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La trama giurisprudenziale sulla pregiudizialità in CTh.9.20.1

28.10.2017

Marco Gardini

Ricercatore di Diritto romano, Università di Parma

La trama giurisprudenziale sulla pregiudizialità in CTh.9.20.1

Sommario: 1. La costituzione di Graziano. - 2. Il problema del concorso tra strumenti giudiziali. - 3. La ‘trama giurisprudenziale’. - 4. Il problema della falsità documentale. - 5. Occasio legis. - 6. Conclusioni

 

1. La costituzione di Graziano

In una nota costituzione emanata da Graziano nel 378 in tema di falso documentale viene affrontato un problema di concorso fra civiliter agere e criminaliter agere che fornisce importanti indicazioni di carattere generale[1].

 

CTh.9.20.1 Impp. Valens, Gra(ti)anus et Val(entini)anus AAA. ad Antonium pp. (378)

A plerisque prudentium generaliter definitum est, quotiens de re familiari et civilis et criminalis competit actio, utraque licere experiri, nec si civiliter fuerit actum, criminalem posse consumi.

Sic denique et per vim possessione deiectus, si de ea recuperanda interdicto unde vi erit usus, non prohibetur tamen etiam lege Iulia de vi publico iudicio instituere accusationem; et suppresso testamento quum ex interdicto de tabulis exhibendis fuerit actum, nihilo minus ex lege Cornelia testamentaria poterit crimen inferri; et quum libertus se dicit ingenuum, tam de operis civiliter quam etiam lege Visellia criminaliter poterit perurgeri.

Quo in genere habetur furti actio et legis Fabiae constitutum. et quum una excepta sit causa de moribus, sexcenta alia sunt, quae enumerari non possunt, ut, quum altera prius actio intentata sit, per alteram, quae supererit, iudicatum liceat retractari.

Qua iuris definitione non ambigitur, etiam falsi crimen, de quo civiliter iam actum est, criminaliter esse repetendum[2].

 

Del provvedimento colpisce l’impianto, che si può dividere in tre parti[3].

La prima, da a plerisque a posse consumi, è costituita da una premessa in cui viene richiamato un principio, che viene attribuito all’opinione maggioritaria dei prudentes (a plerisque prudentium generaliter definitum est), ossia dei giuristi classici.

La seconda, da sic denique a retractari, ha lo scopo di confermare la premessa e contiene un cospicuo elenco di fattispecie in cui l’azione civile concorre con quella penale. Sono quattro coppie di strumenti giudiziali.

1) possibilità di ottenere l’interdictum unde vi, poi di accusare con la lex Iulia de vi publica seu privata[4];

2) possibilità di ottenere l’interdictum de tabulis exhibendis, poi di promuovere l’accusatio ex lege Cornelia[5];

3) possibilità di agire nei confronti del liberto prima in via civile col iudicium operarum, poi di promuovere un’accusa ex lege Visellia[6];

4) possibilità di agire prima con l’actio furti, poi di accusare ex lege Fabia[7].

La terza parte contiene la statuizione a cui era rivolto il provvedimento imperiale, secondo cui, viste le premesse (qua iuris definitione), non si può dubitare (non ambigitur) che anche in tema di crimen falsi si possa percorrere il procedimento penale dopo aver compiuto quello civile. La costituzione si conclude dunque con l’aggiunta di una quinta coppia di strumenti giudiziali: l’azione civile di falso e l’accusa criminale per il crimen falsi. Lo scopo del provvedimento doveva essere pertanto quello di confermare che il principio del concorso cumulativo tra azione civile e azione penale si dovesse estendere anche all’ipotesi di falso. L’idea che il provvedimento sia stato adottato avendo come prospettiva il crimine di falso è confermata dalla sua collocazione all’interno del codice Teodosiano, in un contesto dove si affrontano diversi problemi legati al crimen falsi. Si tratta dell’unico provvedimento presente nel titolo 20 del libro 9 con rubrica Victum civiliter agere et criminaliter[8]. Il titolo che precede la costituzione in commento è dedicato alla legge Cornelia in materia di falso (Ad legem Corneliam de falso), mentre quello successivo riguarda il tema dei falsi monetari (De falsa moneta)[9].

 

2. Il problema del concorso tra strumenti giudiziali

La premessa della costituzione di Graziano contiene un espresso richiamo a un principio di portata generale (generaliter definitum est) condiviso dalla maggioranza dei giuristi ‘classici’ (plerisque prudentium). La risposta positiva di Graziano viene poi ulteriormente rafforzata, ‘appoggiata’ si potrebbe dire, a una serie di richiami esemplificativi tratti dalla prassi giudiziale antica. Nell’ottica della presente ricerca è certamente questo il profilo che interessa maggiormente e che merita di essere approfondito, anche per valutare la tenuta dei dubbi che in passato sono stati sollevati in merito al valore di questi richiami al pensiero dei prudentes.

Prima di andare a verificare i precedenti giurisprudenziali ricordati da Graziano, è però opportuno chiarire la portata sistematica del problema del ‘concorso’, che può essere guardato da molteplici prospettive.

Il principio da cui prende le mosse la costituzione di Graziano prevede che, fatti salvi casi particolari, in via prioritaria, si può dire che quando in merito a una questione patrimoniale spetti sia l’azione pubblica sia l’azione privata, è possibile esercitare entrambe, con l’ulteriore precisazione che, se si fosse agito prima in via privata, non si sarebbe consumata l’azione pubblica.

Qui il problema del concorso è visto da una particolare angolatura, quella della ‘consumazione’ dell’azione, che si può esplicitare nella seguente domanda: il victum civiliter, ossia colui che ha perso agendo in via privata, ha ancora la possibilità di agire criminaliter?

L’impostazione di base da prendere a riferimento per affrontare il problema del concorso di azioni si può compendiare in questi termini: se con riferimento a un’unica vicenda spettano più azioni, il criterio per affrontare la concorrenza dipende dall’individuazione della res che viene dedotta in giudizio; se risulta che a fondamento delle due azioni sta la medesima res (eadem res), il concorso è alternativo, se la res risulta diversa, il concorso è cumulativo, ma se questo risulta iniquo, il cumulo può essere evitato con rimedi pretori. Il termine res ha il duplice significato di «ragione fatta valere e di scopo che l’attore si ripromette con l’esercizio dell’azione concreta»[10]; già con Servio e Labeone il problema del concorso veniva affrontato con riferimento al profilo del rapporto concretamente dedotto in giudizio e, pertanto,  non poteva essere risolto solo sulla base della funzione tipica degli schemi processuali, comparando ‘un catalogo di ragioni tipiche’, cioè di fattispecie astratte[11].

 Questa impostazione trova preciso riscontro in un passo di Ulpiano.

 

D.47.10.15.46 Ulp. 77 ad ed.

Si quis servo verberato iniuriarum egerit, deinde postea damni iniuriae agat, Labeo scribit eandem rem non esse, quia altera actio ad damnum pertineret culpa datum, altera ad contumeliam.

