività ecclesiale. Una prassi dunque implicante la convocazione periodica di concistori ordinari pubblici per la creazione di nuovi Cardinali (non ottantenni) e la crescita, oramai esponenziale, dei titoli e delle diaconie cardinalizie loro assegnati, che incardinano nuovi porporati nella diocesi di Roma[94].

Invero, l’ampliamento necessitato del Collegio cardinalizio non ha intaccato l’ordine episcopale, che per ragioni storiche presenta una composizione statica, annoverando i sei Cardinali ai quali è attribuito il titolo delle sette chiese suburbicarie. L’esiguità dei Cardinali Vescovi, come può facilmente intuirsi anche alla luce dell’aumento delle aspettative medie di vita, può rendere meno frequente l’avvicendamento nella titolarità delle diocesi vicine a quella romana a favore di porporati più giovani, prospettando un’evenienza che ben potrebbe materializzarsi: vale a dire che buona parte, se non persino tutti i Cardinali Vescovi raggiungano la soglia anagrafica degli ottant’anni, risultando perciò estromessi dall’elezione papale.

Questa è la situazione attuale nella quale versa l’ordine episcopale del Collegio cardinalizio. Come testimonia l’Annuario pontificio per l’anno 2018, infatti, esso al 31 dicembre 2017 consta, su un totale di nove membri, di otto Cardinali ottuagenari. Da un lato, vi è l’insieme di quelli ‘romani’, all’interno del quale al Decano seguono, per ordine di precedenza definito sulla base del criterio di anzianità di attribuzione del titolo delle chiese suburbicarie, altri cinque Cardinali Vescovi; e ciascuno di essi ha raggiunto gli ottant’anni di età: Angelo Sodano, classe 1927, titolare sia della chiesa suburbicaria di Albano dal 10 gennaio 1994 sia, in quanto Decano, della diocesi di Ostia dal 30 aprile 2005; Roger Etchegaray, classe 1922, titolare della chiesa suburbicaria di Porto-Santa Rufina dal 24 giugno 1998; Giovanni Battista Re, classe 1934, Sottodecano del Collegio cardinalizio e titolare della chiesa suburbicaria di Sabina-Poggio Mirteto dal 1° ottobre 2002; Francis Arinze, classe 1932, titolare della chiesa suburbicaria di Velletri-Segni dal 25 aprile 2005; Tarcisio Bertone, classe 1934, titolare della chiesa suburbicaria di Frascati dal 10 maggio 2008; e, infine, José Saraiva Martins, classe 1932, titolare della chiesa suburbicaria di Palestrina dal 24 febbraio 2009[95]. Dall’altro, vi sono i Cardinali Patriarchi di rito orientale, che nell’ordine dei Vescovi occupano i posti successivi e sono posizionati in ragione dell’anzianità di elevazione alla dignità cardinalizia[96]: Nasrallah Pierr Sfeir, classe 1920, Patriarca emerito di Antiochia dei maroniti, creato Cardinale nel concistoro del 26 novembre 1994; Antonios Naguib, classe 1935, Patriarca emerito di Alessandria dei copti, creato Cardinale nel concistoro del 20 novembre 2010; e Béchara Boutros Raï, classe 1940, Patriarca di Antiochia dei maroniti, creato Cardinale nel concistoro del 24 novembre 2012[97]. Quest’ultimo è ad oggi l’unico componente dell’ordine dei Vescovi a poter esercitare il diritto di elettorato attivo oltre a Louis Raphaël I Sako, classe 1948, Patriarca di Babilonia dei caldei, creato Cardinale da Francesco nel concistoro del 28 giugno 2018[98].

