L’accesso alla “autoarchiviazione” disciplinare del P.G. della Cassazione: un vicolo stretto o un vicolo cieco?
Sara Silvestre*
L’accesso alla “autoarchiviazione” disciplinare del P.G. della Cassazione: un vicolo stretto o un vicolo cieco?**
English Title: Access to the archiving provision adopted at the outcome of the pre-disciplinary phase of the proceedings against ordinary judges: a narrow alley or a dead end?
DOI: 10.26350/18277942_000074
Sommario. 1. Premessa. 2. I limiti all’accesso generalizzato. 3. Il procedimento disciplinare a carico dei magistrati ordinari. 3.1. Il provvedimento di archiviazione adottato de plano dal Procuratore generale della Corte di Cassazione. 4. L’orientamento della Procura generale della Cassazione. 4.1. Il divieto stabilito dal decreto ministeriale 25 gennaio 1996, n. 115. 5. La sentenza del T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 17 aprile 2019, n. 5714: la tesi della natura “para-giurisdizionale” del provvedimento di archiviazione. 5.1. La sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, 5 marzo 2020, n. 2309: l’operatività del divieto dettato dal decreto ministeriale n. 115 del 1996. 6. La sentenza del T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 2 dicembre 2020, n. 1332: l’accesso difensivo al provvedimento di archiviazione. 7. La sentenza del T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 10 marzo 2021, n. 3315: l’accesso difensivo agli atti della fase predisciplinare. 8. Il punto di rottura tra l’orientamento della Procura generale e l’interpretazione fornita dal T.A.R. di Roma. 9. L’accesso generalizzato al provvedimento di archiviazione adottato dal Procuratore generale. 10. Il recente orientamento del Consiglio di Stato: il carattere giurisdizionale della fase predisciplinare. 10.1. L’ultimo tassello del quadro giurisprudenziale in materia: la sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, 1 luglio 2021, n. 5712. 11. Considerazioni conclusive.
1. Premessa
A partire dagli anni Novanta, il legislatore nazionale è intervenuto, a più riprese, in materia di trasparenza amministrativa[1].
Non è possibile qui ripercorrere con meticolosità le tappe del lungo iter normativo[2]; ci si limiterà, pertanto, a descrivere solo gli snodi principali della strada tracciata.
Il percorso è stato avviato con la legge 7 agosto 1990, n. 241, che ha introdotto nell’ordinamento l’accesso c.d. “documentale”.
L’istituto, oggi leggermente rivisitato rispetto all’originaria impostazione[3], consiste nel diritto dei soggetti privati di “prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi”, se titolari di un interesse “diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente rilevante, collegata al documento di cui si richiede l’accesso” (art. 22, co. 1, lettere a e b, legge 241/1990)[4].
La specifica funzione di questo strumento non è quella di consentire un controllo sull’attività della pubblica amministrazione[5], bensì quella di garantire al soggetto interessato dall’esercizio del potere l’espletamento delle facoltà partecipative e oppositive a tutela della propria situazione giuridica differenziata[6]. Coerentemente con tale finalità, il privato è chiamato a motivare l’istanza di accesso[7], indicando all’amministrazione le ragioni per le quali si richiede il documento.
Nel corso degli anni, una concatenazione di interventi successivi alla legge del 1990, introducendo una serie di obblighi di pubblicazione in capo alle PP.AA.[8], ha spinto l’ordinamento verso la realizzazione di un sistema di trasparenza proattiva che, tuttavia, nella sua attuazione ha manifestato diverse debolezze[9] .
Un significativo passo in avanti si è verificato solo a seguito dell’adozione della legge 6 novembre 2012, n. 190, che, consapevole dell’importanza di questo settore, ha autorizzato il Governo ad adottare un decreto legislativo di riordino[10].
Prima di spiegare qual è stato il frutto di questa disciplina, anche nota come “legge Severino”, è bene chiarirne il disegno riformatore.
Con la richiamata normativa il nostro Paese, sulla spinta delle sollecitazioni internazionali[11], ha mutato l’approccio nella lotta alla corruzione, adottando una strategia non più basata esclusivamente sulla repressione penale[12] ma improntata anche su una serie di misure amministrative di carattere preventivo, finalizzate ad agire sui fattori di rischio che possono agevolare il verificarsi del suddetto fenomeno criminale[13].
In questa nuova prospettiva, la piena accessibilità ai dati e ai documenti detenuti dalle istituzioni pubbliche, anche a prescindere dalla titolarità di una posizione giuridica qualificata e differenziata, è stata individuata come un efficace strumento per combattere la corruzione[14]: i cittadini, destinatari dell’attività amministrativa, devono essere in grado di poter conoscere e monitorare l’operato della P.A. L’accountability, dunque, rappresenta un elemento alla base del nuovo rapporto tra i soggetti pubblici e la collettività[15].
L’onda riformatrice alimentata dalla legge del 2012 ha conosciuto due tappe fondamentali.
In un primo momento, coincidente con l’adozione del d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33 (c.d. “codice della trasparenza”)[16], il Governo, in esecuzione della delega contenuta nella legge Severino, ha ridisegnato e riordinato la disciplina degli obblighi di pubblicazione delle amministrazioni[17], una normativa che in precedenza si caratterizzava per frammentarietà e disorganizzazione.
Inoltre, accanto alla precisazione delle informazioni da rendere note e all’indicazione delle modalità per la loro pubblicazione, è stato introdotto l’istituto dell’accesso civico c.d. “semplice”[18], previsto dall’art. 5, co. 1, del menzionato decreto.
Si tratta di un meccanismo di controllo diffuso[19] che consiste nel diritto di “chiunque” di richiedere i documenti, i dati o le informazioni, oggetto di obblighi di pubblicazione, nei casi in cui l’amministrazione non vi abbia adempiuto[20].
L’ultimo tassello del mosaico normativo della trasparenza è stato rappresentato dal d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97[21].
Per quanto qui di interesse, con tale intervento, il legislatore delegato, sulla scia dell’esperienza americana del Freedom of information act (anche conosciuto con l’acronimo “FOIA”)[22], ha introdotto, nel nuovo comma 2, dell’art. 5, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, l’accesso civico c.d. “generalizzato”[23].
In particolare, la citata norma, “allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico”, garantisce a chiunque il “diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione […] nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti […]”[24].
Con il nuovo diritto si assiste ad un rovesciamento della precedente prospettiva[25], poiché la richiesta di accesso del privato viene svincolata sia dalla titolarità di uno specifico interesse, sia dall’esistenza di un obbligo di pubblicazione rimasto inadempiuto. Il soggetto legittimato, infatti, è il “chiunque”, che, senza dover motivare[26], può richiedere l’ostensione di documenti diversi rispetto a quelli per i quali vige un dovere di pubblicazione.
Gli istituti dell’accesso documentale e dell’accesso generalizzato verranno in rilievo nelle prossime pagine, ove si affronterà il tema dell’ostensibilità del provvedimento di archiviazione che può essere adottato dal Procuratore generale della Corte di Cassazione all’esito della fase predisciplinare dei procedimenti a carico dei magistrati ordinari.
La trattazione dell’argomento in oggetto richiede alcuni chiarimenti preliminari, sia sulle limitazioni al right to know dei cittadini, sia in materia di responsabilità disciplinare. Per questa ragione, solo dopo aver fornito le necessarie premesse di sistema, si indicheranno i motivi per i quali si pone il problema dell’ostensibilità del suddetto documento.
Successivamente, saranno analizzate le sentenze adottate dal giudice amministrativo che, al contrario di quanto affermato in un primo momento, solo di recente ha escluso l’applicabilità delle norme sull’accesso agli atti amministrativi. Si tenterà, quindi, di fornire una panoramica dei diversi orientamenti, delle problematiche e delle conseguenze connesse a ciascuno di essi.
2. I limiti all’accesso generalizzato
L’ordinamento italiano, come tutti i sistemi giuridici che riconoscono il diritto di accesso generalizzato ai documenti detenuti dalle amministrazioni[27], si caratterizza per la presenza di alcune limitazioni alla regola della full disclosure[28].
Le eccezioni al c.d. right to know dei cittadini costituiscono un dato fisiologico e strutturale, dettato dall’esigenza di dover tutelare interessi, pubblici e privati, che potrebbero essere pregiudicati dalla conoscibilità illimitata di certe informazioni.
Tuttavia, affinché il diritto di accesso generalizzato sia effettivo, è importante che i relativi limiti siano tassativi e circoscritti, onde evitare che l’eccessiva ampiezza delle deroghe tradisca in partenza l’idea di un regime di accessibilità totale.
La norma che si occupa di questo aspetto è l’art. 5 bis del d.lgs. n. 33 del 2013, che delinea due tipologie di eccezioni: quelle “relative” e quelle “assolute” [29].
Le prime, previste nei commi 1 e 2[30], non comportano necessariamente il rigetto dell’istanza del privato. In questi casi, infatti, l’amministrazione è chiamata ad effettuare un’operazione di bilanciamento e, solo ove ritenga che l’ostensione del documento possa arrecare un pregiudizio concreto ad uno degli interessi protetti, dovrà negare l’accesso[31].
Le eccezioni assolute, invece, precludono ogni tipo di valutazione alla P.A. che, in loro presenza, dovrà rigettare la richiesta.
Tale tipologia di limitazioni è disciplinata dal terzo comma dell’art. 5 bis, che esclude l’accesso generalizzato “[…] nei casi di segreto di Stato e negli altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all’articolo 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990”.
Le problematiche connesse ai contenuti e alla formulazione della norma ora richiamata meriterebbero un approfondimento non possibile in questa sede[32]. Quel che preme qui sottolineare, ai fini del discorso che si svolgerà nel prosieguo, è il carattere vago ed impreciso dell’art. 5 bis, co. 3, del d.lgs. n. 33 del 2013.
Come si può notare, il legislatore ha prestato scarsa attenzione nella formulazione delle preclusioni assolute poiché, utilizzando termini generici e poco puntuali, non solo ha rinviato alle diverse discipline di settore, ma ha richiamato anche i limiti previsti per l’accesso documentale[33], così determinando una sovrapposizione tra le diverse fattispecie che rischia di produrre conseguenze negative.
In particolare, le caratteristiche del dettato normativo si riflettono in maniera pericolosa sull’effettività del right to know, perché aprono la strada ad interpretazioni che potrebbero restringerne eccessivamente il campo di operatività. Infatti, una lettura slegata dalla ratio legis e poco attenta ad una ricostruzione sistematica potrebbe determinare il diniego della richiesta del cittadino anche in quelle situazioni in cui l’ostensione del documento risulti pienamente compatibile con lo scopo enunciato dall’art. 5, co. 2, del d.lgs. n. 33 del 2013.
3. Il procedimento disciplinare a carico dei magistrati ordinari
Negli ultimi anni, il giudice amministrativo è stato chiamato a pronunciarsi sull’ostensibilità, sia attraverso l’istituto dell’accesso documentale (artt. 22-25 della legge 7 agosto 1990, n. 241), sia tramite l’accesso civico generalizzato (art. 5, co. 2 del d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33), del provvedimento di archiviazione adottato all’esito della fase predisciplinare dei procedimenti a carico dei magistrati ordinari.
Prima di procedere alla trattazione del tema in parola, è bene fornire qualche breve indicazione sul fondamento e sull’iter del giudizio disciplinare.
L’importanza e la delicatezza del ruolo svolto da coloro che sono chiamati all’esercizio della funzione giurisdizionale si evincono chiaramente già dalla Costituzione, che detta specifiche norme a tutela dell’imparzialità e dell’indipendenza di questi soggetti[34]. Si tratta, com’è evidente, di requisiti che hanno una fondamentale rilevanza, poiché incidono sul regolare e corretto svolgimento della giurisdizione, un bene di tutti i cittadini.
È proprio a presidio dei suddetti valori che operano le regole concernenti la responsabilità disciplinare[35], il cui relativo potere sanzionatorio è affidato, ex art. 105 Cost.[36], al Consiglio Superiore della Magistratura, che lo esercita per il tramite di una specifica Sezione[37].
Ebbene, i giudici sono tenuti al rispetto di precise norme di condotta, oggi elencate nel decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109[38], come modificato dalla legge 24 ottobre 2006, n. 269.
La notizia della presunta adozione, da parte dei magistrati, di un comportamento vietato, determina l’apertura di un apposito procedimento, su iniziativa di due possibili soggetti, espressamente indicati dall’art. 14 del citato decreto legislativo[39].
Il primo di essi è il Ministro della giustizia che, come già sancito dall’art. 107 Cost.[40], ha la sola facoltà di esercitare l’azione disciplinare e può farlo mediante la richiesta di indagini al Procuratore generale della Corte di Cassazione (art. 14, co. 2, d.lgs. n. 109/2006)[41]. Quest’ultimo, invece, salvo quanto si dirà nel prossimo paragrafo, ha l’obbligo di attivarsi ogniqualvolta venga a conoscenza di una condotta illecita (art. 14, co. 3, d.lgs. n. 109/2006)[42].
In estrema sintesi, l’esercizio del potere di impulso dà avvio ad una procedura disciplinare[43] di natura giurisdizionale[44].
In una prima fase[45], il P.G. è chiamato a svolgere l’attività di indagine, regolata, secondo quanto disposto dall’art. 16, co. 2 del d.lgs. n. 109/2006, dalle norme del codice di procedura penale, in quanto compatibili.
Alle operazioni investigative, finalizzate all’accertamento e alla verifica degli elementi costitutivi del presunto illecito, conseguono le richieste conclusive ex art. 17, d.lgs. n. 109/2016[46].
In particolare, in base all’esito dell’attività svolta, il Procuratore potrà o formulare l’incolpazione, chiedendo al Presidente della Sezione disciplinare la fissazione dell’udienza di trattazione orale (art. 17, co. 2), oppure fare motivata richiesta di declaratoria di non luogo a procedere (art. 17, co. 6).
Nel primo caso, all’istanza del pubblico ministero segue il decreto che stabilisce il giorno della discussione (art. 17, co. 4 e co. 5).
Nella seconda ipotesi, invece, salvo che l’udienza non sia stabilita per iniziativa del Ministro[47], il collegio giudicante decide in camera di consiglio e, se accoglie la richiesta di archiviazione, provvede con ordinanza di non luogo a procedere; viceversa, se rigetta la domanda, il P.G. dovrà formulare l’incolpazione e chiedere al Presidente di decidere la data della discussione (art. 17, co. 8).
L’udienza disciplinare, ai sensi dell’art. 18, co. 2, del d.lgs. n. 109 del 2006, normalmente, è pubblica[48].
Come evidenziato dalla Corte costituzionale, la richiamata regola costituisce il punto di arrivo di un percorsoche ha portato al capovolgimento dell’idea secondo cui la miglior tutela dell’ordine giudiziario sarebbe assicurata dalla riservatezza della procedura.
Secondo il giudice delle leggi, la pubblicità della discussione orale è espressione di una nozione di prestigio della magistratura“[…] che postula non la segretezza del procedimento disciplinare ma la trasparenza, valore portante di ogni sistema autenticamente democratico […]”[49].
Il CSM, a sua volta, ha precisato che la pubblicità del dibattimento non rappresenta solo una garanzia per il singolo magistrato ma risponde anche ad un interesse collettivo perché permette alla generalità dei soggetti di comprendere le ragioni del procedimento, assicurando una forma di controllo pubblico sul potere esercitato dal giudice disciplinare[50].
In questa prospettiva, alla base della regola di cui all’art. 18, co. 2, del d.lgs. n. 109 del 2006, si pone il principio di accountability: i cittadini sono in grado di conoscere le modalità di espletamento di una funzione posta a tutela del corretto svolgimento dell’attività giurisdizionale, un valore di rilievo costituzionale.
L’esito della discussione orale consiste in una sentenza il cui contenuto può variare a seconda del risultato delle valutazioni probatorie: se il fatto risulta accertato, il magistrato sarà destinatario di una sanzione disciplinare; al contrario, se la prova raggiunta non è ritenuta sufficiente, il collegio dichiarerà esclusa la sussistenza dell’addebito (art. 19, d.lgs. n. 109/2006)[51].
L’incolpato, il Ministro della giustizia e il Procuratore generale possono impugnare le sentenze della Sezione disciplinare con ricorso per Cassazione; in questo caso, la Corte decide a Sezioni Unite civili (art. 24, d.lgs. n. 109/2006).
3.1. Il provvedimento di archiviazione adottato de plano dal Procuratore generale della Corte di Cassazione
Come poc’anzi precisato, l’art. 14, co. 3, del d.lgs. n. 109 del 2006, stabilisce, in capo al P.G. “[…] l’obbligo di esercitare l’azione disciplinare dandone comunicazione al Ministro della giustizia e al Consiglio superiore della magistratura[…]”.
Tale previsione costituisce una novità rispetto al passato; infatti, fino all’innesto del d.lgs. n. 109 del 2006, la previgente norma di riferimento, rappresentata dall’art. 14, co. 1, della legge 24 marzo 1958, n. 195, recitava: “[…] l’azione disciplinare può […] essere promossa anche dal procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione nella sua qualità di Pubblico Ministero[…]”[52].
Dunque, la suddetta disposizione non prevedeva un promotore coatto della procedura, ma entrambi i titolari del potere di impulso avevano la mera facoltà di intraprendere l’iniziativa disciplinare.
Vale la pena segnalare che il disegno riformatore del 2006 non ha innovato solo questo aspetto della regolamentazione antecedente, estendendosi, oltre che sul piano procedimentale, anche su quello sostanziale.
Per quanto qui rileva, le modifiche concernenti quest’ultimo profilo hanno comportato il passaggio da un sistema basato sull’atipicità dell’illecito ad una diversa disciplina, caratterizzata da una specifica elencazione dei comportamenti punibili e delle sanzioni applicabili.
Più precisamente, prima dell’intervento del citato decreto legislativo, la disposizione preesistente, ossia l’art. 18 del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511, non forniva una precisa indicazione delle azioni vietate, accogliendo una nozione vaga di illecito disciplinare[53]. Al contrario, con l’innesto del d.lgs. n. 109 del 2006, il legislatore ha definito espressamente quali sono le condotte che non possono essere adottate dai magistrati, sia fuori che nell’esercizio delle loro funzioni[54].
I due piani toccati dalla riforma sono in stretta connessione e fondano la loro ratio sulla necessità di garantire la parità di trattamento dei giudici, riducendo gli spazi di discrezionalità che avrebbero potuto comportare l’adozione di scelte guidate da ostilità o da atteggiamenti paternalistici[55].
Infatti, nella logica dell’intervento del 2006, alla notizia dei fatti tipici disciplinarmente rilevanti, il Procuratore generale avrebbe dovuto automaticamente esperire l’azione, per poi effettuare le indagini e formulare, all’esito dell’attività investigativa, le richieste conclusive di cui all’art. 17, d.lgs. n. 109/2016, da sottoporre al giudice disciplinare.
Tuttavia, l’introduzione dell’obbligo di agire ha generato preoccupazioni circa il possibile incremento degli esposti[56], che avrebbe rappresentato, secondo alcuni commentatori, non solo una forma di condizionamento e di pressione sui magistrati, ma anche il motivo di un notevole aumento del contenzioso, causato dalla mancanza di filtri contro segnalazioni persecutorie o pretestuose[57].
Sono queste le ragioni che, a parere della dottrina[58], hanno spinto il legislatore ad intervenire nuovamente in materia, attribuendo un incisivo potere “deflattivo” al P.G.
Il cambiamento è stato apportato dalla legge 24 ottobre 2006, n. 269, che ha introdotto il comma 5 bis nell’art. 16 del d.lgs. n. 109 del 2006[59].
Tale disposizione affida al promotore coatto dell’azione disciplinare il potere di adottare un provvedimento di archiviazione diretta[60] quando “il fatto addebitato non costituisce condotta disciplinarmente rilevante ai sensi dell’articolo 3-bis o forma oggetto di denuncia non circostanziata ai sensi dell'articolo 15, comma 1, ultimo periodo, o non rientra in alcuna delle ipotesi previste dagli articoli 2, 3 e 4 oppure se dalle indagini il fatto risulta inesistente o non commesso”.
In altri termini, la suddetta norma, pur nell’ambito dell’obbligatorietà dell’iniziativa, riconosce al pubblico ministero un importante spazio di valutazione e di accertamento, consentendogli di archiviare autonomamente in quattro diversi casi: quando il fatto, pur ritenuto sussistente, sia giudicato di “scarsa rilevanza”[61]; nell’ipotesi in cui la denuncia non contenga gli elementi costitutivi dell’illecito; qualora la condotta segnalata non rientri tra le fattispecie tipiche previste dal legislatore e nel caso in cui dalle indagini il comportamento illegittimo risulti inesistente o non commesso.
Pertanto, nel nuovo disegno, la ricezione della notizia di un episodio di eventuale rilievo disciplinare[62] non obbliga il Procuratore all’automatico esercizio del potere di impulso, ma determina l’apertura della fase c.d. “predisciplinare”[63], caratterizzata dall’attività di analisi e di verifica della segnalazione, nel corso della quale possono essere svolte sommarie indagini preliminari (art. 15, co.1, d.lgs. n. 109/2006)[64], finalizzate a verificare la sussistenza e l’effettiva rilevanza del fatto segnalato[65].
All’esito di tale procedura, il P.G. ha due possibilità: o esercita l’azione dando avvio alla fase propriamente “disciplinare”, descritta nelle pagine precedenti; oppure, come anticipato, sussistendone le condizioni, può adottare il provvedimento di cui all’art. 16, co. 5 bis, del d.lgs. n. 109 del 2006[66].
Quest’ultima scelta, per sua natura, è sottratta al filtro del Consiglio Superiore della Magistratura ed è sottoposta al solo vaglio del Ministro della giustizia[67].
In particolare, la Sezione disciplinare non conosce l’atto con cui il P.G. archivia de plano il procedimento[68], poiché si tratta di un documento adottato in una fase antecedente all’esperimento dell’azione.
In questo caso, a differenza di quanto previsto nell’ipotesi di richiesta di non luogo a procedere avanzata nella fase successiva all’esercizio del potere di impulso, il giudice disciplinare non è chiamato a decidere sull’archiviazione.
