La tradizione sul primo dittatore dall’ordine subalterno
Marco A. Fenocchio*
La tradizione sul primo dittatore dall’ordine subalterno**
English title:The tradition about the first dictator from the plebeian order
DOI: 10.26350/18277942_000181
Sommario: 1. Inquadramento storiografico. 2. I testi guida visti alla luce della forma civitatis. 3. Primus dictator in seno alla plebe. 4. Le opposizioni ‘post-ipercritiche’. 5. Sintesi conclusiva.
- Inquadramento storiografico
Il racconto della storiografia parla di sette dittature plebee nel corso del quarto secolo antecristo, a partire dalla prima, del 356, contro ben trentadue dittature patrizie conteggiabili nel periodo compreso tra il raggiungimento plebeo del consolato e la fine del secolo.
L’atteggiamento maggiormente critico verso la storicità delle sette dittature plebee viene senza dubbio da Karl Julius Beloch[1], il quale, valutando appunto le fonti storiche sui «sieben plebejische Dictatoren» di contro ai 32 patrizi di quest’epoca (su cui pure cade talora il giudizio di non storicità, come nel caso di Q. Servilio Ahala dict. 360[2] – che peraltro sarebbe stato console con Rutilo nel 342[3] – e L. Cornelio Lentulo dict. 320[4]), senza contare i cosiddetti anni dittatoriali, ha negato la realtà di quasi tutte le dittature che secondo le fonti avrebbero esercitato esponenti dell’ordine subalterno, ad eccezione dell’ultima registrata sul finire del secolo, nel 314 a.C., di Gaio Menio, detta «unzweifelhaft echt»[5].
Eliminando le prime dittature plebee della tradizione, si avrebbe Menio come primo dittatore de plebe nel 314[6] (non nel 320, perché secondo Beloch la prima dittatura di Menio sarebbe una anticipazione[7]); ragionamento che, al di là dei motivi addotti per ‘smontare’ singolarmente la rispondenza al vero delle varie figure di dittatore plebeo, è apparso ad alcuni indice di una circolarità di fondo[8].
Non vera sarebbe la dittatura di Q. Publilio Filone, mentre per il dittatore comitiorum habendorum causa M. Claudio Marcello nel 327 a.C., la narrazione è sembrata a Beloch un duplicato dei fatti relativi alla scelta del suo omonimo pronipote nel 215[9]. Come ho già fugacemente detto in un mio precedente lavoro[10], l’idea della fabbricazione ex post dell’episodio più antico ricalcato su quello (autentico) recenziore era stata formulata da Friedrich Münzer e in tempi più vicini viene seguita dal Linderski, pur contro la difesa tentata dallo Jahn dei fatti del 327.
Quanto a Marcio Rutilo, primus de plebe dictator secondo Livio, il Beloch osserva che lo stesso è stato il primo censore plebeo[11]; è verosimile, allora, che egli sia stato il primo dittatore plebeo e che, una volta che il ghiaccio era stato rotto, siano trascorsi ben quarantadue anni prima di vedere un altro plebeo dittatore?[12]
Lo storico slesiano – ma italiano d’adozione[13] – continua osservando che anche come comandante militare Marcio era ancora quasi non provato, visto che la vittoria sui Privernati conseguita l’anno precedente (357) come console appare senza conseguenze e perciò deve esser stata o inventata o riguardarsi comunque come qualcosa di marginale[14]. In che modo, pertanto, immaginare la nomina a dittatore di Marcio, dopo che M. Fabio Ambusto, uno degli uomini di primo piano della repubblica romana, aveva subito una pesante sconfitta da parte dei Tarquiniesi?[15] Ne deriva – questo il giudizio finale – che anche la vittoria successiva e il conseguente trionfo rappresentano «eine Fälschung»[16].
Di analoghi dubbi sulla attendibilità delle prime dittature plebee della tradizione hanno in seguito dato prova studiosi come De Francisci, per il quale soltanto «verso il 315» ci sarebbe stato «un primo dittatore plebeo»[17] e il politologo monacense K. Loewenstein[18].
Tuttavia, si può subito rilevare con Gaetano De Sanctis che sì, quanto alla censura di Marcio non disponiamo di particolari concreti[19] come, per giunta, «la sua personalità ci sfugge e delle sue vicende non abbiamo che le linee esteriori»[20]; ma la vittoria su Priverno sembra credibile per il ruolo che quella comunità doveva presumibilmente già aver raggiunto nel 357, anno della sottomissione, né l’idea della prima censura deve produrre l’automatismo di pensiero di una solo favolistica ‘primità’ anche nella dittatura[21].
Ciò colpisce non poco, avendo presente che nella Storia dei Romani l’illustre antichista manifestava parecchi dubbi, tra l’altro, proprio sulle battaglie ingaggiate e sui trionfi celebrati da Marcio – coi numeri delle perdite inflitte ai nemici –, in primis a carico della gente di Tarquinia[22], ma senza rinnegare la prima ascesa dittatoria del 356, per la quale, a termini di diritto costituzionale e ad imitazione di quanto era avvenuto per la pretura, «non v’era bisogno di legge speciale»[23].
Se, dal punto di vista strettamente giuridico, la teorica inibizione a reggere il magistero della cavalleria era venuta meno già nel 368[24], pare emergere un primo punto a favore della non radicale inaccoglibilità del pratico schiudersi della maestà dittatoria ai plebei nel giro di circa un decennio, mentre fissandosi rigidamente sullo slittamento temporale al 315/314, lo scarto di parecchi decenni darebbe maggiore adito a sforzate – o comunque meno rettilinee – spiegazioni.
2. I testi guida visti alla luce della forma civitatis
La tradizione sembra in effetti alquanto chiara nel collocare il primo accesso dell’ordine plebeo alla dittatura al 356 a.C.[25], nella persona di Gaio Marcio Rutilo[26], solennemente indicato (dictus) dictator rei gerundae causa, secondo le prescrizioni del mos[27], probabilmente dal console plebeo Marco Popilio Lenate[28], collega per lo stesso anno del patrizio Marco Fabio Ambusto.
Rei gerundae o belli gerundi causa, dunque, optimo iure e per far fronte al terror[29] di cui il nomen Etruscum, dopo le due guerre condotte dai consoli contro Tiburtini (per quanto riguarda Lenate) e Falisci e Tarquiniesi (per quanto riguarda l’altro console), riesce a farsi portatore arrivando sotto il comando di condottieri da Tarquinia e Falerii ad Salinas, cioè in corrispondenza dello sbocco in mare del Tevere[30]. L’attestazione è in
Liv. 7.17.6: Concitatur deinde omne nomen Etruscum et Tarquiniensibus Faliscisque ducibus ad Salinas perveniunt. Adversus eum terrorem dictator C. Marcius Rutulus primus de plebe dictus magistrum equitum item de plebe C. Plautium dixit.
Marcio Rutilo, nella prova contro il ‘popolo etrusco’[31] di cui ci informa anche Diodoro Siculo (16.36.4)[32], sembra tutto fuorché un outsider, né occorre necessariamente pensare a un momento forte di cesura rispetto a schemi tradizionali che mai avrebbero conosciuto, prima di allora, uno iato nella gestione patrizia della dictatura.
Si può forse dire che il dicere[33] riboccante della prescritta solitudine[34], di cui si rende autore Lenate[35], anch’egli plebeo, induce alla ricerca di suoi tratti in grado di spiegare una sintonia, o descrivere qualcosa come una coerenza portante all’indicazione solenne di Marcio Rutilo; non, forse, una volontà nuova che voglia rompere la continuità patrizia nella dittatura e per ciò solo si determini, ma, forse, l’idea semplice di dare la preferenza a una personalità d’eccezione[36] anche se non appartenente all’ordine privilegiato, un’idea che sorge spontanea se si riguarda per esempio già lo stesso rigore usato da Lenate nella multa di diecimila assi inflitta a Caio Licinio Stolone, plebeo ma violatore della misura de modo agrorum da lui stesso promossa e voluta[37], condannato senza cedimenti a quelle che potevano porsi a buona ragione o meno come logiche, nel senso ampio, di solidarietà del gruppo[38]. Né bisogna dimenticare che lo stesso cognome Laenas pare doversi alla ‘persuasione morale’ spesa per placare una rivolta plebea contro il senato durante il consolato del 359[39].
Un’idea ulteriormente rafforzata, inoltre, dalla considerazione degli eventi storici che avrebbero segnato il quarto consolato di Marcio nel 342[40], quando addirittura si registra un tentativo da parte del console di allontanare con l’inganno gli elementi più irrequieti di un esercito che avanzava mire sediziose su Capua e sulle sue ricchezze. Come noto, il contrasto venne composto dal dittatore del 342 Marco Valerio Corvo[41], che si era trovato di fronte i ribelli capeggiati malgré soi dal patrizio Tito Quinzio[42].
Di sicuro i fatti del 342[43] vanno ricostruiti con equilibrio, giacché è irricevibile la tesi, pur di valentissimi storici, che vuole Marcio se non scudiero ‘nei fatti’ degli interessi patrizi – questo sarebbe francamente troppo –, in un prevalente stato di freddezza o financo disinteresse per le aspirazioni plebee più prettamente intrise di radicalismo[44]: la Poma ha chiaramente ricordato che il nostro si muove coltivando politiche a largo spettro d’inclusività; per la studiosa, anzi, proprio lo scacco di quelle politiche può aver determinato l’intermezzo della reazione patrizia degli anni 355-342[45].
Nel mezzo del quale, per vero, si situa anche l’istituzione dei quinqueviri mensarii che il De Sanctis ha individuato come mossa in favore della plebe durante il secondo consolato del 352, trattandosi di una misura con portata indubitabile sull’alleggerimento delle posizioni debitorie che angustiavano in special modo proprio i plebei[46]: circostanza che sconsiglia demarcazioni troppo nette e rigide tra orientamenti sì antitetici, ma che possono benissimo aver convissuto in qualche fase per spirito di realismo (o, se si vuole, di ‘adattamento tattico’ alle realtà in atto).
Restiamo dunque ai fatti che più ci interessano da vicino: nel 356 Marcio, a sua volta, sempre stando al racconto liviano, dicit o coopta (nelle fonti si trova anche il verbo cooptare) il maestro della cavalleria, ugualmente plebeo, Gaio Plauzio[47]; è da credere, in base ai criteri inveterati che soprintendevano a tale secondo dicere[48].
