La struttura polimorfa dell’errore nella sfera degli illeciti di diritto romano
Isabella Zambotto *
La struttura polimorfa dell’errore nella sfera degli illeciti di diritto romano**
English title: The Polymorphic Structure of the Error in Roman Criminal Law
DOI: 10.26350/18277942_000078
Sommario: 1. Introduzione. 2. L’errore quale imprudentia e ignorantia nella teoria degli status causae. 3. L’ignorantia facti nelle fonti giuridiche: gli illeciti penali di diritto privato. 4. L’ignorantia facti nelle fonti giuridiche: gli illeciti penali di diritto pubblico. 5. L’ignorantia iuris quale imprudentia legis in Cic. inv. 2.95. 6. L’ignorantia iuris nelle fonti giuridiche: gli illeciti penali di diritto privato. 7. L’ignorantia iuris nelle fonti giuridiche: le ipotesi in materia di incestum e di falso testamentario. 8. Brevi considerazioni di sintesi sull’errore: un istituto polimorfo.
1. Introduzione
Il presente studio intende proporre qualche breve riflessione sulla natura e sull’efficacia dell’errore, sia di fatto, sia di diritto, nella cornice dei delicta e dei crimina in Roma antica[1].
Se, dal punto di vista definitorio, può dirsi che i tratti essenziali dell’errore siano nella sostanza comuni all’esperienza giuridica antica e a quella contemporanea[2] – l’istituto, infatti, è annoverabile tra i principi attualmente confluiti nella parte generale del diritto penale vigente, di cui gli antichi paiono aver avuto contezza, ancorché quest’ultima fosse relegata a particolari problemi e a specifiche fattispecie illecite[3] –, significativi tratti di discontinuità, invece, paiono potersi scorgere dal punto di vista della qualifica e dell’operatività della figura giuridica, ab origine avulsa dalla cristallizzazione in termini di causa di esclusione della colpevolezza (o scusante), propugnata dalla più parte della scienza penalistica odierna.
L’emersione di una pluralità di concezioni del fenomeno giuridico si farà via via più chiara grazie all’analisi qui proposta, che partirà dagli antichi brani di retorica forense, con specifico riguardo alla dottrina degli status causae, la cui attendibilità risulta oggi avvalorata da molteplici studi sulle interdipendenze tra retorica giudiziaria e diritto[4], per poi proseguire con la disamina di alcune tra le principali fonti giuridiche in argomento, cronologicamente successive.
2. L’errore quale imprudentia e ignorantia nella teoria degli status causae
Si è in parte anticipato che significative riflessioni intorno all’elemento soggettivo sono rinvenibili nelle opere dei retori, grazie alle quali è stata messa a fuoco più compiutamente la concezione della responsabilità dolosa nella prassi.
L’ideale crocevia dei due binari, ossia quello giuridico e quello retorico, è rappresentato dalla dottrina degli status causae[5]. Come è noto, quando le parti concordano sul fatto e sulla sua qualificazione, ma sia da verificare se quanto compiuto sia conforme al diritto oppure no, rileva lo status qualitatis (o iuridicialis)[6]. La valutazione inerente al medesimo concerne, quindi, la giuridicità o meno dell’atto commesso che, in base un giudizio basato sulla sua opportunità, liceità, necessità o involontarietà, sia ‘giustificato’ dal diritto.
Lo status qualitatis è declinabile in due forme, come insegnano Rhet. Her. 1.24 e Cic. inv. 1.15: da un lato, l’absoluta, che si verifica quando il fatto può dirsi compiuto ‘giustamente’, senza dover invocare nulla al di fuori; dall’altro, l’adsumptiva, nell’ipotesi in cui la difesa sia debole e sia necessario potenziarla con il ricorso a un elemento esterno[7].
Tale categoria è composta, a propria volta, da quattro parti, tra le quali si rinviene la concessio, vale a dire l’‘ammissione’ del fatto (non si contesta, detto altrimenti, l’integrazione della condotta criminosa), suddivisa in purgatio e deprecatio: quando vi sia ancora speranza di negare l’intenzionalità, la difesa tenterà di addurre la prima, in caso contrario, non resterà che supplicare il perdono con il secondo strumento.
Alla luce di tali presupposti, sarà ora utile leggere le definizioni di purgatio, soffermandosi sulla species imprudentia, alla quale sembra riconducibile l’error:
Rhet. Her. 1.24: … Purgatio est cum consulto negat se reus fecisse. Ea dividitur in imprudentiam, fortunam, necessitatem … Si autem imprudentia reus se peccasse dicet, primum quaeretur, utrum potuerit scire, an non potuerit. Deinde utrum data sit opera, ut sciretur, an non. Deinde utrum casu nescierit, an culpa: nam qui se propter vinum, aut amorem, aut iracundiam, fugisse rationem dicet, is animi vitio videbitur nescisse, non imprudentia. Quare non imprudentia se defendet, sed culpa contaminabit. Deinde coniecturali constitutione quaeretur, utrum scierit, an ignoraverit, et considerabitur, satisne imprudentia praesidii debeat esse, quum factum esse constet imprudentur.
Cic. inv. 1.15: Purgatio est, cum factum conceditur, culpa removetur. Haec partes habet tres, imprudentiam, casum, necessitate.
Cic. inv. 1.41: Modus autem est, in quo, quemadmodum et quo animo factum sit, quaeritur. Eius partes sunt prudentia et imprudentia … imprudentia autem in purgationem confertur, cuius partes sunt inscientia, casus, necessitas, et in affectionem animi, hoc est molestiam, iracundiam, amorem et cetera, quae in simili genere versantur.
Cic. inv. 2.94: Purgatio est, per quam eius, qui accusatur, non factum ipsum, sed voluntas defenditur. Ea habet partes tres: imprudentiam, casum, necessitudinem.
Quint. inst. or. 7.14.4: … hinc quoque exclusis excusatio superest. Ea est aut ignorantiae, ut si quis fugitivo stigmata scripserit eoque ingenuo iudicato neget se liberum esse eum scisse, aut necessitatis, ut cum miles ad commeatus diem non adfuit et dicit se fluminibus interclusum aut valetudine. 15. Fortuna quoque saepe substituitur culpae. Nonnumquam male fecisse nos sed bono animo dicimus. Utriusque rei multa et manifesta exempla sunt: idcirco non est eorum necessaria expositio.
Le espressioni cum consulto in Rhet. Her. 1.24, nel senso di premeditazione, culpa removetur in Cic. inv. 1.15 e substituitur culpae di Quint. inst. or. 7.14.4, intesa come assenza dell’elemento soggettivo, e le ancor più esplicite voluntas defenditur in Cic. inv. 2.94 e bono animo in Quint. inst. or. 7.14.4 lasciano intendere che la purgatio elida la colpevolezza, quale imputazione psicologica della volontà del fatto. L’artificio retorico, impiegato nella stesura delle arringhe difensive, pare quindi concentrarsi sul piano ‘sostanziale’, in quanto incidente sulla struttura del reato.