L’analisi dei dati appena enumerati pone in risalto come, laddove sopravvenisse la vacanza della Sede Apostolica, solamente due Cardinali Patriarchi orientali parteciperebbero al conclave. E si avverte palesemente in un caso simile la vanificazione della ratio sottesa al can. 352, §§ 2 e 3, che ha trasposto nel Codice la provvista mediante elezione degli uffici di Decano e di Sottodecano del Collegio cardinalizio, originariamente prevista dal motu proprio Sacro Cardinalium Consilio di Paolo VI del 26 febbraio 1965 al fine di superare il meccanismo automatico di cui al can. 237, §§ 1 e 2 CIC17: un meccanismo, lo ricordiamo, per il quale erano i Cardinali più anziani per promozione a una sede suburbicaria a ricoprire ipso iure tali incarichi. Allo stesso modo, l’abrogazione dello ius optionis disposta da Giovanni XXIII con il motu proprio Suburbicarias Dioeceses (10 marzo 1961), nonostante avesse proibito ai Cardinali presbiteri di transitare nell’ordine episcopale tenuto conto della priorità di promozione (can. 236, § 3 CIC17), non ha ovviato alla presenza di Cardinali Vescovi di età particolarmente elevata.

Riaffiorano dunque quelle disfunzioni funzionali segnalate nel corso dei lavori preparatori del Codex del 1983: essere aggregati a vita ad un ordine di Cardinali, come quello dei Vescovi, per poi eventualmente svolgere, egualmente a vita, il munus di Decano e di Sottodecano pur non potendo votare in conclave significa ridurre potenzialmente a mera onoreficenza la valenza del primo ordo per precedenza del Collegio dei Cardinali di Santa Romana Chiesa, cui al contrario la costituzione apostolica Universi Dominici Gregis affida primariamente, ancorché non esclusivamente, l’andamento gestionale dell’iter di elezione del nuovo Pontefice. Da tale angolazione dunque le deroghe al dettato codiciale disposte dal rescritto di Francesco conseguirebbero lo scopo di ripristinare il ruolo di comprimari tradizionalmente spettante ai Cardinali Vescovi nelle operazioni di voto. In forza dell’assimilazione in iure, infatti, i Cardinali cooptati hanno diritto di voce attiva e passiva nella provvisione degli uffici di Decano e di Vice Decano (can. 352, §§ 2 e 3). E, nell’ipotesi in cui uno di loro diventasse primus inter pares rispetto agli altri Cardinali, riceverebbe il titolo della diocesi suburbicaria di Ostia, assomandolo tuttavia non con quello della sede suburbicaria avuto in precedenza, come previsto dal can. 350, § 4, ma con il titolo o la diaconia dell’Urbe assegnati al momento dell’assunzione al cardinalato nell’ordine presbiterale o diaconale[99]. Ma anche laddove ciò non si verificasse, l’effetto derogatorio esplicato dal rescriptum del 2018 consentirebbe comunque ai porporati cooptati di fare le veci tanto del Decano quanto del Sottodecano ottuagenari durante il conclave, in quanto l’integralità dell’equiparazione fa sì che siano posizionati nell’ordine dei Vescovi dopo i Cardinali titolari di una sede suburbicaria e prima dei Cardinali Patriarchi orientali[100]. Pertanto, nell’ipotesi in cui dovesse procedersi ora all’elezione del nuovo Papa essi risulterebbero, purché infraottantenni, i primi Cardinali elettori per ordine di precedenza rispetto ai Cardinali Patriarchi e a quelli presbiteri e diaconi con voce attiva. I nominativi dei Cardinali equiparati peraltro sono riportati nel rescritto pontificio in un’elencazione che sembra prefigurare uno speciale ordine di precedenza tra i Cardinali medesimi, disposto discrezionalmente da Francesco non sulla base del consueto criterio incentrato sulla data, dalla più remota alla più recente, di incorporazione nel Collegio cardinalizio: Pietro Parolin, classe 1955, del titolo dei Santi Simone e Giuda Taddeo a Torre Angela, Segretario di Stato, creato Cardinale nel concistoro del 22 febbraio 2014; Leonardo Sandri, classe 1943, del titolo dei Santi Biagio e Carlo ai Catinari, Prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, creato Cardinale nel concistoro del 24 novembre 2007; Marc Ouellet, classe 1944, del titolo di Santa Maria in Traspontina, Prefetto della Congregazione per i Vescovi, creato Cardinale nel concistoro del 21 ottobre 2003; e Fernando Filoni, classe 1946, diacono di Nostra Signora di Coromoto in San Giovanni di Dio, Prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, creato Cardinale nel concistoro del 18 febbraio 2012[101].