Il racconto storico prosegue (7.17.7) ricordando l’indignazione manifestata dai senatori patrizi ai quali sembrava non degno che la dittatura potesse essere di chiunque (id vero patribus indignum videri etiam dictaturam iam in promiscuo esse)[49] e gli sforzi prodotti di conseguenza per ostacolare in ogni modo l’organizzazione della macchina bellica, peraltro col solo risultato, nell’immediato, di acuire la polarizzazione di uno scontro che vedeva sul versante opposto il popolo[50], ancor di più pronto alla approvazione di ogni proposta del dittatore[51]: eo promptius cuncta ferente dictatore populus iussit[52].
Si è tratto, qui, argomento per parlare di una lex Marcia militaris, rogata dal nostro per procacciare i mezzi finanziari indispensabili alla conduzione della guerra contro gli Etruschi, secondo il Lange votata nei comizi tributi, congettura apparsa al Rotondi «insufficientemente basata sul fatto che Rutilo era plebeo, ma del resto probabile»[53].
Alla fine la guerra fu vinta (Liv. 7.17.8-9)[54], portando lo scontro negli accampamenti nemici ed ottenendo pertanto un trionfo, per deliberazione, però, esclusivamente popolare (populi iussu) e senza approvazione del senato (sine auctoritate patrum)[55].
A termini di costituzione materiale, il fatto è stato giudicato di grande momento dal Petrucci[56], che, a ragione, lo ha censito tra le «importanti svolte sotto forma … di avvenimenti concreti (nova exempla)», giacché, quasi a svigorire la realtà – invero già in qualche occasione parzialmente minata – dei rapporti istituzionali basati sull’apicalità del senato in merito al ius triumphandi, «Rutilo non ha dapprima presentato la richiesta al senato, ma si è subito rivolto al concilium plebis, senza preoccuparsi di trattare la questione di fronte ai patres».
3. Primus dictator in seno alla plebe
Sempre nei suoi Ab Urbe condita libri (7.22.6 ss.), il Patavino ricorda che
[6] Ita posita duorum bellorum, quae imminebant, cura, dum aliqua ab armis quies esset, quia solutio aeris alieni multarum rerum mutaverat dominos, censum agi placuit. [7] Ceterum cum censoribus creandis indicta comitia essent, professus censuram se petere C. Marcius Rutulus, qui primus dictator de plebe fuerat, concordiam ordinum turbavit; [8] quod videbatur quidem tempore alieno fecisse, quia ambo tum forte patricii consules erant, qui rationem eius se habituros negabant; [9] sed et ipse constantia inceptum obtinuit et tribuni omni vi reciperaturi ius consularibus comitiis amissum adiuverunt, et cum ipsius viri maiestas nullius honoris fastigium non aequabat, tum per eundem, qui ad dictaturam aperuisset viam, censuram quoque in partem vocari plebes volebat. [10]Nec variatum comitiis est, quin cum Manlio censor Marcius crearetur.
Nel testo si parla di una concordia ordinum[57] apparentemente incrinata dalla candidatura di Marcio alla censura[58], osteggiata a viso aperto dai maggiorenti[59]. Notizia contestata da qualcuno, in quanto Rutilo fu anche il primo censore plebeo e questo può aver dato origine, secondo i contestatori del dato comunemente accolto, alla fabula di attribuirgli la patente di primo plebeius ad aver ricoperto la dictatura. Ma sempre a dire di Livio, Rutilo fu primus et dictator et censor (Liv. 10.8.8 ss.).
[8] L. Sextius primus de plebe consul est factus, C. Licinius Stolo primus magister equitum, C. Marcius Rutulus primus et dictator et censor, Q. Publilius Philo primus praetor.[9] Semper ista audita sunt eadem penes vos auspicia esse, vos solos gentem habere, vos solos iustum imperium et auspicium domi militiaeque; [10]aeque adhuc prosperum plebeium et patricium fuit porroque erit…
Queste parole vengono fatte pronunciare da Publio Decio Mure (300 a.C.) allo scopo di perorare l’ingresso dei plebei anche nei due collegi sacerdotali degli auguri e dei pontefici[60]: come preambolo si enumerano tutti i gloriosi ‘primi’ de plebe nelle varie cariche pubbliche[61] – i quali non hanno sfigurato in paragone ai colleghi patrizi – e a suggello del discorso si ribadisce la certezza che anche per il futuro l’auspicata apertura non potrà nuocere, bensì solo giovare, allo stato. Tra i ‘primi’ rievocati da Mure spicca proprio Marcio Rutilo, che sembra essere stato tra i protagonisti della storia romana del IV secolo[62], ricoprendo per ben quattro volte il consolato (negli anni 357, 352, 344 e 342)[63] e riportando in campo militare successi decisivi contro i Privernati (nel 357) e gli Etruschi (l’anno successivo).
Ciò nonostante, parte della critica esprime diversi dubbi[64] e ritiene in definitiva una costruzione annalistica il suo profilo complessivo[65]; egli non si brigò mai, per quel che è dato sapere, della pretura[66], e certo è notevole che il monopolio patrizio venga rotto senza che Livio dica come si fosse giunti a una così epocale svolta – e senza peraltro aggiungere note salienti su Rutilo –, specialmente in considerazione del carattere eminentemente patrizio della dittatura[67], che tale rimane anche dopo il 356, nel persistere di un tratto secondo i più antiplebeo della magistratura straordinaria[68].
Ora, è vero che da Livio non è dato ricostruire esattamente come si sia arrivati alla rottura del monopolio[69], ma secondo Hölkeskamp si può nondimeno immaginare che il senato anche nella sua maggioranza patrizia fosse diviso sulla nomina del dittatore[70], permettendo a Popilio Lenate – grazie al sostegno di alcuni senatori forse plebei – un grande spazio d’azione[71]. O forse, come ebbe a osservare il Niebuhr, il «partito della ragione» doveva essere abbastanza forte per guidare una scelta nel suo seno[72].
Un elemento di debolezza sarebbe però rappresentato, a detta di Stephen P. Oakley, dal fatto che già nel 358 il patrizio Gaio Sulpicio Petico[73] era stato nominato dittatore dal plebeo Plauzio[74].
Detto ciò, esistono esempi numerosi di dictatura popularis, che hanno indotto parte della dottrina a «rivedere» e «ripensare» il rapporto «tra dittatore e plebe»[75].
Secondo Aldo Dell’Oro, «altro punto non convalidato dalle indagini testuali è la comune affermazione della dittatura quale mezzo per sedare i torbidi della plebe»[76].
Nella linea di una revisione decisa della communis opinio, Giovanni Meloni è quindi arrivato alla conclusione che «la dittatura non solo non sembra essere stata uno strumento antipopolare ed antiplebeo, ma, anzi, pare aver costituito lo strumento più adatto per la definizione delle conquiste della plebe»[77].
Senza diffondersi più dell’indispensabile sulle ragioni della divaricazione di due gruppi di pensiero intorno al carattere antiplebeo o meno[78], si attribuisce in nuove prospettazioni rilievo a Liv. 4.31.4-5, sulla dittatura di Mamerco Emilio del 426[79], che «fu voluta dal popolo per liberarsi, contro il volere dei patrizi, dei tribuni militari, tra i quali non era stato eletto alcun plebeo»[80].
In senso contrario, si è ricordato il dato – notissimo – dell’accesso dei plebei al tribunato militare solo a partire dal 400 a.C. e cioè a un quarto di secolo dopo la dittatura di Mamerco; da Liv. 4.31.4-5 non si può dunque ricavare che la dictio, in quanto effettuata da uno dei tribuni militum con il conforto di un decretum augurale, potesse per ciò solo sancire il livellamento della capacità di auspicazione tra patrizi e plebei, perché evidentemente allora, nel 426, «la questione del riconoscimento della capacità auspicale ai tribuni militum consulari potestate (patrizi) oltre che ai consoli (patrizi anch’essi) rappresentava una partita giocata nell’àmbito sempre degli esponenti del patriziato»[81].
La storia di Mamerco, tuttavia, è del 426, quella di Rutilo del 356. Si può essere tentati di concludere che le opposte figurazioni riuscirebbero ciascuna ad avere una ragione d’essere in prospettiva diacronica. Qualcuno potrebbe cioè avanzare l’ipotesi che dapprima, per riprendere il titolo dell’importante articolo del Labruna, vi siano stati dictatores adversus plebem più o meno fino alle leggi licinio-sestie (si pensi alle dittature di Cincinnato nel 439[82], di Aulo Cornelio Cosso nel 385 a.C. secondo Marco Manlio Capitolino detto adversus se ac plebem Romanam e soprattutto di Marco Furio Camillo nel 368); dopo, dittatori essenzialmente ‘popolari’ come Q. Publilio Filone (339).
Ma questo possibile contemperamento è complicato di fronte agli ulteriori chiarimenti che vengono dagli opposti schieramenti: per esempio, Meloni ravvisa dictaturae populares già nel corso del V secolo a.C.[83] – si ricordi Manio Valerio, dictator nel 494 a.C., sostenuto in quell’anno dal Titio Larcio già primo dittatore (per i più[84]) della storia romana nel 501, le due dittature di Mamerco Emilio nel 434 e 426 e quella di Aulo Postumio nel 431 –, prima dell’accesso alla carica da parte dei plebei; mentre Labruna sottolinea, a parte la valutazione di un Publilio Filone ‘popularis’ nel senso negativo, in quanto divisivo portatore di nuovi interessi di parte (ma nel 339) – in considerazione del carattere «essenzialmente patrizio» della carica, e proprio una volta aperta ai plebei la via ad dictaturam –, l’irremissibile decadenza dell’institutum, se è vero, come è vero, che «nel III secolo … e sino alla guerra annibalica … furono nominati dittatori solo per assolvere cómpiti di scarso rilievo politico. Dopo il disastro di Canne ci fu l’ultima dittatura optima lege, quella di M. Giunio Pera del 216»[85].
Credo che il raffreddamento del contrasto tra le due sensibilità da comporre debba essere opportunamente agevolato, richiamando alcune spiegazioni che, come si avrà modo di vedere, potrebbero rivestire un qualche interesse per assumere una informata posizione sulla storicità o meno dell’episodio.