L’unica garanzia prevista dall’art. 16, co. 5 bis, del d.lgs. n. 109 del 2006, consiste nell’obbligo, in capo al pubblico ministero, di comunicare il documento con cui archivia il procedimento al contitolare del potere di iniziativa. Ricevuta la comunicazione, il Ministro può richiedere la trasmissione della copia degli atti e, se di contrario avviso, può promuovere l’avvio della fase disciplinare chiedendo la fissazione dell’udienza di discussione orale[69].
4. L’orientamento della Procura generale della Cassazione
Le ragioni che hanno portato all’attenzione del giudice amministrativo il tema dell’ostensibilità dell’archiviazione adottata ex art. 16, co. 5 bis, del d.lgs. n. 106 del 2009, si collegano, essenzialmente, all’asserita segretezza che, a giudizio della Procura generale della Corte di Cassazione, caratterizzerebbe tutta la documentazione della fase predisciplinare e, quindi, anche il provvedimento de quo[70].
Si impedisce, infatti, a chiunque, la conoscibilità dell’atto di archiviazione e dei motivi ad esso sottesi.
Come chiarito dall’ordine di servizio del 17 dicembre 2019, n. 44, del Procuratore generale, l’unica notizia ostensibile ai privati è “quella avente ad oggetto la pendenza della fase di valutazione dell’esposto, ovvero la sua avvenuta definizione, restando esclusa la possibilità del rilascio di copia del provvedimento di archiviazione”[71].
Dai documenti ufficiali si evince che gli argomenti utilizzati a sostegno del citato orientamento sono diversi e sono stati, da ultimo, ribaditi anche in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2021[72].
In primis, si sottolinea la natura giurisdizionale o, almeno, “giustiziale” della fase predisciplinare. Quest’ultima, si dice, non ha ad oggetto lo svolgimento di un’attività amministrativa in senso oggettivo, ma è finalizzata ad uno scopo di “giustizia”[73] che rende inapplicabili le disposizioni sul procedimento amministrativo[74] e, conseguentemente, anche quelle in tema di accesso agli atti.
Secondo la Procura, a conforto di quanto appena affermato vi è l’art. 16, co. 2, del d.lgs. n. 109 del 2006, che sottopone le indagini del P.G. alla disciplina del codice di rito, in quanto compatibile; la citata disposizione, ritenuta applicabile anche all’attività investigativa precedente all’esercizio dell’azione, dimostrerebbe la diversa regolamentazione della procedura de qua[75].
Peraltro, nel caso specifico, si afferma che neanche sarebbe applicabile la disciplina relativa al rilascio di copie degli atti del procedimento penale di cui all’art. 116 c.p.p.[76], poiché l’art. 16, co. 5 bis, del d.lgs. n. 109/2006, nel disporre che l’archiviazione debba essere comunicata soltanto al Ministro della giustizia, il solo che può chiedere “copia degli atti”, evidenzierebbe l’impossibilità, per chiunque altro, di conoscere il suddetto provvedimento[77].
Stando alla prospettiva in esame, al di là delle suddette considerazioni, è comunque esclusa in radice la sussistenza di un interesse ad avere notizia dell’atto di archiviazione; ciò non solo per il quivis de populo, ma anche per il titolare dell’esposto e per il magistrato nei cui confronti è stato iscritto il procedimento.
Più precisamente, la Procura della Cassazione sostiene che la riservatezza della fase predisciplinare non leda l’interesse della collettività al rispetto del principio di trasparenza, poiché la comunicazione al Ministro dell’atto adottato de plano dal P.G. realizzerebbe, di per sé, un “ragionevole bilanciamento” tra gli interessi in gioco; di conseguenza, non vi sarebbe alcuna esigenza di controllo da parte dei cittadini[78].
Inoltre, data la ratio del processo disciplinare, finalizzato alla cura della corretta amministrazione della giustizia e non alla tutela dei singoli, neanche in capo al denunziante potrebbe configurarsi undanno.
Costui, infatti, qualora si ritenga leso dalla condotta di un giudice, può salvaguardare la propria posizione esercitando l’azione di responsabilità civile, che prescinde dall’esito della denuncia relativa a fatti disciplinarmente rilevanti[79].
Per quanto concerne l’incolpato, invece, l’assenza di un interesse all’ostensione del documento di archiviazione ex art. 16, co. 5 bis, d.lgs. n. 109 del 2006, sembra essere giustificata con la tesi secondo cui quest’atto non può produrre effetti negativi negli altri ambiti relativi alla carriera del magistrato (come, ad esempio, in materia di valutazioni di professionalità e di incarichi direttivi)[80].
Alla luce di tutte le osservazioni che precedono e di quanto si dirà di qui a breve, la Procura generale esclude che le istanze di accesso documentale e quelle di accesso civico generalizzato possano trovare accoglimento quando abbiano ad oggetto qualsiasi atto della fase predisciplinare, tra cui anche il provvedimento conclusivo adottato ai sensi dell’art. 16, co. 5 bis, d.lgs. n. 109/2006.
4.1. Il divieto stabilito dal decreto ministeriale 25 gennaio 1996, n. 115
Come si avrà modo di precisare nelle prossime pagine, esiste un ulteriore motivo utilizzato sia dalla Procura generale che dal Ministero della giustizia[81] per giustificare il rigetto dell’istanza di accesso, documentale o generalizzato, all’archiviazione disposta de plano dal P.G.
Si tratta, in particolare, di un argomento che fa leva su una norma del decreto ministeriale n. 115, del 25 gennaio 1996, adottato dall’allora Ministero di grazia e di giustizia, in forza dell’art. 24, della legge n. 241 del 1990[82].
La citata normativa, prevista per delineare i casi di esclusione dall’accesso documentale, tra le varie ipotesi, all’art. 4, co. 1, lett. i), impedisce l’ostensione della “documentazione attinente ai procedimenti […] disciplinari ovvero utilizzabile ai fini dell’apertura di procedimenti disciplinari […]”.
Tale disposizione si riferisce esclusivamente ai documenti amministrativi; ciò si evince dal dettato della norma immediatamente successiva, ossia dall’art. 5, co. 2, secondo cui “sono altresì esclusi dal diritto di accesso […] i documenti aventi natura giurisdizionale o collegati con l’attività giurisdizionale”. Pertanto, il campo di applicazione dell’art. 4 concerne solo gli atti di carattere amministrativo e non anche quelli espressivi dello ius dicere o connessi alla iurisdicitio, che invece ricadono nel divieto di cui all’art. 5, co. 2, del d.m. n. 115 del 1996[83].
Ebbene, la Procura generale e il Ministero della giustizia, ritenendo che il provvedimento di archiviazione del Procuratore rientri tra gli atti ricompresi nel dettato dell’art. 4, co.1, lett. i) del d.m. n. 115 del 1996, non solo negano l’accesso richiesto ai sensi della legge n. 241 del 1990, ma escludono anche l’operatività dell’istituto di cui all’art. 5, co. 2, del d.lgs. n. 33 del 2013.
A quest’ultima conclusione si giunge in base ad un’interpretazione letterale dell’art. 5 bis, co. 3, del d.lgs. n. 33 del 2013, che, occupandosi delle limitazioni “assolute”, non consente l’accesso generalizzato “[…] nei casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all’art. 24, comma 1, della legge 241 del 1990”.
Proprio il rinvio contenuto nell’ultima parte della richiamata disposizione viene valorizzato al fine di giustificare l’applicazione del suddetto divieto anche alle richieste di accesso presentate ex art. 5, co. 2, del d.lgs. n. 33 del 2013. Infatti, l’art. 24, comma 1, lett. a), della legge n. 241 del 1990, nel prevedere una serie di ipotesi di esclusione dall’accesso documentale, richiama le limitazioni di cui al successivo comma 2, che autorizza le amministrazioni ad individuare le categorie di documenti non ostensibili.
Dunque, poiché l’art. 5 bis, co. 3, del d.lgs. n. 33 del 2013, richiama l’art. 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990 e siccome quest’ultima norma, a sua volta, rinvia alla disciplina predisposta autonomamente dalle amministrazioni, il risultato della catena di rinvii adoperata da legislatore è, secondo l’interpretazione in esame, quello di far valere i limiti stabiliti con atti della P.A. anche per l’accesso generalizzato.
5. La sentenza del T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 17 aprile 2019, n. 5714: la tesi della natura “para-giurisdizionale” del provvedimento di archiviazione
La descrizione dell’orientamento della Procura generale della Cassazione ci consente di passare ora ad un esame del quadro giurisprudenziale formatosi in materia di accesso all’archiviazione disposta de plano dal P.G. In questa prospettiva, appare utile ripercorrere le diverse pronunce del giudice amministrativo seguendo l’ordine cronologico con il quale si sono susseguite negli ultimi anni.
La prima vicenda che viene in rilievo, affrontata in primo grado dal T.A.R. Roma, sez. I, con la sentenza 17 aprile 2019, n. 5714, prendeva le mosse dalla richiesta di un sostituto Procuratore generale della Cassazione, autore di un esposto[84], di accedere al documento conclusivo della fase predisciplinare a carico di altri magistrati.
La domanda, indirizzata al Procuratore generale e al Ministro della giustizia, veniva giustificata da un interesse del denunciante a verificare la correttezza del proprio operato e ad approfondire la tematica oggetto della denuncia, al fine di favorire la collaborazione giuridica tra giudici.
Ricevuta l’istanza, la Procura generale, con una nota datata 3 luglio 2018, si limitava a comunicare che la segnalazione era stata archiviata e, al contempo, negava il rilascio della copia del provvedimento, motivando il diniego della richiesta in base all’asserita natura giurisdizionale dell’atto che, a suo giudizio, rendeva inapplicabile la disciplina sull’accesso generalizzato.
Il Ministero della giustizia, invece, dopo un iniziale silenzio[85], con un provvedimento del 12 novembre 2018, negava l’ostensione dell’archiviazione in base all’art. 4, co. 1, lett. i), del d.m. 25 gennaio 1996, n. 115, secondo cui la “documentazione attinente ai procedimenti […] disciplinari ovvero utilizzabile ai fini dell’apertura di procedimenti disciplinari [...]” è sottratta all’accesso documentale.
In sostanza, mentre la Procura faceva leva sulla natura giurisdizionale del documento, il Ministero reputava applicabile un divieto avente ad oggetto atti amministrativi[86].
A fronte al diniego opposto, il segnalante proponeva ricorso dinnanzi al T.A.R. di Roma affermando l’esistenza dei presupposti per l’esercizio dell’accesso ex art. 5, co. 2, del d.lgs. n. 33 del 2013.
In estrema sintesi, il ricorrente sosteneva il carattere amministrativo dell’atto e contestava, sotto diversi profili, l’operatività del limite contenuto nel d.m. n. 115 del 1996.
Costituitasi in giudizio, l’Avvocatura di Stato, nel ribadire gli argomenti utilizzati dalle amministrazioni, sosteneva la piena applicabilità del divieto contenuto nel d.m. n. 115 del 1996, per effetto della catena di rinvii contenuta nell’ultima parte dell’art. 5 bis, co. 3, del d.lgs. n. 33 del 2013.
Il giudice amministrativo, pronunciandosi nel merito, ha ritenuto legittimo il rigetto dell’istanza, dichiarando che il provvedimento di archiviazione, come tutti gli atti della fase predisciplinare, è sottratto dal campo di applicazione dell’accesso generalizzato, rientrando in una delle eccezioni “assolute” all’operatività di tale strumento. Infatti, tra queste preclusioni, l’art. 5 bis, co. 3, del d.lgs. n. 33 del 2013, vi ricomprende anche l’ipotesi in cui “[…] l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti […]”.
Nel caso in esame, il giudice a quo ha individuato una precisa limitazione nell’art. 16, co. 2, del d.lgs. n. 109 del 2006 che, come già detto, sottopone le indagini del P.G. al rispetto delle regole del codice di procedura penale in quanto compatibili.
Più precisamente, il Tribunale romano, chiarito che la citata norma si applica anche all’attività investigativa antecedente all’esercizio dell’azione, ha rivenuto nella stessa la prova della natura “para-giurisdizionale” della fase predisciplinare e, quindi, della sottrazione di quest’ultima procedura alla disciplina dell’attività amministrativa.
Pertanto, data la sottoposizione al regime del codice di rito, il giudice di primo grado ha ritenuto operante un limite assoluto all’ostensibilità del documento richiesto.
A sostegno della tesi ora esposta, il T.A.R. ha richiamato la delibera n. 1309 del 28 dicembre 2016 dell’Autorità nazionale anticorruzione.
Si tratta, in particolare, delle linee guida adottate in attuazione della delega contenuta all’art. 5 bis, co. 6, del d.lgs. n. 33 del 2013[87], con le quali l’ANAC, precisando la disciplina dettata dal medesimo articolo, ha delineato l’insieme dei documenti sottratti all’accesso generalizzato[88].
Nel paragrafo 7.6, occupandosi dell’ipotesi prevista dal co. 1, lett. f), che legittima le amministrazioni a rigettare l’istanza quando necessario ad evitare la lesione di un interesse pubblico, inerente alla “conduzione di indagini sui reati e il loro perseguimento”, l’Autorità ha chiarito che esulano dall’accesso generalizzato gli “atti giudiziari, cioè gli atti processuali o quelli che siano espressione di una funzione giurisdizionale, ancorché non immediatamente collegati a provvedimenti che siano espressione dello ius dicere, purché intimamente e strumentalmente connessi a questi ultimi”[89].
Dunque, secondo il collegio giudicante, giacché il provvedimento di archiviazione adottato de plano dal P.G. è strettamente inerente all’esercizio dell’azione disciplinare e, quindi, ad una funzione di ius dicere, a maggior ragione, anche nel rispetto delle indicazioni fornite dalle linee guida, esso non può essere oggetto del diritto riconosciuto dall’art. 5, co. 2, del d.lgs. n. 33 del 2013[90].
5.1. La sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, 5 marzo 2020, n. 2309: l’operatività del divieto dettato dal decreto ministeriale n. 115 del 1996
La sentenza del T.A.R. di Roma, n. 5714 del 2019, è stata impugnata dinnanzi al Consiglio di Stato, che ha deciso l’appello sulla base del dettato dell’art. 5 bis, co. 3, del d.lgs. n. 33 del 2013, letto in combinato disposto con l’art. 4, co. 1, lett. i), del d.m. n. 115 del 1996.
Come già chiarito, la prima delle citate disposizioni, tra le varie ipotesi, esclude l’accesso generalizzato nei “[…] casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti […]”.
Ebbene, un limite assoluto all’ostensione del provvedimento conclusivo della fase predisciplinare è stato rinvenuto nel dettato del richiamato decreto ministeriale che, all’art. 4, co. 1, lett. i), esclude l’ostensibilità della “[…] documentazione attinente ai procedimenti […] disciplinari ovvero utilizzabile ai fini dell’apertura di procedimenti disciplinari, nonché concernente l’istruzione dei ricorsi amministrativi prodotti dal personale dipendente”.
Per giustificare l’applicazione di tale limite nel caso de quo, il collegio giudicante ha ritenuto irrilevante la circostanza che il d.m. n. 115 del 1996 sia stato adottato con riferimento all’istituto regolato dalla legge n. 241 del 1990. Secondo la sentenza in esame, infatti, l’art. 5 bis, co. 3, del d.lgs. n. 33 del 2013, nella sua formulazione, adopera un richiamo generale a tutte le ipotesi di divieto di divulgazione aliunde previste; di conseguenza, le disposizioni limitative dettate per l’accesso documentale ostacolano anche l’istituto disciplinato dall’art. 5, co. 2, del d.lgs. n. 33 del 2013.
A conforto dell’operatività del divieto contenuto nel d.m. n. 115 del 1996, i giudici di Palazzo Spada hanno poi evidenziato altri due aspetti.
Innanzitutto, secondo il Consiglio di Stato, nonostante la norma del decreto ministeriale utilizzi l’espressione “personale dipendente”, essa si applica anche alla procedura disciplinare a carico dei magistrati, non riferendosi ad un rapporto di dipendenza “gerarchica”, incompatibile con l’autonomia della magistratura, bensì ad una relazione di dipendenza lavorativa presso il Ministero della giustizia.
Inoltre, nella documentazione presa in considerazione dall’art. 4, co. 1, lett. i) del d.m. n. 115 del 1996, vi rientrerebbe a pieno titolo anche l’archiviazione adottata de plano dal P.G.; ciò sia per la genericità della disposizione, che è onnicomprensiva di ogni risultanza del procedimento disciplinare, sia perché, anche ove si consentisse la sola conoscibilità del provvedimento conclusivo, il divieto posto dalla norma risulterebbe violato, dato il richiamo diretto o indiretto di quest’ultimo documento agli atti di indagine.
Pertanto, alla luce di tutte le ragioni fin qui esposte, il Consiglio di Stato ha giudicato insussistente il diritto di accesso generalizzato all’archiviazione del Procuratore generale[91].
6. La sentenza del T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 2 dicembre 2020, n. 1332: l’accesso difensivo al provvedimento di archiviazione
La sentenza da ultimo esaminata, se da un lato ha ritenuto legittimo il diniego di accesso generalizzato all’archiviazione adottata de plano dal Procuratore generale, dall’altro, ha sicuramente avuto un ruolo determinate nel cambio di passo seguito dalla successiva giurisprudenza del T.A.R. di Roma.
Come si ricorderà, infatti, il Consiglio di Stato, diversamente da quanto affermato dal giudice di prime cure, non ha giustificato il diniego delle amministrazioni coinvolte sulla base dell’asserito carattere “para-giurisdizionale” del documento; al contrario, ritenendo applicabili le disposizioni che limitano l’accesso agli atti amministrativi[92], ha implicitamente ammesso la natura amministrativa del provvedimento e, più in generale, della fase predisciplinare.
Ebbene, proprio quest’ultima affermazione costituisce la premessa logica della soluzione fornita dal T.A.R. di Roma, sez. I, con la sentenza n. 13332 del 2 dicembre 2020, che ha riconosciuto, in capo al denunciante, il diritto di accesso documentale all’archiviazione del P.G., nei casi in cui l’istanza sia sorretta da precise, documentate e preesistenti esigenze difensive.
La vicenda sottostante al giudizio traeva origine dalla richiesta, avanzata dall’autore di un esposto, di accedere, ai sensi della legge n. 241 del 1990, alle notizie relative all’esito del procedimento attivato a seguito della propria segnalazione.
I motivi di tale istanza venivano ricollegati all’esigenza del denunciante di acquisire materiale probatorio utile ai fini della difesa dei propri diritti in altri giudizi, già pendenti o da instaurare.
Alla domanda avanzata, la Procura rispondeva con una nota, limitandosi ad indicare che “l’unica notizia ostensibile è che il procedimento originato dall’esposto è stato definito”.
Successivamente, a fronte di un’ulteriore istanza di accesso documentale all’atto conclusivo della fase predisciplinare, veniva opposto un nuovo diniego, giustificato sulla base del combinato disposto dell’art. 24, co. 2, della legge n. 241 del 1990[93] e dell’art. 4, co. 1, lett. i), del d.m. n. 115 del 1996.
Più precisamente, la Procura motivava la propria decisione richiamando, da un lato, la disposizione che consente alle pubbliche amministrazioni di individuare categorie di documenti sottratti all’accesso e, dall’altro, una norma del regolamento ministeriale che fornisce una specificazione degli atti inaccessibili. Quest’ultima disposizione, si è già detto, alla lett. i), fa riferimento alla “documentazione attinente ai procedimenti […] disciplinari ovvero utilizzabile ai fini dell’apertura di procedimenti disciplinari, nonché concernente l’istruzione di ricorsi amministrativi prodotti dal personale dipendente”[94].
Dunque, sulla base della normativa ora indicata, la Procura impediva l’accesso al provvedimento di archiviazione adottato ex art. 16, co. 5 bis, del d.lgs. n. 109 del 2006.
A fronte del diniego opposto, l’esponente proponeva ricorso dinnanzi al giudice amministrativo per violazione degli artt. 22, 24 e seguenti della legge n. 241 del 1990, nonché per eccesso di potere.
In particolare, il ricorrente lamentava l’errata applicazione del decreto ministeriale n. 115 del 1996 che, in subordine, impugnava ove interpretato nel senso fatto proprio dalla Procura e sosteneva anche l’assoluta prevalenza, sulle esigenze di riservatezza, del diritto di accesso documentale, quando giustificato da un interesse difensivo diretto e concreto.
Al contrario, l’Avvocatura dello Stato, costituitasi in giudizio, sosteneva la tesi dell’inaccessibilità al documento de quo e, ai fini del rigetto del ricorso, portava all’attenzione dei giudici tre diverse questioni.
In primis, la difesa erariale, valorizzando il dettato dell’art. 16, co. 2, del d.lgs. n. 109 del 2006, nella parte in cui rinvia all’applicazione delle norme del codice di rito, sosteneva la natura giurisdizionale della procedura predisciplinare e per tale ragione affermava l’inapplicabilità, in tale fase, delle norme sul procedimento amministrativo.
Inoltre, si evidenziava l’inesistenza di un interesse all’ostensibilità dell’atto in ragione delle finalità perseguite con la normativa sulla responsabilità disciplinare dei magistrati: quest’ultima, infatti, non sarebbe uno strumento per porre rimedio agli errori del processo, né per ottenere il risarcimento di eventuali danni o per verificare e garantire la professionalità dei giudici. In tale prospettiva, si sosteneva che la tutela dei diritti dei cittadini eventualmente lesi dall’attività dei magistrati avviene esclusivamente all’interno del processo, con gli strumenti offerti dalla legge processuale.
Quale ultimo assunto, sempre a dimostrazione della mancanza di un interesse meritevole di tutela, la difesa sosteneva il carattere meramente esplorativo e generico dell’istanza di accesso proposta dall’autore dell’esposto.
Sulle richieste delle parti si è pronunciato il T.A.R di Roma, che ha deciso il ricorso sulla base delle seguenti argomentazioni.
In primo luogo, il collegio giudicante ha richiamato alcune pronunce della giurisprudenza amministrativa che hanno affermato l’ostensibilità dell’atto adottato a conclusione dell’iter disciplinare a carico di vari professionisti[95].
Tra le decisioni elencate, i giudici romani hanno ricordato la sentenza 14 novembre 2005, n. 7 dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, secondo cui la qualità di segnalante “è circostanza idonea, unitamente ad altri elementi, a radicare nell’autore la titolarità di una situazione giuridicamente rilevante che, ai sensi dell’articolo 22 della legge n. 241, legittima all’accesso nei confronti degli atti del procedimento disciplinare che da quell’esposto ha tratto origine”[96].