 

In questo frammento la medesima vicenda può essere ricondotta a due diverse fattispecie di illecito, che possono dar vita a due azioni con scopi diversi; il concorso, pertanto, è cumulativo. L’eadem res è ravvisata in relazione al risultato giuridico che l’attore intende raggiungere «nella concreta e peculiare realtà del rapporto dedotto in giudizio»; la nozione di eadem res è dunque elastica e «funzionale alla natura dei casi concreti»[12]. Ogni episodio può coinvolgere interessi diversi, che danno vita a causae (ragioni) diverse, che si riflettono in figure processuali diverse[13].

Anche se queste riflessioni sono state compiute prendendo a riferimento il processo privato formulare, con le sue actiones, la logica di fondo è preziosa anche per affrontare il problema del concorso tra azioni private e azioni pubbliche, benché nel contesto storico in cui si inserisce il provvedimento imperiale le cose siano complicate dal fatto che al problema del concorso delle actiones si sovrappone il problema del concorso dei diversi riti processuali (privato e pubblico).

Quella appena descritta non è però l’unica visuale con cui guardare al problema del concorso.

La rubrica sotto cui la costituzione di Graziano è stata collocata dai compilatori giustinianei (‘Quando civilis actio criminali praeiudicet et an utraque ab eodem exerceri possit’) richiama una diversa angolatura del problema, più ampia rispetto a quella della costituzione in commento (consumazione processuale), che va sotto il nome di praeiudicium, e che, come si avrà modo di vedere, era anche quella privilegiata dalla giurisprudenza classica.

Nelle fonti la parola praeiudicium viene in considerazione con significati diversi e per orientarsi nei molteplici risvolti problematici è utile fissare una ‘mappa dei problemi’ in tema di ‘pregiudizialità’[14]. Si devono anzitutto distinguere due possibili livelli: una pregiudizialità ‘in senso stretto’ e una pregiudizialità ‘di fatto’. Quella ‘in senso stretto’ si ha quando la decisione di un giudice dipende dalla decisione di un’altra controversia, che ne costituisce l’antecedente logico; quella ‘di fatto’, invece, avviene quando vi sono fattispecie diverse che hanno elementi comuni.

La preoccupazione di Graziano, lo si ribadisce, si colloca all’interno del secondo livello, quello della ‘connessione per fatto’, dove una medesima vicenda è in grado di generare causae diverse[15]. Si tratta di una situazione che genera il problema del raccordo fra due potenziali sentenze che potrebbero essere pronunciate su una medesima vicenda, con il rischio di generare giudicati contraddittori e comunque con il rischio che il giudice chiamato a giudicare per secondo possa essere influenzato dalla decisione presa nel giudizio precedente.

Un modo per prevenire la contraddittorietà dei giudicati ed eliminare alla radice il problema dell’influenza del primo giudizio su quello successivo è quello di consentire l’esercizio di una sola azione, fra le due o più suggerite da una medesima vicenda. è questa la soluzione che la tradizione dottrinale qualifica come ‘consumazione processuale’ o ‘concorso elettivo’[16]. Un’altra modalità di raccordo tra i due giudizi è quella che prevede che la prima sentenza ‘faccia stato’ su quella successiva[17].

Per farsi un’idea di come in epoca classica fosse vissuto il problema dell’influenza del primo giudizio sul secondo, utili spunti di riflessione possono venire da un passo del De inventione di Cicerone[18]. La vicenda vede protagonista un cavaliere romano, che si oppone con le armi a degli aggressori armati; uno degli assalitori gli taglia una mano con la spada; il cavaliere vuole agire contro l’aggressore con l’actio iniuriarum, ma il convenuto chiede al pretore di inserire nel iudicium una exceptio di questo tenore: “extra quam si in reum capitis praeiudicium fiat”, giustificando la richiesta con il fatto che si deve evitare che il giudizio davanti ai recuperatores vada a pregiudicare quello relativo ai sicarii; l’attore vorrebbe invece una formula senza aggiunte (pura), rafforzando la sua pretesa con l’argomento che le iniuriae erano talmente gravi da rendere indegno un rinvio del giudizio (indignum sit non primo quoque tempore iudicari); la questione da decidere (iudicatio) è se l’atrocità delle iniuriae sia tale da giustificare che venga portata in giudizio prima (praeiudicetur) di quello relativo a qualche fattispecie più grave (de aliquo maiore maleficio)[19].

Cicerone costruisce ad arte il caso del cavaliere ferito per portare un esempio di causa translativa, che era uno strumento di tattica processuale con cui si mirava in generale a trasferire l’azione in altra sede. Si ritiene infatti che l’exceptio[20]ricordata da Cicerone avesse lo scopo principale di spingere l’attore a rinunciare a concludere la litis contestatio e a rinviare l’azione (differre actionem)[21] a un momento successivo alla proposizione del giudizio pubblico. Si trattava pertanto di una ‘eccezione dilatoria’, da intendere come uno strumento volto a premere sulla volontà dell’attore in modo da dissuaderlo, pena il rischio di perdere la lite, a esercitare questo prima della conclusione del iudicium publicum[22]. Una medesima vicenda generava la concorrenza di due fattispecie (la quaestio inter sicarios e l’actio iniuriarum) e il rinvio del giudizio privato poteva essere giustificato dal timore che la sentenza privata potesse influenzare l’esito del giudizio penale pubblico, che ha sempre goduto di una posizione di preminenza[23].

 La preoccupazione di Graziano si colloca in un contesto processuale successivo rispetto a quello descritto da Cicerone; l’azione civile, infatti, è già stata esperita (si civiliter fuerit actum; de quo civiliter iam actum est) e ci si chiede se vi sia ancora la possibilità di intraprendere la strada dell’accusa criminale. La portata del problema astratto non cambia molto, dal momento che, per decidere se concedere o meno il giudizio pubblico dopo la conclusione di quello privato, si dovrà comunque affrontare la questione dell’eadem res, con i suoi corollari: evitare di pronunciarsi due volte sulla stessa cosa (bona fides non patitur ut bis idem exigatur); evitare il conflitto fra giudicati; evitare che il secondo giudice sia influenzato dalla decisione già presa. Cambia tuttavia la portata del problema concreto: se il giudizio privato non si è ancora svolto e sullo sfondo si prospetta la possibilità di un giudizio criminale, c’è la possibilità di fermare l’azione privata, consentendo l’inserimento della exceptio o denegando l’azione, compiendo una valutazione preventiva[24]; se invece il giudizio privato si è già svolto, il problema se sia da concedere di agire anche in via criminale potrà essere compiuta avendo a disposizione elementi concreti e precisi (ad esempio le testimonianze già raccolte).

 

3. La ‘trama giurisprudenziale’

Chiarita la portata del problema, può essere utile passare in rassegna i testi della giurisprudenza che si sono occupati del problema.

Un primo testo da prendere in considerazione è di Paolo ed è caratterizzato da un impianto che ricorda molto da vicino la costituzione di Graziano.

 

D.48.1.4 Paul. 37 ad ed.

Interdum evenit, ut praeiudicium iudicio publico fiat, sicut in actione legis Aquiliae et furti et vi bonorum raptorum et interdicto unde vi et de tabulis testamenti exhibendis: nam in his de re familiari agitur.