A fronte, infatti, dei rilievi anche a un primo sguardo gravi manifestati sul carattere storico della dittatura di C. Marcio Rutilo nel 356, altri, non meno accorti e con ogni probabilità più numerosi, propendono per la difesa della stessa[86].
Ma allora cominciamo in prima istanza a vedere, giuridicamente e storicamente, come possa essere risultata non credibile la vicenda di Marcio primo dittatore plebeo.
4. Le opposizioni ‘post-ipercritiche’
Devono ricordarsi i punti critici chiamati in causa dagli scettici, per poi vedere se abbiano qualche reale consistenza, e come siano stati sminuiti da chi ritiene all’incontro attendibile il racconto liviano.
Tra i primi aspetti trascinati nel dibattito c’è la difficoltà di tenere insieme la notizia di una nomina a dittatore di Marcio apparentemente non contrastata dal senato, il cui placet a rigore pure sarebbe stato necessario[87], almeno in ossequio al pensiero prevalente[88]. Lo stesso alto consesso avrebbe poi negato il trionfo a un dittatore di cui si sarebbe in realtà potuto già prima, facendo constare il proprio dissenso, sconsigliare la nomina. Ha, insomma, tutta l’aria di un’osservazione legittima quella secondo cui il senato ben poteva, in consonanza a quanto si stima sul ruolo che era in grado di giocare in simili frangenti, negare il proprio beneplacito, e così bloccare sul nascere un atto in predicato di risultare per più versi ‘inviso’, se non pernicioso per la tenuta dello status quo[89].
E se il senato non era unanime né compatto, come si è ipotizzato, allora perché non scatenare l’arma subdola ma tremenda di una dichiarazione di vizio augurale, ponendone a fondamento – fin che si vuole in maniera surrettizia – lo scavalcamento di una parte importante del supremo organo repubblicano contro gli usi ricevuti?
La negazione del trionfo da parte del senato e la concessione dello stesso, invece, per deliberazione popolare, è un qualcosa che male si accorda proprio con l’argomento facente leva su un dissenso parziale del senato, superato richiamando una spaccatura all’interno dello stesso, abilmente sfruttata da Lenate.
Se spaccatura ci fosse stata, infatti, tra favorevoli e contrari a un primo dittatore plebeo, non si vede perché la fazione senatoria parteggiante per Marcio e fiancheggiatrice di Lenate nel piccolo atto di forza, non abbia fatto valere la propria voce per accordare il trionfo contro una parte già riottosa e lacerata al suo interno, tanto più dopo il conseguimento di una vittoria di fronte alla quale ancora meno comprensibile si sarebbe presentata una malvolente pervicacia ‘a prescindere’.
Invece le fonti sembrano dire di una ostilità complessiva e indifferenziata dei patres, contro il cui volere il fondatore della nobiltà dei Marcii celebrò, nella prima decade di maggio di quell’annus mirabilis, il proprio trionfo de Tusceis[90].
Sappiamo in più da Diodoro Siculo – i cui brachilogici cenni non obbligatoriamente si incastrano con quanto riferito da Livio[91] –, che gli Etruschi raggiunsero la foce del Tevere saccheggiandone l’area (addirittura, per qualcuno, forse allontanandosi prima di pervenire alla battaglia coi Romani)[92].
Ed allora chi, come Bandel, riconosce uno dei Marci come primo dittatore della plebe, è stato così indotto a credere il successo e il trionfo raccontati da Livio un’invenzione[93], allo scopo evidentemente di rafforzare l’onore del primo dittatore in assoluto della plebe[94].
Tuttavia, il Bandel giunge a conciliare le testimonianze dello storico siceliota e di Livio, che concorderebbero nell’affermare che gli Etruschi giunsero fino al Tevere – il pervenire ad Salinas evocherebbe infatti il raggiungimento delle rive del basso e ultimo corso del fiume[95] – dichiarando verosimile una congettura del Clason[96], per il quale alla notizia dell’invasione etrusca venne nominato un dittatore, che però ancora stava preparando la controffensiva allorché i nemici, perpetrate svariate depredazioni, si ritirarono dal Tevere[97].
Lo stesso Bandel non crede verosimile invece l’altra idea presa in alternativa in considerazione da Clason, secondo cui il dittatore plebeo non dovette esser stato così audace da fronteggiare gli schieramenti etruschi[98], visto che già i Romani avevano battagliato con essi senza eccessive ansie. Non ci sarebbe stato trionfo perché sarebbe mancato lo scontro, dunque, ma la notizia della ‘minaccia’ rappresentata dagli etruschi non è una ‘fantasia’, poiché attestata in ambedue gli antichi storici del I sec. a.C.
Mi sembra in realtà che le testimonianze non siano così facilmente accordabili, e indipendentemente da tale obiettiva difficoltà non è necessario ricercare i motivi del mancato scontro, quando sembra ai più evidente che la vittoria sia stata inventata per glorificare i Marcii.
Anche in ciò, forse, risiede una difficoltà ulteriore, perché avremmo l’urgenza di un dittatore rei gerundae causa che in realtà non vinse mai sul campo: come non congiungere di necessità i due aspetti, quando il primo appare richiedere per coerenza il secondo?
Tra gli aspetti che, invece, inducono a conservare nella tradizione il suo nucleo di verità, c’è la nomina di una personalità che, a ben vedere, figura come fondatrice della nobiltà dei Marci, una gens secondo alcuni già patrizia ma poi retrocessa alla condizione plebea per la vicenda di Coriolano[99].
Soprattutto, si evidenzia che, una volta ammessi i plebei al consolato dopo il 367, la regola doveva valere anche per le altre magistrature, e in specie per la dittatura, cui il principio si sarebbe applicato dunque di diritto.
Non è inoltre incredibile che un membro della nuova nobilitas abbia raggiunto, primo, la dittatura, mentre la plebe nella sua generalità doveva versare ancora in condizioni miserrime.
Secondo il Richardson, «the mid-fourth century date, along with the absence of ‘firsts’ for any other Marcius, may be grounds for having at least some confidence in the general historicity of the evidence»[100].
Rutilo era stato console in precedenza, e quindi alla sua nomina non ostava nemmeno la riserva ai consulares dello status di nominabili stando a Liv. 2.18.5 (consulares legere: ita lex iubebat de dictatore creando lata)[101], nella lettura corrente di questo testo, che vede in consulares un accusativo e non un nominativo, contrariamente alle isolate posizioni di Drakenborch e del Madvig, che invece hanno interpretato il testo nel senso che il dittatore fosse scelto addirittura dai senatori ex consoli (appunto, dai consulares)[102].
Ora, sembra che la lex de dictatore creando, così come comunemente interpretata, non sia stata rispettata nella pratica, almeno guardando ai dittatori indicati nei fasti fino alla fine del IV secolo[103], ma comunque non pare che ci fossero limitazioni alla libera scelta del console, essendo per il titolare sufficiente, secondo Reinach, il ius honorum, ed ecco perché «dès que les lois Liciniennes eurent admis les plébéiens au partage du consulat, trouve-t-on des dictateurs plébéiens (356 av. J.-C.)»[104].
Anche la vittoria militare sugli Etruschi, così spesso contestata, potrebbe essere storica se si pensa al linguaggio liviano, che parla di saline e non ancora di Ostia in 7.17.6; la colonia sarebbe stata fondata proprio come presidio difensivo da Marcio Rutilo dopo aver sconfitto i nemici[105], essendo poco credibile la tradizione che la vorrebbe impiantata addirittura in età regia da Anco Marcio[106].
5. Sintesi conclusiva
Raccolti così gli elementi pro e contra la vicenda di Rutilo, mi sembra necessario, per chiarire il mio punto di vista, appoggiarmi a una particolare ricostruzione delle origini della dittatura, in grado di aiutare a dare una risposta e a prendere posizione sulla questione.
Si è già detto della contrapposizione tra chi vede nella dittatura una magistratura repressiva in chiave antiplebea e chi, al contrario, vi scorge un fulcro dell’attività a favore del popolo e delle plebe.
Ebbene, mi sembra – come ho già avuto modo di osservare – che i punti di vista, distanti a livello di declamazione, possano comporsi pensando che la dittatura sia nata e quindi sia stata escogitata per trovare un modus vivendi tra patrizi e plebei[107], in vista del superamento temporaneo di una contrapposizione altrimenti lacerante[108].
Sembra deporre in tal senso lo stesso famosissimo[109]
Liv. 6.42.11: Quia patricii se auctores futuros negabant, prope secessionem plebis res terribilesque alias minas civilium certaminum venit, cum tandem per dictatorem condicionibus sedatae discordiae sunt concessumque ab nobilitate plebi de consule plebeio, a plebe nobilitati de praetore uno qui ius in urbe diceret ex patribus creando.
Che poi ciascun dittatore, nominato in teoria per essere concordiae auctor[110], finisse per l’interpretare spesse volte il suo ruolo in maniera faziosa, operando talora in favore del patriziato, talaltra per soccorrere la plebe, non incrina questa ricostruzione ma anzi la fortifica.
In tale luce può essere letta la vicenda di Manio Valerio Massimo[111], che secondo alcuni (Aldo dell’Oro su tutti), sulla scorta di indicazioni festine[112], sarebbe stato addirittura il primo dittatore. Nominato adversus plebem secondo le fonti (Liv. 2.30.5[113]), in realtà assume consapevolezza della sua missione costituzionale, senza cedere alle aspettative di un patriziato che, nei primissimi tempi, ben poteva sperare in un esercizio dell’inedito ruolo in funzione conservatrice, pur dietro gli sperati belletti di una virtuale funzione pacificatrice e unionista. Tanto che si dimise, per il rifiuto da parte dell’establishment di accettare le sue proposte di mediazione e perciò lodato dalla plebs, nonostante l’ingiustificato timore iniziale:Plebes etsi adversus se creatum dictatorem videbat, tamen, cum provocationem fratris lege haberet, nihil ex ea familia triste nec superbum timebat. Edictum deinde a dictatore propositum confirmavit animosServili fere consulis edicto conveniens; sed et homini et potestati melius rati crediomisso certamine nomina dedere[114].
La dittatura non aveva dunque per sé stessa la funzione di essere adversus plebem, come tra l’altro è plausibile dire sulla base delle numerose progressioni plebee rese possibili tramite questa magistratura[115].