Nel caso di specie, il Supremo Consesso ravvisò la sussistenza degli “altri elementi”, richiesti ai fini del riconoscimento della legittimazione all’accesso, nella circostanza che il ricorrente aveva “dato corso, per i medesimi fatti denunciati nella sede disciplinare, a un giudizio civile”.
Proprio sulla scorta di tale giurisprudenza e di quella successiva[97], il T.A.R. ha ritenuto jus receptum il principio di ostensibilità dell’esito del procedimento disciplinare e della motivazione ad esso sottesa, nei casi in cui l’istanza provenga dall’autore della segnalazione e sia giustificata da esigenze difensive.
Dunque, asserita l’ammissibilità, in astratto, della richiesta del ricorrente, il collegio ha poi accertato in concreto l’esistenza, in capo a costui, della legittimazione necessaria per l’accesso.
Il giudice a quo, inserendosi nel solco tracciato dalla citata sentenza dell’Adunanza Plenaria, ha ritenuto sussistente la situazione giuridica richiesta dall’art. 22 della legge n. 241 del 1990, sia per la qualità di segnalante del richiedente, sia per la comprovata esistenza di uno specifico interesse difensivo, preesistente e documentato. Infatti, il ricorrente, nel legare la richiesta di ostensione del documento all’esigenza di acquisire elementi di prova per la difesa in giudizio dei propri diritti, aveva anche indicato chiaramente i processi pendenti e quelli da intraprendere.
Ebbene, secondo il T.A.R. di Roma, la titolarità in capo al denunciante della situazione giuridica richiesta dall’art. 22 della legge n. 241 del 1990 legittima costui a conoscere il provvedimento di archiviazione, non essendovi ostacoli legati alla finalità della responsabilità disciplinare o impedimenti di carattere normativo.
In relazione al primo aspetto, il giudice amministrativo ha affermato la non pertinenza delle obiezioni avanzate dalla difesa erariale: se è vero che la tutela dei diritti dei cittadini può e deve essere assicurata esclusivamente all’interno del processo, ciò non esclude che, accanto agli strumenti offerti dalla legge processuale, operi anche l’accesso documentale[98].
Per quanto concerne i limiti di carattere normativo, rinvenuti dalla Procura nel dettato dell’art. 4, co. 1, lett. i), del d.m. n. 115/1996, il T.A.R. ha escluso la loro operatività in forza della valvola di sicurezza di cui all’art. 24, co. 7, della legge n. 241 del 1990.
Tale disposizione, dopo aver delineato i casi di esclusione, stabilisce che l’accesso debba “[…] comunque essere garantito ai richiedenti […] la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici […][99]”.
Pertanto, alla luce di tali considerazioni e in vista dell’accertata sussistenza di un interesse difensivo del ricorrente, il giudice amministrativo ha accolto il ricorso, annullando il diniego impugnato e ordinando alla Procura generale della Cassazione di consentire l’accesso al provvedimento conclusivo della procedura predisciplinare[100].
7. La sentenza del T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 10 marzo 2021, n. 3315: l’accesso difensivo agli atti della fase predisciplinare
A distanza di pochi mesi dalla decisione del dicembre 2020, il T.A.R. di Roma è stato chiamato a pronunciarsi su un caso leggermente diverso da quelli descritti nelle pagine precedenti e su cui vale la pena soffermarsi brevemente, sia per il rilievo della sentenza di primo grado, espressiva della tesi sulla natura amministrativa della fase predisciplinare, sia per l’esito della vicenda processuale, terminata con un’importante pronuncia del Consiglio di Stato che, come si vedrà nelle prossime pagine, ha disconosciuto l’assunto del giudice di prime cure.
Le peculiarità della vicenda sottostante alla sentenza in parola derivano dal fatto che l’istanza di accesso non veniva presentata dall’autore dell’esposto, bensì dallo stesso magistrato destinatario del procedimento disciplinare; costui, all’esito della procedura, conclusasi con il non luogo a procedere, chiedeva l’ostensione di tutti gli atti di indagine della fase predisciplinare che avevano portato alla propria incolpazione.
La richiesta, presentata al Ministero della giustizia, ai sensi della legge n. 241 del 1990, veniva motivata dall’esigenza di verificare i presupposti per l’esercizio di azioni risarcitorie e di iniziative a tutela dell’onorabilità dell’istante[101].
Ricevuta la domanda, l’amministrazione la rigettava, fondando la scelta sulla base di diverse argomentazioni.
In estrema sintesi, il Ministero affermava: l’inostensibilità degli atti ai sensi dell’art. 4, comma 1, del d.m. n. 115 del 1996[102]; l’insussistenza, in capo al richiedente, di un interesse qualificato alla conoscenza dei risultati dell’attività ispettiva; l’assenza di un diritto di accesso, tenuto conto della disciplina di cui all’art. 17, comma 1, del d.lgs. n. 109 del 2006, che attribuisce all’incolpato la possibilità di prendere visione e di estrarre copia del fascicolo del P.G. durante il procedimento[103].
Avverso la suddetta decisione proponeva ricorso l’istante che chiedeva, al giudice amministrativo, l’annullamento del diniego e delle previsioni di cui all’art. 4, comma 1, del d.m. n. 115 del 1996, ove ritenute confliggenti con il diritto di accesso azionato.
Con la sentenza del 10 marzo 2021, n. 3315, il T.A.R. di Roma, nella resistenza del Ministro della giustizia e della Procura della Cassazione, pronunciandosi nel merito, ha ritenuto superabili i motivi del rifiuto.
In primo luogo, il collegio giudicante ha affermato che, nel rispetto della disciplina di cui all’art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990, quando l’accesso è strumentale alla tutela di posizioni giuridiche, i limiti di cui al citato decreto ministeriale non possono essere un ostacolo all’ostensione dei documenti detenuti dall’amministrazione.
Sul punto, il giudice a quo, discostandosi dalle valutazioni contenute nell’atto impugnato, ha rinvenuto nel caso di specie i presupposti per l’operatività dell’accesso difensivo.
In particolare, a giudizio il T.A.R., poiché l’attività ispettiva afferiva ad un procedimento che aveva coinvolto in prima persona il magistrato istante, non poteva negarsi in capo a costui l’esistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale, a nulla rilevando il non luogo a procedere pronunciato dalla Sezione disciplinare.
L’attualità e la concretezza dell’interesse all’ostensione della documentazione, infatti, sono state rivenute dal giudice amministrativo proprio nell’espressa intenzione del ricorrente di voler adire l’autorità giudiziaria per la cura dei propri interessi. Tale circostanza, secondo il T.A.R., sarebbe stata sufficiente a consentire l’accesso, non spettando all’amministrazione destinataria dell’istanza apprezzamenti discrezionali relativi alla concreta utilità e alla decisività della documentazione richiesta nel giudizio da istaurare.
In ultimo, il Tribunale ha precisato che la possibilità di visionare il fascicolo ed estrarne copia nel corso del procedimento non impedisce al magistrato, al termine dell’iter disciplinare, di chiedere l’ostensione dei documenti ai sensi della legge n. 241 del 1990.
Dunque, per le motivazioni sinteticamente richiamate, il T.A.R. ha annullato il diniego impugnato ed ha ordinato di consentire al ricorrente l’accesso agli atti richiesti.
8. Il punto di rottura tra l’orientamento della Procura generale e l’interpretazione fornita dal T.A.R. di Roma
Prima di passare all’esame dei più recenti arresti della giurisprudenza del Consiglio di Stato, che sono espressivi di un risultato interpretativo diametralmente opposto rispetto a quello ora descritto, appare opportuno soffermarsi sul portato delle sentenze fin qui analizzate.
L’operazione potrebbe risultare interessante non solo per sottolineare il punto di rottura che andava consolidandosi tra l’orientamento delle amministrazioni coinvolte e quello della giurisprudenza, ma anche per evidenziare le possibili conseguenze che l’impostazione ermeneutica da quest’ultima adottata avrebbe potuto comportare alla luce di una lettura coerente e sistematica delle norme in materia di accesso generalizzato.
Il quadro giurisprudenziale appena esaminato restituisce, infatti, un’immagine del procedimento disciplinare diversa da quella fotografata nei documenti della Procura della Cassazione.
Il primo punto di divergenza concerne la natura amministrativa della fase predisciplinare, che ha consentito al T.A.R. di Roma di applicare le norme in materia di accesso.
In particolare, distanziandosi dalla tesi patrocinata dall’Ufficio del P.G. presso la Suprema Corte, il Tribunale ha appurato la sussistenza di interessi giuridicamente rilevanti connessi all’archiviazione del Procuratore ed ha ordinato l’ostensione del documento, ex art. 24, co. 7, della legge 241 del 1990.
Proprio l’apertura della procedura ad esiti conoscibili rappresenta un ulteriore aspetto di difformità tra quanto sostenuto dalla Procura generale e quanto stabilito dal giudice di prime cure: la soluzione raggiunta in sede processuale tracciava un primo solco sull’asserita segretezza del potere di archiviazione del P.G. poiché, pur nelle strette maglie dell’accesso difensivo, garantiva al soggetto interessato la possibilità di comprendere le ragioni a fondamento della scelta di inazione.
È quindi evidente la frattura: l’interpretazione fornita dal T.A.R. apriva il vicolo cieco della fase predisciplinare ai soggetti titolari di un interesse diretto, concreto ed attuale, che volessero percorrerlo ai fini della tutela di situazioni giuridiche.
La portata dell’approdo ermeneutico che ha riconosciuto l’applicabilità delle disposizioni in materia di accesso documentale al provvedimento adottato de plano dal P.G. si coglie anche nei possibili sviluppi interpretativi che avrebbe potuto stimolare una simile impostazione, spingendo l’evoluzione giurisprudenziale a superare l’orientamento iniziale e ad ammettere l’operatività dell’istituto di cui all’art. 5, co. 3, del d.lgs. n. 33 del 2013.
Il cambio di rotta, infatti, poteva apparire non solo in linea con il concetto di accountability che, come si è già detto, trova un pieno riconoscimento nella regola della pubblicità dell’udienza disciplinare[104], ma si sarebbe basato su una lettura coerente delle disposizioni in materia di accesso generalizzato.
Su tali ultimi aspetti ci si soffermerà nel prossimo paragrafo, provando a chiarire in che modo l’asserita natura amministrativa dell’archiviazione del P.G. avrebbe potuto aprire l’esito della fase predisciplinare ad una generalizzata conoscibilità da parte dei cittadini.
9. L’accesso generalizzato al provvedimento di archiviazione adottato dal Procuratore generale
Con la sentenza del marzo 2020, il Consiglio di Stato, seppur implicitamente, ha accolto la tesi della natura amministrativa della fase predisciplinare e del provvedimento di archiviazione del Procuratore generale. Tuttavia, tale considerazione non ha impedito ai magistrati di Palazzo Spada di escludere l’operatività dell’accesso generalizzato sulla base dell’art. 5 bis, co. 3, del d.lgs. n. 33 del 2013, letto in combinato disposto con l’art. 4, co. 1, lett. i), del d.m. n. 115 del 1996.
Come si ricorderà, i giudici di secondo grado hanno ritenuto che la prima delle citate norme, nella parte in cui fa riferimento ai “[…] casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti […]”, rinvia ai divieti aliunde previsti e, quindi, anche a quelli stabiliti dal richiamato decreto, nonostante quest’ultimo sia stato adottato con riferimento all’istituto di cui alla legge n. 241 del 1990[105].
In realtà, l’asserito carattere amministrativo del documento de quo avrebbe potuto portare il Consiglio di Stato ad una soluzione differente.
La tesi proposta con la sentenza in commento si basa, infatti, su un’argomentazione che, in una prospettiva di sistema, risulta superabile.
In primis, occorre evidenziare che la lettura proposta dal collegio giudicante sfrutta la scarsa chiarezza della disciplina sui limiti, comportando delle conseguenze che non sono di poco conto: se il rigetto dell’amministrazione può essere legittimato da un qualsiasi ostacolo rinvenibile nell’ordinamento, il rischio evidente è quello di mortificare in maniera significativa le potenzialità dello strumento conoscitivo disciplinato dall’art. 5, co. 2, del d.lgs. n. 33 del 2013.
Inoltre, l’applicazione all’accesso generalizzato dei divieti contemplati nelle fonti regolamentari, concepite per l’attuazione dell’accesso documentale, appare di dubbia legittimità costituzionale.
Sul punto, giova sottolineare il carattere fondamentale del right to know, riconosciuto anche a livello sovrannazionale.
In particolare, per quanto qui rileva, la Corte europea dei diritti dell’uomo, a partire dal 2006, ha rinvenuto nell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) l’affermazione del diritto di accesso dei cittadini ai documenti di interesse pubblico[106]. Quest’ultima disposizione, infatti, al comma 1, stabilisce che “ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà […] di ricevere […] informazioni […] senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche”; mentre, al successivo comma 2, dispone che l’esercizio delle libertà garantite “può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica”[107].
Come chiarito dalla Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri, n. 1 del 2019, la riconducibilità del diritto di accesso generalizzato alla tutela garantita dall’art. 10 della CEDU comporta l’esistenza di una riserva di legge in materia di eccezioni assolute, espressamente stabilita dal comma 2 del citato articolo[108]: è il legislatore a dover prevedere i limiti tassativi all’ostensione dei documenti, non le singole amministrazioni[109].
Da questo argomento, condiviso dalla più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato[110], si può desumere, in via generale, che l’applicazione dei divieti contenuti nelle fonti regolamentari al diritto de quo configura un’ipotesi di illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117 Cost.[111].
Ebbene, la valorizzazione degli aspetti appena evidenziati avrebbe potuto spingere i giudici di secondo grado a superare gli ostacoli dell’interpretazione adottata e ad ammettere l’accesso generalizzato all’archiviazione del Procuratore generale.
Del resto, considerando che l’attività predisciplinare svolta nei confronti dei magistrati è parte di un procedimento finalizzato a garantire la corretta amministrazione della giustizia, che è una funzione istituzionale dello Stato, un simile risultato sarebbe apparso pienamente coerente con lo scopo dell’istituto, che è quello “di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali […] e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico” (art. 5, co. 2, d.lgs. n. 33 del 2013)[112]. Pertanto, in linea con gli obiettivi perseguiti dal legislatore del 2016 e nella medesima logica di accountability valorizzata dalla normativa di riferimento, la generalizzata ostensibilità della decisione del P.G. avrebbe garantito a chiunque la possibilità di comprendere l’operato della Procura generale[113], così chiamata a dare conto delle soluzioni adottate nell’esercizio di un potere che incide su un interesse collettivo[114].
10. Il recente orientamento del Consiglio di Stato: il carattere giurisdizionale della fase predisciplinare
La natura amministrativa del provvedimento di archiviazione affermata, seppur implicitamente, sia dal Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza del 5 marzo 2020, n. 2309, che dalla giurisprudenza di primo grado, lasciava aperta la possibilità di un overruling in materia di accesso generalizzato.
L’occasione è, però, sfumata: il cambio di rotta, infatti, è andato in un senso contrario a quello della full disclosure poiché ha toccato il presupposto dell’applicazione delle norme in materia di accesso, ossia il carattere amministrativo del suddetto documento.
Il mutamento di prospettiva è stato esplicitato dal Consiglio di Stato, sez. V, con due recenti pronunciamenti, su cui occorre soffermarsi.
La prima sentenza che viene in rilievo è la n. 2593 dell’11 marzo 2021, adottata all’esito del giudizio di appello promosso dalla Procura della Cassazione avverso la decisione del T.A.R. di Roma, sez. I, 2 dicembre 2020, n. 1332, che, come si è avuto modo di chiarire, aveva ordinato all’amministrazione di consentire, all’autore di un esposto, l’accesso difensivo all’archiviazione del P.G.
In questo caso, l’Ufficio appellante, nonostante il ricorso al giudice di secondo grado, non chiedeva la sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata ed anzi si conformava all’ordine del T.A.R. consegnando una copia del provvedimento richiesto. Tale comportamento veniva eccepito dall’originario ricorrente, il quale sosteneva che il conseguimento del documento rendeva ormai inutile l’appello, essendo venuta meno la possibilità, per la Procura, di ottenere un risultato utile.
Con la pronuncia in parola, il Consiglio di Stato ha accolto l’eccezione di improcedibilità per la sopravvenuta carenza di interesse e si è pronunciato unicamente in punto di spese di lite, svolgendo, a tal proposito, alcune considerazioni che risultano indicative del nuovo orientamento.
In particolare, i giudici di Palazzo Spada hanno rigettato la domanda di condanna alle spese formulata dalla parte resistente, stabilendo la compensazione dei costi del giudizio.
La scelta è stata giustificata da due circostanze: da un lato, il comportamento processuale della Procura, che aveva consentito l’accesso in corso di causa; dall’altro, la soccombenza virtuale dell’autore dell’esposto.
Nel motivare quest’ultima asserzione il collegio giudicante ha evidentemente preso le distanze dalla decisione di primo grado, affermando che nel merito l’appello appariva meritevole di accoglimento “[…] giacché gli atti del procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari non sono atti amministrativi secondo la disciplina sull’accesso ex art. 22 della legge 7 agosto 1990, n. 241, ma casomai giurisdizionali sulla scorta degli artt. 15 e 16 del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 […]”.
Ebbene, con tali brevi considerazioni e senza effettuare alcuna differenza, in merito al regime applicabile, tra gli atti della procedura predisciplinare e quelli della fase successiva, il Consiglio di Stato ha rinnegato l’applicabilità delle disposizioni in materia di accesso all’archiviazione del Procuratore generale ed ha, infine, dichiarato improcedibile l’appello, ordinando la compensazione delle spese di causa.
10.1. L’ultimo tassello del quadro giurisprudenziale in materia: la sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, 1 luglio 2021, n. 5712
Il secondo pronunciamento che viene in rilievo, quale espressione del nuovo orientamento del Consiglio di Stato, è la sentenza 1 luglio 2021 n. 5712, adottata a seguito dell’appello proposto dal Ministero della giustizia e dalla Procura generale contro la sentenza del T.A.R. di Roma, sez. I, 10 marzo 2021, n. 3315.
Come si è detto, con quest’ultima pronuncia il giudice di prime cure aveva ordinato l’ostensione, ai sensi dell’art. 24, co. 7, della legge n. 241 del 1990, degli atti della fase antecedente all’esercizio dell’azione del P.G., sull’assunto della natura amministrativa della procedura e della relativa documentazione.
Con l’appello al giudice di secondo grado, le amministrazioni avanzavano quattro motivi di ricorso.
In primo luogo, si lamentava la violazione e la falsa applicazione degli artt. 22 e seguenti della legge n. 241 del 1990, sostenendo l’inapplicabilità delle disposizioni in materia di accesso documentale agli atti della fase predisciplinare, dall’asserito carattere giurisdizionale.
Con il secondo motivo, invece, si contestava l’esistenza dei presupposti per l’operatività dell’accesso difensivo.
In altri termini, il Ministero e la Procura affermavano l’insussistenza, ai fini dell’ostensione della documentazione, di un interesse qualificato, concreto ed attuale in capo all’istante.
Inoltre, con il terzo motivo si deduceva la violazione della disciplina sui limiti all’accesso documentale, per non aver il giudice di prime cure considerato il divieto di cui al d.m. n. 115 del 1996.
In ultima istanza, si affermava l’erronea valutazione, da parte del T.A.R., dell’apprezzamento svolto dall’amministrazione per escludere il nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la difesa degli interessi dell’originario ricorrente.
Il giudizio sul ricorso promosso dal Ministero giustizia e dalla Procura generale ha fornito ai giudici di secondo grado l’occasione per riprendere ed argomentare in maniera più diffusa la decisione adottata con la sentenza n. 2593 del 2021.
Partendo dall’incontestato carattere giurisdizionale della fase successiva all’esercizio dell’azione, il giudice a quo ha affermato che la medesima natura contraddistingue anche la fase predisciplinare.
Tale considerazione, secondo i giudici di Palazzo Spada, si giustifica alla luce dello stretto legame di strumentalità che intercorre tra le due fasi: la procedura predisciplinare rappresenta il presupposto logico e giuridico dell’eventuale incolpazione, a cui segue un iter di carattere giurisdizionale.
Pertanto, il collegio giudicante, ritenendo inscindibili i due momenti, ha affermato che essi sono parte di un unico procedimento avente natura sostanzialmente giurisdizionale, sottratto in toto all’applicazione delle regole in materia di accesso agli atti amministrativi.
Per tali motivi, il Consiglio di Stato ha ritenuto fondato il primo motivo di appello.
L’affermazione relativa all’impossibilità di ammettere l’ostensione dei documenti, a causa della mancanza del presupposto necessario per l’applicazione delle regole di cui alla legge n. 241 del 1990, avrebbe forse potuto avere un carattere assorbente rispetto alle altre doglianze.
Ciononostante, la sentenza si è soffermata anche sui successivi motivi di ricorso, giudicandoli, parimenti, fondati.
In estrema sintesi, per quanto riguarda la sussistenza di un interesse qualificato dell’istante, i magistrati di secondo grado hanno ritenuto carente tale requisito: l’istanza del privato risultava dichiaratamente finalizzata a realizzare un controllo successivo della regolarità di quella che i giudici hanno comunque definito “azione amministrativa in sede di istruttoria pre-disciplinare”; in più, ad avviso del collegio, la suddetta richiesta, per il suo carattere onnicomprensivo e generico, non chiariva i motivi per i quali l’accesso risultava strumentale alle esigenze difensive.
In relazione al terzo motivo di appello, il Consiglio di Stato ha affermato che il dettato dell’art. 4, comma 1, lett. i, del d.m. n. 115 del 1996, nel sottrarre all’accesso documentale la “documentazione attinente ai procedimenti […] disciplinari […]”, ricomprende ogni risultanza del procedimento, tra cui anche gli atti della fase antecedente all’iniziativa disciplinare.
In conclusione, reputando assorbente l’accoglimento delle suddette doglianze rispetto al quarto motivo di gravame, il Consiglio di Stato ha accolto l’appello proposto dalla Procura generale e dal Ministero della giustizia.