 

Le assonanze sono evidenti, a partire dalla giustificazione che contiene lo stesso richiamo contenuto nella costituzione: de re familiari. Paolo scrive che a volte accade che si faccia pregiudizio al giudizio pubblico (nel senso di giudizio anteriore), come nel caso delle azioni che derivano dalla legge Aquilia, da quella di furto, dei beni sottratti con violenza e con l’interdetto che mira all’esibizione delle tavole testamentarie: infatti, in questi casi l’azione privata verte sui profili patrimoniali della vicenda intercorsa, trascurati invece nell’azione criminale. A differenza di Graziano, Paolo però non presenta coppie di percorsi giudiziali, ma offre solo un elenco del primo elemento della coppia, quello civilistico. Vengono infatti nell’ordine richiamati:  1. azione aquiliana, 2. azione di furto, 3. azione di rapina, 4. interdetto per lo spossessamento violento,  5. l’interdetto per l’esibizione delle tavole testamentarie[25].

Sul concorso tra l’azione aquiliana e il procedimento penale pubblico ex lege Cornelia c’è un frammento di Ulpiano che, per tradizione, viene messo in dialogo con quello di Paolo appena visto.

 

D. 9.2.23.9 Ulp. 18 ad ed.

Si dolo servus occisus sit, et lege Cornelia agere dominum posse constat: et si lege Aquilia egerit, praeiudicium fieri Corneliae non debet.

 

Ulpiano spiega che se uno schiavo sia stato ucciso con dolo, risulta che il proprietario possa agire anche sulla base della legge Cornelia e, se avrà agito con la legge Aquilia, non dovrà essere fatto pregiudizio per l’azione Cornelia[26].

I testi di Paolo e quello di Ulpiano sono in apparente contraddizione sul piano formale. Il primo contiene l’espressione praeiudicium fiat (si fa pregiudizio), il secondo utilizza invece l’espressione praeiudicium fieri non debet (non dovrà esserci pregiudizio).

è forse un caso di ius controversum, in cui Ulpiano e Paolo si collocavano su opposte posizioni di principio? A livello puramente linguistico le due espressioni potrebbero effettivamente suggerire una contrapposizione tra Paolo, schierato a favore del concorso ‘elettivo’e Ulpiano a favore del concorso ‘cumulativo’[27].

La contraddizione viene tuttavia meno se si valorizzano le diversità dei due contesti: nel testo di Paolo, infatti, viene detto che talvolta accade (interdum evenit) che si consenta il praeiudicium, vale a dire, che il giudizio privato venga svolto prima di quello pubblico; la concorrenza fra i due strumenti giudiziali viene dunque legata al problema cronologico[28]. Nel frammento di Ulpiano c’è invece egerit (avrà agito), nella prospettiva di chi si è già rivolto al pretore per l’azione di danneggiamento; in questo caso preiudicium sta a significare che nel giudizio privato non si devono affrontare le questioni riservate all’accusatio de sicariis in base alla lex Cornelia[29].

In un altro passo, in merito a una vicenda in cui una parte subisce vis, in relazione a un potenziale concorso tra azione privata (actio vi bonorum raptorum) e procedimento pubblico sulla base della lex Iulia de vi (privata), Ulpiano si mette nella stessa prospettiva di Paolo, affrontando il problema se consentire o meno che il giudizio civile venga svolto prima di quello, potenzialmente ancora possibile e più grave, di natura criminale.

 

D.47.8.2.1 Ulp. 56 ad ed.

Hoc edicto contra ea, quae vi committuntur, consuluit praetor. nam si quis se vim passum docere possit, publico iudicio de vi potest experiri, neque debet publico iudicio privata actione praeiudicari quidam putant: sed utilius visum est, quamvis praeiudicium legi Iuliae de vi privata fiat, nihilo minus tamen non esse denegandam actionem eligentibus privatam persecutionem.

 

Dopo aver ricordato che il pretore ha preso posizione contro quelle situazioni in cui si commette violenza, per le quali è già previsto un giudizio pubblico, Ulpiano ricorda che secondo alcuni l’azione privata non può essere proposta prima di quella pubblica, ma è stato tuttavia ritenuto più utile che, anche se con l’azione privata si anticipa un giudizio sulla stessa questione che poi potrà essere anche sottoposta al giudizio criminale in base alla legge Giulia, nondimeno non si debba denegare l’azione a coloro che hanno scelto la procedura privata. Il punto è che, quando si prospetta un potenziale concorso con il giudizio pubblico, non è sempre opportuno denegare ‘a priori’ la possibilità di agire privatamente. Il timore di un’astratta influenza del giudizio civile sul successivo giudizio criminale potrebbe suggerire di non concedere l’azione privata (o di farla rinviare), ma Ulpiano spiega che vi sono casi in cui è più utile concederla, lasciando al iudex il compito di non fare praeiudicium sulle questioni riservate al giudizio pubblico[30].

In un altro passo Ulpiano descrive bene come il principio che stabilisce la cumulatività dell’azione privata con quella pubblica valga solo se le due azioni esprimono una funzione diversa. Il caso specifico che rende inapplicabile il cumulo ricorda da vicino la vicenda del cavaliere descritta da Cicerone.

D. 47.10.7.1 Ulp. 57 ad ed.[31]

Si dicatur homo iniuria occisus, numquid non debeat permittere praetor privato iudicio legi Corneliae praeiudicari? idemque et si ita quis agere velit "quod tu venenum dedisti hominis occidendi causa?" rectius igitur fecerit, si huiusmodi actionem non dederit. adquin solemus dicere, ex quibus causis publica sunt iudicia, ex his causis non esse nos prohibendos, quo minus et privato agamus. est hoc verum, sed ubi non principaliter de ea re agitur, quae habet publicam exsecutionem. quid ergo de lege Aquilia dicimus? nam et ea actio principaliter hoc continet, hominem occisum non principaliter: nam ibi principaliter de damno agitur, quod domino datum est, at in actione iniuriarum de ipsa caede vel veneno ut vindicetur, non ut damnum sarciatur. quid ergo, si quis idcirco velit iniuriarum agere, quod gladio caput eius percussum est? Labeo ait non esse prohibendum: neque enim utique hoc, inquit, intenditur, quod publicam habet animadversionem. quod verum non est: cui enim dubium est etiam hunc dici posse Cornelia conveniri?