Anzi, delle tre leggi volute da Q. Publilio Filone nel 339 si dice – Liv. 8.12.14 ss. – che furono ‘secundissimae plebi’ e ‘adversae nobilitati’: nessuno penserebbe di dire la dittatura, per questo episodio, addirittura e paradossalmente, adversus nobilitatem.
Percezione della nobiltà, appunto, e non missione istituzionale, se si pensa poi che la prima di queste tre leggi, ut plebiscita omnes Quirites tenerent, è soltanto ‘preparatoria’ rispetto alla successiva lex Hortensia del 287, mentre la seconda, ut legum, quae comitiis centuriatis ferrentur, ante initum suffragium patres auctores fierent, è stata persino interpretata dallo Zamorani come incremento dei poteri del senato, secondo una lettura particolare delle fonti liviane contraria a quella oggi corrente, che vede chiaramente nell’auctoritas preventiva dei patres, forse nemmeno vincolante, un decremento di potere rispetto a quanto praticato in precedenza (auctoritas successiva dei senatori patrizi, senza la quale non poteva aversi la lex).
Il patriziato, dapprincipio, poteva accettare il ruolo di paciere anche per comporre i contrasti con la plebe purché a svolgerlo fosse uno dei suoi[116], e questo spiega la reazione ‘a caldo’ del 356, che dunque appare credibile sotto questo specifico aspetto.
Non è un caso che Rutilo sia personaggio con entrature notevoli anche nel patriziato, una parte del quale (da leggere: i Manli)[117], rassicurata sulla sua moderazione, deve pure averlo sostenuto[118]. A completamento del quadro di transizione verso nuovi e in parte contraddittori assetti, dove oltretutto le compresenze formali al vertice dello stato non si traducono in automatico in partecipi adesioni, si deve ricordare che il consolato del 357 fu gerito con Gneo Manlio Capitolino Imperioso[119], passato alla storia per la non distensiva legge de vicesima manumissionum, votata con procedura irrituale dai soldati acquartierati nei pressi di Sutri.
E che Rutilo fosse, in fin dei conti, un moderato e non un pericoloso e destabilizzante arruffapopolo è dimostrato dal fatto che la censura sia stata – con buona pace della retorica d’obbligo sul ‘turbamento degli ordini’ – ricoperta per la prima volta nel 351 a.C. non da un altro plebeo e di un’altra famiglia, ma dallo stesso rodato primus de plebe dictator della gens Marcia[120]; a testimonianza della rarità estrema di personaggi politici plebei altolocati e influenti, e della incipiente formazione di una nuova nobiltà mista «di ufficio» (come è stato ben detto[121]) che arriverà presto a maturare convergenze e interessi in comune[122], per il coinvolgimento della quale non c’era timore che potesse occuparsi con priorità assoluta della condizione della plebe minuta in generale, certo con altra vita e altre prospettive rispetto a chi, pur di condizione plebea, era riuscito a farsi largo per assidersi nel governo della repubblica assieme all’ordine privilegiato dei patrizi[123]: ciò peraltro non vuol dire, come ho detto, che dovesse disinteressarsene del tutto[124].
Gaio Marcio Rutilo risponde così all’identikit del primo dittatore-mediatore plebeo e la tradizione riferita da Livio può nel suo complesso essere accolta.
Abstract: In my work, I intend to examine every relevant element in terms of constitutional rules, although placed in a very turbulent period, to affirm the historicity of the first ever plebeian dictatorship, in accordance with tradition covered by Gaius Marcius Rutilus in 356 B.C., after having carried out its historical contextualization. Future research should focus on verifying a credible compliance with what was thought to be ‘public law’ in the middle of the fourth century B.C.
Key Words: Roman dictatorship; struggle of the orders; plebeian powers; fourth century B.C.; Gaius Marcius Rutilus.
* Università degli Studi di Torino (marcoantonio.fenocchio@unito.it).
** Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
[1] Cfr. K. J. Beloch, Römische Geschichte bis zum Beginn der punischen Kriege, Berlin-Leipzig, 1926, pp. 70 ss.
[2] Cfr. anche, nel senso di una falsificazione solo liviana, F. Mora, Fasti e schemi cronologici. La riorganizzazione annalistica del passato remoto romano, Stuttgart, 1999, pp. 163, 168 nt. 88, 169.
[3] Liv. 7.38.8. Cfr. F. Càssola, I gruppi politici romani nel III secolo a.C., Trieste, 1962, rist. anast. Roma, 1968, p. 146.
[4] K. J. Beloch, Römische Geschichte, cit., p. 72.
[5] K. J. Beloch, Römische Geschichte, cit., p. 71.
[6] Così anche G. Cardinali, s.v. Menio, Gaio, in Enciclopedia italiana di scienze lettere ed arti, pubblicata sotto l’alto patronato di S.M. il Re d’Italia, 22, Malc-Messic, Roma, 1934, p. 859.
[7] K. J. Beloch, Römische Geschichte, cit., pp. 65 s. L’affermazione è che in entrambi gli anni (320 e 314) il magister equitum sarebbe lo stesso, M. Foslius, e su entrambe le dittature verrebbero raccontate le stesse cose. Visto che la dittatura del 314 è indubitabilmente autentica, conclude lo studioso, allora l’altra deve costituire una falsificazione. Certo è che il magistero della cavalleria per la persona di Marco Foslio (o Folio) Flaccinatore è, in quest’anno, epigraficamente attestata: G. Paci, Nuovi frammenti dei Fasti consolari, in S. Antolini, S. M. Marengo, G. Paci, Fasti ed altri materiali epigrafici di Urbs Salvia. Verso l’edizione del corpus delle iscrizioni della colonia, in Picus, 38 (2018), p. 11. Vd. Liv. 9.26. Una ricognitiva disamina è adesso offerta da C. De Cristofaro, Il Magister equitum. Origini storiche, prerogative e rapporto con il dictator, in Diritto@Storia, 19 (2020-2021), pubbl. 2022, pp. 18 ss. (e 42 ntt. 125-130, con bibliografia essenziale). Va considerato senz’altro anche M. B. Wilson, Dictator. The evolution of the Roman dictatorship, Ann Arbor, 2021, pp. 74 ss. Non è forse inutile ricordare che l’accoppiata Menio-Fo(s)lio venne fatta oggetto d’attenzione dal Machiavelli, pur travisando i nomi dei protagonisti (nelle carte originali Marco Menenio e Marco Fulvio): N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, Roma, 1531, p. 8, già rivisto.
[8] Si vedano M. E. Hartfield, The Roman dictatorship: its character and its evolution, Ann Arbor, 1985 (= Diss. Berkeley, 1982), p. 378 e J. H. Richardson, ‘Firsts’ and the historians of Rome, in Historia, 63.1 (2014), pp. 24 s. nt. 40.
[9] Sull’abdicazione di C. Marcello nel 215 cfr. Liv. 23.31.13. Cfr. sul testo J. Linderski, The Augural law, in ANRW, II, 16.3, Berlin-New York, 1986, pp. 2168 ss. e S. W. Rasmussen, Public portents in republican Rome, Roma, 2003, p. 157 nt. 279.
[10] M. A. Fenocchio, Plebità e dittatura: le relazioni nel primo secolo della repubblica romana, in La dittatura romana, I, a cura di L. Garofalo, Napoli, 2017, p. 108 nt. 4 (= Id., I rapporti tra plebe e dittatura nel corso del V secolo a.C., in ELR online, http://europeanlegalroots.weebly.com, 2016, p. 2 nt. 4).
[11] Vedere, sul punto, anche J. Poucet, Les origines de Rome. Tradition et histoire, Bruxelles, 1985, p. 132 e G. Vassiliades, La res publica et sa décadence. De Salluste à Tite-Live, Bordeaux, 2020, p. 623.
[12] Traduco da K. J. Beloch, Römische Geschichte, cit., p. 71. In senso critico, osserva ora J. H. Richardson, ‘Firsts’, cit., p. 25 nt. 40, che «Marcius’ career appears to have been an exceptional one, so any gap may be of little significance; but, in any case, the total of 42 years is only reached because Beloch also rejects the dictatorships of the plebeians Q. Publilius Philo (339), M. Claudius Marcellus (327), and C. Maenius (320), and retains only that of C. Maenius (314)».
[13] Per maggiori informazioni: A. D. Momigliano, Studies on modern scholarship, edited by G. W. Bowersock and T. J. Cornell, Berkeley-Los Angeles-London, 1994, pp. 97 ss. (8. Julius Beloch [1966]); L. Polverini, Aspetti della storiografia di Giulio Beloch, Perugia, 1990; Karl Julius Beloch. Da Sorrento nell’antichità alla Campania. Atti del Convegno storiografico in memoria di Claudio Ferone, Piano di Sorrento 28 marzo 2009, a cura di F. Senatore, Roma, 2011 (e scheda di ragguaglio a firma di C. Lucci, in Anabases. Traditions et réceptions de l’Antiquité, 17 [2013], pp. 1-3).
[14] Contra: G. Poma, Su Livio VII, 17, 6: dictator primus e plebe, in Rivista storica dell’antichità, 25 (1995), p. 80.
[15] Cfr. sul punto S. P. Oakley, A Commentary on Livy. Books VI-X, 4, Book X, Oxford, 2005, p. 543. Ma per A. Drummond, s.v. Fabius Ambustus, Marcus, in OCD.4, Oxford, 2012, p. 564, «his victories against the Faliscans and Tarquinians may be invented since C. Marcius Rutilus was subsequently appointed dictator to confront a major Etruscan threat». Ma si veda T. J. Cornell, Crisis and deformation in the Roman republic: the example of the dictatorship, in Deformations and crises of ancient civil communities, ed. by V. Goušchin and P. J. Rhodes, Stuttgart, 2015, p. 117.
[16] K. J. Beloch, Römische Geschichte, cit., p. 72.
[17] Vedasi P. De Francisci, Arcana imperii, III.1, Milano, 1948, p. 87 (e Id., Sintesi storica del diritto romano4, Roma, 1968, p. 103).