11. Considerazioni conclusive
Lo stemperamento dell’obbligatorietà dell’iniziativa disciplinare, attuato attraverso il riconoscimento di un potere di archiviazione diretta, non sottoposto al controllo della competente Sezione del CSM, ha certamente determinato un importante spazio di autonomia valutativa e decisionale in capo al Procuratore generale. Sul punto, giova ricordare che l’art. 16, co. 5 bis, del d.lgs. n. 109 del 2006, individua una pluralità di casi in cui il pubblico ministero può archiviare de plano l’esposto, alcuni dei quali richiedono un vero e proprio giudizio di merito sul fatto segnalato.
In altri termini, se la mancanza di una denuncia circostanziata e l’atipicità della condotta segnalata appaiono ipotesi in cui la valutazione richiesta sembra strettamente legata alla formulazione dell’esposto e al suo contenuto formale, ciò non può dirsi anche per le altre situazioni che, invece, richiedono anche un accertamento di carattere sostanziale.
Ci si riferisce, in particolare, sia al caso di scarsa rilevanza del fatto, sia a quello in cui a seguito delle sommarie indagini preliminari l’illecito risulti inesistente o non commesso: tali fattispecie delineano una funzione propriamente di merito e decisionale, che può aprire margini di discrezionalità dai confini incerti.
In ogni caso, è evidente la delicatezza della funzione svolta dal P.G., a cui si lega il rischio dell’adozione di soluzioni improntate su parametri diversi a seconda dei momenti[115].
La particolarità del ruolo del Procuratore è amplificata anche dall’incidenza delle sue scelte, che non coinvolgono solo i singoli magistrati ma anche la collettività, titolare dell’interesse al regolare e corretto svolgimento della giurisdizione.
Ciononostante, si è già detto, la Procura della Cassazione ritiene che il provvedimento conclusivo della fase predisciplinare debba essere segreto, disconoscendo, a priori, la sussistenza dell’esigenza pubblica di trasparenza e l’esistenza di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante alla conoscenza del documento.
La tesi dell’imperscrutabilità dell’archiviazione, nel sottrarre allo sguardo dei cives una decisione libera dal vaglio del giudice disciplinare, corre il rischio di indurre la collettività a sospettare della mancanza di oggettività ed uniformità dei criteri di volta in volta utilizzati per decidere sul mancato esercizio dell’azione.
Si comprende, quindi, il rilievo della soluzione del T.A.R. di Roma che, in una diversa prospettiva, aveva consentito l’ostensione dell’archiviazione ai sensi dell’art. 24, co. 7, della legge n. 241 del 1990.
L’orientamento del giudice amministrativo, ammettendo l’accesso difensivo alla scelta di inazione, da un lato, stabiliva un primo, pur moderato, contrappeso al potere di “cestinazione diretta” del P.G. e, dall’altro, riconosceva e tutelava l’esistenza di interessi qualificati all’acquisizione del documento.
In altri termini, anche se in funzione strettamente strumentale alla tutela di situazioni giuridiche individuali, la posizione del T.A.R. di Roma rendeva visibili all’esterno le modalità di esercizio del potere di archiviazione e garantiva al soggetto interessato la conoscibilità dell’atto.
Il nuovo filone inaugurato dalla quinta sezione del Consiglio di Stato, invece, potrebbe spingere ad un risultato completamente diverso.
In particolare, l’asserita natura giurisdizionale del provvedimento del Procuratore apre le porte all’applicazione dell’art. 116 del Codice di procedura penale.
La citata norma, al primo comma, stabilisce che chiunque vi abbia interesse può ottenere copia degli atti di un procedimento penale e rimette all’autorità giudiziaria destinataria dell’istanza la valutazione relativa all’esistenza dei presupposti per il rilascio dei documenti[116].
Tra la richiamata normativa e la disciplina dell’accesso di cui alla legge n. 241 del 1990 possono cogliersi almeno tre differenze, concernenti: la natura giuridica della pretesa azionata, il tipo di giudizio svolto dall’organo competente e la tutela giurisdizionale del richiedente.
Quanto al primo aspetto, se in materia di accesso agli atti amministrativi l’orientamento maggioritario della giurisprudenza qualifica la posizione del privato in termini di diritto soggettivo[117], ciò non vale per il caso regolato dalla disciplina del codice di rito. In quest’ultima ipotesi, infatti, le Sezioni Unite della Cassazione hanno negato la sussistenza di un diritto all’ostensione della documentazione, precisando che l’art. 116 c.p.p. prevede solo “[…] una mera possibilità […] della parte interessata ad ottenere il rilascio di copia degli atti […]”[118].
La differenza tra le due posizioni si riflette sul secondo profilo di divergenza, ossia sul tipo di valutazione che deve essere svolta sulla domanda presentata.
Più precisamente, in sede di esame dell’istanza di accesso documentale, l’amministrazione esercita un potere vincolato, finalizzato esclusivamente ad accertare la sussistenza dei presupposti di legge e l’assenza di specifici divieti[119] che, ad ogni modo, non potrebbero comunque ostacolare l’accesso defensionale[120]. Diversamente, l’ostensione degli atti processuali è rimessa ad una valutazione “ampiamente discrezionale” dell’autorità giudiziaria, chiamata ad effettuare un contemperamento tra gli interessi in gioco[121].
Un’ultima differenza riguarda la tutela giurisdizionale azionabile nel caso di rigetto della richiesta.
Per quanto concerne il diritto di accesso, la materia, ex art. 133, comma 1, lett. a), n. 6, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (Codice del processo amministrativo), rientra nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo[122]. Sul punto, l’art. 116 del c.p.a. prevede un rito ad hoc, che consente al privato insoddisfatto di poter impugnare le determinazioni e l’eventuale silenzio della P.A. al fine di ottenere, sussistendone i presupposti, una sentenza di condanna all’ostensione del documento[123]. Dunque, in questo ambito, le scelte dell’amministrazione possono essere sottoposte al sindacato del giudice che, laddove non ravvisi motivi ostativi all’accesso, può ordinare il rilascio dell’atto richiesto.
La situazione è completamente diversa per il diniego delle istanze presentate ai sensi dell’art. 116 del codice di rito. La giurisprudenza ha infatti precisato che, in mancanza di un’espressa previsione di legge, il rigetto adottato dall’organo competente è insindacabile in forza del principio di tassatività dei provvedimenti impugnabili e dei relativi mezzi di impugnazione[124].
Pertanto, nonostante in alcune pronunce si accolga l’ipotesi del ricorso per Cassazione per il vizio di abnormità[125], è evidente che nel caso di specie non esiste una tutela giudiziale al pari di quella prevista per il diritto di accesso documentale.
In sintesi, il percorso per il rilascio di copie di atti processuali può essere una strettoia altamente selettiva: non sussiste una posizione giuridica qualificata al rilascio del documento, la valutazione sull’istanza è discrezionale e la decisione finale dell’organo decidente non è impugnabile.
Ebbene, le considerazioni sull’art. 116 c.p.p., soprattutto se lette alla luce dell’orientamento della Procura generale, inducono a ritenere che, con il nuovo indirizzo del Consiglio di Stato, il vicolo dell’accesso all’archiviazione del P.G. possa diventare ancora più stretto o, addirittura, un vero e proprio cul-de-sac.
Non resta dunque che attendere nuovi sviluppi per comprendere quale sarà l’effettivo utilizzo, da parte del Procuratore generale, del potere di consentire il rilascio del provvedimento adottato ex art. 16, co. 5 bis, del d.lgs. n. 109 del 2006.
Abstract: The news of a disciplinary offense committed by a judge obliges the General Prosecutor of the Court of Cassation to exercise a disciplinary action, which determines the start of a procedure ending with a decision of the High Council of the Judiciary. The obligation of initiative is counterbalanced by a particular power: in some cases, the General Prosecutor may not exercise the disciplinary action, adopting an archiving measure implemented without the control of the disciplinary judge. The Prosecutor General’s Office denies the knowability of the archiving provision and rejects civic access requests. After describing the relevant legislation, this paper outlines the reasons why the Prosecutor General’s Office believes that archiving measure should be secret and it analyzes the most recent jurisprudence on the subject. At the heart of the problem lies the nature of the measure, on which the application of the legislation on the access to administrative documents depends.
Keywords: access to administrative documents, transparency, disciplinary responsibility of judges, archiving provision, pre-disciplinary phase, judges, accountability, civic access, right to know.
* Università di Napoli Federico II (sar.silvestre@libero.it).
** Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
[1] Per “trasparenza amministrativa” si intende la conoscibilità dell’attività amministrativa da parte dei cittadini. Sul concetto di trasparenza e sull’utilità di tale strumento, si v. G. Arena, Le diverse finalità della trasparenza amministrativa, in La trasparenza amministrativa, a cura di F. Merloni, Milano, 2008, pp. 29 e ss. Si v. anche A. Corrado, Conoscere per partecipare: la strada tracciata dalla trasparenza amministrativa, Napoli, 2018, pp. 3 e ss.
[2] Sul percorso della trasparenza amministrativa in Italia, si v. R. Cantone, Il sistema della prevenzione della corruzione,Torino, 2020, pp. 204 e ss.
[3] Prima delle modifiche apportate dall’art. 15, co. 1, della legge 11 febbraio 2005, n. 15, il testo originario dell’art. 22, co. 1, della legge n. 241 del 1990, stabiliva: “Al fine di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa e di favorirne lo svolgimento imparziale è riconosciuto a chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti il diritto di accesso ai documenti amministrativi, secondo le modalità della presente legge”. Per una spiegazione del disegno iniziale, del modello realizzato e delle modifiche intervenute nel 2005, si rinvia a G. Arena, Le diverse finalità della trasparenza amministrativa, cit., pp. 30 e ss.; E. Carloni, L’amministrazione aperta. Regole strumenti limiti dell’open governament, Santarcangelo di Romagna, 2014, pp. 137 e ss.; M. Lipari, Il diritto di accesso e la sua frammentazione dalla legge n. 241/1990 all’accesso civico: il problema delle esclusioni e delle limitazioni oggettive, in Federalismi, in federalismi.it, 17 (2019), pp. 7 e ss.
[4] Come si avrà modo di precisare infra, l’art. 24 della legge n. 241 del 1990 individua specifici limiti all’accesso documentale.Per un approfondimento di questo istituto, si v., ex multis, A. Corrado, Conoscere per partecipare: la strada tracciata dalla trasparenza amministrativa, cit., pp. 115 e ss.
[5] L’art. 24, co. 3, della legge n. 241 del 1990, stabilisce, infatti, che “Non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”.
[6] In questi termini, si v. le Linee guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione della esclusione e dei limiti all’accesso civico di cui all’art. 5 co. 2 del d.lgs. 33/2012, adottate dall’ANAC con delibera 28 dicembre 2016, n. 1309, p. 6. In dottrina, si v. F. Merloni, La trasparenza come strumento di lotta alla corruzione tra legge n. 190 del 2012 e d.lgs. n. 33 del 2013, in La trasparenza amministrativa dopo il d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, a cura di B. Ponti, Rimini, 2013, p. 21; A. Corrado, Conoscere per partecipare: la strada tracciata dalla trasparenza amministrativa, cit., pp. 115, 116; R. Cantone, Il sistema della prevenzione della corruzione, cit., p. 235.
[7] L’art. 25, co. 2, della legge n. 241 del 1990 stabilisce: “La richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata. Essa deve essere rivolta all’amministrazione che ha formato il documento o che lo detiene stabilmente”.
[8] Ci si riferisce, in particolare, al d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, c.d. “Codice dell’amministrazione digitale” (CAD) che, sfruttando la diffusione delle tecnologie informatiche e di internet, ha previsto l’obbligo, per le amministrazioni, di pubblicare online, sui propri siti istituzionali,una serie di informazioni relative alle attività svolte. Successivamente, l’elenco degli obblighi di pubblicazione è stato implementato con legge 4 marzo 2009, n. 15 e con l’approvazione del d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150. M. Savino, La nuova disciplina della trasparenza amministrativa (Commento al d.lgs. n. 33 del 2013), in Giorn. dir. amm., 8-9 (2013), pp. 797-798, parla di una vera e propria “euforia legislativa” che, tuttavia, ha comportato “frammentarietà e ridondanza della normativa sulla pubblicità”. Sul punto, si v. anche R. Cantone, Il sistema della prevenzione della corruzione, cit., pp. 208, 209.
[9] Sul percorso della trasparenza proattiva nell’ordinamento giuridico italiano si v. F. Cacciatore - F. Di Mascio - A. Natalini, La trasparenza proattiva in Italia: meccanismi causali e dinamiche di contesto, in Riv. it. pol. pubb., 1 (2017), pp. 49 ss.
[10] L’art. 1, co. 35, della legge Severino, attribuiva al Governo il potere di “[…] adottare, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica […] un decreto legislativo per il riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, mediante la modifica o l’integrazione delle disposizioni vigenti, ovvero mediante la previsione di nuove forme di pubblicità […]”, entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge. Come si vedrà nel prosieguo, il frutto di questa delega è il d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33.
[11] Sul ruolo delle Convenzioni internazionali in materia, si v. R. Cantone, Il sistema della prevenzione della corruzione, cit., pp. 3 e ss.
[12] In Italia la corruzione è stata storicamente combattuta con la repressione penale. Sul punto si rinvia, ex multis, a M. Clarich - B. G. Mattarella, La prevenzione della corruzione, in La legge anticorruzione, a cura di B. G. Mattarella - M. Pelissero, Torino, 2013, pp. 59, 61; R. Cantone, La prevenzione della corruzione e il ruolo dell’ANAC, in Combattere la corruzione. Analisi e proposte, a cura di M. D’Alberti, Soveria Mannelli, 2016, pp. 25, 26; R. Cantone, Il sistema della prevenzione della corruzione, cit., p. 8. Sui limiti di un sistema esclusivamente repressivo, si v. F. Merloni, Le misure di contrasto alla corruzione, in Astrid Rassegna, (astrid-online.it), 18 (2013), p. 4; R. Garofali, Il contrasto alla corruzione: il percorso intrapreso con la L. 6 novembre 2012, n. 190, e le politiche ancora necessarie, in http://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org(13 aprile 2022), p. 5; R. Cantone, Il sistema della prevenzione della corruzione in Italia, in http://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org(13 aprile 2022), p. 2; G. Piperata, Il sistema di prevenzione della corruzione nelle pubbliche amministrazioni: un’introduzione, in Legislazione anticorruzione e responsabilità nella pubblica amministrazione, a cura di F. Cerioni - V. Sarcone, Milano, 2019, pp. 5, 6; N. Parisi, La prevenzione della corruzione nel modello internazionale ed europeo, in Federalismi, (federalismi.it), 9 (2019), pp. 5, 6; R. Cantone, Il sistema della prevenzione della corruzione, cit., p. 8.
[13] Sul modello italiano di prevenzione della corruzione, si rinvia a R. Cantone, Il sistema della prevenzione della corruzione in Italia, cit., pp. 1 e ss.
[14] In dottrina sembra pacifico il legame tra trasparenza e contrasto alla corruzione. Sul punto, si v. F. Merloni, La trasparenza come strumento di lotta alla corruzione tra legge n. 190 del 2012 e d.lgs. n. 33 del 2013, cit., pp. 18, 19, che sottolinea come la trasparenza costituisca una forma di controllo da parte dei cittadini, un giusto mezzo di “pressione” sull’imparzialità oggettiva e soggettiva della pubblica amministrazione; S. Toschei, La prevenzione della corruzione e la trasparenza nelle amministrazioni pubbliche e negli enti di diritto privato in controllo e partecipazione pubblica, in Legislazione anticorruzione e responsabilità nella pubblica amministrazione, cit., p. 128. Si v. anche, E. Carloni, Alla luce del sole. Trasparenza amministrativa e prevenzione della corruzione, in Dir. Amm., 3 (2019), p. 503, secondo cui “se la corruzione matura nel segreto e nell’opacità, la trasparenza, è allora la risposta”.
[15] Sul punto, si v. R. Cantone, Il sistema della prevenzione della corruzione, cit., p. 13. Sul concetto di accountability, si v. L. Reggi, Che cosa è l’accountability, in http://focus.formez.it/sites/all/files/ud12_cosa_e_accountability.pdf(6 aprile 2022).
[16] Sul d.lgs. n. 33 del 2013, in via meramente esemplificativa, si v. M. Savino, La nuova disciplina della trasparenza amministrativa (Commento al d.lgs. n. 33 del 2013), cit., pp. 795 e ss.; F. Patroni Griffi, La trasparenza della pubblica amministrazione tra accessibilità totale e riservatezza, in federalismi.it, 8 (2013), pp. 1 e ss.; A. Bonomo, Il Codice della trasparenza e il nuovo regime di conoscibilità dei dati pubblici, in Ist. Fed., 3-4 (2013), pp. 725 e ss.; P. Canaparo, La via italiana alla trasparenza pubblica: il diritto di informazione indifferenziato e il ruolo proattivo delle pubbliche amministrazioni, in federalismi.it, 4 (2014), pp. 1 e ss.
[17] Il d.lgs. n. 33 del 2013 ha stabilito, all’art. 9, che ogni amministrazione debba introdurre sul proprio sito istituzionale un’apposita sezione, denominata “Amministrazione trasparente”, all’interno della quale pubblicare i contenuti previsti dagli artt. 10 a 42. Si tratta, più precisamente, di informazioni di pubblico interesse, la cui pubblicità conferisce ai cittadini la possibilità di esercitare un controllo consapevole ed informato sulle attività della pubblica amministrazione che hanno particolare rilievo (basti pensare, ad esempio, alle notizie relative agli investimenti effettuati per le opere pubbliche, di cui all’art. 38, co. 2, del d.lgs. n. 33 del 2013). È bene precisare che il legislatore guida in maniera dettagliata l’adempimento degli obblighi di pubblicazione. In estrema sintesi, le pubbliche amministrazioni devono garantire “[…] la qualità delle informazioni riportate nei siti istituzionali nel rispetto degli obblighi di pubblicazione previsti dalla legge, assicurandone l’integrità, il costante aggiornamento, la completezza, la tempestività, la semplicità di consultazione, la comprensibilità, l’omogeneità, la facile accessibilità, nonché la conformità ai documenti originali in possesso dell'amministrazione, l’indicazione della loro provenienza e la riutilizzabilità […]” (art. 6, co. 1, del d.lgs. n. 33 del 2013). Sono previsti anche specifici limiti e divieti a cui devono attenersi le amministrazioni. In particolare, l’art. 7 bis, del d.lgs. n. 33 del 2013, stabilisce che dei dati “sensibili” e “giudiziari” (di cui all’art. 4 lett. d e lett. e del Codice in materia di protezione dei dati personali) non deve essere consentita l’indicizzazione, la rintracciabilità e il riutilizzo (co. 1); inoltre, le amministrazioni devono “[…] provvedere a rendere non intelligibili i dati personali non pertinenti o, se sensibili o giudiziari, non indispensabili rispetto alle specifiche finalità di trasparenza della pubblicazione” (co. 4). Tuttavia, nei casi in cui i dati siano quelli relativi ai titolari di organi di indirizzo politico e di uffici o incarichi di diretta collaborazione, nonché a dirigenti titolari degli organi amministrativi, essendo considerate notizie di interesse pubblico, dovranno essere pubblicati sempre in modo integrale (co. 2). Specifici divieti sono previsti dal citato art. 7 bis e riguardano: “[…] le notizie concernenti la natura delle infermità e degli impedimenti personali o familiari che causino l’astensione dal lavoro, nonché le componenti della valutazione o le notizie concernenti il rapporto di lavoro tra il predetto dipendente e l’amministrazione […]” idonee a rivelare dati sensibili (co. 5); le “[…] informazioni di cui all’articolo 24, commi 1 e 6, della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modifiche, di tutti i dati di cui all’articolo 9 del decreto legislativo 6 settembre 1989, n. 322, di quelli previsti dalla normativa europea in materia di tutela del segreto statistico e di quelli che siano espressamente qualificati come riservati dalla normativa nazionale ed europea in materia statistica, nonché quelli relativi alla diffusione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale (co. 6)”; i “[…] servizi di aggregazione, estrazione e trasmissione massiva degli atti memorizzati in banche dati rese disponibili sul web” (co. 8). L’art. 7 bis, al co. 3, chiarisce anche che le amministrazioni potranno pubblicare documenti che non sono oggetto di pubblicazione obbligatoria, purché nei limiti di cui all’art. 5 bis del d.lgs. n. 33 del 2013 (su cui si v. infra) e procedendo alla indicazione in forma anonima dei dati personali eventualmente presenti. I dati, le informazioni e i documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria sono pubblicati per un periodo di 5 anni, decorrenti dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello da cui decorre l’obbligo di pubblicazione, fatti salvi i diversi termini previsti dalla legge (art. 8 del d.lgs. n. 33 del 2013). Sugli obblighi di pubblicazione e sui relativi contenuti e limiti, si v., più dettagliatamente, A. Corrado, La trasparenza attraverso gli obblighi di pubblicazione, in Riflessioni in tema di lotta alla corruzione, a cura di M. Nunziata, Roma, 2017, pp. 81, 108; R. Cantone, Il sistema della prevenzione della corruzione, cit., pp. 221, 243.
[18] L’espressione è stata utilizzata dall’ANAC nella delibera n. 1309 del 2016, ove, al § 1, si distingue tra accesso “documentale” e accesso civico “semplice” e “generalizzato”.
[19] Così, R. Cantone, Il sistema della prevenzione della corruzione, cit., p. 247.
[20] L’art. 5, co. 1, del d.lgs. n. 33 del 2013, stabilisce: “L’obbligo previsto dalla normativa vigente in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare documenti, informazioni o dati comporta il diritto di chiunque di richiedere i medesimi, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione”.
[21] Il decreto n. 97 del 2016 è stato adottato in forza della delega contenuta nell’art. 7 della legge 7 agosto 2015, n. 124. Per le novità introdotte con il nuovo decreto, si rinvia a M. Savino, Il FOIA italiano. La fine della trasparenza di Bertoldo, in Giorn. dir. amm., 5 (2016), pp. 593 e ss.
[22] Si v. M. Magri, La trasparenza “oltre il FOIA”. Attualità e limiti del modello statunitense, in Il FOIA italiano; vincitori e vinti. Un bilancio a tre anni dall’introduzione, a cura di G. Gardini - M. Magri, Santarcangelo di Romagna, 2019, pp. 89 e ss.