Si osservi, poi, che l’accezione di imprudentia riportata è quella di ‘ignoranza’: interessa, in particolare, la species inscientia (Cic. inv. 1.41), vale a dire la non scientia, la mancata conoscenza di qualcosa che induce in errore[8]. Questa lettura è confortata anche da Quintiliano in inst. or. 7.4.14, dove imprudentia è resa con ignorantia, quale species di excusatio, sostanzialmente corrispondente alla purgatio nel suo modello di trattazione della qualitas, diverso rispetto all’originario sistema ermagoreo[9].
Il lessico impiegato nell’Institutio oratoria, inoltre, suggerisce l’esistenza di un legame tra la teoria degli status causae e l’istituto in esame, in prevalenza (ancorché non esclusivamente) descritto dalle fonti giuridiche mediante i lemmi ignorare, ignorantia.
Ciò consente di prospettare, quanto meno in relazione ai dati in questa sede ricavati dalla prassi affermatasi dalla fine della repubblica, la configurabilità dell’errore in termini di ‘causa di esclusione della colpevolezza’[10], categoria nel cui alveo la dottrina penalistica ancora oggi colloca il fenomeno giuridico contemporaneo, come si è detto.
Per meglio comprendere la portata dell’efficacia scusante, occorre soffermarsi su Rhet. Her. 1.24, in specie sul tratto si autem imprudentia reus se peccasse dicet, primum quaeretur, utrum potuerit scire, an non potuerit e sulla netta contrapposizione tra nescire vitio animi e nescire imprudentia. L’autore anonimo, nel suggerire la migliore strategia argomentativa contro chi abbia invocato l’imprudentia, lascia intendere che l’invocazione non comporti per se l’operatività della scusante: alla sua ‘attivazione’, infatti, si giunge solo in esito a un’indagine, fondata sulle circostanze concrete, circa la possibilità del reus di conoscere, la sua propensione ad adoperarsi in questo senso e la causa della sua ignoranza.
Trasfuse nella prospettiva dell’errore, tali indicazioni della Rhetorica ad Herennium impongono quindi di relegarne la scusabilità ad alcune ipotesi qualificate, in quanto integranti specifici requisiti, indicatori di una caratteristica imprescindibile, le cui fisionomie, come si vedrà più precisamente a breve, differiscono sulla base dell’oggetto, fatto o diritto, sul quale verte l’ignorantia[11]. Gioverà sottolineare, inoltre, che a un’analoga delimitazione dell’operatività si assiste anche nel caso della necessitas, altra forma di purgatio[12]: il dato, tutt’altro che casuale, pare fungere da base comune a entrambe le species.
Individuati i connotati del modello retorico di errore, tipici di entrambe le sue due species, lo sguardo sarà rivolto ora più nel dettaglio alle fonti giuridiche concernenti l’ignorantia facti nella cornice dei delicta.
3. L’ignorantia facti nelle fonti giuridiche: gli illeciti penali di diritto privato
La dottrina del primo Novecento restituisce un’immagine uniforme della concezione dell’errore di fatto elaborata dai prudentes: nello specifico, questi ultimi avrebbero riconosciuto efficacia scusante all’ignorantia facti, in quanto idonea a eliminare l’elemento soggettivo[13].
La portata generale di tale teoria desta qualche perplessità, non solo per la scarsa attenzione riservata alle circostanze di fatto rilevanti ai fini dell’operatività della scusante, ben evidenziate nella Rhetorica ad Herennium, ma anche per l’approccio unitario adottato nello studio del diritto penale romano, pubblico e privato[14].
In relazione a quest’ultima critica, è bene richiamare il pensiero di Guarino, secondo cui «non è metodo corretto e raccomandabile di indagine voler considerare indifferentemente ogni sorta di illecito, quasi che realmente valesse ad unificarli l’espressione ‘diritto penale romano’», il cui corollario è il seguente: «dato che in ordine al diritto romano non è assolutamente configurabile una teoria generale (entro la quale vengano ad accomunarsi, ad esempio, il diritto privato e il diritto penale) chi voglia formulare una teoria dell’errore (di fatto o di diritto) deve nettamente distinguere tra diritto privato e diritto penale»[15]: è alla luce di questa condivisibile distinzione, pertanto, che si lascerà ora la parola alle fonti.
Si suole affermare che i passi principali in ordine ai delicta di ius civile (furtum, rapina e iniuria)[16] registrerebbero una diffusa applicazione dell’efficacia scusante e, in ultima analisi, della regula ignorantia facti non nocet in D. 22.6.9 pr. Paul. l.s. de iuris et facti ignorantia[17], ancorché da circoscriversi teoricamente ai casi di errore non provocati da summa neglegentia, almeno secondo l’assai discussa opinione di Ulpiano in D. 22.6.9.2 Paul. l.s. de iuris et facti ignorantia [18].
Tuttavia, se si guardano più da vicino i frammenti posti a fondamento dell’assunto, si ha la netta sensazione che l’istituto, lungi dall’essere ‘ingabbiato’ univocamente nelle maglie concettuali descritte, presentasse in verità una natura per dir così multiforme, a seconda della specola adottata.
Da un punto di vista terminologico, le fonti attestano l’impiego di una pluralità di espressioni indicanti la natura e l’operatività dell’errore.Nella nutrita casistica in materia di furtum, nello specifico, la questione è impostata in termini ora di furtum non committit/non es fur (D. 47.2.21.3 Paul. 40 ad Sab.; D. 47.2.35 pr. Pomp. 19 ad Sab.; D. 47.2.84 pr. Nerv. 1 resp.[19]), ora di actione teneri (D. 47.2.55.4 Gai 13 ad ed. prov.[20]), ferma restando la coesistenza, nella riflessione ulpianea, di entrambe le tendenze (D. 47.2.43.6 Ulp. 41 ad Sab.; D. 47.2.43.10-11 Ulp. 41 ad Sab.; D. 47.2.46.7 Ulp. 42 ad Sab.; D. 47.6.1.1 Ulp. 38 ad ed.[21]).
Questa distinzione lessicale suggerisce l’esistenza di diverse prospettive, l’una non escludente l’altra, dalle quali i giuristi romani osservavano la figura giuridica: da un lato, vi è il piano ‘sostanziale’, incentrato sulla struttura del reato, sulla sua esistenza stessa, dall’altro, quello ‘processuale’, focalizzato sull’esperibilità dell’azione.
Se si fa un ulteriore passo avanti nel ragionamento, a voler utilizzare le odierne categorie penalistiche, si può dire che l’ignorantia facti, nell’elidere l’elemento soggettivo (espliciti, infatti, sono i riferimenti alla mancanza di dolus malus), per un verso assumerebbe le vesti di ‘scriminante’, di ‘causa di giustificazione’, che nega l’antigiuridicità del fatto, nonché la configurabilità del reato stesso (furtum non committit, per l’appunto); per altro verso, renderebbe l’azione ‘improcedibile’, così precludendo la celebrazione stessa del processo (actione non teneri). È interessante notare, a tal riguardo, il mutamento di paradigma rispetto all’argomentazione retorica: là ‘scusante’, al pari del nostro ordinamento, qui ‘scriminante’ o ‘causa di improcedibilità’.