[18] Cfr. K. Loewenstein, The governance of Rome, The Hague, 1973, pp. 29 s.: «the first plebeian praetor assumed office in 337. The extraordinary magistracy held out somewhat longer; the first plebeian dictator is recorded in 314, the first magister equitum, his assistant, in 315». Fa il punto sulle posizioni richiamate A. Piganiol, Le conquiste dei Romani. Fondazione e ascesa di una grande civiltà, ed. or. 1967, trad. it. di Filippo Coarelli, Milano 2010, p. 170: «la tradizione considera Marcio Rutilo, dittatore nel 356, come il primo plebeo che abbia ottenuto la dittatura, ma la critica moderna è incline a ritenere che l’accesso dei plebei a questa carica non sia anteriore al 314».
[19] Il che non autorizza, comunque, a credere (come ha fatto il Pais) che il primo della gens Marcia ad aver raggiunto la censura sia stato in realtà il figlio di Marcio Rutilo, portante il cognome di Censorinus, nel 294 a.C. (già console nel 310 a.C. Per l’albero genealogico dei Marci si veda K.-J. Hölkeskamp, In the web of (hi-)stories. Memoria, monuments, and their myth-historical ‘interconnectedness’, in Memory in ancient Rome and early Christianity, ed. by K. Galinsky, Oxford, 2016, p. 184).
[20] G. De Sanctis, s.v. Marcio Rutilo, Gaio, in Enciclopedia italiana di scienze lettere ed arti, 22, cit., p. 252.
[21] G. De Sanctis, s.v. Marcio Rutilo, Gaio, cit., p. 251.
[22] G. De Sanctis, Storia dei Romani, II, La conquista del primato in Italia, Milano-Torino-Roma, 1907, p. 255.
[23] G. De Sanctis, Storia dei Romani, II, cit., p. 218.
[24] Th. Mommsen, Römische Geschichte. Komplettausgabe mit Kartenmaterial, Düsseldorf, 2015, p. 410. Ma si confronti I. D’Arco, Il culto di Concordia e la lotta politica tra IV e II sec. a.C., Roma, 1998, p. 11 nt. 22.
[25] Cfr. T. Bruno, s.v. Dittatura, in Dig. it., IX.3, 1899-1902, p. 369; F. De Martino, Storia della costituzione romana, I2, Napoli, 1972, pp. 385 e 439; A. Guarino, La rivoluzione della plebe, Napoli, 1975, p. 244; J.-C. Richard, Les origines de la plèbe romaine. Essai sur la formation du dualisme patricio-plébéeien, Rome, 1978, pp. 109 nt. 116 e 117 nt. 138; J. Andreau, La vie financière dans le monde romain. Les métiers de manieurs d’argent (IVe siècle av. J.-C.-IIIe siècle ap. J.-C.), Rome, 1987, p. 230 nt. 45; F. Cassola, L. Labruna, Linee di una storia delle istituzioni repubblicane3, Napoli, 1991, pp. 155 e 420; H. Heftner, Der Aufstieg Roms. Vom Pyrrhoskrieg bis zum Fall von Karthago (280-146 v. Chr.),Regensburg, 1997, p. 55; A.-L. Svensson-McCarthy, The international law of human rights and states of exception, The Hague, 1998, p. 17 (con richiamo a Rossiter in nt. 59).
[26] Cfr. senza pretesa alla completezza, F. Bandel, Die römischen Diktaturen, Diss. Breslau, 1910, rist. Napoli, 1987, p. 59, che riconosce la veridicità della prima dittatura plebea pur dubitando delle vittorie sugli Etruschi; A. Garzetti, Appio Claudio Cieco nella storia politica del suo tempo, in Athenaeum, 25 (1947), p. 181 (= Id., Scritti di storia repubblicana e augustea, Roma, 1996, p. 26); F. Cassola, Lo scontro fra patrizi e plebei e la formazione della “nobilitas”, in Aa. Vv., Storia di Roma, diretta da A. Momigliano e A. Schiavone, 1, Roma in Italia, Torino, 1988, p. 462; A. Storchi Marino, Quinqueviri mensarii: censo e debiti nel IV secolo, in Athenaeum, 81 (1993), pp. 230 ss.; L. Pedroni, Censo, moneta e «rivoluzione della plebe», in MEFRA, 107 (1995), p. 205 nt. 38; G. Poma, Su Livio, VII, 17, 6, cit., pp. 71 ss.; J.-C. Richard, rec. a S. Pittia, Denys d’Halicarnasse. Rome et la conquête de l’Italie aux IV et III s. avant J.-C., Paris, 2002, in Latomus, 63.4 (2004), p. 1007; N. Rampazzo, Professio tra regola ed eccezione nella storia elettorale della Roma repubblicana, in Histoire, espaces et marges de l’antiquité, IV, Hommages à Monique Clavel-Lévêque, Besançon, 2005, p. 114.
[27] In quanto era il mos, soprattutto, a fornire un disciplinamento dei poteri del dittatore: cfr. M. de Wilde, The dictator’s trust: regulating and constraining emergency powers in the Roman Republic, in HPTh., 33.4 (2012), p. 555 nt. 2.
[28] V. F. Bandel, Die römischen Diktaturen, cit., p. 59 nt. 4, per il quale «der ernennende Konsul war wohl sicher der Plebejer M. Popilius Laenas»; J. Jahn, Interregnum und Wahldiktatur, Kallmünz, 1970, p. 36; R. Develin, The integration of the plebeians into the political order after 366 B.C., in K. A. Raaflaub (ed.), Social struggles in archaic Rome. New perspectives on the conflict of the orders, Berkeley-Los Angeles-London, 1986, p. 338; G. Poma, Su Livio, VII, 17, 6, cit., pp. 81 s.
[29] Cfr. L. Labruna, «Adversus plebem» dictator, in Index, 15 (1987), p. 50 (e nt. 9), che sottolinea come sia un ingens terror in epoca storica, cioè «la paura angosciosa, paralizzante, terrifica» a spingere alla dictio di un dittatore. Vd. L. Deroy, Les noms latins du marteau et la racine étrusque «Mar-», in AC, 28.1 (1959), pp. 13 s.; M. B. Wilson, Dictator, cit., pp. 40 ss.
[30] G. Poma, Su Livio, VII, 17, 6, cit., p. 80. Una lettura per alcuni versi eterodossa di Liv. 7.17.6-13 è stata fornita da P. Zamorani, Plebe genti esercito. Una ipotesi sulla storia di Roma (509-339 a.C.), Milano, 1987, pp. 89 s. Il fatto che si parli delle saline e non venga menzionata Ostia è parso a Tenney Frank elemento spendibile per criticare la tradizione che vuole l’insediamento fondato da Anco Marcio. Si sarebbe trattato secondo il Pais di una colonia fondata da C. Marcio Rutilo nel IV secolo.
[31] Intorno a questo concetto ha scritto S. Bourdin, Popoli e leghe nell’Italia preromana, in Re e popolo. Istituzioni arcaiche tra storia e comparazione, a cura di R. Fiori, Göttingen, 2019, pp. 275 ss., ma spec. pp. 289 nt. 1 e 290 nt. 16, proprio con riferimento al nostro passo. Adde M. Lopes Pegna, Storia del popolo etrusco, Firenze, 1959, p. 350; D. Briquel, Le riunioni della lega etrusca, in Federazioni e federalismo nell’Europa antica (Bergamo, 21-25 settembre 1992). Alle radici della casa comune europea, I, a cura di L. Aigner Foresti, A. Barzanò, C. Bearzot, L. Prandi, G. Zecchini, Milano, 1994, pp. 354 s., 360; Id., La tradizione storiografica sulla dodecapoli etrusca, in M. Iozzo (a cura di), La lega etrusca dalla dodecapoli ai quindecim populi. Atti della Giornata di studi (Chiusi, 9 ottobre 1999), Pisa-Roma, 2001, p. 17; Sugli antefatti della coalizione, cfr. incidenter tantum L. Aigner Foresti, Gli etruschi e la loro autocoscienza, in Autocoscienza e rappresentazione dei popoli nell’antichità, a cura di M. Sordi, Milano, 1992, p. 97 e nt. 26.
[32] Lo storico siceliota di Agira annota che gli Etruschi avrebbero continuato per un po’ di tempo le loro razzie e azioni di disturbo prima di rientrare in patria. Cfr. I. D’Arco, Il culto di Concordia, p. 51 nt. 115.
[33] Rilevante per taluno, com’è noto, anche per lumeggiare il nome della magistratura: M. B. Wilson, Dictator, cit., p. 45.
[34] Sullo stesso dittatore come magistrato ‘solitario’ vd. D. Cohen, The origin of Roman dictatorship, in Mnemosyne, 10.4 (1957), p. 304 nt. 1.
[35] Benché ciò non venga detto esplicitamente: cfr. S. P. Oakley, A Commentary, cit., p. 542. Ne ha discusso M. C. Martini, Le vestali. Un sacerdozio funzionale al cosmo romano, Bruxelles, 2004, 137.
[36] Dettata per alcuni dalla più schietta concretezza. Secondo R. Rebuffat, Tite-Live et la forteresse d’Ostie, in Mélanges de philosophie, de littérature et d’histoire ancienne offerts à P. Boyancé, Rome, 1974, pp. 637 s., Marcio venne ‘detto’ perché munito di capacità operative e di mezzi su quel territorio, di cui era profondo conoscitore (e tanto valeva, allora, affidarsi a un uomo capace di muoversi in un contesto geografico così particolare). Si veda sul punto A. Aguilera Martín, El Monte Testaccio y la llanura subaventina. Topografía extra portam Trigeminam, Roma, 2002, p. 25 e nt. 104.
[37] Liv. 7.16.9. P. Zamorani, Plebe genti esercito, cit., p. 85, non accorda autenticità storica alla vicenda che vuole Stolone fatto condannare da Marco Popilio Lenate, anche se tale rappresentazione «può essere indizio di un’inimicizia grave fra i due capi plebei e presentare in forma di evento una rivalità maggiormente diluita nel tempo che, nel 357, troverebbe forse solo il suo sbocco».
[38] La condanna sembra risalire al 357 a.C. Dubita fortemente dell’accaduto I. D’Arco, Il culto di Concordia, cit., p. 35 nt. 72.
[39] Cic. Brut. 56.
[40] Cfr. P. Zamorani, Autodifesa di un eretico (A proposito di Plebe Genti Esercito, un Corso di lezioni sulla plebe romana), in AG, 219 (1999), p. 434.