Il frammento attiene al titolo De iniuriis ed è tratto dal commento alla lex Cornelia de sicariis et veneficis. Ulpiano esordisce con una interrogazione indiretta, chiedendosi se si possa dubitare che, in ipotesi di uccisione iniuria di uno schiavo, il pretore non deve consentire che con un giudizio privato si faccia pregiudizio  alla lex Cornelia de veneficis. Lo stesso principio, a suo dire, dovrebbe valere anche quando, in ipotesi di avvelenamento doloso, si volesse inserire la clausola ‘dal momento che sei stato tu a fornire il veleno per uccidere lo schiavo’. Anche in questo caso, dice Ulpiano, il pretore avrà agito più correttamente (rectius) se non avrà concesso il giudizio privato anche se, prosegue Ulpiano, siamo soliti dire che non si deve vietare di agire anche in via privata (non esse nos prohibendos, quo minus et privato agamus) con riferimento alle cause che possono dar vita anche a giudizi pubblici (ex quibus causis publica sunt iudicia). Ciò vale, precisa Ulpiano, solo se nel giudizio privato non ci si occupa direttamente (principaliter) dello stesso oggetto che riguarda il giudizio pubblico (ubi non principaliter de ea re agitur, quae habet publicam exsecutionem). Detto questo, Ulpiano si sofferma sulla funzione dell’actio legis Aquiliae e osserva che con essa si persegue in via principale il danno causato al padrone, in via secondaria l’uccisione come comportamento, diversamente da quanto avviene con l’actio iniuriarum, dove si agisce in principalità sul comportamento per ottenere vendetta, non un risarcimento (ut vindicetur, non ut damnum sarciatur). A questo punto Ulpiano si chiede: se uno vuole agire con l’actio iniuriarum perché gli è stata toccata la testa con una spada, glielo si dovrà consentire? Secondo Labeone sì, perché è evidente che quell’azione non ricade sotto ciò che viene perseguito con un giudizio pubblico. Ulpiano però dissente, perché a suo giudizio non si può dubitare che in questo caso la persona possa essere convenuta per la medesima vicenda anche in forza della lex Cornelia (cui enim dubium est etiam hunc dici posse Cornelia conveniri?).

Muovendosi nella prospettiva del praeiudicium inteso in termini di anticipazione cronologica, Ulpiano conferma indirettamente il principio del cumulo per le ipotesi che non riguardano la medesima res. Sulla vicenda specifica del colpo alla testa con la spada, però,  prende le distanze da Labeone. Essendo oltretutto in gioco conseguenze di carattere non patrimoniale, vi sarebbe una sostanziale coincidenza tra le funzioni dell’azione privata e di quella pubblica. Con riferimento a quella vicenda, dunque, sembra di capire che Ulpiano avrebbe consigliato al pretore di non consentire che l’azione privata precedesse quella pubblica. Il principio che viene fissato sembra pertanto essere che l’anticipazione del giudizio civile non debba essere consentita tutte le volte che i fatti vengono in esso configurati in termini che coincidono con la fattispecie penale. L’impostazione della res che l’attore espone al magistrato può essere così caratterizzata in senso criminale da non poter essere inserita in un giudizio privato.

Il problema se concedere o meno uno strumento  giudiziale privato quando all’orizzonte se ne profila uno pubblico viene affrontato da Ulpiano anche in merito al concorso fra l’interdetto de tabulis exhibendis e il procedimento penale ex lege Cornelia[32].

 

D.43.5.3.6 (Ulp. 68 ad ed.)

Si quis dolo malo fecerit, quo minus penes eum tabulae essent, nihilo minus hoc interdicto tenebitur, nec praeiudicatur aliquid legi Corneliae testamentariae, quasi dolo malo testamentum suppresserit. nemo enim ideo impune retinet tabulas, quod maius facinus admisit, cum exhibitis tabulis admissum eius magis manifestetur. et posse aliquem dolo malo facere, ut in eam legem non incidat, ut puta si neque amoverit neque celaverit tabulas, sed idcirco alii tradiderit, ne eas interdicenti exhiberet, hoc est si non supprimendi animo vel consilio fecit, sed ne huic exhiberet.

 

Ulpiano afferma che se qualcuno con dolo ha fatto in modo che le tavole non siano più presso di lui, sarà ciò nonostante tenuto con l’interdetto de tabulis exhibendis, senza il limite del praeiudicium alla legge Cornelia testamentaria, come se avesse distrutto il testamento intenzionalmente. Nessuno, infatti, può trattenere impunemente le tavole, allegando che, una volta esibite le tavole, si sarà manifestato reo di un illecito molto grave. Del resto è ben possibile che uno commetta qualcosa con dolo, ma proprio per non andare contro quella legge, come ad esempio se non ha né sottratto né nascosto le tavole, ma le ha consegnate a un altro per non esibirle a chi chiedeva l’interdetto, vale a dire se lo ha fatto non con l’intenzione o il proposito di distruggerle, ma per non esibirle all’interessato[33]. In questo passo è importante la precisazione che è possibile che uno commetta qualcosa con dolo (per non consegnare le tavole), ma senza il dolo specifico previsto dalla fattispecie criminale pubblica (probabilmente il proposito di distruggere definitivamente un mezzo di prova). Ulpiano sostiene che non si possa precludere il ricorso all’interdetto esibitorio, consentendo dunque che chi ha il testamento possa continuare a trattenerlo, con l’argomento che, se venisse concesso l’interdetto, si potrebbe influenzare un possibile, successivo, giudizio penale (nemo enim ideo impune retinet tabulas, quod maius facinus admisit).

 

4. Il problema della falsità documentale

Si può a questo punto tornare al cuore del provvedimento del 378: il falso documentale.

Sull’esistenza di una c.d. “via civile” per l’impugnazione di una scrittura, ossia di un processo civile che nelle fonti viene indicato con le espressioni civiliter agere o civiliter experiri de fide instrumenti, la dottrina non ha raggiunto risultati unanimi. In passato è stato autorevolmente sostenuto che l’elaborazione del civiliter agere,come forma autonoma di processo, sarebbe maturata solo in ambiente postclassico, in particolare proprio da due costituzioni di Graziano[34].  

Una recente ricerca ha però cercato di rivalutare diverse testimonianze di tarda età classica in cui si rinvengono precisi riferimenti a un procedimento civile di falso, riferimenti che sarebbero stati considerati in passato frutto di interpolazioni da parte dei compilatori giustinianei[35]; si tratta in particolare di una serie di costituzioni imperiali raccolte nel titolo 9.22 del Codice di Giustiniano[36], da collocare sullo sfondo della cognitio extra ordinem[37].

Di particolare interesse è la seguente costituzione di Diocleziano.

 

C.9.22.16: Imperatores Diocletianus, Maximianus (294)

De fide testamenti querenti duplex via litigandi tributa est. quamvis itaque per procuratorem accusationem persequi non potes, disceptatione privata tamen de eius fide queri non prohiberis, cum reus ita conventus non tantum ab alio iuste, sed etiam [ab] eo qui civiliter egit sollemniter accusari possit.

 

A colui che contesta la veridicità di un testamento sono  concesse due strade per affrontare la controversia.  Pertanto, anche quando non è possibile perseguire l’accusa attraverso una rappresentante, non sarà tuttavia proibito mettere in discussione la genuinità del documento mediante un giudizio privato, in modo che il convenuto, citato in quel modo, non solo possa essere accusato solennemente da parte di un terzo, ma anche da colui che agisce sul piano civile. Di fronte a un testamento che si sospetta essere falso vi sarebbe una duplex via: una accusatio falsi o una disceptatio privata, presentata come un’alternativa al percorso penale (in questo caso non percorribile). Il testo dimostrerebbe dunque che, già alla fine del terzo secolo, esisteva la possibilità del cumulo fra civiliter e criminaliter agere. Non era dunque una novità introdotta da Graziano.

Mentre l’azione di falso civile è diretta a invalidare l’efficacia probatoria di un documento, nel procedimento penale viene in considerazione l’atto, penalmente rilevante, della falsificazione, il cui accertamento ha contenuto più ampio di quello che avviene in sede civile[38].