[23] La disciplina dell’accesso civico “generalizzato” è stata introdotta dall’art. 6 del d.lgs. n. 97 del 2016. Sui tratti distintivi delle due forme di accesso civico, si v. S. Villamena, Il c.d. FOIA (o accesso civico 2016) ed il suo coordinamento con istituti consimili, in federalismi.it, 23 (2016), pp. 2 e ss. Sul punto, si v. anche G. Gardini, Il paradosso della trasparenza in Italia: dell’arte di rendere oscure le cose semplici, in federalismi.it, 1 (2017), pp. 2 e ss., che critica la “stratificazione” delle forme di accesso esistenti.
[24] Il riconoscimento del c.d. right to know dei cittadini è finalizzato all’attuazione del principio di trasparenza, così come definito dal nuovo art. 1, co. 1, del d.lgs. n. 33 del 2013, secondo cui: “La trasparenza è intesa come accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”. In questi termini, si v. delibera ANAC, 1309 del 2016, p. 5.
[25] In questi termini, si v. ANAC, n. 1309 del 2016, p. 6.
[26] L’art. 5, co. 3, stabilisce che “L’esercizio del diritto di cui ai commi 1 e 2 non è sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente. L’istanza di accesso civico identifica i dati, le informazioni o i documenti richiesti e non richiede motivazione […]”.
[27] In questi termini, si v. B. Ponti, La trasparenza ed i suoi strumenti: dalla pubblicità all’accesso generalizzato, in Nuova trasparenza amministrativa e libertà di accesso alle informazioni, a cura di B. Ponti, Santarcangelo di Romagna, 2016, p. 56; R. Cantone, Il sistema della prevenzione della corruzione, cit., p. 262; M. Filice, I limiti all’accesso civico generalizzato: tecniche e problemi applicativi, in Dir. Amm., 4 (2019), p. 863.
[28] Nel senso che quella dell’accessibilità totale sia la regola, si v. delibera ANAC n. 1309 del 2016, §5, p. 10.
[29] La disciplina delle eccezioni all’accessibilità totale rappresenta uno degli aspetti più controversi del quadro normativo in materia, si v. E. Carloni, Se questo è un Foia. Il diritto a conoscere tra modelli e tradimenti, in Astrid Rassegna, 4 (2016), pp. 1 e ss.; E. Carloni, Il nuovo diritto di accesso generalizzato e la persistente centralità degli obblighi di pubblicazione, in Dir. Amm., 4 (2016), pp. 579 e ss.; B. Ponti, La trasparenza ed i suoi strumenti: dalla pubblicità all’accesso generalizzato, cit., pp. 56 e ss.; C. Cudia, Pubblicità e diritto alla conoscibilità, in Nuova trasparenza amministrativa e libertà di accesso alle informazioni, cit., p. 112; M. Filice, I limiti all’accesso civico generalizzato, cit., pp. 874 e ss.; N. Vettori, Valori giuridici in conflitto nel regime delle forme di accesso civico, in Dir. Amm., 3 (2019), pp. 555 e ss.
[30] L’art. 5 bis, del d.lgs. n. 33 del 2013 è stato introdotto con l’art. 6, co. 2, del d.lgs. n. 97 del 2016. La citata norma stabilisce, al comma 1, che l’accesso generalizzato “[…] è rifiutato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi pubblici inerenti a: a) la sicurezza pubblica e l’ordine pubblico; b) la sicurezza nazionale; c) la difesa e le questioni militari; d) le relazioni internazionali; e) la politica e la stabilità finanziaria ed economica dello Stato; f) la conduzione di indagini sui reati e il loro perseguimento; g) il regolare svolgimento di attività ispettive”. Al comma 2, invece, l’art. 5 bis, dispone che l’accesso generalizzato “[…] è altresì rifiutato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno dei seguenti interessi privati: a) la protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa in materia; b) la libertà e la segretezza della corrispondenza; c) gli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d’autore e i segreti commerciali”.
[31] Si tratta del c.d. “test del danno”, in inglese “harm test”, su cui si v. la delibera ANAC n. 1309 del 2016, §5, p. 11. In giurisprudenza, si v., in via esemplificativa, T.a.r. Campania, Napoli, sez. VI, 6 marzo 2019, n. 2486, secondo cui “[…] dal dato normativo (art. 5-bis, co. 1 e 2) emerge che il criterio individuato dal legislatore per la valutazione delle esclusioni dall’accesso generalizzato è quello del solo pregiudizio (harm test), mentre resta escluso, contrariamente alle altre esperienze FOIA, la previsione espressa di un test dell’interesse pubblico (the public interest test), cioè la possibilità di effettuare, ai fini della decisione finale sull’istanza di accesso, un bilanciamento tra la tutela da assicurare all’interesse da proteggere dalla disclosure e la tutela dell’interesse pubblico alla diffusione della informazione, per cui se il secondo dovesse risultare prevalente si procederebbe comunque alla diffusione”. In dottrina, si v. A. Corrado, Conoscere per partecipare: la strada tracciata dalla trasparenza amministrativa, cit., pp. 175 e ss.
[32] Per un approfondimento sulle limitazioni all’accesso generalizzato e sui problemi connessi al dettato normativo, si rinvia a E. Carloni, Il nuovo diritto di accesso generalizzato e la persistente centralità degli obblighi di pubblicazione, cit., pp. 579 e ss.; A. Lazzaro, Trasparenza e prevenzione della cattiva amministrazione, Milano, 2017, pp. 193 e ss.; A. Corrado, Conoscere per partecipare: la strada tracciata dalla trasparenza amministrativa, cit., pp. 172 e ss.; R. Cantone, Il sistema della prevenzione della corruzione, cit., pp. 263 e ss.; M. Filice, I limiti all’accesso civico generalizzato, cit., pp. 861 e ss. Una delle critiche mosse al legislatore del 2016 concerne la poca attenzione nella definizione delle preclusioni assolute al right to know dei cittadini, sul punto, si v. G. Gardini, Il paradosso della trasparenza in Italia: dell’arte di rendere oscure le cose semplici, cit., pp. 5 e ss. Sui diversi problemi legati al c.d. FOIA italiano, si rinvia a G. Gardini, L’incerta natura della trasparenza amministrativa, in Il FOIA italiano: vincitori e vinti. Un bilancio a tre anni dall’introduzione, a cura di G. Gardini - M. Magri, Santarcangelo di Romagna, 2019, pp. 17 e ss.; M. Savino, Il FOIA italiano e i suoi critici: per un dibattito scientifico meno platonico, in Dir. Amm., 3 (2019), pp. 453 e ss.; A. Moliterni, La natura giuridica dell’accesso civico generalizzato nel sistema di trasparenza nei confronti dei pubblici poteri, in Dir. Amm., 3 (2019), pp. 577 e ss.
[33] Come precisato, l’art. 5 bis, co. 3, del d.lgs. n. 33 del 2013, rinvia alle limitazioni previste dall’art. 24, co. 1, della legge n. 241 del 1990. Tale disposizione, oggi prevede che “Il diritto di accesso è escluso: a) per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della legge 24 ottobre 1977, n. 801, e successive modificazioni, e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 del presente articolo; b) nei procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano; c) nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione; d) nei procedimenti selettivi, nei confronti dei documenti amministrativi contenenti informazioni di carattere psicoattitudinale relativi a terzi”.
[34] La Costituzione italiana dedica la parte II, titolo IV, sezione I, alle norme sull’ordinamento giudiziario. Sono diverse le disposizioni che si occupano dell’imparzialità e dell’indipendenza dei magistrati. Ad apertura dell’apposita sezione, l’art. 101 Cost. recita: “La giustizia è amministrata nel nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Anche le successive norme sono destinate alla tutela dei suddetti requisiti. In particolare, l’art. 104, co. 1, Cost., stabilisce che “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”; inoltre, l’art. 105, co. 1, Cost., dichiara che “Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”. L’art. 106, co. 1, Cost., invece, dispone che “Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso” e il successivo art. 107, co. 1, Cost., specifica che “I magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del Consiglio superiore della magistratura, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall’ordinamento giudiziario o con il loro consenso”. Infine, secondo il dettato l’art. 108, co. 1, Cost., “Le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge”.
[35] Come precisato dalla Corte Cost., nella sentenza 8 giugno 1981, n. 100, il potere disciplinare nei confronti dei magistrati “[…] è volto a garantire […] il rispetto dell’esigenza di assicurare il regolare svolgimento della funzione giudiziaria che è uno degli aspetti fondamentali dello Stato di diritto […]”. Successivamente, con la sentenza 16 novembre 2000, n. 267, la Corte costituzionale affermò che “[…] il regolare e corretto svolgimento delle funzioni giudiziarie e il prestigio della magistratura investono il momento della concretizzazione dell’ordinamento attraverso la giurisdizione, vale a dire l’applicazione imparziale e indipendente della legge. Si tratta di beni i quali, affidati alle cure del Consiglio superiore della magistratura, non riguardano soltanto l’ordine giudiziario, riduttivamente inteso come corporazione personale, ma appartengono alla generalità dei soggetti e, come del resto la stessa indipendenza della magistratura, costituiscono presidio dei diritti dei cittadini”. Negli stessi termini, si v. CSM, sez. disc., 13 luglio 2004, n. 67, secondo cui “[…] la responsabilità disciplinare dei magistrati, […] non soddisfa un interesse della «corporazione», ma un interesse pubblico generale (alla tutela della credibilità dell’ordine giudiziario, premessa indispensabile della fiducia dei cittadini) di rilievo costituzionale che deve essere garantito compatibilmente con il principio di soggezione esclusiva del magistrato alla legge e con la garanzia costituzionale della autonomia e indipendenza della magistratura”. Sul fondamento della responsabilità disciplinare dei magistrati, si v. D. Cavallini, La responsabilità disciplinare dei magistrati tra innovazione e continuità, in Criminalia, 2011, pp. 142 e ss.; A. Mura, La disciplina dei magistrati. Tipicità degli illeciti e strumenti cautelari, in Criminalia, 2011, pp. 197, 198; V. Tenore, Il fondamento, le finalità e i principi portanti della potestà disciplinare in generale e nella magistratura in particolare, in La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, a cura di V. Tenore, Milano, 2010, pp. 7 e ss.; F. Callari, Dinamiche dei rapporti interni agli uffici requirenti militari e profili rilevanti di responsabilità disciplinare, in La Giustizia penale, 11, parte III (2015), p. 614.
[36] L’art. 105 Cost. recita: “Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”.
[37] Ai sensi dell’art. 4 della legge 24 marzo 1958, n. 195, la Sezione disciplinare è composta da sei membri del Consiglio Superiore della Magistratura: il Vice Presidente del CSM, che la presiede; un membro nominato tra quelli eletti dal Parlamento; un magistrato di Cassazione con effettive funzioni di legittimità; due magistrati che esercitano le funzioni di giudice presso gli uffici di merito (oppure che sono destinati alla Cassazione ai sensi dell’articolo 115 del regio decreto 30 gennaio 1941 n. 12); un magistrato che esercita le funzioni di pubblico ministero presso gli uffici di merito e presso la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (ovvero destinato alla Procura generale presso la Corte suprema di cassazione ai sensi dell’articolo 116 del regio decreto n. 12 del 1941). Sulla natura e composizione della Sezione disciplinare, si rinvia a S. Di Amato, La responsabilità disciplinare dei magistrati: gli illeciti, le sanzioni, il procedimento, Milano, 2013, pp. 471 e ss.
[38] Il d.lgs. n. 109 del 2006, c.d. “codice disciplinare dei magistrati”, è stato adottato in attuazione della legge delega 25 luglio 2005, n. 150. Sulla genesi di quest’ultimo provvedimento legislativo, anche conosciuto come “riforma Castelli”, dal nome dell’allora ministro della giustizia, si v. F. Dal Canto, Le trasformazioni della legge sull’ordinamento giudiziario e il modello italiano di magistrato, in Quaderni costituzionali, 3 (2017), pp. 672-673. Sull’evoluzione della disciplina sulla responsabilità disciplinare dei magistrati ordinari, dal periodo liberale alla riforma del 2006, si rinvia a F. Dal Canto, La responsabilità del magistrato nell’ordinamento italiano. La progressiva trasformazione di un modello: dalla responsabilità del magistrato burocrate a quella del magistrato professionista, in http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/old_sites/sito_AIC_2003-2010/dottrina/garanzie/AIC_dal_canto.pdf(6 aprile 2022), pp. 4, 20. Sulla legge delega 25 luglio 2005, n. 150, si v. E. Rosi, Gli illeciti disciplinari, in Dir. pen. e proc., 12 (2005), pp. 1505 e ss.
[39] L’art. 14, co. 1, del d.lgs. n. 109 del 2006 recita: “L’azione disciplinare è promossa dal Ministro della giustizia e dal Procuratore generale presso la Corte di cassazione”.
[40] L’art. 107, co. 2, Cost. dispone che “Il Ministro della giustizia ha facoltà di promuovere l’azione disciplinare”.
[41] L’art. 14, co. 2, del d.lgs. n. 109 del 2006 stabilisce che “Il Ministro della giustizia ha facoltà di promuovere, entro un anno dalla notizia del fatto, l’azione disciplinare mediante richiesta di indagini al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Dell’iniziativa il Ministro dà comunicazione al Consiglio superiore della magistratura, con indicazione sommaria dei fatti per i quali si procede”. Secondo quanto previsto dall’art. 15, co. 3, d.lgs. n. 109 del 2006, la richiesta di indagini rivolta dal Ministro della giustizia al Procuratore generale determina, a tutti gli effetti, l’inizio del procedimento.
[42] A differenza di quanto previsto per il Ministro, l’art. 14, co. 3, d.lgs. n. 109 del 2006 indica che “Il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione ha l’obbligo di esercitare l’azione disciplinare, dandone comunicazione al Ministro della giustizia e al Consiglio superiore della magistratura, con indicazione sommaria dei fatti per i quali si procede. Il Ministro della giustizia, se ritiene che l’azione disciplinare deve essere estesa ad altri fatti, ne fa richiesta, nel corso delle indagini, al Procuratore generale”.
[43] Sul procedimento disciplinare, si v., più dettagliatamente, M. Fresa, Profili procedurali: il procedimento disciplinare innanzi al C.S.M: iniziativa, istruttoria, conclusione, in La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali, cit., pp. 347 e ss.
[44] Come si vedrà, a seguito dell’esercizio dell’azione, la procedura aperta su iniziativa del P.G. termina con una sentenza della Sezione disciplinare del CSM, impugnabile con ricorso per Cassazione. Le norme del d.lgs. n. 109 del 2006 che richiamano espressamente l’applicazione delle disposizioni del codice di procedura penale sono l’art. 16, co. 2 e l’art. 18, co. 4. La prima delle due stabilisce che “Per l’attività di indagine si osservano, in quanto compatibili, le norme del codice di procedura penale, eccezione fatta per quelle che comportano l’esercizio di poteri coercitivi nei confronti dell’imputato, delle persone informate sui fatti, dei periti e degli interpreti. Si applica, comunque, quanto previsto dall’articolo 133 del codice penale”. La seconda norma, invece, dispone che, nella discussione orale dinnanzi alla Sezione disciplinare, “Si osservano, in quanto compatibili, le norme del codice di procedura penale sul dibattimento, eccezione fatta per quelle comportano l’esercizio di poteri coercitivi nei confronti dell’imputato, dei testimoni, dei periti e degli interpreti. Resta fermo quanto previsto dall’art. 133 del codice di procedura penale”. La Corte costituzionale ha evidenziato che la natura giurisdizionale di tale procedimento disciplinare lo distingue da quello a carico dei magistrati amministrativi. In particolare, con la sentenza 11 aprile 2009 n. 87, la Consulta ha affermato che “Il procedimento disciplinare relativo ai magistrati ordinari ha natura giurisdizionale e si svolge dinanzi alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con quanto ne consegue in ordine al regime delle impugnazioni. Quello relativo ai magistrati amministrativi ha natura di procedimento amministrativo e si svolge dinanzi al Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa o al Consiglio di presidenza della Corte dei conti”. Più di recente, si v. Cass. Civ. Sez. Un., 28 gennaio 2020, n. 6690. Per un confronto con la regolamentazione concernente la responsabilità disciplinare dei magistrati amministrativi, si v. V. Tenore, I profili ricostruttivi della responsabilità disciplinare dei magistrati amministrativi, in Dir. proc. amm., 3 (2016), pp. 934 e ss.
[45] Come precisato dall’art. 15, co. 4, del d.lgs. n. 109 del 2006, “Dell’inizio del procedimento deve essere data comunicazione, entro trenta giorni, all’incolpato, con l’indicazione del fatto che gli viene addebitato. Deve procedersi ad analoga comunicazione per le ulteriori contestazioni di cui all’art. 14, comma 5. L’incolpato può farsi assistere da altro magistrato, anche in quiescenza, o da un avvocato, designati in qualunque momento dopo la comunicazione dell’addebito, nonché, se del caso, da un consulente tecnico”.
[46] L’art. 15, co. 2, del d.lgs. n. 109 del 2006, stabilisce che “Entro due anni dall’inizio del procedimento il Procuratore generale deve formulare le richieste conclusive di cui all’articolo 17, commi 2 e 6 […]”. Ai sensi dell’art. 17, co. 1, del d.lgs. n. 109 del 2006, il P.G., compiute le indagini, formula le richieste conclusive e “[…] invia alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura il fascicolo del procedimento, dandone comunicazione all'incolpato. Il fascicolo è depositato nella segreteria della sezione a disposizione dell'incolpato, che può prenderne visione ed estrarre copia degli atti”.
[47] L’art. 17 del d.lgs. n. 109 del 2006, dopo aver previsto, al comma 6, che “Il Procuratore generale, nel caso in cui ritenga che si debba escludere l’addebito, fa richiesta motivata alla sezione disciplinare per la declaratoria di non luogo a procedere” dandone “comunicazione al Ministro della giustizia nell’ipotesi in cui egli abbia promosso l’azione disciplinare ovvero richiesto l’integrazione della contestazione, con invio di copia dell’atto”; al comma 7, stabilisce che “Il Ministro della giustizia, entro dieci giorni dal ricevimento della comunicazione di cui al comma 6, può richiedere copia degli atti del procedimento, nell’ipotesi in cui egli abbia promosso l’azione disciplinare, ovvero richiesto l’integrazione della contestazione, e, nei venti giorni successivi dalla ricezione degli stessi, può richiedere al presidente della sezione disciplinare la fissazione dell’udienza di discussione orale, formulando l’incolpazione […]”.
[48] L’udienza svolta dinnanzi alla Sezione disciplinare è regolata dall’art. 18 del d.lgs. n. 109/2006. Tale disposizione, al co. 2, stabilisce: “L’udienza è pubblica. La sezione disciplinare, su richiesta di una delle parti, può disporre che la discussione si svolga a porte chiuse se ricorrono esigenze di tutela della credibilità della funzione giudiziaria, con riferimento ai fatti contestati ed all’ufficio che l’incolpato occupa, ovvero esigenze di tutela del diritto dei terzi”.
[49] In questi termini, si v. Corte Cost., 13 novembre 2000, n. 497.
[50] Si v. CSM, sez. disc., 5 luglio 1985, in Il Foro Italiano, vol. 103, 1 (1986), pp. 43-44. Con tale pronuncia, il CSM, adottando un’interpretazione certamente non più attuale dei rapporti tra la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e l’ordinamento interno, ravvisò la tacita “abrogazione” dell’art. 34, co. 2, del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511, ad opera dell’art. 6 della CEDU, ritenuto immediatamente applicabile anche nel giudizio disciplinare. In particolare, mentre la prima delle citate norme stabiliva la regola della discussione “a porte chiuse”, la seconda dispone una serie di garanzie per un giusto ed equo processo, tra le quali ricomprende espressamente il diritto ad una pubblica udienza. A giudizio del giudice disciplinare, la regola del citato r.d.lgs. n. 511 del 1946, risentiva “[…] palesemente di una idea corporativa della funzione giurisdizionale e dei soggetti chiamati ad esercitarla, secondo cui il prestigio dell’ordine giudiziario sarebbe un valore che riguarda più la tutela dell’immagine dell’ordine stesso, che la garanzia dei diritti di ciascun appartenente all’ordine, da una parte, e il controllo pubblico su una delicatissima attività istituzionale, dall’altra […]”. Inoltre, nel dichiarare il superamento della regola di diritto interno, la Sezione disciplinare affermò la piena compatibilità tra la soluzione prescelta e il fondamento del potere disciplinare, precisando che la decisione adottata consentiva “[…] di rendere conoscibili le ragioni dell’accusa e della difesa in ordine a un bene fondamentale per la collettività e insieme a un interesse primario del singolo magistrato: l’esercizio indipendente e corretto della funzione giurisdizionale […]”.
[51] Le ordinanze e le sentenze dalla Sezione disciplinare del CSM, adottate nel nome del popolo italiano, sono pubbliche; tuttavia, la loro reperibilità non è semplice per i non addetti ai lavori. Il Centro elettronico di documentazione (CED) della Corte di Cassazione, in collaborazione con la Procura generale e il CSM, ha realizzato un archivio informatico, accessibile via internet dai soli utenti del sistema Italgiure Web che consente di consultare, tra i vari documenti, anche quelli concernenti la materia della responsabilità disciplinare dei magistrati ordinari; infatti, nella sezione dedicata, è possibile reperire provvedimenti e massime disciplinari del CSM, delle Sezioni Unite della Cassazione e della Corte costituzionale.Sul punto, si v. A. Mura, La disciplina dei magistrati. Tipicità degli illeciti e strumenti cautelari, cit., p. 196; D. Cavallini, Un bilancio sull’applicazione del codice disciplinare dei magistrati: le novità in materia di ritardi e ragionevole durata del processo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 4 (2015), pp. 1143, 1444; G. Di Federico, Il sistema disciplinare italiano in prospettiva comparata, in Ordinamento giudiziario. Uffici giudiziari, Csm e governo della magistratura,a cura di G. Di Federico, Bologna, 2019, p. 5.