Le locuzioni presenti nei passi dedicati alla rapina, invece, sono agi/actione teneri: Ulpiano (D. 47.8.2.20 Ulp. 54 ad ed., in adesione all’opinione di Labeone, D. 47.9.3.3 Ulp. 56 ad ed.)[22], in questo caso, ci restituisce uno scorcio di natura squisitamente processuale. Una simile declinazione, inoltre, è ravvisabile nei frammenti concernenti l’iniuria, riferibili al giurista severiano (D. 47.10.17 pr. Ulp. 57 ad ed.[23]), a Gaio, che consolida così il suo approccio concentrato sull’azione (D. 47.10.12 Gai 22 ad ed. prov.[24]), e a Paolo, il quale ‘passa’ dal taglio sostanziale a quello dell’agere (D. 47.10.4 Paul. 50 ad ed.[25]).
Si fa strada, insomma, l’idea di un istituto concepito dai prudentes come ‘anfibio’, caratterizzato da una duplice natura, che supera la monolitica qualifica di ‘scusante’, anticamente prospettata dai retori e successivamente sostenuta dagli studiosi dell’inizio del secolo scorso.
4. L’ignorantia facti nelle fonti giuridiche: gli illeciti penali di diritto pubblico
Per quanto concerne gli illeciti penali di diritto pubblico, tra i tesi fondamentali ritenuti genuini, figura[26]:
D. 48.5.12(11).12 Pap. l.s. de adult.: Mulier cum absentem virum audisset vita functum esse, alii se iunxit: mox maritus reversus est. quaero, quid adversus eam mulierem statuendum sit. respondit tam iuris quam facti quaestionem moveri: nam si longo tempore transacto sine ullius stupri probatione falsis rumoribus inducta, quasi soluta priore vinculo, legitimis nuptiis secundis iuncta est, quod verisimile est deceptam eam fuisse nihil vindicta dignum videri potest: quod si ficta mariti mors argumentum faciendis nuptiis probabitur praestitisse, cum hoc facto pudicitia laboretur, vindicari debet pro admissi criminis qualitate.
Il passo di Papiniano[27], in materia di adulterio[28], si apre con una rappresentazione rapidissima della fattispecie: si tratta di una donna che, dopo una lunga assenza del marito, credendolo morto, passa a seconde nozze, per poi assistere al suo ritorno. A questo punto, il giurista si chiede cosa debba essere statuito contro quella mulier.
Si prosegue, quindi, con l’articolata soluzione al quesito posto, che – già solo sotto il profilo stilistico – si allontana dalla stringata descrizione della fattispecie: ci si sofferma, infatti, sulle circostanze di fatto da considerare per fornire una risposta. Nello specifico, gli snodi centrali sono il decorso di un lungo periodo di tempo dalla scomparsa del marito, nonché la diffusione di voci che lasciavano presagire il peggio: è proprio alla luce di detti elementi che le seconde nozze della donna possono dirsi legittime.
Tale statuizione, poggiante su ragioni fattuali, nulla dice circa il ragionamento giuridico sotteso, né sulla qualifica dell’errore: la legittimità delle nuptiae, infatti, potrebbe essere teoricamente interpretata come conseguenza, in via alternativa, o del venir meno dell’antigiuridicità del fatto, o dell’assenza di colpevolezza scusante.
Per giungere a questo approdo, inoltre, non basta l’erronea convinzione, da parte della donna, della definitiva scomparsa del marito: in primo luogo, l’evento su cui verte l’errore deve apparire probabile, alla luce del dato cronologico, indice altresì del fatto che le seconde nozze fossero una scelta ponderata; in secondo luogo, è necessario che l’errore non sia l’esito di un convincimento meramente interiore, bensì il verosimile risultato cui la mulier poteva giungere, considerate le notizie apprese nel suo contesto sociale; in estrema sintesi, l’ignorantia facti in tanto rileva in quanto ‘scusabile’ e ‘plausibile’, tenuto conto delle specifiche circostanze imputate al soggetto[29].
Si veda il seguente frammento in materia di crimen plagii:
D. 48.15.3 pr. Marc. 1 iud. publ.: Legis Fabiae crimine suppressi mancipii bona fide possessor non tenetur, id est qui ignorabat servum alienum, et qui voluntate domine putabat id agere, et ita de bona fide possessore ipsa lex scripta est: nam adicitur ‘si sciens dolo malo hoc fecerit’: et saepissime a principibus Severo et Antonino constitutum est, ne bonae fidei possessores hac lege teneantur.
Marciano, nel suo commento alle leges iudiciorum publicorum, scrive che al crimen di occultamento dello schiavo, represso ai sensi della lex Fabia, non tenetur il possessore di buona fede, ossia colui che ignorava l’altruità del servus e che credeva che quest’ultimo facesse ciò per volontà del padrone. La legge, prevista a favore del possessor ex fide bona, infatti, aggiunge ‘se fece ciò scientemente e con dolus malus’: e assai spesso gli imperatori Severo e Antonino disposero che i possessori di buona fede ne hac lege teneantur.
È pacifica, al pari del precedente caso, la significatività degli elementi di fatto rispetto all’operare dell’istituto: l’aver ignorato o travisato le circostanze riportate nel frammento sono chiari indici della buona fede dell’agente, escludenti il dolus malus.
Meno agile, invece, è individuare la concezione dell’errore di Marciano sottesa alle locuzioni crimine non tenetur/ne hac lege teneantur. Il giurista, secondo la ricostruzione più aderente al tenore letterale del passo e al senso del medesimo nel suo complesso, ponendosi dalla specola sostanziale-strutturale, sembra dire che, ai fini dell’integrazione della figura criminosa tipica, occorre l’elemento soggettivo, così sottintendendo la natura di ‘scriminante’ dell’ignorantia iuris.
Diverso, invece, lo scorcio aperto da un rescritto di Diocleziano e di Massimiano, in risposta a Callistene[30]:
C. 9.20.14 (Impp. Diocletianus et Maximianus AA. et CC. Callistheni a. 294): Plagii crimini accusatio cessat, si vos servos
L’accusa di crimen plagii contro schiavi e uomini liberi viene meno se l’imputato è da questi ultimi scagionato, non per occultare il reato, ma spinti da iusta ratio, vale a dire da elementi che giustifichino e rendano plausibile l’error: anche in questo caso, si manifesta la propensione a delimitare la tipologia di ignorantia facti rilevante.
Il tema, in questo caso, viene sviluppato sul terreno processuale: accusatio cessat potrebbe interpretarsi nel senso che l’accusa perde il proprio fondamento, determinando, così, la mancata celebrazione o prosecuzione del processo, a seconda del momento di riferimento.
Destano poi particolare interesse i seguenti frammenti delle Pauli Sententiae, relativi al SC Claudianum[31]:
Paul. Sent. 2.21a.12: Errore quae se putavit ancillam atque ideo alieni servi conturbernium secuta est, si postea liberam se sciens in contubernio eodem perseveraverit, efficitur ancilla … 14. Mulier ingenua, quae se sciens servo municipum iunxerit, etiam citra denuntiationem ancilla efficitur: non item, si nesciat. Nescisse autem videtur, quae comperta condicione contubernio se abstinuit, aut libertum putavit.