La ratio del concorso cumulativo proposta sia da Graziano che da Paolo (quia de re familiari agitur)vuole sottolineare il fatto che il giudizio privato ha un obbiettivo che lo distingue nettamente da quello del giudizio penale[39]: il primo è in rem, il secondo è in personam, per usare una felice espressione di Gotofredo[40]. L’espressione in rem, calata nel giudizio di falso, esprime bene la funzione di verificare l’autenticità per togliere di mezzo il documento senza toccare profili penali personali[41]. Basti pensare al fatto che è possibile eliminare dal processo civile il falso testamento, provandone la falsità attraverso il raffronto con olografi (comparatio litterarum), senza conoscere il responsabile della falsificazione. è ben possibile, dunque, che il processo civile mi veda soccombere (ad esempio, gli olografi da me prodotti non sono stati sufficienti a provare la falsità), ma io possa poi accusare il falsario (in personam) che ho scoperto dopo o non avevo in precedenza avuto il desiderio di accusare[42].

 

5. Occasio legis

All’apparenza quello di Graziano è un provvedimento che ha carattere generale[43], ma ciò non implica necessariamente che abbia anche carattere innovativo[44]. Un indizio in questo senso viene da una costituzione emanata dagli stessi imperatori due anni prima.

 

CTh.9.19.4pr.-1

Imppp. valens, grat. et valent. aaa. ad maximinum pf. p.

pr. Damus copiam iurgantibus, si apud iudicem proferatur scriptura, de qua oritur aliqua disputatio, spatium ut habeat, qui perurgeat, profitendi, utrum de falso criminaliter, an de scripturae fide statuat civiliter experiri.

1. Quod si expetens vindictam falsi crimen intenderit, erit in arbitrio iudicantis, an eum sinat etiam sine inscriptione certare. iudicis enim potestati committi oportet, ut de eo, qui obiecta non probaverit, sumat propositum antiquo iure supplicium. rationi quoque huius modi plenissime suffragatur antiquitas, quae nequissimos homines et argui voluit et coerceri legibus variis, Cornelia de veneficiis, sicariis, parricidiis, Iulia de adulteris ambitusve criminibus, ceterisve ita promulgatis, ut possit etiam sine inscriptione cognosci, poena tamen accusatorem etiam sine solennibus occuparet. de qua re et divus Antoninus rescripsisse docetur, id in iudicis potestate constituens, quod nosmet in legibus iusseramus. removebitur itaque istius lenitate rescripti praecepti superioris austeritas, ut, si quis deinceps tabulas testamenti, chirographa testationesque, nec non etiam rationes privatas vel publicas, pacta et epistolas vel ultimas voluntates, donationes, venditiones vel si quid prolatum aliud insimulare conabitur, habeat, praetermissis solennibus, accusandi facultatem, pro iudicis motu sententiam relaturus.

2. Civiles autem inquisitiones inter utrasque confligentium partes aequali motu ingruit et recurrit humanitas, quum is, qui praeerit quaestioni, intentiones falsas aut conficta crimina ex legibus poenis competentibus possit ulcisci.

 

Con questa legge la cancelleria di Graziano dà facoltà alle parti in lite fra loro, se in sede di giudizio viene presentata una qualsiasi scrittura sulla cui autenticità sorge qualche contrasto, di dichiarare se si intenda agire per il falso, in via criminale, o, per l’attendibilità della scrittura, in via civile. Se l’attore, perseguendo la vendetta (si expetens vindictam), avrà optato per la persecuzione criminale del falso, sarà in facoltà del giudice, consentirgli o meno di affrontare la contesa anche senza inscriptio, conservando la facoltà -non l’obbligo-, di applicare, a chi non ha fornito la prova delle questioni sollevate, la pena prevista dal diritto antico[45].

Di questo provvedimento imperiale il punto che interessa maggiormente è rappresentato dalla concessione della facoltà di scegliere quale strada seguire, dal momento che ciascun percorso ha un’impostazione diversa (in uno è in gioco la persona, nell’altro il fatto materiale) con oneri probatori diversi e conseguenze diverse.

Volendo provare a ipotizzare un legame tra i due provvedimenti imperiali della cancelleria di Graziano (quello del 378 e quello del 376), si potrebbe immaginare che, a seguito dell’emanazione della costituzione del 376 (quella appena vista, dove, lo si ripete, veniva concesso alla persona sorpresa dalla produzione documentale ritenuta potenzialmente falsa uno spatium[46] per decidere quale strada seguire per affrontare il problema), i funzionari ne abbiano praticato un’applicazione in cui la scelta compiuta diveniva anche quella definitiva, con conseguente preclusione dell’opzione abbandonata[47]. Nella prassi applicativa l’accento poteva essere pertanto passato dallo spatium per consentire di scegliere a ragion veduta, alla scelta compiuta, con implicita consumazione dell’alternativa. Questo spostamento di accento con effetti preclusivi poteva avere una plausibile giustificazione. Non va dimenticato che poteva essere lo stesso giudice che aveva affrontato la controversia patrimoniale (civiliter) a essere richiesto, successivamente, di affrontare quella criminale. Questa condizione è bene espressa dal verbo retractari, che, come si è visto, ad alcuni ha addirittura suggerito l’idea che la costituzione introducesse la possibilità di un giudizio di appello[48]. Molto più semplicemente, doveva essere lo stesso funzionario che, vedendosi nuovamente investito della medesima vicenda (re-tractatio), anche se proposta con una nuova impostazione (criminaliter), poteva ritenere inutile il rito, in quanto sarebbe approdato al medesimo risultato.

Ecco allora che, due anni dopo, la stessa cancelleria è intervenuta per evitare abusi da parte dei funzionari, precisando che, anche in materia di falso, il victum civiliter può intentare anche l’accusa criminale, in ossequio al principio fissato dai prudentes.

La cancelleria di Graziano ribadisce quindi il principio secondo cui il giudizio civile non preclude un successivo giudizio criminale sugli stessi fatti e, per farlo, si appoggia alla tradizione giurisprudenziale, richiamando i diversi casi in cui il cumulo è stato ritenuto possibile e precisandone la ratio[49]. è proprio questa ratio, infatti, che coglie il profilo su cui convergono tutte le eterogenee ipotesi esemplificative richiamate[50]. Come si è visto, il problema del praeiudicium è legato a quello dell’eadem res e si è anche visto che questo problema veniva risolto facendo riferimento alle funzioni concretamente perseguite dalle parti. Ebbene, la ratio scelta da Graziano e da Paolo ha il merito di fornire un’indicazione per orientarsi di fronte a quel problema di carattere funzionale: tutte le volte che uno strumento giudiziale persegue finalità reipersecuorie (in rem) e viene correttamente mantenuto in quell’ambito, non influenza e quindi non preclude il successivo giudizio criminale (in personam)[51].