[52] L’art. 14, co. 1, della legge 24 marzo 1958, n. 195 è stata abrogato dall’art. 31 del d.lgs. n. 109 del 2006. Giova ricordare che un’ipotesi di obbligatorietà dell’azione disciplinare era già prevista dall’art. 9, co. 1, della legge 13 aprile 1988, n. 117, secondo cui “Il procuratore generale presso la Corte di cassazione per i magistrati ordinari o il titolare dell’azione disciplinare negli altri casi devono esercitare l’azione disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento, salvo che non sia stata già proposta, entro due mesi dalla comunicazione di cui al comma 5 dell’art. 5. Resta ferma la facoltà del Ministro di grazia e giustizia di cui al secondo comma dell’art. 107 della Costituzione”. L’attuale formulazione della norma appena citata, modificata dall’art. 6, co. 1, della legge 27 febbraio 2015, n.18, stabilisce “Il procuratore generale presso la Corte di cassazione per i magistrati ordinari o il titolare dell’azione disciplinare negli altri casi devono esercitare l’azione disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento, salvo che non sia stata già proposta. Resta ferma la facoltà del Ministro della giustizia di cui al secondo comma dell'articolo 107 della Costituzione”.
[53] L’art. 18 del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511, abrogato dall’art. 31, co. 1, del d.lgs. n. 109 del 2006, rubricato “responsabilità disciplinare dei magistrati”, recitava: “Il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale, che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario, è soggetto a sanzioni disciplinari secondo le disposizioni degli articoli seguenti”. Come sottolinea D. Cavallini, La responsabilità disciplinare dei magistrati tra innovazione e continuità, cit., p. 143, secondo parte della dottrina, l’indeterminatezza della normativa di riferimento aveva conferito al giudice disciplinare ampia libertà nel decidere quali comportamenti punire e quali sanzioni applicare. In tale prospettiva, il suddetto soggetto aveva assunto un doppio ruolo: quello di legislatore, quando stabiliva quali fossero i comportamenti punibili, e quello di vero e proprio giudice, quando era chiamato a decidere sulla sussistenza della responsabilità dell’incolpato. In termini analoghi, si v. F. Dal Canto, Le trasformazioni della legge sull’ordinamento giudiziario e il modello italiano di magistrato, cit., p. 683; D. Notaro, L’interazione fra norma penale e regole deontologiche alla prova di resistenza delle scorrettezze processuali di avvocati e magistrati, in Criminalia, 1 (2017), pp. 11 e ss. Sui problemi legati al disegno preesistente, si v. anche L. Aiello, Luci ed ombre nei XXV anni di Consiglio superiore: prassi delle inchieste e funzione disciplinare, in Legalità e Giustizia, 1 (1984), pp. 28 e ss. La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 18 del r.d.lgs. n. 511 del 1946, con la sentenza 8 giugno 1981, n. 100, dichiarò compatibile al principio di legalità la “generica formulazione” della citata disposizione poiché, a suo giudizio, il carattere dei valori tutelati dalla norma proibitiva si poneva in contrasto con un’elencazione tassativa dei comportamenti illeciti.
[54] Il d.lgs. n. 109 del 2006 indica sia quali sono i comportamenti che costituiscono ipotesi di illecito disciplinare (capo I, sez. I, artt. 2-4), sia le sanzioni applicabili (capo I, sez. II, artt. 5-13). Secondo parte della dottrina si tratta, comunque, di una tipizzazione “imperfetta” poiché, accanto all’analitica descrizione delle condotte aventi rilievo disciplinare, non mancano formulazioni vaghe e generiche. Così, P. Fimiani - M. Fresa, Gli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari, Torino, 2013, p. 108; S. Di Amato, La responsabilità disciplinare dei magistrati: gli illeciti, le sanzioni, il procedimento, cit., p. XVI; V. M. Caferra, Il processo al processo. La responsabilità dei magistrati, Bari, 2015, p. 71; G. Campanelli, Riflessioni e criticità sul sistema normativo in materia di responsabilità disciplinare dei magistrati a poco più di dieci anni dall’entrata in vigore del d.lgs. 109/2006, in federalismi.it, 24 (2017), p.5. Sul passaggio alla tipizzazione degli illeciti, si v. D. Notaro, In foro illicito versari. L’abuso del processo fra dimensione etica e risposta penale, Torino, 2015, pp. 74 e ss.
[55] Così, S. Di Amato, La responsabilità disciplinare dei magistrati: gli illeciti, le sanzioni, il procedimento, cit., p. 438; D. Cavallini, La responsabilità disciplinare dei magistrati tra innovazione e continuità, cit., p. 145. Nel senso della correlazione tra l’obbligatorietà dell’azione e la tipizzazione degli illeciti disciplinari, si v. anche L. Salvato, Ambiguità ed equivoci in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, in Cass. Pen., 1 (2019), p. 35. Su quest’ultimo aspetto, si v. anche il parere del CSM 18 dicembre 1997, secondo cui “L’esigenza di tipizzazione diventerebbe d’altronde tanto più necessaria ove l’esercizio della azione disciplinare venisse trasformata da discrezionale in obbligatoria. L’obbligatorietà della azione disciplinare imporrebbe infatti, a tutela di una rigorosa osservanza del principio di certezza del diritto, e pertanto per una ovvia esigenza di garanzia dei magistrati, una scelta di tipizzazione molto vicina a quella operante nel settore della giustizia penale, e quindi tale da eliminare il più possibile sacche di incertezze, elementi elastici nella formulazione degli illeciti, soprattutto clausole aperte”. L. Pomodoro, Manuale di ordinamento giudiziario, Torino, 2013, p. 157, sottolinea che la scelta di introdurre l’obbligo di agire in capo al P.G. è stata dettata dal fatto che costui è “[…] un organo dell’ordine giudiziario, che non può operare scelte discrezionali ma che deve obbligatoriamente esercitare l’azione disciplinare, in quanto soggetto alla legge a norma dell’art. 101 Cost.”. Per un approfondimento sui due piani toccati dalla riforma, si v. F. Biondi, Sviluppi recenti e prospettive future della responsabilità del magistrato, in Rivista AIC, 1 (2012), pp. 2, 8.
[56] Su questo effetto della riforma, si v. ex multis, F. Dal Canto, Lezioni di ordinamento giudiziario, Torino, 2018, p. 271, secondo cui “[…] la nuova disciplina ha senz’altro prodotto un aumento del contenzioso disciplinare […]”.
[57] Così, G. Salvi, L’iniziativa disciplinare: dati e valutazioni, in Questione giustizia, 5 (2010), p. 75; D. Cavallini, La responsabilità disciplinare dei magistrati tra innovazione e continuità,cit., p. 145. Tra i commentatori scettici rispetto all’introduzione dell’obbligatorietà dell’iniziativa disciplinare, si v. F. P. Giordano, Il procedimento disciplinare, in Dir. pen. e proc., 3 (2006), p. 284; in particolare, secondo l’a., l’obbligo di esercitare l’azione in capo al P.G. “garantisce il principio di uguaglianza, ma ad un costo elevato, perché elimina il margine di discrezionalità del Procuratore generale funzionale a non intraprendere azioni per condotte di minima o nessuna rilevanza”. Alcune preoccupazioni furono espresse anche dal CSM nella Relazione al Parlamento sullo stato dell’amministrazione della giustizia, in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, 151 (2007), pp. 46, 48.
[58] Sul punto, si v. M. Fresa, Profili procedurali: il procedimento disciplinare innanzi al C.S.M: iniziativa, istruttoria, conclusione, cit., p. 376; S. Di Amato, La responsabilità disciplinare dei magistrati: gli illeciti, le sanzioni, il procedimento,cit., p. 443; L. Salvato, Partecipazione ed accesso agli atti del procedimento predisciplinare e del procedimento disciplinare, in Giustiziainsieme, 768 (2019), p. 1.
[59] Il co. 5 bis, dell’art. 16, del d.lgs. n. 109 del 2006 è stato aggiunto dall’ art. 1, co. 3, della l. n. 269 del 2006.
[60] Secondo la Cass. Civ. Sez. Un., 8 marzo 2011, n. 14664, “[…] l’introduzione del provvedimento di archiviazione […] mostra l’intenzione del legislatore di approntare una tutela più rapida ed agile al magistrato destinatario di una comunicazione di inizio di procedimento disciplinare, il quale risulti non aver commesso alcun illecito disciplinare, consentendo che il procedimento si concluda più rapidamente senza la verifica del giudizio (camerale) innanzi alla sezione disciplinare e prima che spiri il termine di durata massima della fase degli atti di indagine […]”.
[61] L’art. 3 bis del d.lgs. n. 109 del 2006 rubricato “condotta disciplinare irrilevante” è stato introdotto dalla legge n. 269 del 2006. Tale disposizione stabilisce che “L’illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza”.
[62] Secondo quanto stabilito dall’art. 15, co. 1, del d.lgs. n. 109 del 2006, “L’azione disciplinare è promossa entro un anno dalla notizia del fatto, della quale il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha conoscenza a seguito dell’espletamento di sommarie indagini preliminari o di denuncia circostanziata o di segnalazione del Ministro della giustizia. La denuncia è circostanziata quando contiene tutti gli elementi costitutivi di una fattispecie disciplinare. In difetto di tali elementi, la denuncia non costituisce notizia di rilievo disciplinare”.La Procura generale, con l’ordine di servizio n. 34 del 2020, ha chiarito quali sono le modalità di inoltro delle notizie aventi rilievo disciplinare. In particolare, il suddetto documento precisa che le segnalazioni possono essere trasmesse o personalmente oppure mediante posta elettronica certificata, data l’esigenza di accertare con sufficiente certezza la provenienza dell’esposto. Dunque, “[…] le generiche segnalazioni concernenti fatti di ipotetico rilievo disciplinare […] inviate da privati con il mezzo della posta elettronica non certificata non determinano alcun obbligo di iscrizione del procedimento […]”.
[63] Sulla struttura del procedimento, si v. R. Fuzio, L’azione disciplinare obbligatoria del Procuratore Generale,in Cass. pen., 12 (2008), pp. 4854 e ss. Le fasi in cui si articola l’attività della Procura generale in materia disciplinare sono state dettagliatamente descritte nell’Intervento del Procuratore generale della Corte Suprema di Cassazione nell’Assemblea generale della Corte sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2020, pp. 218 e ss.
[64] L’art. 15, co. 1, d.lgs. n. 109 del 2006, recita: “L’azione disciplinare è promossa entro un anno dalla notizia del fatto, della quale il Procuratore generale ha conoscenza a seguito dell’espletamento di sommarie indagini preliminari[…]”. Sul potere del P.G. di effettuare sommarie indagini preliminari, sulla loro finalità e sulla disciplina applicabile, si v. l’ordine di servizio n. 1 del 2019, pp. 20 e ss.
[65] Come chiarito dall’ordine di servizio n. 1 del 2019, secondo la Procura, anche le indagini preliminari svolte nella fase predisciplinare sono attratte dal dettato dell’art. 16, co. 2, del d.lgs. n. 109 del 2006, che le sottopone alla disciplina del codice di rito in quanto compatibile.
[66] Sul punto, si v. D. Cavallini, La responsabilità disciplinare dei magistrati: l’impatto della riforma del 2006 sull’attività della sezione disciplinare del CSM, Relazione presentata al XXIV Convegno annuale della Società Italiana di Scienza Politica, Venezia, 17 settembre 2010, in http://www.sisp.it/files/papers/2010/daniela-cavallini-558.pdf(10 dicembre 2021), pp. 8, 10. In particolare, secondo l’a. alla luce della riforma “sarebbe più corretto parlare di obbligatorietà attenuata dell’azione disciplinare”. Si v. ancheR. Russo, Giustizia è sfatta. Appunti per un accordato necrologio, in http://judicium.it (13 aprile 2022), p. 9, secondo cui l’obbligo di agire del P.G. è diventato un mero “flatus vocis”.
[67] Sulla delicatezza del compito svolto dal P.G. in questa fase, si v. G. Salvi, L’iniziativa disciplinare: dati e valutazioni, cit., pp. 78, 80; M. Fresa, Profili procedurali: il procedimento disciplinare innanzi al C.S.M: iniziativa, istruttoria, conclusione, cit., pp. 378 e ss.; F. Biondi, Sviluppi recenti e prospettive future della responsabilità del magistrato, cit., pp. 2, 3; F. Picierno, Il procedimento disciplinare, in Ordinamento giudiziario, a cura di N. Graziano, Roma, 2013, pp. 315, 316; D. Cavallini, Un bilancio sull’applicazione del codice disciplinare dei magistrati: le novità in materia di ritardi e ragionevole durata del processo, cit., pp. 1446, 1448.
[68] Come sottolinea R. Fuzio, Responsabilità disciplinare del magistrato ordinario: fondamento ed esercizio del potere disciplinare, in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, n. 158 (2012), p. 139, “[…] l’attività del c.d. «pre-disciplinare» rimane esterna e sconosciuta al circuito giurisdizionale della Sezione disciplinare del C.S.M e delle sezioni unite della Corte di cassazione”. Sul punto, M. Fresa, Profili procedurali: il procedimento disciplinare innanzi al C.S.M: iniziativa, istruttoria, conclusione,cit., pp. 378, 379, afferma che “[…] sarebbe stata più opportuna una scelta nel senso di prevedere l’obbligo di comunicazione del provvedimento anche alla Sezione disciplinare […]. Vige, infatti, nel nostro ordinamento il principio generale del controllo giurisdizionale sulle determinazioni del pubblico ministero in ordine all’esercizio o meno dell’azione; questo principio generale trae il suo fondamento nell’interesse della collettività ad un pieno accertamento dei fatti, sancito con un dictum di un giudice, la cui valenza non si esaurisce nel singolo caso concreto, ma assurge a più ampio parametro regolatore di condotte. Sul piano disciplinare, poi, è pacifico che la tutela dei valori concernenti il corretto svolgimento delle funzioni giudiziarie ed il prestigio della magistratura sia un bene della collettività, che non può essere garantito solo da un controllo, eventuale e comunque di natura politica, del Ministro, ma che deve essere assicurato attraverso un pieno controllo giurisdizionale”.
[69] L’art. 16, co. 5 bis, del d.lgs. n. 109 del 2006 recita: “[…] Il provvedimento di archiviazione è comunicato al Ministro della giustizia, il quale, entro dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, può richiedere la trasmissione di copia degli atti e, nei sessanta giorni successivi alla ricezione degli stessi, può richiedere al presidente della sezione disciplinare la fissazione dell’udienza di discussione orale, formulando l’incolpazione. Sulla richiesta si provvede nei modi previsti nei commi 4 e 5 dell'articolo 17 e le funzioni di pubblico ministero, nella discussione orale, sono esercitate dal Procuratore generale presso la Corte di cassazione o da un suo sostituto. Il provvedimento di archiviazione acquista efficacia solo se il termine di cui sopra sia interamente decorso senza che il Ministro abbia avanzato la richiesta di fissazione dell'udienza di discussione orale davanti alla sezione disciplinare[...]”. L’orientamento della Procura, espresso nell’Intervento del Procuratore generale della Corte Suprema di Cassazione nell’Assemblea generale della Corte sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2019, pp. 110, 111, intende il termine entro il quale il Ministro può esprimere il dissenso fissato a pena di decadenza, con la conseguenza che decorso l’arco temporale stabilito dalla norma non si può più agire per i fatti oggetto di archiviazione. Parte della dottrina ritiene che quello descritto dall’art. 16, co. 5 bis, sia un meccanismo poco efficace ai fini del rispetto del principio di obbligatorietà dell’azione. In primo luogo, infatti, è noto che il Ministro, stante la discrezionalità del suo potere di impulso, orienta le sue scelte non in conformità del criterio di doverosità dell’iniziativa disciplinare, ma secondo differenti parametri di opportunità politica. Così, G. Salvi, L’iniziativa disciplinare: dati e valutazioni, cit., pp. 79, 80. Inoltre, S. Di Amato, L’azione disciplinare del Ministro della giustizia: una misura di salvaguardia del sistema e non una sconveniente ingerenza, in Questione giustizia, 5 (2010), p. 116, sottolinea altri due aspetti che rendono la richiesta di fissazione dell’udienza da parte del Ministro un’ipotesi del tutto eccezionale: in primis, tale situazione “[…] rappresenta […] un’anomalia del sistema poiché determina un passaggio diretto dalla fase predisciplinare alla fase dibattimentale, senza tenere conto dell’interesse dello stesso incolpato ad esercitare le proprie difese già nella fase delle indagini ed evitare il dibattimento […]”; inoltre, l’elevato numero di archiviazioni del P.G. e la brevità dei termini previsti dalla legge pongono il contitolare dell’azione disciplinare nell’impossibilità pratica di valutare tempestivamente l’opportunità di avviare il procedimento. Sul punto, si v. anche Intervento del Procuratore generale della Corte Suprema di Cassazione nell’Assemblea generale della Corte sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2019, p. 104, ove si precisa che “l’archiviazione, come nel rito penale, implica il non esercizio dell’azione ma, diversamente da quella penale, non richiede l’intervento del giudice, in considerazione degli interessi in gioco, che hanno suggerito l’unico correttivo di un’eventuale differente determinazione del Ministro della Giustizia, cui va comunicato il decreto di archiviazione, che certo non dà luogo ad un controllo in senso tecnico. Nondimeno, si tratta di una modalità che garantisce la conoscenza dell’azione dell’Ufficio della Procura generale da parte di una diversa Istituzione. Risulta dunque in tal modo realizzato un ragionevole bilanciamento di tutti i valori in gioco, anche tenendo conto dell’incidenza, sia pure indiretta, della competenza disciplinare sulla funzione giurisdizionale, di rilevanza costituzionale”. In relazione al potere di archiviazione diretta del P.G. si v. L. Salvato, Ambiguità ed equivoci in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, cit., pp. 35, 36, che paragona il suddetto soggetto alla figura del giudice istruttore prevista dal codice di rito penale previgente.
[70] L’ordine di servizio 7 gennaio 2019, n. 1, del Procuratore generale, p. 25, indica che “l’intera fase predisciplinare è connotata dal carattere della riservatezza nei confronti sia dell’esponente e/o denunciante, sia del magistrato cui è riferibile la notizia di eventuale illecito disciplinare”. Tale concetto è stato ribadito anche durante la conferenza stampa del 17 settembre 2020, quando il P.G. della Corte di Cassazione ha affermato che “[…]il procedimento disciplinare non è un procedimento panale, è nella fase delle indagini riservato ed è destinato a rimanere riservato a meno che non sfoci nell’udienza pubblica […]” e che “[…] il limite alla conoscibilità persino da parte dei magistrati che hanno subito questa fase predisciplinare è costituito dalla segretezza di questa fase che anche recentemente la giustizia amministrativa ha confermato, quindi noi non possiamo dare informazioni dettagliate delle singole archiviazioni […]”. Secondo D. Cavallini, Un bilancio sull’applicazione del codice disciplinare dei magistrati: le novità in materia di ritardi e ragionevole durata del processo, cit., pp. 1447 e ss., l’impossibilità di conoscere i provvedimenti di archiviazione comporta un “[…] forte deficit di trasparenza nella gestione degli esposti disciplinari […]”. Sul punto, si v. pure G. Di Federico, L’evoluzione della disciplina giudiziaria nei Paesi democratici, in Criminalia, 2011, pp. 161 e ss.; in particolare, l’a. effettua anche un’analisi comparata tra l’esperienza italiana e quella di altri Paesi, sottolineando come in altre realtà sia garantita una maggiore trasparenza ed un effettivo coinvolgimento del segnalante nel procedimento disciplinare a carico dei magistrati, con lo scopo primario di consolidare la fiducia dei cittadini nei confronti dei giudici.
[71] L’ordine di servizio 17 dicembre 2019, n. 44, del Procuratore generale, chiarisce anche che è escluso il rilascio della copia della comunicazione concernente l’avvenuta definizione del procedimento predisciplinare “perché questa comporterebbe, sia pure indirettamente e per converso, l’ostensione dell’eventuale esercizio dell’azione disciplinare, notizia da reputarsi riservata, salvo i casi dell’adozione da parte della Sezione disciplinare di misure cautelari e dell’inizio della fase pubblica del relativo procedimento)”. Inoltre, si precisa che “le richieste di informazione e/o di rilascio di copia di atti di procedimenti predisciplinari provenienti da privati, anche avvocati: sono sottoposte al Direttore della Segreteria dell’Avvocato generale del Servizio disciplinare che, verificata la riconducibilità dell’istanza a detta fattispecie, dispone che la stessa venga evasa dal predetto Direttore della Segreteria, fornendo le sole notizie ostensibili (e cioè che l’esposto costituisce oggetto di valutazione, ovvero è stato definito)[…]”. La segretezza della fase predisciplinare è stata più volte sottolineata anche in diversi interventi del Procuratore generale. Sul punto, si v. Intervento del Procuratore generale della Corte Suprema di Cassazione nell’Assemblea generale della Corte sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2018, p. 54; Intervento del Procuratore generale della Corte Suprema di Cassazione nell’Assemblea generale della Corte sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2019, pp. 102, 104; Intervento del Procuratore generale della Corte Suprema di Cassazione nell’Assemblea generale della Corte sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2020, pp. 226, 227, disponibili sul sito http://www.cortedicassazione.it/corte-di-cassazione/it/inaugurazioni_anno_giudiziario.page(10 aprile 2022). Critico nei confronti della tesi sposata dalla Procura Generale, R. Russo, Giustizia è sfatta. Appunti per un accordato necrologio, cit., pp. 11 e ss.
[72] Ci si riferisce all’Intervento del Procuratore generale della Corte Suprema di Cassazione nell’Assemblea generale della Corte sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2020, pp. 224, 225. In dottrina, si v. L. Salvato, Partecipazione ed accesso agli atti del procedimento predisciplinare e del procedimento disciplinare, cit., ove l’a. spiega le ragioni a fondamento dell’orientamento che esclude l’accesso al provvedimento di archiviazione sia per l’autore dell’esposto, sia per il magistrato nei cui confronti è stato iscritto il procedimento.
[73] Sul punto, si v. l’ordine di servizio n. 1 del 2019, pp. 21, 22; Intervento del Procuratore generale della Corte Suprema di Cassazione nell’Assemblea generale della Corte sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2019, p. 103.