Nel § 12, si espone il caso di una donna che, credendo erroneamente di essere un’ancilla, ha intrapreso una relazione di contubernium con uno schiavo altrui e, una volta scoperto di essere libera, persevera nella sua condotta e, proprio per questo motivo, diverrà schiava, conformemente alle previsioni del SC Claudianum. L’esito è il medesimo (§ 14, primo capoverso) nell’ipotesi in cui la mulier ingenua si leghi a uno schiavo, conoscendone la condizione, e ciò anche a prescindere dalla mancata denuntiatio; tuttavia, non si giunge a questa soluzione ove la donna ignori lo status dell’uomo: spia dell’ignoranza, prosegue il passo, è l’interruzione del rapporto proibito una volta svelata la condicio servile.
L’ultima specie di ignorantia facti, presentata sul finire del secondo capoverso, ha per oggetto l’erronea credenza che l’uomo sia un liberto. Più che un’alternativa o un ulteriore indizio a favore del difetto di consapevolezza, la fattispecie sembra confermare, al pari delle precedenti, che solo lo scioglimento della relazione avrebbe preservato la donna dalle conseguenze del SC.
In via preliminare, è da precisare che la natura di ‘reato permanente’ non pare inficiare le riflessioni in tema di errore di fatto: nel testo delle Sententiae manca un riferimentoalla consumazione del crimen nel momento in cui la donna ha contezza dell’error, e questo consente di risolvere la questione al di fuori della cornice del ‘reato abituale’[32].
Quanto alla natura e all’efficacia dell’ignorantia facti, va osservato che il fulcro del frammento è l’applicazione della poena prevista dal senatus consultum, ossia il divenire ancilla. Ciò permette di presupporre l’avvenuta integrazione della fattispecie criminosa tipica, perfetta nella sua struttura, cosicché è da scartarsi lo schema della ‘scriminante’. La mancata comminazione della sanzione, allora, potrebbe essere l’effetto ora di una ‘scusante’, fondata sulla carenza dell’elemento soggettivo, ora di una ‘esimente’, chiamata in gioco dal ravvedimento operoso della donna: senonché, il tenore letterale del passo non offre dati idonei a dipanare la questione.
Merita di essere sottolineata nuovamente la propensione della giurisprudenza a specificare l’elemento fattuale che riveste di scusabilità l’errore, vale a dire lo scioglimento dell’unione[33]: tale azione lascia intendere che, con ogni probabilità, la mulier non avrebbe commesso il crimen in assenza di una falsa rappresentazione della realtà, alla quale era stata indotta da circostanze verosimili.
Nella medesima ottica si colloca questa testimonianza di Marciano[34], riguardante il crimen calumniae[35]:
D. 48.16.1.3 Marc. l.s. ad SC Turp.: Sed non utique qui non probat quod intendit protinus calumniari videtur: nam eius rei inquisitio arbitrio cognoscentis committitur, qui reo absoluto de accusatoris incipit consilio quaerere, qua mente ductus ad accusationem processit, et si quidem iustum eius errorem reppererit, absolvit eum, si vero in [evidenti] calumnia eum deprehenderit, legitimam poenam ei irrogat.
I sospetti di interpolazione si sono concentrati su segmenti in questa sede irrilevanti: su di essi, pertanto, non si indugerà[36].
Il passo precisa che la semplice accusa non provata in giudizio non può far subito ritenere che sia stata commessa una calumnia, poiché il giudice, una volta assolto il reus postulatus, deve indagare le ragioni che hanno indotto l’accusatore a formulare l’accusa infondata e, soprattutto, verificare che la sua condotta non sia stata determinata da iustus error. In quest’ultimo caso, infatti, il procedimento penale in cui il reo è imputato di calumnia si conclude con una sentenza di assoluzione (absolvit eum), quindi con un accertamento nel merito sulla base del materiale probatorio.
Se si prendono a prestito le odierne categorie della processualpenalistica, la ‘formula assolutoria’ qui probabilmente adottata sarebbe quella dell’assoluzione perché il fatto non costituisce reato, vuoi per mancanza della colpevolezza, vuoi per la sussistenza di una causa di giustificazione. Tuttavia, Marciano non esplicita la motivazione giuridica sottesa a un simile esito, ancorché sembri forse più aderente al senso del passo propendere per l’applicazione di una scusante, non rinvenendosi espressioni indici della mancata integrazione dell’illecito penale, quali non committit, non es reus.
Colpisce, inoltre, il sintagma iustus error: non qualsiasi errore scusa, ma solo quello ‘giustificato’[37]. Non pare casuale l’impiego dello stesso aggettivo, in precedenza riferito, nel rescritto imperiale, alla ratio che scagiona dall’accusa di plagio: va delineandosi, insomma, un lessico comune alle diverse fonti per indicare il medesimo fenomeno, come dimostra il seguente rescriptum,sempre in tema di calumnia[38]:
C. 9.46.3 (Imp. Alexander A. Eumeliano): Qui non probasse crimen quod intendit pronuntiatur, si calumniae non damnetur, detrimentum existimationis non patitur, non enim, si reus absolutus est, ex eo solo etiam accusator, qui potest iustam habuisse veniendi ad crimen rationem, calumniator credendus est.
L’accusatore non deve ritenersi calunniatore per il solo fatto che l’accusato è stato assolto (non enim, si reus absolutus est, ex eo solo etiam accusator … calumniator credendus est): potrebbe, infatti, aver avuto una buona ragione (iusta ratio) per intraprendere l’azione penale, risultata poi erronea.
Non paiono esservi elementi ostativi all’interpretazione di credendus est nell’accezione di ‘giudicare’: il contesto di riferimento potrebbe essere analogo a quello descritto da Marciano, ossia un processo penale da concludersi con un’assoluzione, poiché il fatto non sussiste, attesa l’esistenza di una iusta ratio, incompatibile con la consapevole volontà di calunniare.
5. L’ignorantia iuris quale imprudentia legis in Cic. inv. 2.95
Alla concorde lettura dell’error facti quale scusante, adottata tradizionalmente dalla dottrina romanistica, si contrappone l’irrisolto problema dell’error iuris. Lo sforzo ricostruttivo si è concentrato principalmente sulla portata della regula paolina ignorantia iuris nocet e sulle eccezioni alla stessa, allo scopo di vagliare la possibile vigenza di un principio, a seconda delle diverse epoche storiche, senza tuttavia raggiungere un approdo comune[39]. Tra i diversi sentieri tracciati in letteratura, ai fini della presente ricerca, meritano di essere ripercorsi i tratti che maggiormente valorizzano i dati emergenti dalle più antiche fonti ciceroniane[40].
Come si ricorderà, dall’analisi congiunta di Cic. inv. 1.15, 1.41, 2.94 e Rhet. Her. 1.24 è emersa sia la definizione di imprudentia qualemancata conoscenza di un elemento che induce in errore, idonea ad escludere l’elemento soggettivo, sia la necessità di valutare la plausibilità dell’errore ai fini della sua rilevanza[41].