 

6. Conclusioni

L’esame dei testi giurisprudenziali in tema di concorso di azioni, dove il praeiudicium viene in considerazione perché, ‘anticipando’, potrebbe influenzare il giudizio successivo, evidenzia una significativa sintonia con il testo di CTh.9.20.1. Le antiche fattispecie citate dalla costituzione servivano a individuare e regolare situazioni ritenute rilevanti a tre diversi livelli: privato (patrimoniale), privato (penale), pubblico (criminale). Poteva però accadere che all’interno di una medesima vicenda si trovassero spunti di rilevanza su più fronti. Tendenzialmente i giuristi evevano assecondato la concorrenza di profili diversi, fissando il principio del cumulo[52], che però implicava anche il problema di quale azione dovesse avere la precedenza. Si è visto che la precedenza in linea di principio era accordata all’azione penale (pubblica) in quanto espressione di un interesse di rango superiore. Però, per varie ragioni, a condizioni diverse, si era ritenuto che l’azione privata potesse in molti casi precedere quella penale, a condizione però che non interferisse con essa (da qui il problema del praeiudicium con le sue diverse implicazioni).

I testi giurisprudenziali appaiono animati da due principali preoccupazioni di fondo: prevenire influenze del giudizio di carattere privato su quello criminale ed evitare che l’attore possa ottenere due volte la stessa cosa[53]. Queste due problematiche venivano gestite in funzione della res, che si può esprimere in termini di causa, a sua volta declinabile in due principali modalità: reipersecutoria e punitiva.

Il quadro è reso complesso dal fatto che i precedenti citati da Graziano erano operativi in un contesto giurisdizionale in cui le fattispecie private e criminali venivano utilizzate in procedimenti separati, mentre al tempo di Graziano si era ormai completato il processo di avvicinamento del processo formulare e delle quaestiones sotto il profilo della cognitio, che aveva eliminato la concorrenza tra azioni e giudizi diversi[54]. Questa circostanza conferisce particolare risalto alla vitalità della fisionomia delle vecchie fattispecie, che al tempo di Graziano sono ancora in grado di offrire un contributo orientativo, nonostante si fosse da tempo rotto il legame tra controversia e configurazione dei fatti secondo precise fattispecie -private e criminali- (iuidicia privata e iudicia publica)[55].

Nella costituzione di Graziano il cambiamento convive con la tradizione e si manifesta negli avverbi civiliter e criminaliter, che esprimono due diverse impostazioni interne a un medesimo assetto processuale, dove la stessa vicenda veniva ormai impostata e giudicata dallo stesso soggetto.  I dubbi che hanno sollecitato il provvedimento, infatti, erano probabilmente nati dal fatto che lo stesso giudice si trovava di fronte alla richiesta di dover affrontare di nuovo una questione già decisa in senso negativo e che lui viveva come completamente esaurita.

Alla luce di queste considerazioni si apprezza ancora di più lo sforzo di sintesi operato dalla cancelleria imperiale di Graziano, che ha messo in risalto la ragione di fondo che consentiva il concorso cumulativo dei passati distinti percorsi processuali, scegliendo di mettere l’accento sull’espressione ‘de re familiari’, che aveva trovato in Paolo. Con essa, come si è visto, si è voluto sottolineare l’assetto di un giudizio in cui emerge un interesse prioritario rivolto alla cosa,  che idealmente si contrappone a quello in personam, che prevale quando si mira invece alla vindicta. L’espressione res familiaris, a prescindere dalla possibile sottovalutazione del significato specifico che tale espressione poteva avere nel contesto originario (forse dedicato all’actio de moribus[56]), ha anche il pregio di consentire un punto di riferimento unitario per due possibili causae che, pur contrapponendosi idealmente a quelle di carattere afflittivo, presentano due diverse declinazioni della finalità reipersecutoria: quelle dirette a ottenere un risarcimento (per equivalente in denaro) e quelle che mirano a ottenere un risultato specifico, come quando si vuole ottenere la consegna del testamento o si vuole eliminare dal processo un documento ritenuto falso. 

Come tutti i provvedimenti tardoimperiali che contengono richiami al pensiero dei prudentes anche quello di Graziano è stato fatto oggetto di giudizi demolitori da parte della dottrina che aveva ormai deciso di militare sotto la bandiera del declino tardoantico[57]. Alla luce degli spunti offerti dalle fonti più antiche, si può concludere che tali giudizi siano stati ingenerosi.

Resta semmai possibile compiere un’ultima notazione: se fosse vero che i redattori della costituzione del 378 ebbero niente più che l’intenzione di allacciarsi al pensiero giurisprudenziale, come è disposto a concedere anche Archi, saremmo comunque di fronte a un aspetto piuttosto rilevante, visto che la cancelleria imperiale era dotata dei più ampi poteri prescrittivi e non aveva certo bisogno di giustificare le proprie decisioni attraverso una articolata motivazione. Anche la sola espressione del desiderio di inserirsi in una tradizione e lo sforzo di costruire un percorso argomentativo suggeriscono il perdurare della convinzione che esistesse una dimensione giuridica in cui l’impianto razionale poteva vivere anche senza quello autoritativo.

 

 

* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] Pubblico in questa sede i risultati di una ricerca presentata al Terzo Workshop del progetto Redhis (“Rediscovering the hidden structure. A new appreciation of Juristic texts and Patterns of thought in Late Antiquity”) - Pavia, 17-18 marzo 2017 -, dedicato allo studio della persistenza del pensiero giurisprudenziale classico nella Tarda Antichità, proposto da Dario Mantovani e sviluppato presso l’Università di Pavia grazie al contributo dell’European Reserch Council (ERC Advanced Grant 2013). Il progetto si articola in tre principali linee di ricerca: (1) edizione dei testimoni su papiro e pergamena delle opere dei giuristi classici di provenienza orientale, (2) studio della genesi e destinazione delle antologie compilate nel IV e V secolo in Occidente e (3) studio delle modalità con cui la legislazione imperiale si rapportava al pensiero giurisprudenziale classico. Questo saggio si inserisce in quest’ultimo filone di indagine.

[2] Propongo una traduzione che ne dovrebbe chiarire l’esegesi. «Dalla maggioranza dei prudentes è stato definito in linea di principio che ogni volta che, in merito a una questione patrimoniale, compete sia l’azione civile, sia l’azione penale, è possibile servirsi di entrambe e se si sarà agito civilmente non si può ritenere consumata l’azione penale.

Così, dunque, anche a chi è stato spogliato violentemente del possesso, se per recuperarlo avrà impiegato l’interdetto unde vi, non è impedito di proporre l’accusa in sede di giudizio pubblico mediante la lex Iulia de vi; e in ipotesi di occultamento di un testamento, una volta che si sarà agito con l’interdetto de tabulis exhibendis, nondimeno si potrà promuovere l’accusa criminale in base alla lex Cornelia testamentaria. E quando un liberto si dichiara ingenuo, si potrà tanto agire civilmente de operis, quanto sporgere denuncia penale in forza della lex Visellia.

Sotto questo principio ricade anche  l’actio furti e la statuizione della lex Fabia e, benché faccia eccezione la causa de moribus, vi sono moltissimi altri casi, che non è possibile elencare, in cui dopo aver esercitato un’azione è consentito affrontare di nuovo ciò che è stato giudicato.

Sulla base di questo principio, non si dubita che anche il crimine di falso, del quale si è già agito civilmente, possa essere affrontato di nuovo penalmente».