[74] La natura della fase predisciplinare è stata oggetto di due sentenze della Corte di Cassazione a Sezioni Unite. Secondo un primo orientamento, espresso con la sentenza 17 novembre 2009, n. 26809, “[…] la speciale archiviazione ex art. 16, 5 comma bis, del D.Lgs. 109 rimessa al potere discrezionale del P.G. in presenza di una delle ipotesi previste dalla norma non è assimilabile ad alcun modello giurisdizionale - sia esso civile ovvero penale, ma ha carattere meramente amministrativo […]”. Questa tesi è stata ripresa anche dal CSM nell’ordinanza n. 87 del 7 maggio 2010, secondo cui “[…] deve convenirsi con il più recente arresto della giurisprudenza di legittimità che, in materia di archiviazione del Procuratore generale, ha ribadito che la natura di tale atto è amministrativa e non giurisdizionale […]”. Successivamente, con la sentenza n. 14664 dell’8 marzo 2011, le Sezioni Unite, discostandosi dal precedente indirizzo, hanno affermato che la fase antecedente all’esercizio dell’azione disciplinare ha una natura giurisdizionale e non amministrativa. Per una critica di quest’ultima pronuncia, si v. S. Di Amato, Dalle Sezioni unite una non convincente affermazione della ritrattabilità dell’azione disciplinare, in Cass. Pen., 1 (2012), pp. 67 e ss. Sul punto, si v. anche F. Morozzo Della Rocca, Nota a Corte di Cassazione, 5 luglio 2011, n. 14664, sez. UU, in Giust. civ., 1 (2012), pp. 145 e ss. Per un’analisi dei due diversi indirizzi, si v. L. Salvato, Ambiguità ed equivoci in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, cit., pp. 36 e ss. Sulla tesi della natura amministrativa della fase predisciplinare S. Di Amato, La responsabilità disciplinare dei magistrati: gli illeciti, le sanzioni, il procedimento,cit., pp. 439 e ss.
[75] In particolare, si v. l’ordine di servizio n. 1 del 2019, pp. 21, 22. In dottrina, sostiene l’orientamento della Procura L. Salvato, Partecipazione ed accesso agli atti del procedimento predisciplinare e del procedimento disciplinare, cit.,pp. 4 e ss.
[76] L’art. 116 c.p.p., rubricato “copie, estratti e certificati”, al primo comma, stabilisce: “Durante il procedimento e dopo la sua definizione, chiunque vi abbia interesse può ottenere il rilascio a proprie spese di copie, estratti o certificati di singoli atti”. Al successivo comma 2, l’art. 116 c.p.p. prevede che “Sulla richiesta provvede il pubblico ministero o il giudice che procede al momento della presentazione della domanda ovvero, dopo la definizione del procedimento, il presidente del collegio o il giudice che ha emesso il provvedimento di archiviazione o la sentenza”. Come si evince dal contenuto del primo dei citati commi, la disciplina del codice di rito consente l’ostensione degli atti del procedimento penale non solo alle parti processuali ma anche a soggetti terzi, purché titolari di uno specifico interesse giuridicamente apprezzabile. Sull’art. 116 c.p.p., si v., più diffusamente infra §11.
[77] L’orientamento è stato ribadito con l’Intervento sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2020 del Procuratore generale della Cassazione. Critico nei confronti della prospettiva adottata dalla Procura, R. Russo, Giustizia è sfatta. Appunti per un accordato necrologio, cit., pp. 11, 12, secondo cui non solo “[…] non è seriamente dimostrabile che il procedimento predisciplinare sia governato dalle disposizioni del rito penale […]. Nella fase predisciplinare il P.G. svolge, come espressamente previsto, sommarie indagini di carattere amministrativo […]” ma ammesso “[…] che il procedimento predisciplinare abbia natura giurisdizionale […] il risultato finale, in termini di conoscibilità ed ostensione di tale provvedimento, è assai più favorevole, giacché trova applicazione la regola dettata dall’art. 116 c.p.p. […]. Alla stregua di tale disposizione, […] chiunque […] -qualora non ricorrano puntuali esigenze investigative- può ottenere copia integrale dell’archiviazione emessa dal G.I.P. […]”.
[78] Così, Intervento del Procuratore generale della Corte Suprema di Cassazione nell’Assemblea generale della Corte sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2019, pp. 103-104.
[79] In questi termini, si v. Intervento del Procuratore generale della Corte Suprema di Cassazione nell’Assemblea generale della Corte sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2019,p. 103; Intervento del Procuratore generale della Corte Suprema di Cassazione nell’Assemblea generale della Corte sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2020, pp. 219 e 225, ove si chiarisce che il denunciante non riveste la qualità di “persona offesa” e non è titolare dei diritti a quest’ultima attribuiti dal codice penale; per tali motivi, l’esponente non ha diritto alla conoscenza degli atti e dell’esito del procedimento predisciplinare. Anche con l’Intervento del Procuratore generale della Corte Suprema di Cassazione nell’Assemblea generale della Corte sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2020, p. 214, è stato ribadito che “[…] è […] erroneo il convincimento maturato in alcuni settori dell’opinione pubblica secondo cui [la responsabilità disciplinare] costituirebbe […] uno strumento per porre rimedio agli erronei interni al processo […]”. In dottrina, si v. G. Salvi, L’iniziativa disciplinare: dati e valutazioni, cit., p. 83; L. Salvato, Ambiguità ed equivoci in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, cit., pp. 3 e ss.
[80] Sul punto, si v. Intervento del Procuratore generale della Corte Suprema di Cassazione nell’Assemblea generale della Corte sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2019,p. 107, ove il Procuratore generale sembra giustificare la mancanza di contraddittorio che caratterizza la fase predisciplinare con il fatto che il provvedimento di archiviazione non ha effetti in altri ambiti. Nel senso che proprio per la ragione ora esposta è escluso l’interesse a conoscere il documento de quo da parte del magistrato sottoposto alla procedura, si v. L. Salvato, Partecipazione ed accesso agli atti del procedimento predisciplinare e del procedimento disciplinare, cit., p. 13, ove l’a. precisa anche che, a differenza della procedura propriamente disciplinare, nella quale la legge stabilisce l’obbligo di provvedere alla comunicazione dell’inizio del procedimento nei confronti dell’incolpato (art. 15, co. 4, d.lgs. n. 109/2006), in quella predisciplinare manca una norma dal contenuto analogo; dunque, per il magistrato non ci sarebbe possibilità di conoscere gli atti di quest’ultima fase. La tesi appena riportata risulta problematica: appare difficile ritenere che il magistrato nei cui confronti sia stato iscritto il procedimento non abbia interesse a conoscere il provvedimento di archiviazione. Come già chiarito, ai sensi dell’art. 16, co. 5 bis, del d.lgs. n. 109 del 2006, una delle ipotesi in cui il P.G. può archiviare de plano il procedimento è quella in cui “il fatto addebitato non costituisce condotta disciplinarmente rilevante ai sensi dell’articolo 3-bis”,ossia quando si tratti di un fatto“di scarsa rilevanza”. Proprio in relazione a quest’ultimo caso, la Cass. Civ. Sez. Un., con la sentenza 4 dicembre 2018, ha affermato che “[…] l’assoluzione con la formula di cui al citato D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3-bis, da parte della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della magistratura, non è tale da escludere qualsiasi effetto svantaggioso per il magistrato assolto ed è, pertanto, idonea a radicare il suo interesse a impugnare la sentenza davanti alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, al fine di ottenere una pronuncia, totalmente liberatoria, di esclusione dell’addebito per insussistenza del fatto o perché il fatto non è a lui attribuibile”. Si tratta di un orientamento già espresso dalle Sezioni Unite civili con la sentenza 9 maggio 2017, n. 29914, secondo cui “[…] deve escludersi che l’assoluzione del magistrato perché, ai sensi del citato D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3-bis «l’illecito disciplinare non è configurabile» in quanto «il fatto è di scarsa rilevanza» sia totalmente liberatoria, cioè inidonea ad arrecare un qualsiasi pregiudizio, attuale o potenziale, al magistrato assolto. Basta osservare che, secondo la consolidata giurisprudenza di queste sezioni unite, l’applicazione dell'istituto in esame presuppone, quanto meno, indefettibilmente - in sostanziale analogia alla formula penalistica «perché il fatto non costituisce reato» - l’accertamento che la fattispecie tipica dell’illecito, cioè la materialità del fatto storico tipizzato, si sia realizzata e sia riferibile all'incolpato […]”. Dunque, il principio espresso dalla Cassazione, secondo cui l’archiviazione per scarsa rilevanza del fatto può comunque produrre effetti svantaggiosi per il magistrato incolpato, induce a ritenere che possa sussistere l’interesse di costui a conoscere il provvedimento di archiviazione adottato ex art. 16, co. 5 bis, del d.lgs. n. 109 del 2006, per l’ipotesi di cui all’art. 3 bis del d.lgs. n. 109 del 2006, aprendo poi ulteriori problemi sulla impugnabilità di quest’atto.Inoltre, a prescindere da quest’ultimo caso, non sembra potersi escludere, in generale, la sussistenza dell’interesse del magistrato a conoscere gli atti della fase predisciplinare, anche per le eventuali conseguenze derivanti dalla segnalazione e dalla relativa procedura. Infatti, la Circolare del CSM dell’8 ottobre 2007, n. 20691, nel dettare i criteri per la valutazione di professionalità dei magistrati non sembra escludere la rilevanza degli esposti definiti in sede predisciplinare e del provvedimento di archiviazione. A titolo esemplificativo, si segnala il capo VII che, nell’indicare la documentazione utilizzabile ai fini della valutazione di professionalità, fa riferimento ai “rapporti dei dirigenti degli uffici”, questi ultimi, secondo quanto disposto dal capo XIV devono contenere, tra le varie informazioni, anche “l’indicazione di situazioni rappresentate da terzi, di cui i dirigenti abbiano tenuto conto, trasmesse ai titolari dell’azione disciplinare […]”. Il capo XII, rubricato “rapporto tra valutazioni di professionalità e procedimenti disciplinari o penali pendenti”, al §2, dispone che la Commissione competente per le valutazioni di professionalità può sospendere, con provvedimento motivato, la relativa procedura nei casi di pendenza del procedimento disciplinare “[…] anche anteriormente all’esercizio dell’azione penale e/o disciplinare”. Infine, il capo XVII, al §1, stabilisce che il CSM “[…] procede alla valutazione di professionalità acquisiti […] tutti gli elementi di conoscenza ulteriori che ritenga di assumere […]”. Di conseguenza, se, come risulta dalla circolare, il C.S.M., ai fini delle valutazioni di professionalità, può dare rilievo ai fatti valutati in sede predisciplinare, appare difficile escludere l’esistenza di un interesse del magistrato a conoscere gli atti della relativa procedura, senza considerare che la titolarità di una posizione giuridica differenziata può scaturire proprio dalla circostanza di essere il soggetto direttamente coinvolto nel procedimento.
[81] L’orientamento del Ministero della giustizia è stato anche esplicitato nel provvedimento datato 19 luglio 2017, la cui massima è contenuta nel Foglio di informazione del dipartimento per gli affari di giustizia in materia di accesso civico generalizzato, n. 1 del 2018, disponibile sul sito http://tribunale.siracusa.giustizia.it/allgetai_sito/registrazione_provvedimenti.pdf (13 aprile 2022). Su questo argomento utilizzato dalla Procura e dal Ministero, si v R. Russo, Un’inquietante sentenza in tema di trasparenza. L’archiviazione disciplinare del P.G. presso la S.C., in http://Judicium.it(13 aprile 2022), pp. 1 e ss.
[82] Il decreto ministeriale n. 115 del 1996, ossia il “Regolamento concernente le categorie di documenti formati o stabilmente detenuti dal Ministero di grazia e giustizia e dagli organi periferici sottratti al diritto d’accesso”, come indicato dal suo primo articolo, fu adottato sulla base dell’originario testo dell’art. 24, comma 4, della legge 241 del 1990 e del d.P.R. 27 giugno 1992, n. 352. Quest’ultimo, a sua volta, fu predisposto in attuazione della vecchia formulazione dell’art. 24, co. 2, della legge 241 del 1990, che stabiliva: “Il Governo è autorizzato ad emanare, ai sensi del comma 2 dell’art. 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti intesi a disciplinare le modalità di esercizio del diritto di accesso e gli altri casi di esclusione del diritto di accesso in relazione alla esigenza di salvaguardare: a) la sicurezza, la difesa nazionale e le relazioni internazionali; b) la politica monetaria e valutaria; c) l’ordine pubblico e la prevenzione e repressione della criminalità; d) la riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese, garantendo peraltro agli interessati la visione degli atti relativi ai procedimenti amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i loro interessi giuridici”. Proprio in conformità a tali indicazioni, il Governo, con il d.P.R. n. 352 del 1992, specificò le modalità di esercizio e i casi di esclusione del diritto di accesso ai documenti amministrativi. In particolare, all’art. 8, il suddetto decreto indicò i criteri ai quali le amministrazioni avrebbero dovuto attenersi nell’adottare i regolamenti di cui all’art. 24, co. 4, della legge n. 241 del 1990, il cui originario testo recitava:“Le singole amministrazioni hanno l’obbligo di individuare, con uno o più regolamenti da emanarsi entro i sei mesi successivi, le categorie di documenti da esse formati o comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti all’accesso per le esigenze di cui al comma 2”. L’attuale formulazione dell’art. 24, della legge n. 241 del 1990, è il frutto delle modifiche apportate con la legge 11 febbraio 2005, n. 15. Per quanto qui di interesse, la citata disposizione, al comma 1, recita: “Il diritto di accesso è escluso: a) per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della legge 24 ottobre 1977, n. 801, e successive modificazioni, e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 del presente articolo […]”; al comma 2, invece, si autorizzano le singole amministrazioni ad individuare “[…] le categorie di documenti da esse formati o comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti all’accesso ai sensi del comma 1”. Infine, il comma 6 della disposizione in esame rimette al Governo la possibilità di prevedere, con regolamento adottato ai sensi dell’art. 17, co. 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, i casi di sottrazione all’accesso documentale per la tutela di una serie di interessi. Tale regolamento non è stato ancora adottato. L’art. 15, co. 1, del d.P.R. 12 aprile 2006, n. 184, ha disposto l’abrogazione del d.P.R. n. 352 del 1992, tranne per il menzionato art. 8 che resta in vigore fino alla data di adozione della disciplina prevista dall’art. 24, co. 6, della legge 241/1990. Sul d.P.R. n. 352/1992, si v. M. Lipari, Il diritto di accesso e la sua frammentazione dalla legge n. 241/1990 all’accesso civico: il problema delle esclusioni e delle limitazioni oggettive, cit., pp. 13 e ss. Sui limiti all’accesso documentale, si v. A. Corrado, Conoscere per partecipare: la strada tracciata dalla trasparenza amministrativa, cit., pp. 129 e ss.
[83] Anche a prescindere dal divieto di cui all’art. 5, comma 2, del d.m. n. 115 del 1996, come già detto, l’art. 24, co. 1, lett. a, della legge n. 241 del 1990 stabilisce che il diritto di accesso ha ad oggetto unicamente “documenti amministrativi”; l’ostensione di atti di natura giurisdizionale segue le regole del codice di rito.
[84] Con un esposto presentato al P.G, al Ministero della Giustizia e al CSM, in data 21 febbraio 2018, un sostituto Procuratore generale della Cassazione denunciava un comportamento tenuto, reiteratamente, dalla terza Sezione civile della Suprema Corte. In particolare, il Pubblico ministero denunciava l’omissione di pronuncia, da parte del collegio giudicante, sulle richieste di condanna aggravata alle spese degli autori di ricorsi dichiarati inammissibili.
[85] In un primo momento, il Ministero non dava alcun seguito alla richiesta dell’istante, adottando un esplicito atto di rigetto solo in data 12 novembre 2018, a seguito del ricorso del segnalante al T.A.R. Roma.
[86] Sul punto, si v. supra §4.1.
[87] L’art. 5 bis, co. 6 del d.lgs. n. 33 del 2013 recita: “Ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all’accesso civico di cui al presente articolo, l’Autorità nazionale anticorruzione, d’intesa con il Garante per la protezione dei dati personali e sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, adotta linee guida recanti indicazioni operative”. Le linee guida in questione sono state adottate con la delibera ANAC n. 1309 del 2016, sul punto, si v. A. Amodio, L’accesso civico generalizzato: alcune considerazioni sui primi orientamenti della giurisprudenza amministrativa, in Legislazione anticorruzione e responsabilità nella pubblica amministrazione, cit., p. 213; R. Cantone, Il sistema della prevenzione della corruzione, cit., p. 264, nota n. 194. Sul ruolo delle linee guida si v. E. Carloni, Il nuovo diritto di accesso generalizzato e la persistente centralità degli obblighi di pubblicazione, cit., pp. 587 e ss.; A. Corrado, Conoscere per partecipare: la strada tracciata dalla trasparenza amministrativa, cit., pp. 190, 194. Critico nei confronti delle scelte dell’ANAC e del legislatore I. Piazza, L’organizzazione dell’accesso generalizzato: dal sistema di governance all’attuazione amministrativa, in Dir. amm., 3 (2019), pp. 650-655.
[88] In particolare, l’ANAC, seguendo lo schema dell’art. 5 bis del d.lgs. n. 33 del 2013, che distingue le eccezioni “assolute” (comma 3) da quelle “relative” (commi 1 e 2), ha fornito concrete indicazioni operative alle amministrazioni, individuando i documenti che rientrano nell’una e nell’altra ipotesi.
[89] Anche il Ministero della giustizia, con le “Linee guida operative concernenti le modalità di presentazione, trattazione e decisione delle richieste di accesso civico generalizzato”, del 16 febbraio 2018, al §2.1., richiamando le linee guida ANAC, ha ribadito che “[…]la disciplina dell’accesso generalizzato […] riguarda anche dati, informazioni e documenti detenuti dagli uffici giudiziari, purché non si riferiscano ad uno specifico procedimento giurisdizionale, valendo in tale ultimo caso le regole dettate dai codici di rito o dalle altre leggi speciali che disciplinano l’attività processuale”.
[90] Per un commento della sentenza, si v. S. Messineo, La trasparenza negata. Commento a TAR Lazio n. 5714/2019, in Questione giustizia, (questionegiustizia.it), (2019). Sulla decisione del T.A.R, si v. anche M. Filice, I limiti all’accesso civico generalizzato, cit., p. 880.
[91] Per un commento critico della sentenza, si v. R. Russo, Un’inquietante sentenza in tema di trasparenza. L’archiviazione disciplinare del P.G. presso la S.C., cit., pp. 1 e ss.
[92] Come si è già detto supra §4.1, la documentazione a cui fa riferimento l’art. 4, co. 1, lett. i), del d.m. n. 115 del 1996 è quella dal carattere amministrativo. Infatti, dei documenti di natura giurisdizionale si occupa la disposizione immediatamente successiva a quella ora richiamata, ossia l’art. 5, co. 2, del medesimo decreto, secondo cui: “Sono altresì esclusi dal diritto di accesso […] i documenti aventi natura giurisdizionale o collegati con l’attività giurisdizionale”. Quest’ultima norma, tuttavia, non è stata menzionata dal Consiglio di Stato che, invece, ha ritenuto applicabile l’art. 4, co. 1, lett. i), del d.m. n. 115 del 1996.
[93] Come già chiarito supra, §4.1, l’art. 24 della legge 241 del 1990, modificato dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, stabilisce, al comma 1: “Il diritto di accesso è escluso: a) per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della legge 24 ottobre 1977, n. 801, e successive modificazioni, e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 del presente articolo […]”. Il comma 2 della suddetta norma, invece, recita: “Le singole pubbliche amministrazioni individuano le categorie di documenti da esse formati o comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti all’accesso ai sensi del comma 1”.
[94] Con una disposizione analoga all’art. 4, co. 1, lett. i) del d.m. n. 115/1996, il Regolamento interno del CSM, approvato con deliberazione del 26 settembre 2016 e aggiornato con deliberazione dell’8 luglio 2020, all’art. 33, co. 2, lett. f), stabilisce che, ai sensi dell’art. 24 della legge 7 agosto 1990, n. 241, sono sottratti all’accesso “i documenti attinenti a procedimenti penali e disciplinari o concernenti l’iscrizione dei ricorsi amministrativi, fatta eccezione per la fase pubblica dei procedimenti”.
[95] In particolare, il T.a.r. di Roma, a sostegno della propria tesi, ha richiamato le seguenti sentenze: T.a.r. Campania, Napoli, sez. VI, 6 dicembre 2018, n. 7283 (concernente il diritto dell’insegnante di accedere agli atti del procedimento disciplinare avviato a suo carico); T.a.r. Liguria, Genova, sez. II, 29 settembre 2016, n. 976 (riguardante il diritto dell’autore di un esposto all’ostensione degli atti della procedura disciplinare avviata dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Genova); T.a.r. Toscana, Firenze, sez. II, 9 ottobre 2014, n. 1569 (avente ad oggetto il diniego del Consiglio Notarile Distrettuale di Grosseto di rilasciare al segnalante copia degli atti del procedimento disciplinare); T.a.r. Trentino-Alto Adige, Trento, sez. I, 27 settembre 2012, n. 298 (sul rifiuto opposto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Trento di consentire al denunciante l’accesso ai documenti dell’iter disciplinare intrapreso a carico di un avvocato). La sentenza del T.a.r. Liguria, Genova, sez. II, 29 settembre 2016, n. 976, è stata oggetto di impugnazione dinnanzi al Consiglio di Stato che, con la pronuncia 21 settembre 2017 n. 5004, ha confermato la decisione di primo grado; per un commento della sentenza, si v. M. Bombi, Procedimento disciplinare nei confronti dell’avvocato: è legittima la richiesta di accesso agli atti da parte dell’autore dell’esposto, in http://dirittoegiustizia.it(13 aprile 2022), pp. 1 e ss.