È in questa cornice che si inserisce una significativa esemplificazione, ancorché fittizia, di imprudentia iuris[42]:
Cic. inv. 2.95: Imprudentia est, cum scisse aliquid is, qui arguitur, negatur; ut apud quosdam lex erat: ne quis Dianae vitulum immolaret. Nautae quidam, cum adversa tempestate in alto iactarentur, voverunt, si eo portu, quem conspiciebant, potiti essent, ei deo, qui ibi esset, se vitulum immolaturos. Casu erat in eo portu fanum Dianae eius, cui vitulum immolare non licebat. Imprudentes legis, cum exissent, vitulum immolaverunt. Accusantur. Intentio est: ‘Vitulum immolastis ei deo, cui non licebat’. Depulsio est in concessione posita. Ratio est: ‘Nescivi non licere’. Infirmatio est: ‘Tamen, quoniam fecisti, quod non licebat ex lege, supplicio dignus es’. Iudicatio est: cum id fecerit, quod non oportuerit, et id non oportere nescierit, sitne supplicio dignus?
L’episodio proposto dall’Arpinate narra che alcuni marinai, trascinati in alto mare dalla tempesta, fecero un voto del seguente tenore: se mai fossero riusciti ad attraccare nel porto avvistato da lontano, avrebbero sacrificato un vitello alla divinità laggiù venerata. Senonché, era presente in quel porto un tempio dedicato a Diana, alla quale non era lecito fare simili sacrifici. Ignorando la lex che sanciva tale divieto (imprudentes legis), una volta sbarcati immolarono un vitello. A questo punto, sono convenuti in giudizio, con l’accusa di aver compiuto un sacrificio a una divinità, cui non licebat. La difesa (depulsio) si fonda sull’ammissione del fatto e mira a ottenere la purgatio: ‘non sapevo che non fosse lecito’; la replica (infirmatio) è: ‘tuttavia, poiché lo hai fatto, poiché non era consentito dalla legge, meriti la pena’. Il punto da decidere è: ‘chi ha commesso un illecito ignorando l’antigiuridicità della condotta vietata, merita la pena?’.
La soluzione può desumersi dalle tecniche argomentative più adatte a far valere le ragioni ora dell’accusa, ora della difesa, suggerite in due loci di poco successivi:
Cic. inv. 2.99: … Nam in his omnibus primum, si quid res ipsa dabit facultatis, coniecturam induci ab accusatore oportebit, ut id, quod voluntate factum negabitur, consulto factum suspicione aliqua demonstretur; deinde inducere definitionem necessitudinis aut casus aut imprudentiae et exempla ad eam definitionem adiungere, in quibus imprudentia fuisse videatur aut casus aut necessitudo, et ab his id, quod reus inferat, separare, id est ostendere dissimile, quod [levius, facilius] non ignorabile, non fortuitum, non necessarium fuerit; postea demonstrare potuisse vitari: hac ratione provideri potuisse, si hoc aut illud fecisset, aut, nisi fecisset, praecaveri; et definitionibus ostendere non hanc imprudentiam aut casum aut necessitudinem, sed inertiam, neglegentiam, fatuitatem nominari oportere.
Cic. inv. 2.101: Defensor autem conversis omnibus his partibus poterit uti; maxime autem in voluntate defendenda commorabitur et in ea re adaugenda, quae voluntati fuerit inpedimento; et se plus, quam fecerit, facere non potuisse; et in omnibus rebus voluntatem spectari oportere; et se convinci non posse, quod absit a culpa; suo nomine communem hominum infirmitatem posse damnari. Deinde nihil esse indignius quam eum, qui culpa careat, supplicio non carere.
L’accusa, limitatamente alla parte di interesse, nega una possibile qualifica della fattispecie in chiave di imprudentia, dovendosi optare, piuttosto, per la neglegentia.
Specularmente, la replica del difensore poggia sulla necessità di considerare l’intenzione in tutte le situazioni, per poi soffermarsi sul fatto che l’imputato mai potrebbe convincersi di una culpa di cui è privo e concludere dicendo che non c’è niente di più ingiusto che condannarlo. Delimitato, così, il perimetro di riferimento, è ora possibile prospettare qualche osservazione.
La scelta di questo caso da parte di Cicerone pare tutt’altro che casuale. Il cuore del ragionamento, a ben guardare, si sostanzia nell’inevitabilità dell’imprudentia iuris: sarebbe quanto mai arduo ipotizzare in quale maniera i marinai avrebbero potuto avere contezza del divieto di sacrificare i vitelli a Diana in un porto a loro sconosciuto, visto solo da lontano.
Ecco allora che, per stabilire in concreto l’integrazione o meno degli elementi costitutivi dell’imprudentia o della neglegentia, è assai utile richiamare Rhet. Her. 1.24, contenentel’iter logico dell’accertamento che il giudice avrebbe dovuto effettuare nell’ambito del processo, ossia verificare, sulla base delle circostanze di fatto, se l’accusato poteva o meno sapere, se si adoperò per sapere oppure no, se ignorò per caso o per colpa.
Poiché è evidente che i marinai erano all’oscuro della norma per caso, è logico propendere per loro assoluzione, essendo attivabile – secondo lo schema retorico seguito da Cicerone e dall’anonimo – il meccanismo dell’efficacia scusante, a fronte della carenza dell’elemento soggettivo.
Non sembra superfluo aggiungere, inoltre, che tanto la collocazione dell’esempio in un trattato di retorica, quanto la sua redazione da parte di uno dei più celebri avvocati di Roma paiono chiari indizi a favore della diffusa applicazione della causa di esclusione della colpevolezza nella prassi della tarda repubblica.
Gioverà infine ricordare, prima di accingersi all’esegesi delle fonti giuridiche per approfondire la qualifica e l’efficacia dell’ignorantia iuris, che ancora oggi nel nostro sistema penalistico è richiesta l’inevitabilità, a partire da Corte Cost., 24 marzo 1988, n. 364, ai fini della scusabilità dell’errore di diritto[43].
6. L’ignorantia iuris nelle fonti giuridiche: gli illeciti penali di diritto privato
Al netto delle testimonianze in ordine agli illeciti di ius civile,nelle quali la centralità dell’error iuris nell’economia della decisione dei casi concreti parrebbe una forzatura interpretativa difficile da dimostrare[44], si può passare all’esame di alcuni frammenti concernenti gli illeciti di ius praetorium,che sembrano fornire un quadro più netto per una migliore comprensione del fenomeno giuridico in parola nella cornice degli illeciti penali di diritto privato.
D. 2.5.2.1 Paul. 1 ad ed.: Si quis in ius vocatus non ierit, ex causa a competenti iudice multa pro iurisdictione iudicis damnabitur: rusticitati enim hominis parcendum erit.
Della genuinità del brano si è dubitato in dottrina[45], ma è subito da dire che gli argomenti alla base dei sospetti sono tutt’altro che definitivi[46]: pare perciò utile porsi in una prospettiva conservativa.
Paolo scrive che se qualcuno, chiamato in giudizio, non vi andrà, sarà condannato dal giudice al pagamento di una multa, conformemente alla iurisdictio iudicis e secondo le circostanze del caso (causa, da intendersi qui come causa cognita): dovrà infatti essere ‘perdonata’ o ‘risparmiata’ (parcendum erit)la rozzezza del soggetto.