[41] Questa dittatura lascia perplessi non pochi studiosi, i quali bollano l’intera vicenda come inventata anche per il suo singolare epilogo. Cfr. T. J. Cornell, Crisis and deformation, cit., p. 113. Come che sia, si rimanda a M. A. Fenocchio, Plebità e dittatura, cit., p. 114.
[42] Si veda adesso E. Della Calce, Mos uetustissimus. Tito Livio e la percezione della clemenza, Berlin-Boston, 2023, p. 116.
[43] Su cui, in precedenza, si era diffusa G. Poma, Su Livio, VII, 17, 6, cit., p. 74. Adde A. Storchi Marino, Quinqueviri mensarii, cit., p. 231.
[44] Concessioni anche in A. Storchi Marino, Quinqueviri mensarii, cit., p. 233: «Marcio è capo plebeo emergente, ma non riesce ad esserlo del tutto, ad essere assolutamente dedito agli interessi della plebe prima che dello stato».
[45] G. Poma, Su Livio, VII, 17, 6, cit., p. 75: «Ora, Caio Marcio Rutilo … è ben lontano dall’apparire un homo novus qualsiasi; si muove al centro di una trama di relazioni politiche ed economiche con la massa plebea e di alleanze radicate con la gens patrizia dei Manli». Per M. Cébeillac-Gervasoni, Les magistrats des cités du Latium et de la Campanie des Gracques à Auguste: problèmes de nomenclature, in MEFRA, 143 (1991), p. 201 nt. 70, Rutilo è persino «une des figures légendaires de la République».
[46] Sulla creazione dei quinqueviri mensarii è opportuna la conoscenza, quantomeno, di A. Storchi Marino, Quinqueviri mensarii, cit., pp. 213 ss., e spec. 235. Si trattò di ‘banchieri pubblici’ (D. B. Hollander, Money in the late Roman republic, Leiden-Boston, 2007, p. 53), componenti di una commissione oggi diremmo ‘paritetica’. Ne ha parlato pure P. Niczyporuk, Mensarii, bankers acting for public and private benefit, in Studies in logic, grammar and rhetoric, 24.37 (2011), pp. 105 ss., spec. 108 ss.
[47] In realtà, non il primo magister equitum plebeo, se si guarda al primato attribuito dalle fonti a C. Licinio, Stolone o Calvo (368): cfr. Liv. 6.39.3 e F. De Martino, Storia, I2, cit., p. 453 più G. Lobrano, Plebei magistratus, patricii magistratus, magistratus populi Romani, in SDHI, 41 (1975), p. 273 nt. 78, dove si pensa a Licinio Stolone. Ma l’intera vicenda sarebbe incredibile per G. Scaramella, I più antichi Licini e l’annalista C. Licinio Macro, Pisa, 1897, p. 13. Discusso è, invece, se dittatore e magister equitum fossero ordinati nel senso di una collegialità dispari (così De Martino, che però nega tale rapporto tra consoli e dittatore) oppure no (significativo il confronto con le posizioni del Mommsen, sul punto diametralmente opposte, portato a vedere nel dictator un collega maior dei consoli e nel maestro della cavalleria un ‘corollario’ del dittatore, pur con qualche sfumatura più possibilista nell’Abriss). Cfr. al proposito G. Meloni, Dottrina romanistica, categorie giuridico-politiche contemporanee e natura del potere del “dictator”, in G. Meloni (a cura di), Dittatura degli antichi e dittatura dei moderni, introduzione di Claude Nicolet, Roma, 1983, pp. 81, 84 e 100 nt. 24. Sul rilievo attribuito negli studi di Rollin alla dittatura di C. Marcio Rutilo e sulla nomina a magister equitum di C. Plauzio nel 356 a.C. vedasi anche P. Catalano, Consolato e Dittatura: l’«esperimento» romano della Repubblica del Paraguay (1813-1844), in G. Meloni (a cura di), Dittatura, cit., p. 155.
[48] Cfr. D. Cohen, The origin, cit., p. 304 nt. 2 e L. Labruna, «Adversus plebem» dictator, cit., p. 49 e nt. 3.
[49] Sulla ‘indignazione’ scatenata dalla ‘promiscuità’ degli ordines molto si è detto, a parte i profili di diritto pubblico connessi con i poteri del senato (cfr. V. Mannino, L’auctoritas patrum, Milano, 1979, p. 74). Il Molitor parlava in termini iperbolici di una ‘magna indignatio’ e del ‘perfidum consilium’ di un senato fremente d’ira e ‘ultionis avidus’, pervaso dall’unico pensiero di ostracizzare il dittatore: A. M. J. Molitor, Responsio ad quaestionem literariam, in Annales Academiae Lovaniensis, 6 (1826), p. 83. Ma la dictio di un dittatore plebeo, pur contraria alla prassi consuetudinaria, non era illegale o contra legem, in accordo a un’acuta analisi svolta dal Manuzio e in seguito accolta da J. Micrander (Praes.), Dictator romanus, publico examini subiectus a Ch. Torner, Holmiae, 1685, pp. 8 s.: infatti la lex de dictatore creando era rispettata, perché il prescelto era pur sempre un consularis. Si aggiunga la lettura di K. Sandberg, Magistrates and assemblies. A study of legislative practice in republican Rome, Rome, 2001, p. 85 nt. 3.
[50] Il senso del discorso è, per V. N. Tokmakov, Disciplina militare e la situazione giuridica dei milites nella Roma della prima età repubblicana, in Diritto@Storia, 4 (2005), che i plebei «appoggiavano tutti i preparativi del dittatore».
[51] Si veda L. Labruna, «Adversus plebem» dictator, cit., p. 67 nt. 68. Dubita fortemente di una simile avversione patrizia P. Zamorani, Plebe genti esercito, cit., p. 90, in quanto Marcio «avrà modo di operare in modo decisamente antiplebeo in occasione della rivolta militare dell’anno 342».
[52] C’è chi nel populus ha visto un riferimento alle centurie – come B. G. Niebuhr, Römische Geschichte, Berlin, 1853, p. 736 nt. 83 e W. Weissenborn (erklaert von), Titi Livi ab Urbe condita libri, III, Buch VI-X, Berlin, 1869, p. 127 – e chi agli elementi plebei della popolazione: tra questi, soprattutto il Tokmakov.
[53] Vd. G. Rotondi, Leges publicae populi Romani, Milano, 1912, p. 223.
[54] Magari qualche particolare liviano potrà sembrare inverosimile, come gli ottomila prigionieri catturati. L’uso di zattere (rates), invece, potrebbe confortare la supposizione del Rebuffat, di cui si è detto in una nota precedente.
[55] Sulla vicenda, vd. P. Zamorani, Plebe genti esercito, cit., p. 97 e Id., La lex Publilia del 339 a.C. e l’auctoritas preventiva, in AUFE, 2 (1988), p. 7 nt. 9; anche L. Deroy, Les noms latins, cit., p. 14 nt. 37.
[56] A. Petrucci, Corso di diritto pubblico romano. Ristampa emendata, Torino, 2017, p. 369.
[57] Su questa formula politica si vedano C. Santi, I viri sacris faciundis tra concordia ordinum e pax deorum, in Gli operatori culturali. Atti del II incontro di studio organizzato dal “Gruppo di contatto per lo studio delle religioni mediterranee”. Roma, 10-11 maggio 2005, a cura di M. Rocchi, P. Xella, J.-Á. Zamora, Verona, 2006, pp. 171 ss., spec. 179 ss.; R. Arcuri, Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio, in Storia di Roma. Dalle origini alla tarda antichità, coordinamento di M. Mazza, Catania, 2013, pp. 43 ss., spec. 46; E. Della Calce, La clemenza negli Ab urbe condita libri: tra percezione liviana e ideologia augustea, in La Biblioteca di ClassicoContemporaneo, 10 (2019), p. 10 nt. 37.
[58] Ne ha parlato N. Rampazzo, Professio tra regola ed eccezione, cit., pp. 114 s. con la nt. 65. Il presupposto è che la plebe sia già considerata un ordo: M. Sordi, Populus e plebs nella lotta patrizio-plebea, in Popolo e potere nel mondo antico. Atti del convegno internazionale, Cividale del Friuli, 23-25 settembre 2004, a cura di G. Urso, Pisa, 2005, pp. 64 s., spec. 65.
[59] R. Develin, The integration of the plebeians, cit., p. 303.
[60] F. J. Vervaet, The lex curiata and the patrician auspices, in Cahiers du Centre Gustave Glotz, 26 (2015), pp. 214 ss. Curioso è che il primo a beneficiare dell’apertura tra i plebei sia stato C. Marcio Censorino, il figlio di C. Marcio Rutilo, subito dopo la lex Ogulnia. Egli entrò a far parte in quel 300 a.C. sia degli auguri sia dei pontefici. Si veda A. Storchi Marino, C. Marcio Censorino, la lotta politica intorno al pontificato e la formazione della tradizione liviana su Numa, in Annali dell’Istituto Orientale di Napoli (AION). Sezione di archeologia e storia antica, 14 (1992), pp. 105 ss., nonché, da ultimo, D. Morelli, The family traditions of the gens Marcia between the fourth and third centuries B.C., in The classical quarterly, 71.1 (2021), pp. 189 ss.
[61] Si è soffermato sull’evocativo brano, ex multis, H. Beck, Karriere und Hierarchie. Die römische Aristokratie und die Anfänge des cursus honorum in der mittleren Republik, Berlin, 2005, p. 77 nt. 4. Utile anche F. Münzer, Römische Adelsparteien und Adelsfamilien, Stuttgart, 1920, p. 16.
[62] Cfr. T. Frank, Rome’s first coinage, in Classical philology, 14.4 (1919), p. 316; P. Zamorani, Plebe genti esercito, cit., p. 84; K.-J. Hölkeskamp, Conquest, competition and consensus: Roman expansionism in Italy and the rise of the Nobilitas, in Historia, 42.1 (1993), p. 22; J. H. Richardson, ‘Firsts’, cit., p. 24.