La stessa costituzione compare anche nel Codice giustinianeo, nel titolo 31 del libro IX, che riporta la rubrica ‘Quando civilis actio criminali praeiudicet et an utraque ab eodem exerceri possit’.  C.9.31.1-3: A plerisque prudentium generaliter definitum est, quotiens de re familiari et civilis et criminalis competit actio, utraque licere experiri, sive prius criminalis sive civilis actio moveatur, nec si civiliter fuerit actum, criminalem posse consumi, et similiter e contrario. 1. Sic denique et per vim possessione deiectus, si de ea recuperanda interdicto unde vi erit usus, non prohibetur tamen etiam lege Iulia de vi publico iudicio instituere accusationem: et suppresso testamento cum ex interdicto de tabulis exhibendis fuerit actum, nihilo minus ex lege Cornelia testamentaria poterit crimen inferri: et cum libertus se dicit ingenuum, tam de operis civiliter quam etiam lege Visellia criminaliter poterit perurgueri. 2. Quo in genere habetur furti actio et legis Fabiae constitutum, et plurima alia sunt, quae enumerari non possunt, ut, cum altera prius actio intentata sit, per alteram quae supererit iudicatum liceat retractari. 3. Qua iuris definitione non ambigitur etiam falsi crimen, de quo civiliter iam actum est, criminaliter esse repetendum.

[3]I principali lavori che si sono occupati di questo provvedimento imperiale nel quadro di ricerche in tema di concorso di azioni sono: G.G. Archi, Civiliter vel criminaliter agere. In tema di falso documentale, in Scritti Ferrini, vol. I,Milano 1947, ora in Id., Scritti di diritto romano, III, pp. 1588-1653.; F. Avonzo, Coesistenza e connessione tra ‘iudicium publicum’ e  ‘iudicium privatum’. Ricerche sul tardo diritto classico, in BIDR, 59-60, 1956, pp. 125-198; M. A. deDominicis,Rapporti tra "iudicium privatum" e "iudicium publicum" dal diritto classico a Giustiniano, in Scritti in memoria di Antonino Giuffrè, Milano 1967, pp. 223-272;D. Liebs, Die Klagenkonkurrenz im römischen Recht. Zur Geschichte der Scheidung von Schadensersatz und Privatstrafe. Vandenhoeck und Ruprecht, Göttingen 1972;G. Negri, Concorso delle azioni nel diritto romano, medievale e moderno, in Digesto civ., Torino 1988, pp. 251-273; R. Bonini, Ricerche di diritto Giustinianeo, Milano 1990; M.J. GarciaGarrido, F. ReinosoBarbero, Civiliter vel criminaliter agere. Los precedentes  jurisprudenciales  de  la  constitucion  de  Valente, Graciano y Valentiniano del año 378 (CTh. 9,20,1 = CI. 9,31,1), in Atti dell’Accademia romanistica costantiniana, 9, Napoli 1993, pp. 439-456; P. Voci, Azioni penali in concorso tra loro, in SDHI, 65, 1999, pp. 1- 41; M. Miglietta, Servus dolo occisus. Contributo allo studio del concorso tra actio legis Aquiliae e iudicium ex lege Cornelia de sicariis, Napoli 2001; S. Schiavo, Il falso documentale tra prevenzione e repressione. Impositio fidei, criminaliter agere, civiliter agere, Milano 2007.

[4] D.43.16.1 pr. Ulp. 69 ad ed.: Praetor ait: «unde tu illum vi deiecisti aut familia tua deiecit, de eo quaeque ille tunc ibi habuit tantummodo intra annum, post annum de eo, quod ad eum qui vi deiecit pervenerit, iudicium dabo». Con l’interdictum de vi si mirava a recuperare il possesso perso con l’uso della forza altrui. Se l’ordine interdittale non veniva rispettato, l’autore dello spoglio poteva essere convenuto con l’actio ex interdicto dove si sarebbe affrontato il problema di chi avesse usato violenza. La lex Iulia de vi privata riguardava una serie di ipotesi in cui taluno, invece di ricorrere all’ordo iudiciorum, preferiva farsi giustizia da sé. Fra le operazioni di esercizio violento delle proprie ragioni la legge prevedeva in particolare la deiectio violenta con uomini armati; la deiectio sine armis, invece, non era criminalmente repressa in diritto classico. Su questo v. C. Ferrini, Diritto penale romano. Esposizione storica e dottrinale, Milano/Roma 1902/1976 p. 365 e p. 375 n. 5. La pena prevista per colui che fosse stato condannato per vis privata era la confisca di un terzo del suo patrimonio. C.8.4.4: Imperatores Diocletianus, Maximianus (294): Si de possessione vi deiectus es, eum et legis Iuliae vis privatae reum postulare et ad instar interdicti unde vi convenire potes, quo reum causam omnem praestare, in qua fructus etiam, quos vetus possessor percipere potuit, non quos praedo percepit, venire non ambigitur.

[5] Con l’interdictum de tabulis exhibendis il pretore ordinava la presentazione del testamento al fine di rendere possibile l’apertura della successione, mentre la lex Cornelia de falsis puniva la falsificazione dei testamenti e delle monete. P.S. 5.25.1:Lege Cornelia testamentaria tenentur: qui testamentum quodve aliud instrumentum falsum sciens dolo malo scripserit recitaverit subiecerit suppresserit amoverit resignaverit deleverit, quodve signum adulterinum sculpserit fecerit expresserit amoverit reseraverit, quive nummos aureos argenteos adulteraverit laverit conflaverit raserit corruperit vitiaverit, vultuve principum signatam monetam praeter adulterinam reprobaverit: honestiores quidem in insulam deportantur, humiliores autem aut in metallum dantur aut in crucem tolluntur: servi autem post admissum manumissi capite puniuntur. Il profilo soggettivo richiesto per integrare il reato è il dolo specifico (sciens dolo malo usus fuerit); la pena comminata è molto severa (humiliores in metallum damnantur, honestiores in insulam deportantur).

[6] Se un servo liberato dichiara di essere sempre stato libero e rifiuta le operae, chi lo ha manomesso può ricorrere aliudicium operarum e alla accusatio ex lege Visellia. C.9.21.1.1 Diocl./Maxim (300): Qui autem libertinus se dicit ingenuum, tam de operis civiliter quam etiam lege Visellia criminaliter poterit perurgueri: in curiam autem se immiscens damno quidem cum infamia adficitur: muneribus vero personalibus in patria patroni, quae congruunt huiusmodi hominibus, singulos pro viribus adstrictos esse non dubium est.

[7] La lex Fabia puniva il plagio. L’ipotesi contemplata dalla costituzione può essere ricostruita a partire da una costituzione di Diocleziano che attesta la possibilità del concorso tra actio furti e accusatio ex lege Fabia. C. 9.20.12 Diocl./Maxim. AA. et CC. Muciano (294): Si quis servum fugitivum sciens cum rebus furtivis suscepit, cum horum nomine furti actione teneatur, haec tibi rector provinciae cum solita poena restitui efficiet. sed et si criminis plagii accusationem institueris, tibi audientiam praebere non dubitabit. Chi accoglie consapevolmente (sciens) un servo fuggitivo che porta con sè degli oggetti rubati poiché, con riferimento a essi (horum nomine), chi offre rifugio può essere chiamato a rispondere con l’azione di furto, il rettore della provincia provvederà a che esse vengano restituite insieme alla pena ordinaria; se fosse presentata anche l’accusa di plagio, il provvedimento imperiale rassicura sul fatto che si dovrà essere ascoltati.