Per decifrare il significato tecnico-giuridico dell’efficacia dell’errore di diritto, è necessario soffermarsi innanzitutto sul verbo parco, qui impiegato nell’accezione di ‘tenere conto’: a ben guardare, solo in esito a tale valutazione delle circostanze fattuali operata dal giudice si chiama in gioco la rusticitas, condizione per se insufficiente a innescare gli effetti dell’ignorantia iuris, né tanto meno può essere ipotizzata l’esistenza di una regola generale in tal senso[47]. Il dato, inoltre, è utile per individuare il sistema processuale di riferimento, senz’altro ancora estraneo all’operare delle presunzioni[48].
Si ricaverebbe che, una volta accertata la derivazione dell’errore di diritto dalla rusticitas, fosse attivabile il meccanismo ‘scusante’[49], essendo qui indiscussa l’antigiuridicità del fatto. Da un punto di vista teorico, non vi sarebbero forse ostacoli alla qualifica della fattispecie in termini di ‘esimente’, ma la stringatezza del tenore letterale del frammento non consente di ricavare con sufficiente sicurezza elementi a supporto di questa ricostruzione.
Sempre nel quadro del riferimento alla rusticitas si inserisce il seguente rescritto di Gordiano:
C. 2.2.2 (Imp. Gordianus A. Nocturno a. 239): Venia edicti non petita patronum seu patronam eorumque parentes et liberos, heredes insuper, etsi extranei sint, a libertis seu liberis eorum non debere in ius vocari ius certissimum est: nec in ea re rusticitati venia praebeatur, cum naturali ratione honor eiusmodi personis debeatur. cum igitur confitearis patroni tui filium sine permissu praesidis in ius vocasse, poenam edicto perpetuo praestitutam rescriptum tibi concedi temeri desideras.
Ancorché vi siano delle riserve sull’autenticità del testo, proprio nel tratto nec in ea re rusticitati venia praebeatur, cum naturali ratione honor eiusmodi personis debeatur, dettate dalla presenza dei termini venia, naturali ratione ed eiusmodi, forse frutto di rimaneggiamenti postclassici[50], ciò non esclude la possibilità di impostare un discorso sulla fonte.
Nel caso riportato, l’imperatore nega la venia sia per l’ignoranza dell’editto al liberto che abbia convenuto in giudizio, senza il permesso del pretore o del praeses,il proprio patrono, sia per la condizione di rusticus, trattandosi di una condotta contraria al ‘diritto naturale’.
Ove si ritenga genuino il frammento, potrebbe qui riconoscersi un’ulteriore riduzione dell’ambito di rilevanza dell’errore di diritto, limitata alle norme di evidente fondamento etico: non vi è dubbio, infatti, che l’idea in sé di un procedimento giudiziario instaurato dal liberto contro il proprio patrono ripugnasse al sentimento comune dei Romani[51]. Senonché, è stato osservato che la norma richiedente quale presupposto necessario dell’esercizio dell’azione l’autorizzazione del pretore non presenta alcuna naturalis ratio immediatamente percepibile[52]. L’obiezione, tuttavia, non è insuperabile: ben si potrebbe ritenere che fosse del tutto contrario alla sensibilità romana concepire l’esistenza di una simile in ius vocatio, percepita come caso grave e peculiare, senza controllo alcuno da parte dell’autorità magistratuale; in altre parole, sarebbe stato ovvio che un siffatto giudizio dovesse essere posto sotto l’egida del pretore o del praeses e, di conseguenza, sarebbe stato impensabile ignorare l’esistenza di una norma così radicata e sentita dal punto di vista sociale.
Quanto all’efficacia dell’error iuris, l’impiego del lemma venia sembra suggerirne la natura di ‘causa di remissione della pena’, ma la ricostruzione della fattispecie non pare precludere in toto una diversa interpretazione in chiave di ‘esimente’.
Anche a voler sostenere la fattura compilatoria del brano, non sembra potersi comunque escludere che il nocciolo della questione riguardasse la chiamata in gioco dell’ignorantia iuris, motivo per cui i compilatori o le scuole post-classiche avrebbero aggiunto il riferimento alla rusticitas. Diversamente ritenendo, infatti, sarebbe quanto mai arduo individuare il quesito giuridico, caratterizzato da profili oggetto di discussione, sottoposto all’imperatore.
Si vada ora ad analizzare:
D. 29.5.3.21 Ulp. 50 ad ed.: Si quis ignorans occisum aperuerit, non debet hoc edicto teneri. 22. Et si sciens, non tamen dolo aperuit, aeque non tenebitur, si forte per imperitiam vel per rusticitatem ignarus edicti praetoris vel senatus consulti aperuit.
Per contestualizzare il passo, va detto che l’editto commentato da Ulpiano sanciva il divieto di aprire il testamento del de cuius ucciso, prima che fosse stata esperita la quaestio sull’uccisione del testatore ai sensi del senatoconsulto silaniano, pena il pagamento di una multa pari a centomila sesterzi. In questa cornice, il giurista si chiede se sia o meno tenuto a tali previsioni dell’editto chi abbia tenuto la condotta tipica del tutto ignaro dell’omicidio e chi, pur sapendolo, abbia agito senza dolo, ignaro dell’edictum o del senatusconsultum per la propria imperizia o rozzezza. In entrambi i casi, l’agente non tenebitur[53].
In via preliminare, si pone il problema della natura spuria se non dell’intero[54], quanto meno di alcune parti del paragrafo 22 (in specie, non vi è dubbio sulla frase forte per imperitiam vel rusticitatem), sulla quale non vi è uniformità di vedute. L’ipotesi ricostruttiva ritenuta preferibile circoscrive i sospetti di interpolazione alla frase poco sopra riportata[55], anche in considerazione della serrata concatenazione dei due paragrafi, con la salvezza, quindi, del dettato si ignarus edicti praetoris vel senatusconsulti aperuit.
Ciò posto, è possibile rilevare l’impostazione sostanziale del frammento, calibrata espressamente sull’elemento soggettivo: si ricava, infatti, che l’ignoranza cagionata da imperizia o rozzezza esclude il dolo. Di conseguenza, sembra qui rinvenirsi un caso in cui l’errore di diritto opera effettivamente come ‘scusante’ autonoma, ancorché relegata a una specifica ipotesi.
Si ponga ora mente a[56]:
D. 50.9.6 Scaev. 1 dig.: Municipii lege ita cautum erat: ἐάν τις ἔξω τοῦσυνέδριουδικάσεται, τούτε συνέδριουεἰργέσθωκαὶπροσαποτιννύτωδράχμαςχιλίας. Quaesitum est, an poenam sustinere debeat, qui ignorans adversus decretum fecit. Respondit et huiusmodi poenas adversus scientes paratas esse.
Il giurista, innanzitutto, riporta il divieto, contenuto in una norma municipale, che sanziona chiunque avesse giudicato fuori dalla curia con il pagamento di mille dracme. In seguito, si chiede se la pena debba essere applicata anche al soggetto che avesse violato il divieto per ignoranza del decretum municipale, concludendosi per la risposta negativa: manca invero nell’agente la scientia della lex municipii.