[63] Si veda A. Drummond, s.v. Marcius Rutilus, Gaius, in OCD.3, edited by S. Hornblower and A. Spawforth, Oxford, 1999, p. 923, interessante a dispetto della necessitata sintesi per l’osservazione che Rutilo risulta completamente ignorato da Diodoro Siculo. Anche per la prima dittatura del 356 cautamente si adopera l’avverbio «reputedly». Adde K.-J. Hölkeskamp, Die Entstehung der Nobilität. Studien zur sozialen und politischen Geschichte der römischen Republik im 4. Jhdt. v. Chr., Stuttgart, 1987, p. 98 e nt. 59, pure per i complessi problemi ruotanti intorno alla datazione ed ispirazione della lex Marcia adversus faeneratores. Si vedano infine le contestualizzazioni complessive di G. Forsythe, A critical history of early Rome. From prehistory to the first punic war, Berkeley-Los Angeles-London, 2005, pp. 269 ss., spec. 270 e di S. P. Oakley, A Commentary, cit., p. 554.
[64] R. M. Ogilvie, Review: the struggle of the orders, rec. a E. Ferenczy, From the patrician state to the Patricio-plebeian state, Budapest, 1976, in The classical review, 29.1 (1979), p. 110: «the dictatorship of 356 certainly looks doubtful».
[65] A parte le note e discusse posizioni di K. J. Beloch, Römische Geschichte, cit., pp. 346 e 361 s., cfr. J. Pinsent, Military tribunes and plebeian consuls, Wiesbaden, 1975, passim.
[66] T. Corey Brennan, The praetorship in the Roman republic, I, Oxford, 2000, p. 65.
[67] Mi sto riferendo a R. T. Ridley, Patavinitas among the patricians? Livy and the conflict of the orders, in W. Eder (Hrsg.), Staat und Staatlichkeit in der frühen römischen Republik. Akten eines Symposiums 12-15 Juli 1988, Freie Universität Berlin, Stuttgart, 1990, p. 117: «it is extraordinary that this most powerful office, so long the main weapon of the patricians in the Conflict of the Orders, falls to the plebeians without any explanation by Livy or any note on Marcius». Cfr. pure L. Labruna, «Adversus plebem» dictator, cit., p. 67 e G. Poma, Su Livio, VII, 17, 6, cit., p. 83 nt. 59.
[68] Questa l’opinione dominante, come ricorda G. Meloni, Dottrina romanistica, cit., p. 85, in ordine alla quale, però, l’autore invoca la necessità di ripensamenti profondi.
[69] Tant’è che B. G. Niebuhr, Historische und philologische Vorträge, an der Universität zu Bonn gehalten, Berlin, 1846, p. 417, riteneva attuata una cesura nel modo di nominare il dittatore proprio con l’investitura di C. Marcio Rutilo: cesura passata però sotto silenzio proprio da Livio ma, a quel che pare, percepita moltissimo tempo dopo da Zonaras.
[70] Il malcontento – per usare un eufemismo – viene di solito attribuito ai soli patres, «da die plebejischen Senatoren schwerlich über die Wahl unwillig waren»: W. Weissenborn (erklaert von), Titi Livi ab Urbe condita libri, III, cit., p. 127.
[71] Queste e le osservazioni che precedono competono a K.-J. Hölkeskamp, Die Entstehung der Nobilität, cit., p. 66: «Damit war auch das patrizische Monopol auf die Dictatur durchbrochen. Wie es dazu gekommen ist, läßt sich aus der Darstellung des Livius nicht rekonstruieren: man wird jedoch davon ausgehen können, daß der Senat (auch seine patrizische Mehrheit) in der Nominierungsfrage uneinig war, so daß Popilius – sicherlich dank der Unterstützung durch einige (der plebeischen?) Senatoren – einen größeren Handlungsspielraum hatte als gewöhnlich».
[72] B. G. Niebuhr, Römische Geschichte, cit., p. 736. E allora, forse, Lenate non ‘scelse’ Rutilo ma si limitò a ‘proclamarlo’ prendendo atto delle forze in campo.
[73] Sul suo operato, anche in connessione alle vicende successive, cfr. N. S. Rosenstein, Imperatores victi. Military defeat and aristocratic competition in the middle and late republic, Berkeley-Los Angeles-Oxford, 1990, p. 34.
[74] S. P. Oakley, A Commentary, cit., p. 542 nt. 2.
[75] È quanto personalmente ha auspicato G. Meloni, Dottrina romanistica, cit., p. 90, per il quale «il dittatore, per i primi tre secoli nei quali questa magistratura è stata utilizzata (prescindendo cioè dai famosi casi di Silla e di Cesare nel corso del I sec. a.C.), non appare mai, nei fatti, un magistrato repressivo e antiplebeo».
[76] A. Dell’Oro, La formazione dello stato patrizio-plebeo, Milano, 1950, p. 122. Adde, correttamente, T. J. Cornell, Crisis and deformation, cit., p. 113 nt. 61, che cita in senso adesivo Nippel e Meloni.
[77] Così testualmente G. Meloni, Dottrina romanistica, cit., p. 92. Contra L. Labruna, «Adversus plebem» dictator, cit., pp. 55 s. Su una posizione differenziata mi sembra possa leggersi anche J. Irmscher, La dittatura. Tentativo di una storia concettuale, in G. Meloni (cur.), Dittatura,cit., pp. 57 (dove si legge che la carica dittatoria «si scontrò presto, in particolare, con l’avversione dei plebei») e 59, ove scrive che «l’antica dittatura romana del tempo delle guerre sannitiche e delle lotte tra i patrizi e i plebei, che esigevano eguali diritti, era orientata in primo luogo a proteggere l’ordinamento esistente, minacciato da una situazione di emergenza, nell’interesse dell’aristocrazia». Secondo un altro autore la dittatura seditionis sedandae causa, utilizzata almeno quattro volte, sembra essere un’arma in mano ai patrizi («a patrician weapon») per mantenere il potere alla classe dominante contro le rivendicazioni delle masse plebee, anche se con ciò non può dirsi che la dittatura fosse il mezzo usuale per reprimere l’ascesa dei plebei, visto che «this great struggle within the Roman state lasted for hundred of years, and only four times was the dictatorship clearly resorted to as an oppressive weapon against the plebeians»: v. C. L. Rossiter, Constitutional dictatorship. Crisis government in the modern democracies, Princeton, 1948, p. 22, che comunque ammette la possibilità di un uso a fini di «class warfare».
[78] Discussione e letteratura in M. A. Fenocchio, Plebità e dittatura, cit., pp. 107 ss.
[79] Particolari in M. A. Fenocchio, Plebità e dittatura, cit., pp. 131 ss.
[80] Cito da G. Meloni, «Dictatura popularis», in Aa. Vv., Dictatures. Actes de la Table Ronde réunie à Paris les 27 et 28 février 1984, ed. F. Hinard, Paris, 1988, p. 80.
[81] Testualmente, in questo senso, L. Labruna, «Adversus plebem» dictator, cit., p. 61.
[82] Anche la prima dittatura di Lucio Quinzio Cincinnato, nel 458, si presta ad analoghe considerazioni. Liv. 3.26.12: Et plebis concursus ingens fuit; sed ea nequaquam tam laeta Quinctium vidit; et imperium nimium et virum ipso imperio vehementiorem rata. Et illa quidem nocte nihil praeterquam vigilatum est in urbe. Sull’episodio vd. C. W. Keyes, The constitutional position of the Roman dictatorship, in SPh, 14.4 (1917), p. 302. Su Cincinnato dittatore si veda M. de Wilde, Just trust us: a short history of emergency powers and constitutional change, in Comparative legal history, 3.1 (2015), pp. 115 s.
[83] Cfr. G. Meloni, «Dictatura popularis», cit., pp. 79 s.
[84] Informazioni in R. T. Ridley, The origin of the Roman dictatorship: an overlooked opinion, in RhM., 122 (1979), pp. 303 ss.
[85] L. Labruna, «Adversus plebem» dictator, cit., p. 67 nt. 69. Si veda anche la posizione di C. L. Rossiter, Constitutional dictatorship, cit., p. 26, che sembra cogliere analoga cronistoria della decadenza rispetto alle funzioni originarie della magistratura, e per il quale «the office could easily be used to quell an outbreak of the plebeians against the ruling class».
[86] M. E. Hartfield, The Roman dictatorship, cit., p. 379, per la quale «once one accepts that Marcius maintained staunch patrician colleagues, his dictatorship, command, and honors are credible. The arguments against authenticity fall»; G. Meloni, «Dictatura popularis», cit., p. 80.
[87] Si fa leva di solito su Liv. 4.56.8: Quae ubi tumultu maiore etiam quam res erat nuntiantur Romam, senatus extemplo, quod in rebus trepidis ultimum consilium erat, dictatorem dici iussit. Secondo A. Dell’Oro, La formazione, cit., pp. 125 s., «la formula, con la quale il senato richiede la nomina del dittatore … comporta un preciso comando da parte del senato». Dunque il comando o iussum del senato si esprimeva in un senatoconsulto contro il quale sarebbe però stata possibile l’intercessio tribunicia, che una volta effettuata ritualmente la nomina non apparirebbe più frapponibile, se non per bloccare atti chiaramente esorbitanti del dictator. Dell’Oro critica così l’impostazione dottrinale per la quale non c’era necessità di acquisire il consenso del senato per procedere alla nomina del dittatore.
[88] Non mancano, è ovvio, i pareri dissenzienti. Cfr. ad es. W. Weissenborn (erklaert von), Titi Livi ab Urbe condita libri, III, cit., p. 127, per il quale «der Consul ist bei der Ernennung des Dictators nicht an die Wünsche des Senats gebunden, s.c. 12, 9; der plebejische Consul konnte daher auch gegen den Willen desselben einen plebeijschen Dictator ernennen». Con pluralità di premesse e di esiti, si conviene spesso nell’asserire una trasformazione del modus dictionis consumatasi proprio in quegli anni: se nella ricostruzione del Niebuhr si batteva sul venir meno dell’approvazione delle curiae avutasi per l’ultima volta con Sulpicio, si evidenzia altrimenti la circostanza che l’entrata in scena di un dittatore veniva ‘ordinata’ dal senato, mentre la successiva individuazione in concreto della persona sarebbe spettata ad uno dei due consoli.
[89] Si veda H. Siber, Römische Verfassungsrecht in geschichtlicher Entwicklung, Lahr, 1952, p. 108, la cui riserva è ricordata (e criticata) da M. E. Hartfield, The Roman dictatorship, cit., pp. 378 s.