[96] Con la citata decisione, il Supremo Consesso si pronunciò sull’impugnazione proposta avverso la sentenza del T.a.r. Lazio, Roma, sez. III, 10 dicembre 2003, n. 468. Con quest’ultima pronuncia, i giudici di primo grado respinsero il ricorso proposto dall’autore di un esposto che lamentava la mancata ostensione, da parte dell’Ordine degli ingegneri di Roma, degli atti di due procedimenti disciplinari originati dalla sua segnalazione e conclusi con l’archiviazione. In particolare, il T.a.r. ritenne che la semplice qualità di segnalante fosse inidonea a radicare, in capo al ricorrente, una situazione giuridicamente rilevante che gli consentisse l’accesso. Su appello dell’interessato, il Consiglio di Stato, riunito in Adunanza Plenaria, chiarì che l’interesse all’accesso non discendeva dalla sola qualità di autore dell’esposto ma anche da “altri elementi” che, come già detto, nel caso specifico furono rinvenuti nella circostanza che lo stesso appellante aveva “dato corso, per i medesimi fatti denunciati nella sede disciplinare, a un giudizio civile”.
[97] Nella pronuncia in esame, il T.a.r. Lazio, Roma, a conferma della propria posizione, ha riportato la sentenza del T.a.r. Lombardia, Brescia, sez. I, 24 settembre 2015, n. 1299. È bene precisare che, in linea con l’orientamento adottato dall’Adunanza Plenaria, la giurisprudenza riconosce la titolarità, in capo al segnalante, della situazione giuridica di cui all’art. 22, legge 241/1990, sia nei casi in cui l’accesso risulti indispensabile al fine di acquisire materiale probatorio per un giudizio già pendente (si v. ex plurimis, T.a.r. Campania, Salerno, sez. I, 19 novembre 2019, n. 2175; T.a.r. Liguria, Genova, sez. II, 22 luglio 2016, n. 837; T.a.r. Lombardia, Brescia, sez. I, 24 settembre 2015, n. 1299), sia nelle ipotesi in cui l’ostensione dei documenti appaia necessaria al fine di apprendere informazioni per verificare se sussistano motivi per ricorrere in giudizio (si v. ad es. T.a.r. Lombardia, Milano, sez. III, 22 settembre 2020, n. 1721; T.a.r. Lombardia, Genova, sez. II, 29 settembre 2016, n. 976; T.a.r. Trentino Alto-Adige, Trento, sez. unica, 27 settembre 2012, n. 298). In ogni caso, come precisato dal Consiglio di Stato, sez. VI, 10 dicembre 2011, n. 117, per il riconoscimento dell’accesso ex art. 24, co. 7, legge n. 241 del 1990, appare dirimente la dimostrazione della “rigida «necessità» e non [della] mera «utilità» del documento in questione alla tutela della situazione giuridica sottostante” (nello stesso senso, si v. Cons. Stato, sez. IV, 17 aprile 2012, n. 3815). Sul punto, vale la pena riportare il recente orientamento dell’Adunanza Plenaria, 17 febbraio 2021, n. 4, secondo cui non può “[…] ritenersi sufficiente un generico riferimento a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive, siano esse riferite a un processo già pendente oppure ancora instaurando, poiché l’ostensione del documento passa attraverso un rigoroso vaglio circa […] [il] nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale controversa […]”; inoltre, il Supremo Consesso ha precisato che “[…] la pubblica amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo adìto nel giudizio di accesso ai sensi dell’art. 116 c.p.a. non devono […] svolgere alcuna ultronea valutazione sulla influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione o allo stesso giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso”.
[98] Sul rapporto di complementarità tra l’accesso difensivo e gli strumenti processualcivilistici di esibizione istruttoria, si v. Cons. Stato, Ad. Plen., 23 settembre 2020, n. 19.
[99] L’art. 24, comma 7, della legge 241 del 1990, recita, testualmente: “Deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall’articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”. L’art. 60 del d.lgs. n. 196 del 2003 stabilisce: “Quando il trattamento concerne dati genetici, relativi alla salute, alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona, il trattamento è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti amministrativi, è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale”. Per una trattazione specifica del rapporto tra accesso difensivo e tutela della riservatezza, si v. A. Corrado, Conoscere per partecipare: la strada tracciata dalla trasparenza amministrativa, cit., pp. 132, 136, ove l’a. dichiara che esistono tre livelli di intensità di tutela della situazione giuridica del richiedente: “[…] in caso di dati personali comuni questi possono essere ostesi se ciò è “necessario” per la cura e la difesa degli interessi giuridici del richiedente l’accesso; in caso di dati personali sensibili o giudiziari la conoscenza degli stessi deve essere ritenuta “strettamente indispensabile” per la tutela degli interessi del richiedente; infine, in caso di dati riguardanti la salute ovvero di dati relativi alla sfera sessuale occorre che ci sia da tutelare una situazione di “pari rango” rispetto a quella riferita alla tutela dei dati personali richiesti […]”.
[100] In dottrina, sull’ammissibilità dell’accesso documentale al provvedimento di archiviazione, si v. G. Salvi, L’iniziativa disciplinare: dati e valutazioni, cit., pp. 83, 84; V. Tenore, I principi portanti della potestà disciplinare in generale e nelle carriere magistratuali in particolare, in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, 158 (2012), pp. 181-183.
[101] Dalla sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, 1 luglio 2021, n. 5712, pronunciata all’esito del giudizio di appello emerge che il ricorrente adduceva “[…] legittime perplessità sull’operato dell’equipe ispettiva che, pur disponendo ed avendo accesso alla predetta documentazione, parrebbe essere pervenuta ad accertamenti divergenti e tali da determinare il lamentato avvio del procedimento disciplinare […]”; su tali premesse, l’esponente affermava il proprio interesse “[…] a conoscere tutti gli atti posti in essere […] in sede di ispezione, al fine di valutare la completezza e l’accuratezza dell’attività istruttoria compiuta, nonché la correttezza delle conclusioni tratte dal Procuratore Generale […]; e ciò per verificare la sussistenza dei presupposti per l’introduzione di azioni a tutela della propria onorabilità ed a ristoro degli intuitivi danni morali e reputazionali subiti”.
[102] In tale occasione, il Ministero della giustizia oltre a giustificare il diniego in base al più volte citato art. 4, co. 1, lett. i) del d.m. n. 115 del 1996, richiamava anche la lettera l) della medesima norma, che esclude dall’accesso documentale la “documentazione attinente ad accertamenti ispettivi e amministrativo-contabili per la parte relativa alla tutela della vita privata e della riservatezza”.
[103] Come precisato supra §3, a seguito dell’esercizio dell’azione disciplinare e dell’attività di indagine, il P.G., formula le richieste conclusive e, ai sensi dell’art. 17, comma 1, del d.lgs. n. 109 del 2006, “[…] invia alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura il fascicolo del procedimento, dandone comunicazione all'incolpato. Il fascicolo è depositato nella segreteria della sezione a disposizione dell'incolpato, che può prenderne visione ed estrarre copia degli atti”.
[104] L’art. 18, co. 2, del d.lgs. n. 109 del 2006, già riportato supra, §3, stabilisce: “L’udienza è pubblica. La sezione disciplinare, su richiesta di una delle parti, può disporre che la discussione si svolga a porte chiuse se ricorrono esigenze di tutela della credibilità della funzione giudiziaria, con riferimento ai fatti contestati ed all’ufficio che l’incolpato occupa, ovvero esigenze di tutela del diritto dei terzi”.
[105] Come già precisato supra, §4.1, le amministrazioni coinvolte ritengono che i regolamenti adottati con riferimento all’accesso documentale operino anche in materia di accesso generalizzato a causa della catena di rinvii innescata dall’art. 5 bis, co. 3, del d.lgs. n. 33 del 2013. Tuttavia, questo tipo di lettura non si sottrae alle considerazioni che saranno svolte di seguito. Non condividono la suddetta interpretazione M. Savino, Commento allo schema di Linee guida per l’attuazione dell’accesso “generalizzato” alle informazioni in possesso delle amministrazioni (c.d. modello FOIA), in Astrid Rassegna, 21 (2016), pp. 1 e ss.; A. Moliterni, La via italiana al “FOIA”: bilancio e prospettive, in Giorn. dir. amm., 1 (2019), pp. 29, 30; M. Filice, I limiti all’accesso civico generalizzato, cit., pp. 874 e ss.
[106] Sull’art. 10 della CEDU e sulla relativa interpretazione fornita dalla Corte EDU, si rinvia a R. Cantone, Il sistema della prevenzione della corruzione, cit., pp. 202, 203.
[107] L’art. 10 della CEDU elenca una serie di interessi, meritevoli di tutela, che potrebbero legittimare alcune limitazioni al right to know. In particolare, la suddetta norma fa riferimento “alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”.
[108] Sul punto, si v. Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri, §3, pp. 3, 4, secondo cui, data la riserva di legge in materia, “[…] deve ritenersi che un generale riferimento a regolamenti che prevedano categorie di documenti sottratte all’accesso – considerando che le categorie di documenti ivi indicate devono essere interpretate in senso restrittivo – potrebbe non essere sufficiente a respingere un’istanza di accesso generalizzato”. Si tratta di un concetto già espresso nella Circolare n. 2 del 2017, §2, p. 4, che precisò: “[…] ciascuna amministrazione può disciplinare con regolamento, circolare o altro atto interno esclusivamente i profili procedurali e organizzativi di carattere interno. Al contrario, i profili di rilevanza esterna, che incidono sull’estensione del diritto (si pensi alla disciplina dei limiti o delle eccezioni al principio dell’accessibilità), sono coperti dalla suddetta riserva di legge. In particolare, diversamente da quanto previsto dall’art. 24, c. 6, l. n. 241/1990 in tema di accesso procedimentale, non è possibile individuare (con regolamento, circolare o altro atto interno) le categorie di atti sottratti all’accesso generalizzato”.
[109] Sull’esistenza di una riserva di legge in materia di eccezioni assolute al diritto di accesso generalizzato e sulla conseguente inutilizzabilità dei regolamenti sui limiti all’accesso documentale, si v. M. Savino, Commento allo schema di Linee guida per l’attuazione dell’accesso “generalizzato” alle informazioni in possesso delle amministrazioni (c.d. modello FOIA), cit., pp. 3 e ss.; A. Moliterni, La via italiana al “FOIA”: bilancio e prospettive, cit., pp. 29, 30; M. Filice, I limiti all’accesso civico generalizzato, cit., pp. 876, 878.
[110] Sul punto, si v. Cons. Stato, Ad. Plen., 19 febbraio 2020, n. 10, §23.8.
[111] L’art. 117 Cost. impone al legislatore il rispetto degli obblighi internazionali e, quindi, anche di quelli derivanti dai Trattati, tra i quali è compresa la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Di conseguenza, le norme interne adottate in violazione della CEDU sono illegittime per violazione dell’art. 117 della Cost. Sul valore delle norme della CEDU, si v. Corte Cost. 22 ottobre 2007, nn. 348, 349.
[112] Secondo G. Salvi, L’iniziativa disciplinare: dati e valutazioni, cit., pp. 80, 82, “la luce del controllo da parte dell’opinione pubblica […] consente di liberare le decisioni [del Procuratore generale] dall’ombra del sospetto […]”; inoltre, la pubblicità delle archiviazioni del P.G. consentirebbe anche la “[…] diffusione delle indicazioni circa l’interpretazione delle diverse fattispecie, così che il confronto con la deontologia ne determini il reciproco arricchimento; infine, la possibilità di controllo da parte dell’opinione pubblica e dunque la piena trasparenza delle decisioni”. Nonostante tali vantaggi, l’a. ritiene che la tutela di riservatezza delle parti interessate non consenta di rendere pubblica la decisione adottata dal P.G., “[…] tanto più trattandosi di provvedimenti di archiviazione e dunque destinati a non avere pubblico sfogo in un dibattimento disciplinare e relativi a fatti ritenuti non rilevanti sul piano disciplinare”. Sugli effetti positivi dell’ostensione del provvedimento di archiviazione, si v. R. Russo, Giustizia è sfatta. Appunti per un accordato necrologio, cit., p. 13.
[113] La pubblicazione, da parte della Procura generale, delle massime di archiviazione sul sito web dell’Ufficio (al link http://www.procuracassazione.it/procura-generale/it/d_giuris_costituz_e_di_legit.page), non risponde pienamente alle suddette esigenze; tale attività, infatti, consente solo una visione parziale degli orientamenti adottati.
[114] Come chiarito supra, §3, il potere disciplinare è finalizzato a garantire il regolare svolgimento della funzione giudiziaria, che rappresenta un interesse pubblico generale di rilievo costituzionale. È bene precisare che la soluzione prospettata avrebbe consentito di tutelare anche eventuali esigenze di riservatezza. Il legislatore, infatti, all’art. 5 bis, co. 4, del d.lgs. n. 33 del 2013, ha espressamente previsto la tecnica dell’oscuramento parziale. Tale pratica consente alle amministrazioni destinatarie dell’istanza, dopo un’attenta valutazione dei valori giuridici coinvolti, di concedere l’atto richiesto rendendo non intellegibili i dati che potrebbero arrecare un “pregiudizio concreto” agli interessi indicati nei commi 1 e 2 dell’art. 5 bis, del d.lgs. n. 33 del 2013 (si v. supra, §2). In particolare, l’art. 5 bis, co. 4, del d.lgs. n. 33 del 2013 recita: “[...] Se i limiti di cui ai commi 1 e 2 riguardano soltanto alcuni dati o alcune parti del documento richiesto, deve essere consentito l’accesso agli altri dati o alle altre parti”. Sul punto, con le linee guida n. 1309 del 28 dicembre 2016, p. 11, l’ANAC ha precisato che “[…] l’amministrazione dovrà consentire l’accesso parziale utilizzando, se del caso, la tecnica dell’oscuramento di alcuni dati, qualora la protezione dell’interesse sotteso alla eccezione sia invece assicurato dal diniego di accesso di una parte soltanto di esso. In questo caso, l’amministrazione è tenuta a consentire l’accesso alle parti restanti (art. 5-bis, comma 4, secondo alinea). L’amministrazione è tenuta quindi a privilegiare la scelta che, pur non oltrepassando i limiti di ciò che può essere ragionevolmente richiesto, sia la più favorevole al diritto di accesso del richiedente. Il principio di proporzionalità, infatti, esige che le deroghe non eccedano quanto è adeguato e necessario per raggiungere lo scopo perseguito […]”. Pertanto, in presenza di un pericolo per un interesse protetto dall’ordinamento, la Procura avrebbe potuto oscurare dati e vicende dal carattere riservato, redendo comprensibile esclusivamente il quia della motivazione posta alla base dell’archiviazione. D’altronde, una conoscenza più dettagliata del documento sarebbe stata comunque consentita dall’art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990, che, in presenza di un interesse difensivo, ammette un accesso più in profondità (si v. supra, §7, nota n. 99).
[115] Sul punto, si v. G. Salvi, L’iniziativa disciplinare: dati e valutazioni, cit., p. 81, secondo cui “il rischio dei sistemi in cui la decisione sull’azione (e la non azione) non è sottoposta direttamente al controllo del giudice è costituito dal carattere discriminatorio della stessa”.
[116] L’art. 116 c.p.p., come già chiarito supra §4, al primo comma, stabilisce: “Durante il procedimento e dopo la sua definizione, chiunque vi abbia interesse può ottenere il rilascio a proprie spese di copie, estratti o certificati di singoli atti”. Al successivo comma 2, l’art. 116 c.p.p. prevede che “sulla richiesta provvede il pubblico ministero o il giudice che procede al momento della presentazione della domanda ovvero, dopo la definizione del procedimento, il presidente del collegio o il giudice che ha emesso il provvedimento di archiviazione o la sentenza”.
[117] Così, A. Corrado, Conoscere per partecipare: la strada tracciata dalla trasparenza amministrativa, cit., p. 118. In giurisprudenza, si v., in via esemplificativa, Cons. Stato, sez. VI, 11 gennaio 2005, n. 1679; Cons. Stato, sez. VI, 27 maggio 2003, n. 2938.
[118] In questi termini, Cass. Sez. Un., 3 febbraio 1995, n. 4. A giudizio della Suprema Corte, la richiamata interpretazione trova un positivo riscontro nell’art. 43 disp. att. c.p.p. secondo cui l’autorizzazione prevista dall’art. 116, comma 2, c.p.p., non deve essere richiesta nei casi in cui è riconosciuto espressamente al richiedente il diritto al rilascio di copie, estratti o certificati di atti, “[…] il che sta a significare […] che, come regola generale, occorre, per il rilascio, l’autorizzazione, salvo casi eccezionali […] nei quali sussiste un vero e proprio diritto del richiedente al rilascio stesso, diritto che, pertanto, può essere esplicato in modo autonomo […]”. La Cassazione, sez. V, 30 settembre 2020, n. 34987, ha affermato, riepilogando: “Le regole che disciplinano il diritto di consultazione degli atti processuali sono […] sostanzialmente tre: 1) durante il procedimento e dopo la sua definizione chiunque vi abbia interesse può ottenere il rilascio, a proprie spese (salvo che non sia diversamente previsto, come ad esempio in materia di sequestro dall’art. 258 c.p.p., comma 1), di copie, estratti o certificati di singoli atti processuali; 2) del rilascio occorre fare richiesta e ottenere la relativa autorizzazione; 3) l’autorizzazione non è necessaria nel caso in cui è espressamente riconosciuto il diritto al rilascio di copie, estratti o certificati […]”.
[119] Sul punto, si v. A. Corrado, Conoscere per partecipare: la strada tracciata dalla trasparenza amministrativa, cit., p. 118. In giurisprudenza, si v. Cons. Stato, sez. IV, 7 aprile 2016, n. 3431; T.a.r. Campania, Napoli, sez. VI, 20 luglio 2017, n. 4115.
[120] In via meramente esemplificativa, si v., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 27 febbraio 2020, n. 1664; T.a.r. Trentino-Alto Adige, Trento, sez. I, 12 novembre 2020, n. 187; T.a.r. Lazio, Roma, sez. II, 18 dicembre 2019, n. 3454; T.a.r Umbria, Perugia, 8 ottobre 2014, n. 441.
[121] Le istanze conoscitive ex art. 116 c.p.p. devono essere indirizzate all’autorità giudiziaria competente che, come più volte ribadito dalla giurisprudenza, è chiamata a svolgere un giudizio di comparazione, caratterizzato da “ampia discrezionalità”, tra le ragioni della giustizia penale e l’interesse del singolo (si v., Cass., sez. VI, 4 aprile 2016, n. 17173; Cass. sez. VI, 13 dicembre 2013, n. 14999; Cass., sez. VI, 9 aprile 2008, n. 36167). Nella proposta di legge presentata alla Camera dei Deputati il 5 maggio 2021, intitolata “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, al codice di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, al decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, e al decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70, in materia di segreto investigativo, di divieto di rivelazione e pubblicazione di conversazioni e immagini intercettate, di protezione dei dati personali, di tutela della riservatezza e della libertà e segretezza delle comunicazioni, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di condanna del querelante e di segreto professionale, nonché disposizioni a tutela del soggetto diffamato”, alle pagine 8 e 9, in riferimento all’art. 116 c.p.p. e alla possibilità dei giornalisti di acquisire notizie per la cronaca giudiziaria, si afferma: “[…] riguardo all’autorizzazione […] sorgono […] problemi. Nella pratica accade […] che il pubblico ministero intenda in senso ampiamente discrezionale il potere attribuitogli, con la conseguenza che egli finisce per essere titolare di un arbitrio rispetto al quale il giornalista è del tutto succube. Ne deriva che, in mancanza della garanzia di un accesso formalizzato, il giornalista può adoperarsi per ottenere in via indiretta quello che potrebbe ottenere per via diretta e legittima, chiedendo alle parti la possibilità di accedere ai documenti ufficiali che sono in loro possesso. Le conseguenze di tale situazione possono essere varie: scarsa trasparenza nei rapporti tra magistratura e stampa; servizievole subalternità; logica di scambio; ostacolo alla stessa attività di cronaca del giornalista; strumentalizzazioni del giornalista e della notizia; farraginosa ricostruzione della «verità processuale» e inquinamento di quella sostanziale. Il sistema della caduta del segreto basato sulla conoscibilità da parte dell’indagato è posto a garanzia non solo del diritto di difesa, ma anche dell’accessibilità da parte di soggetti diversi affinché esercitino il necessario controllo «esterno» sul potere giudiziario […]”.
[122] Ai sensi della citata norma “Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, salvo ulteriori previsioni di legge: a) le controversie in materia di: […] 6) diritto di accesso ai documenti amministrativi e violazione degli obblighi di trasparenza amministrativa […]”.
[123] L’art. 116 c.p.a., rubricato “rito in materia di accesso ai documenti amministrativi” dispone, al comma 1: “Contro le determinazioni e contro il silenzio sulle istanze di accesso ai documenti amministrativi, nonché per la tutela del diritto di accesso civico connessa all'inadempimento degli obblighi di trasparenza il ricorso è proposto entro trenta giorni dalla conoscenza della determinazione impugnata o dalla formazione del silenzio, mediante notificazione all'amministrazione e ad almeno un controinteressato. Si applica l’articolo 49. Il termine per la proposizione di ricorsi incidentali o motivi aggiunti è di trenta giorni”. Al comma 4, invece, la menzionata norma recita: “Il giudice decide con sentenza in forma semplificata; sussistendone i presupposti, ordina l’esibizione e, ove previsto, la pubblicazione dei documenti richiesti, entro un termine non superiore, di norma, a trenta giorni, dettando, ove occorra, le relative modalità”.
[124] Sul punto, si v. Cass., sez. VI, 11 giugno 2013, n. 27737; Cass., sez. I, 29 maggio 2008, n. 23601; Cass., sez. II, 3 aprile 2007, n. 15500; Cass., sez. VI, 19 dicembre 2005, n. 1784; Cass., sez. VI, 11 aprile 199, n.1412 (quest’ultima sentenza, tra l’altro, oltre a richiamare le suesposte argomentazioni, aggiunge che “[…] il provvedimento in questione non ha natura giurisdizionale, ma costituisce espressione di un’attività amministrativa ampiamente discrezionale […]”).
[125] Si v, Cass., sez. VI,4 aprile 2016, n. 17173; Cass., sez. VI, 13 dicembre 2013, n. 14999; Cass., sez. VI, 9 aprile 2008, n. 36167. Con quest’ultima sentenza, la Cassazione, citando la copiosa giurisprudenza in materia, ha precisato che è abnorme il provvedimento “[…] che, per ‘singolarità e stranezza’ del suo contenuto si presenti avulso dall’intero ordinamento processuale ovvero quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, sia emesso al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste al di là di ogni ragionevole limite […]”.
Silvestre Sara
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