La soluzione scevoliana non è andata esente dall’accusa di ovvietà – parrebbe scontato, infatti, escludere l’applicazione del decreto municipale al civis Romanus che lo ignora[57] – ma non per questo perde la propria importanza. Sebbene le locuzioni an poenam sustinere debeat e poenas adversus scientes paratas esse siano forse allusive a una causa di esclusione della pena o a un’esimente, non va perso di vista il cuore del ragionamento, ossia il fatto che l’ignorantia iuris elide l’elemento soggettivo, svolgendo così una funzione di ‘scusante’[58].
Quanto agli illeciti compiuti da un giovane soldato, si legga:
D. 49.16.4.15 Arr. Men. 1 de re milit.: Examinantur autem causae semper emansionis et cur et ubi fuerit et quid egerit: et datur venia valetudini, affectioni parentium et adfinium, et si servum fugientem persecutus est vel si qua huiusmodi causa sit. sed et ignoranti adhuc disciplinam tironi ignoscitur.
Menandro, in questo testo escerpito dalla sua opera De re militari, enumera le cause di concessione della venia nell’ambito di un giudizio relativo all’emansio, ossia al trattenersi lontano dalla milizia oltre il tempo del permesso, per poi terminare specificando che per l’ignoranza della disciplina militare datur venia al tiro.
La chiusura del passo, a ben guardare, attesta che la mancata conoscenza della disciplina rilevava anche nella sfera dei delicta propria militum compiuti da giovani leve. Sembra qui potersi intravedere l’esemplificazione di un errore di diritto inevitabile che funge da ‘scusante’ per i soggetti agenti, attesa la loro superficiale e limitata padronanza del complesso di norme relative alla militia[59]; la venia, in questo caso, non pare essere impiegata nel suo significato tecnico-giuridico.
Infine, in ordine alle norme tributarie, si deve esaminare[60]:
D. 39.4.16.5 Marc. l.s. de delat.: Licet qui se ignorasse dicat, nihilo minus eum in poenam vectigalis incidere divus Adrianus constituit.
Il giurista riferisce che, sebbene il colpevole abbia affermato di ignorare (la lex sulle imposte), non per questo sarà esente dal loro pagamento, secondo quanto statuito da Adriano.
Il senso del frammento si fa più chiaro ove si consideri l’importanza rivestita dalla propositio – ossia dalla pubblicazione delle leges tributarie – per la vita dei contribuenti, che doveva senz’altro avvenire secondo adeguate forme di pubblicità, idonee a garantire la conoscibilità di simili previsioni legislative ai Romani: a riprova di ciò, basterà ricordare alcuni episodi riportanti, per esempio, l’opposto atteggiamento di Caligola, che fece scrivere in caratteri così piccoli da risultare illeggibili la lex locationis, per poi farla collocare in un luogo inaccessibile (Suet. Calig. 40-41)[61].
Per tornare a Marciano, il brano sembra dire che in tanto l’essere ignari delle regole sulle imposte non rileva, in quanto è impossibile che i cives non ne siano a conoscenza: per questo motivo, gli stessi dovranno corrispondere quanto dovuto, non essendone esonerati. L’elemento soggettivo dell’illecito, insomma, sarebbe integrato, di talché si potrebbe forse pensare che in questo caso l’errore di diritto sia stato invocato quale ‘scusante’.
La casistica esaminata in materia di illeciti pretori ha consentito di evidenziare l’emersione dell’autonoma rilevanza dell’ignorantia iuris strettamente ancorata a una valutazione delle circostanze di fatto che hanno indotto in errore il soggetto, così da verificare se egli fosse o meno in grado di evitarlo. La funzione attribuibile all’istituto, analogamente a quanto già osservato per l’error facti, è tutt’altro che univoca: si è visto, infatti, come la sua efficacia possa concretamente oscillare tra il modello di ‘scusante’, quello di ‘esimente’ e quello di ‘causa di remissione della pena’.
7. L’ignorantia iuris nelle fonti giuridiche: le ipotesi in materia di incestum e di falso testamentario
I testi addotti dalla dottrina sul problema dell’efficacia dell’ignorantia iuris relativi ai crimina riguardano l’incesto e il falso testamentario.
Per quanto concerne la prima figura criminosa, il dato testuale impone di richiamare D. 48.5.39(38) pr.-7 Pap. 36 quaest., passo tanto celebre quanto tormentato[62]: tuttavia, come è stato autorevolmente dimostrato, il riferimento all’error iuris è senz’altro di fattura compilatoria[63]. Ad ogni modo, ciò che preme evidenziare è che tale menzione, ancorché non genuina, nel mutato sistema processuale della cognitio extra ordinem,inerisce alla remissione della pena (crimen incesti remiserunt, al § 4; poenam … remittimus, al § 7), derivante dalla valutazione di una pluralità di fattori, tra cui figurano l’età e il ravvedimento operoso[64].
Di tale tendenza si sente l’eco nel seguente passo paolino, rappresentativo della giurisprudenza del III sec. d.C.:
Coll. 6.3.3: Nec socrum nec nurum nec privignam nec novercam aliquando citra poenam incesti uxorem ducere licet, sicut nec amitam nec materteram. Sed qui vel cognatam contra interdictum duxerit, remisso mulieri iuris errore ipse poenam adulterii lege Iulia patitur, non etiam ducta.
Sebbene il testo non sia in buone condizioni di dettato[65], ciò non basta a negarne la sostanziale classicità: tutt’altro che trascurabile, a tal proposito, la formulazione in termini di poena adulteriis lege Iulia[66].
Il cuore del brano, però, è remisso mulieris iuris errore, del quale occorre ora chiarire la portata. A mente di quanto sinora detto, l’assunto rappresenta il punto di approdo di una vicenda complessa, non sempre lineare, quale è quella del regime dell’incestum. Il richiamo all’ignorantia iuris, a differenza di quanto accadeva in precedenza, non è un argumentum ad abundantiam, ma rimette la pena alla donna nella fattispecie considerata, espressione di un contesto giuridico ormai mutato, in cui all’infirmitas sexus si collega la praesumptio dell’error iuris[67]. Sembra qui potersi scorgere un’anticipazione dell’approdo giustinianeo, Novella 12 del 535 d.C., in cui apertis verbis l’ignorantia assume un’autonoma rilevanza per le mulieres allo scopo di evitare la pena[68].
In sintesi, l’ignorantia iuris affiora nell’incestum quale causa di remissione della pena, dapprima ‘assorbita’ dall’infirmitas sexus e dall’aetas, per poi assumere i tratti di una vera e propria presunzione per talune categorie di persone nell’ambito della cognitio extra ordinem. L’idea di un’autonoma efficacia dell’error iuris, ancorché in nuce in alcune fonti precedenti, è prevista esplicitamente solo in Nov. 12, relativamente alle donne.
In ordine al falso testamentario, fondamentale è il seguente passo:
D. 48.10.15 pr. Call. 1 quaest.: Divus Claudius edicto praecepit adiciendum legi Corneliae, ut, si quis, cum alterius testamentum vel codicillos scriberet, legatum sibi sua manu scripserit, proinde teneatur ac si commisisset in legem Corneliam, et ne vel is venia detur, qui se ignorasse edicti severitatem praetendant. scribere autem sibi legatum videri non solum eum qui manu sua id facit, sed etiam qui per servum suum vel filium, quem in potestatem habet, dictante testatore legato honoratur.