[90] Nei Fasti Triumphales c’è la registrazione: C. Marcius L. f. C. n. Rutilus dict. an. CCCXCVII de Tusceis pridie non. mai. Cfr. L. Holzapfel, Römische Chronologie, Leipzig, 1885, p. 84 nt. 3; M. Sordi, I rapporti romano-ceriti e l’origine della civitas sine suffragio, Roma, 1960, p. 126 e nt. 1; S. Panciera, Iscrizioni greche e latine del Foro Romano e del Palatino, Roma, 1996, p. 111.
[91] E infatti si veda, a titolo di ulteriore esempio, H. Matzat, Römische Chronologie, I, Grundlegende Untersuchungen, Berlin, 1883, pp. 164 s. Ne discute le posizioni L. Holzapfel, Römische Chronologie, cit., p. 80 nt. 2: in particolare, si nota come la stringatezza di Diodoro 16.31.7 non basti per cassare anche il trionfo sui Privernati dell’anno 397 a.U.c. (= 357 a.C.), come nel giudizio del Matzat.
[92] La fonte è quella già citata supra: Diod. 16.36.4.
[93] Così anche H. Matzat, Römische Chronologie, I, cit., p. 165 e J. Kaerst, Die römischen Nachrichten Diodors und die consularische Provinzenvertheilung in der älteren Zeit der römischen Republik, in Philologus, 48 (1889), p. 321.
[94] F. Bandel, Die römischen Diktaturen, cit., p. 60: «Die Erfolge des Marcius und sein Triumph sind daher wohl nur zu Ehren des ersten plebejischen Diktators erfunden worden».
[95] F. Bandel, Die römischen Diktaturen, cit., p. 60 nt. 2: «Diese Salinen lagen auf dem nördlichen Ufer des unteren Tiber».
[96] Cui aderì anche A. Fränkel, Die Veränderung des consularischen Antrittstermins während der Jahre 387 bis 531 d. St., in Studien zur römischen Geschichte, I, Breslau, 1884, p. 52 e nt. 31.
[97] Cfr. O. Clason, Römische Geschichte seit der Verwüstung Roms durch die Gallier, I, Berlin, 1873, p. 305, citato appunto da Bandel.
[98] Cfr. O. Clason, Römische Geschichte, I, cit., p. 306. Forse l’idea risente della più generale ‘visione del mondo’ di questo studioso, greve di qualche pregiudizio.
[99] Cfr. G. Franciosi, Corso storico istituzionale di diritto romano, Torino, 2014, p. 93. Su Coriolano vd. Th. Mommsen, Die Erzählung von Cn. Marcius Coriolanus, in Hermes, 4 (1870), p. 1 ss.; E. T. Salmon, Historical elements in the story of Coriolanus, in CQ, 24.2 (1930), pp. 96 ss.; V. C. Rudolph, Going to grass; or, “Coriolanus” revisited, in ETJ, 27.4 (1975), pp. 498 ss.; E. Santamato, La teoria del synchorema nella narrativa sulle lotte patrizio-plebee in Dionigi di Alicarnasso, in Athenaeum, 103 (2016), p. 539 nt. 14. In senso contrario e dunque per l’originaria plebità dei Marci, sulle orme di Münzer, cfr. G. Poma, Su Livio, VII, 17, 6, cit., p. 73. Chiama comunque Rutilo «der auctor nobilitatis der Marcier» W. Schur, Fremder Adel im römischen Staat der Samniterkriege, in Hermes, 59.4 (1924), p. 451.
[100] J. H. Richardson, ‘Firsts’, cit., p. 24.
[101] M. B. Wilson, Dictator, cit., p. 38.
[102] J. N. Madvig, L’État romain, sa constitution et son administration, II, Paris, 1883, p. 213 nt. 18.
[103] Th. Reinach, De l’état de siège: étude historique et juridique, Paris, 1885, p. 21.
[104] Così Th. Reinach, De l’état de siège, cit., p. 20.
[105] Per questi argomenti, cfr. T. Frank, Rome’s first coinage, cit., p. 316 nt. 3: «It seems to be significant that the salinae are mentioned and not Ostia. When seven years later (Livy vii.25) see-rovers devastated the coast, “Ostia Tiberis” is mentioned. The colony may have been planted in the meantime in consequence of the Etruscan raid».
[106] Tra gli autori maggiormente propensi a seguire questi ragionamenti, si segnala G. Forsythe, A critical history of early Rome, cit., pp. 278 ss., spec. 279. Si aggiunga S. P. Oakley, A Commentary, cit., p. 574.
[107] Da ultimo si veda A. Saccoccio, La dittatura: una magistratura cancellata. Considerazioni minime tra antico e moderno, in Diritto@Storia, 19 (2022), passim, ove si ritrova tutta la bibliografia essenziale sull’argomento.
[108] Cfr. A. Bernardi, Ancora sulla costituzione della primitiva repubblica romana, in RIL, 79 (1945-1946), p. 18.
[109] In quanto alludente anche alla creazione della pretura giurisdizionale: C. Corsetti, La creazione del diritto dal processo: il praetor e le actiones in factum, in La “giurisdizione”. Una riflessione storico-giuridica. Raccolta di scritti del Seminario di studi interdisciplinari del Dottorato di Ricerca in discipline giuridiche. Roma, 31 maggio 2018, a cura di R. Benigni e B. Cortese, Roma, 2019, pp. 61 ss.
[110] G. Meloni, «Dictatura popularis», cit., pp. 84 s.
[111] Si veda, recentemente, in specie M. B. Wilson, Dictator, cit., pp. 55 ss.
[112] Cfr. Fest. s.v. Optima lege 216 L.1
[113] Su tale controversa espressione cfr. M. A. Fenocchio, Plebità e dittatura, cit., pp. 110, 115 nt. 33 e 120 con la nt. 52.
[114] Tra gli ultimi a discutere il celeberrimo passaggio, segnalo ancora M. B. Wilson, Dictator, cit., pp. 56 ss., pur abbastanza parco nei ragguagli di letteratura specie non anglofona (ma sono puntuali le molte citazioni del nostro Degrassi).
[115] Cfr. A. Dell’Oro, La formazione, cit., pp. 122 s. e P. Catalano, Revolutionsauffassungen und römische Institutionen, in Klio, 61 (1979), p. 184.
[116] Cfr. A. Bernardi, Ancora sulla costituzione, cit., p. 19.
[117] Sulle tendenze politiche dei Manli, casi particolari a parte e checché se ne possa dire in contrario (magari basandosi sulla figura di Publio Manlio Capitolino: ma cfr. G. Scaramella, I più antichi Licini, cit., pp. 12 ss.), mi permetto di rimandare alle osservazioni contenute in M. A. Fenocchio, Il caso della relegatio in agros di Tito Manlio, in Tesserae iuris, II.2 (2021), pp. 159 s. Peraltro, in quel contributo non avevo nemmeno citato Liv. 7.21.1, che ulteriormente confermerebbe l’atteggiamento di Tito Manlio Torquato figlio di Lucio ancora nel 353 a.C. (in piena maturità politica: il dittatore è pronto a cancellare il consolato piuttosto che vederlo in comunione coi plebei: cfr. T. J. Cornell, Crisis and deformation, cit., p. 115) e, dunque, le conclusioni cui ero giunto. Contra: A. Storchi Marino, Quinqueviri mensarii, cit., p. 232 e M. Sordi, Populus e plebs, cit., p. 68.
[118] L’impronta si sarebbe trasmessa anche alle generazioni successive: R. Syme, The politics of the Marcii, in Id., Approaching the Roman revolution. Papers on republican history, ed. by F. Santangelo, Oxford, 2016, pp. 44 ss.
[119] Rutilo aveva ricevuto la consegna di affrontare i Privernati, Cn. Manlio i Falisci; ma il secondo non si distinse se non per l’eversivo novum exemplum della legge da lui rogata (Liv. 7.16.7-8), molto dibattuta in dottrina: cfr. A. Guarino, In tema di «leges publicae», in ANA, 92 (1981), pp. 193 ss. e l’imprescindibile A. Di Porto, Il colpo di mano di Sutri e il ‘plebiscitum de populo non sevocando’. A proposito della Lex Manlia de vicensima manumissionum, in Legge e società nella repubblica romana, a cura di F. Serrao, I, Napoli, 1981, pp. 307 ss.
[120] D. Matz, Famous firsts in the ancient Greek and Roman world, Jefferson, 2000, p. 42. Frutto di una prevenzione è l’idea che il primo dei Marcii ad esser stato censore sia Censorino, figlio di Rutilo, nel 294 a.C. (una seconda sua censura – caso unico nella storia – si ricorda per il 265 a.C., e lo stesso iterum censor avrebbe così ritenuto opportuno promuovere una lex de censura non iteranda a valere per il futuro, in modo che nessuno potesse venire eletto nella magistratura censoria per una seconda volta). Cfr. A. Tarwacka, ‘Dictator senatui legendo’. The unusual dictatorship of M. Fabius Buteo, in Zeszyty prawnicze, 13.1 (2013), pp. 190 s. Difatti non è senza significato che per alcuni studiosi anche moderni il medesimo cognomen Censorinus sia stato acquisito dal capostipite, per ottenere una definitiva cristallizzazione con il discendente nella prima parte del III secolo a.C.: così, per esempio, M. Torelli, The Anaglypha Traiani and the Chatsworth relief, in Typology and structure of Roman historical reliefs, a cura di M. Torelli, Ann Arbor, 1982, p. 103.
[121] G. Giliberti, Elementi di storia del diritto romano2, Torino, 1997, p. 67, per il passaggio dalla «nobiltà di sangue» a quella «di ufficio». Vd. anche G. Poma, Su Livio, VII, 17, 6, cit., p. 72, sulle «grandi famiglie plebee» che «si conquistano uno spazio nella nuova nobilitas».
[122] Rinvio sempre a M. A. Fenocchio, Il caso della relegatio in agros, cit., p. 160.
[123] Molto netto, forse troppo, P. A. Zoch, Ancient Rome. An introductory history, Norman, 1998, pp. 56 s.
[124] Cfr. anzi G. Poma, Su Livio, VII, 17, 6, cit., p. 76.
Fenocchio Marco A.
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