[8] Come già ricordato, nel Codice giustinianeo la stessa costituzione è inserita sotto la rubrica ‘Quando civilis actio criminali praeiudicet et an utraque ab eodem exerceri possit’.  La rubrica è coerente con le modifiche apportate dai compilatori al testo imperiale in commento, tutte volte a garantire la ‘bi-direzionalità’ del concorso (per cui l’esercizio dell’azione criminale non impedisce l’esercizio successivo di quella privata). Così facendo, come giustamente hanno osservato R. Bonini, Ricerche..., cit., pp. 81-82, e G. Negri, Concorso..., cit., p. 265, i compilatori giustinianei hanno ampliato la portata della costituzione, svincolandola dal caso particolare del falso.

[9] Nel Breviarium la costituzione è unita a un altro provvedimento, sempre in tema di falso documentale, che i compilatori del Teodosiano hanno inserito nel titolo 39 del libro 11, De fide testium et instrumentorum. CTh.11.39.7  Valens, Gratianus et Valentinianus AAA. ad Antonium pp.: Iubemus, omnes deinceps, qui scripturas nefarias comminiscuntur, cum quid in iudicio promiserint, nisi ipsi adstruxerint veritatem, ut suspectae scripturae et falsi reos esse detinendos. J. Gothofredus, Codex Theodosianus cum perpetuis commentariis,  Lipsiae 1736, III, p. 187 e IV, p. 342, ritiene che questo testo vada congiunto a quello di CTh.9.20.1. S. Schiavo, Il falso documentale..., cit., pp. 184-187, non accoglie pienamente l’opinione prevalente in letteratura secondo la quale (anche per l’influenza esercitata dalle modifiche introdotte dai compilatori giustinianei in C.4.19.24, dove le scritture nefariae diventano suspectae)  il testo stabilirebbe che il prolator di qualsiasi scrittura debba dimostrarne la fides; secondo l’autrice, infatti, dovrebbe essere assecondata la lettura di Gotofredo, che attribuisce al testo originario di Graziano una preoccupazione molto particolare, riguardante la produzione in giudizio di scritture di tipo magico-divinatorio (nefariae).

[10]G. Negri, Concorso..., cit., p. 253.

[11]Ivi, p. 253-255.

[12]Ivi, pp. 254-259.

[13] La diversità funzionale di alcune delle azioni menzionate da Paolo (D.48.1.4 Paul. 37 ad ed. - v. infra-)  e originate da una medesima vicenda è descritta bene, anche se adattata alla prospettiva normativa del suo tempo, da C. Ferrini, Diritto penale romano..., cit., p. 137, dove scrive che la «coincidenza di lesioni di diverse norme nel medesimo fatto può verificarsi anche coll’effetto di dare contemporaneamente vita ad un delitto perseguibile con azione popolare (o anche in via criminale) e ad un delitto privato: così, ad esempio, in occasione di un plagio può aversi tanto un delitto ex lege Fabia, quanto un furto; in occasione della uccisione di un servo può sorgere e il crimen publicum ex lege Cornelia e il delitto privato ex lege Aquilia. Le norme infatti che lo stesso fatto ha leso sono diverse; nel primo caso è lesa la norma tutrice della potestà dominicale e quella tutrice della proprietà; nel secondo la norma tutrice della vita umana e quella tutrice della proprietà privata». L. DeSarlo, Sulla repressione penale del falso documentale in diritto romano, in Rivista di diritto e procedura civile, 14, 1937, p. 336 distingue il duplice piano, sostanziale e processuale, del problema del concorso, servendosi dell’espressione ‘coesistenza’, che poi verrà valorizzata dalla de Marini Avonzo: «perché sorga davvero il problema del concorso – per potersi domandare se esso ha carattere cumulativo o elettivo – bisogna aver già risolto il quesito di diritto sostanziale, nel senso della coesistenza del delitto privato col crimen»; non c’è coesistenza tutte le volte che il delitto privato perde rilevanza per il fatto di essere «riassorbito nel crimen». 

[14] La recupero da D. Mantovani, Praetoris partes. La iurisdictio e i suoi vincoli nel processo formulare: un percorso negli studi, in Il diritto fra scoperta e creazione. Giudici e giuristi nella storia della giustizia civile, Atti del convengno della Società Italiana di Storia del Diritto, ed. G. Renzo Villata, Napoli2003, pp. 119-121.

[15] In una prospettiva sostanziale, il concorso originato da una medesima vicenda viene oggi qualificato come ‘concorso formale’ - P. Voci, Azioni penali..., cit., p. 2 -. Va osservato che il confine tra i due tipi di pregiudizialità può essere nitido solo in astratto. In concreto si può affermare che più sono i presupposti comuni alle due azioni, più è facile che la controversia civile influisca sulla decisione penale con un’incisività che potrebbe far passare in secondo piano il problema dell’ ‘influenza’ sul libero convincimento del giudice adito successivamente, facendo venire in primo piano un problema di accertamento in senso stretto, dove la decisione in sede civile serve da presupposto logico alla decisione in sede penale. Questa condizione di coordinamento logico-fattuale tra giudizi successivi emerge bene da una costituzione di Alessandro Severo del 209. C.7.62.1 Pompeiano et Avito conss. Severus dixit: prius de possessione pronuntiare et ita crimen violentiae excutere praeses provinciae debuit. quod cum non fecerit, iuste provocatum est.

[16] Perché il concorso elettivo si possa prospettare, ovviamente, una medesima vicenda deve potere in astratto suggerire due possibili impostazioni processuali con causa diversa. M. A. deDominicis,Rapporti..., cit., p. 226, 243, 262, subordina tutta la trattazione del concorso di azioni private e pubbliche sul seguente assunto: in età classica le fattispecie delittuose (delicta) e quelle criminali (crimina) avevano identico petitum, essendo entrambe preordinate a infliggere una ‘pena’; solo in epoca post-classica, venuta meno la funzione punitiva dell’azione penale privata (De Dominicis parla di “snaturamento dell’azione penale privata”), quest’ultima avrebbe potuto ‘concorrere’ con quella criminale. Fu tale equiparazione a livello funzionale che consentì uno slittamento di significato del termine praeiudicium verso l’idea di ‘influenza’ di un giudicato sull’altro. è tuttavia sufficiente correggere leggermente la rigidità della premessa su cui poggia l’impianto della trattazione di De Dominicis, accettando che le azioni delittuose presentassero tratti reipersecutori anche in epoca classica, essendo la pena anche un modo per ottenere il risarcimento, per far spazio a letture che vedono nelle fonti giurisprudenziali non contraddizioni o alterazioni testuali, ma una varietà di posizioni, che è un riflesso della complessità delle situazioni concrete e dei molteplici punti di vista che possono essere assunti per affrontarle. Sulla natura anche reipersecutoria dell’actio legis Aquiliae C. Ferrini, Diritto penale romano..., cit., p. 139, scrive: «Ea

Gardini Marco



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