Attraverso quindi il ricorso alla finzione giuridica operata dall’equiparazione[102], che ha esteso lo statuto di diritto comune proprio dei Cardinali Vescovi a porporati uniti ad un ordine cardinalizio diverso, si rende possibile che nel corso dell’elezione i Cardinali cooptati assolvano taluni compiti riservati in primo luogo al Decano o, se assente o legittimamente impedito, al Sottodecano o a colui che è il primo Cardinale elettore per ordine e anzianità. Una clausola, questa, più volte riprodotta nella costituzione apostolica Universi Dominici Gregis[103] e che, allo stato attuale, in assenza di Cardinali Vescovi muniti del diritto di elettorato attivo consentirebbe al primo dei Cardinali Patriarchi orientali elettori o al primo dei Cardinali presbiteri elettori per ordine di anzianità di adempiere a tali compiti, fra i quali figura la presidenza dell’assemblea dei Cardinali partecipanti al conclave (n. 9 UDG), che ha tra le sue mansioni quella di definire le questioni di maggiore importanza durante il periodo dell’elezione (n. 7 UDG)[104]. All’opposto, le Congregazioni generali (cosiddette preparatorie) cardinalizie previe allo stesso conclave possono essere convocate e presiedute dal Decano ottuagenario (nn. 9 e 19 UDG)[105]. Tra le altre funzioni, attribuite anzitutto al Decano, al Sottodecano – o, in subordine, a chi è chiamato a sostituirli – nell’ambito della procedura elettorale, figurano: leggere, una volta che i Cardinali elettori giungano nella Cappella sistina quale sede dell’elezione (n. 51 UDG), il giuramento che dovranno singolarmente prestare di osservare le disposizioni del diritto peculiare, di mantenere il segreto, di impegnarsi a svolgere fedelmente il ministero petrino se eletti e di non appoggiare qualsiasi forma di ingerenza esterna da parte di autorità secolari (nn. 52-53 UDG; n. 40 ORC); sottoporre ai Cardinali la questione se possano iniziare le operazioni elettorali, o se occorra ancora chiarire dubbi circa le norme e le modalità stabilite dal diritto, senza tuttavia apportare modifiche o sostituzioni sub poena nullitatis (n. 54 UDG; n. 45 ORC); e chiedere, a nome di tutto il Collegio degli elettori, il consenso dell’eletto e come quest’ultimo intenda essere chiamato (n. 87 UDG; nn. 58-59 ORC).

L’influenza dei Cardinali cooptati invero potrebbe intensificarsi nell’ipotesi in cui uno di essi sia preposto alla Camera Apostolica e perciò assuma l’ufficio di Camerlengo[106], che nel periodo di vacanza dell’ufficio petrino provvede a preparare l’elezione e a curarne il retto svolgimento sia singolarmente[107], sia collegialmente[108] soprattutto nella Congregazione particolare, cui compete la trattazione degli affari ordinari e di minore importanza che si presentano ogni giorno tanto

Ganarin Manuel



Download:
Ganarin.pdf
 

Array
(
    [acquista_oltre_giacenza] => 1
    [can_checkout_only_logged] => 0
    [codice_fiscale_obbligatorio] => 1
    [coming_soon] => 0
    [disabilita_inserimento_ordini_backend] => 0
    [fattura_obbligatoria] => 1
    [fuori_servizio] => 0
    [has_login] => 1
    [has_messaggi_ordine] => 1
    [has_registrazione] => 1
    [homepage_genere] => 0
    [homepage_keyword] => 0
    [insert_partecipanti_corso] => 0
    [is_login_obbligatoria] => 0
    [is_ordine_modificabile] => 1
    [libro_sospeso] => 0
    [moderazione_commenti] => 0
    [mostra_commenti_articoli] => 0
    [mostra_commenti_libri] => 0
    [multispedizione] => 0
    [pagamento_disattivo] => 0
    [reminder_carrello] => 0
    [sconto_tipologia_utente] => carrello
    [scontrino] => 0
    [seleziona_metodo_pagamento] => 1
    [seleziona_metodo_spedizione] => 1
)

Inserire il codice per attivare il servizio.