Va premesso che il SC Libonianum de falso[69], in seguito integrato da un editto di Claudio, comminò la pena del crimen falsi della lex Cornelia[70] a colui che, incaricato di redigere un testamento o i codicilli altrui, inserisse in essi una disposizione a proprio favore.
Callistrato si chiede, a questo punto, se sia soggetto a questa pena – o se, invece, non sia possibile per lui servirsi di quel mezzo straordinario che è la grazia (venia) – colui che agì ignorando l’editto in parola, concludendo per la risposta negativa.
Il tenore letterale del brano fa propendere per un’ulteriore fattispecie a conferma del fatto che ignorantia iuris nocet[71], ma non è mancato chi ha capovolto i termini della questione, ritenendo che il giurista stesse enunciando un’eccezione rispetto alla generale regola della scusabilità[72], adducendo, inoltre, la natura compilatoria del frammento, ad opera della giurisprudenza post-classica, attesa la stranezza della previsione di una concessione di grazia proprio nel momento dell’introduzione di una norma penale[73]. Senonché, quest’ultimo filone di pensiero non va esente da obiezioni: al netto dei sospetti di interpolazione[74], una simile previsione ben potrebbe essere giustificata dalla rigidità del principio introdotto, soprattutto ove si ponga mente alla severità della pena comminata; in ogni caso, l’argomento è troppo debole per affermare la vigenza di un principio di segno contrario[75].
È più prudente fermarsi a sottolineare un dato incontrovertibile, vale a dire la qualificazione dell’ignorantia iuris quale motivo di concessione della grazia: in altre parole, il fatto resta un illecito, ma viene eccezionalmente scusato grazie alla venia, la cui portata fu verosimilmente ridotta dall’editto dell’imperatore Claudio[76].
Un’analoga conclusione sembra potersi ricavare anche da:
C. 9.23.5 (Imp. Alexander A. Gallicano mil. a. 225): Quod adhibitus ad testamentum commilitonis scribendum iussu eius servum tibi adscripsisti, pro non scripto habetur et ideo id legatum petere non potes. sed secutus tenorem indulgentiae meae poenam legis Corneliae tibi remitto, in quam credo te magis errore quam malitia incidisse.
Il soldato Gallicano, per ordine del commilitone, inserisce nel testamento di quest’ultimo un legato in proprio favore. Da un lato, la disposizione testamentaria sul piano del ius civile è invalida, pro non scripta, con la conseguente negazione di qualsivoglia petitio del legato; dall’altro, è integrata la condotta del crimen falsi, ma la pena è rimessa poiché l’imperatore crede che il miles abbia agito più per errore che per malitia. Detto diversamente, manca l’elemento soggettivo del reato, in quanto il soldato avrebbe agito senza conoscere le previsioni del ius commune, la cui ignoranza non gli può essere rimproverata in virtù della sua condizione assai peculiare: come sarà stabilito successivamente da Giustiniano (C. 6.30.22 pr.), arma etenim magis quam iura scire milites sacratissimus legislator existimavit.
Sarebbe precipitoso intravedere nel rescritto la qualificazione dell’errore di diritto come causa di esclusione della colpevolezza e perciò affermarne la generale efficacia ‘scusante’.
Il tenore della decisione, a ben guardare, è assai più cauto, la remissione della pena avviene eccezionalmente, in considerazione della qualifica soggettiva dell’agente[77]: il soldato, infatti, appartiene a una categoria di persone per le quali l’ignoranza del diritto comune andrà via via assumendo i tratti di una presunzione, analogamente ai minori e alle donne[78].
In conclusione, si può dire che l’ignorantia iuris, nell’ambito del falso testamentario, rappresenta una causa di concessione della venia o indulgentia, circoscritta al caso che nei rescripta è sottoposto all’imperatore.
8. Brevi considerazioni di sintesi sull’errore: un istituto polimorfo
L’esegesi dei frammenti appena conclusa ha riportato alla luce un istituto polimorfo.
Nel tentativo di fornire qualche considerazione ricostruttiva di sintesi, si può dire che, in specie con riguardo all’ignorantia facti, il fenomeno giuridico, pur restando immutato nella sua sostanza, poteva assumere contemporaneamente una pluralità di qualifiche e di funzioni, vuoi quella di causa di esclusione della colpevolezza (o scusante), prospettata dalle fonti retoriche ciceroniane più antiche e confermata da alcune testimonianze giuridiche successive, vuoi quella di causa di giustificazione (o scriminante), vuoi quella di causa di improcedibilità, vuoi quella di esimente, a seconda della specola – sostanziale o processuale – che risultava più utile adottare nel caso concreto per il singolo giurista, senza che fossero mai avvertiti, da un lato, i rischi di incompatibilità tra le diverse fisionomie, dall’altro, la necessità di un’elaborazione teorica univoca.
Una simile struttura ‘flessibile’ si riscontra anche nei frammenti relativi all’ignorantia iuris: alle ricordate qualifiche dell’error facti, ad essa estendibili, che si manifestano soprattutto nei passi concernenti gli illeciti penali di diritto privato, si aggiungono ora quella di causa di remissione della pena, ora quella di causa di concessione della venia, emergenti in particolar modo dalle fonti riguardanti gli illeciti penali di diritto pubblico.
Abstract: The essay investigates, in its historical dimension, the nature and the legal effect of error facti and error iuris in Roman criminal law. The exegesis of fragments of rhetorical works and legal sources discloses the polymorphic structure of this institution. In the end, the legal figure cannot be ascribed to a univocal legal category. It assumes a qualification based on the function performed in the specific case (justification, excuse, or bar to prosecution, as regards error facti and error iuris; the last one, moreover, can also be conceived as a cause of remission of the penalty or cause of venia), depending on the ‘substantial’ or ‘procedural’ perspective, adopted by each jurist.
Keywords: ignorantia facti; ignorantia iuris; justification; excuse; bar to prosecution; remission of the penality; venia; Roman criminal law.
* Università degli Studi di Verona (isabella.zambotto@univr.it). Dedico questo scritto ai miei genitori, sostenitori amorevoli, pazienti e instancabili dei miei progetti.
** Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
[1] Qualche parola va spesa in ordine alla distinzione appena evocata. Rilevato l’impiego di maleficium e delictum in ordine alla sfera degli illeciti penali di ius civile e di crimen in relazione a quella degli illeciti penali di diritto pubblico, giova ricordare che nessuno dei due termini pare raggiungere un utilizzo tecnico ed esclusivo nelle rispettive aree di competenza: così, di recente, S. Galeotti, ‘Delictum’ e ‘crimen’: la qualificazione dell’illecito nell’esperienza giuridica romana, in LR online, 2018, p. 16, disponibile al seguente url: https://europeanlegalroots.weebly.com/uploads/5/6/9/8/5698451/galeotti_2018.pdf (11 maggio 2022); cui si rinvia per una completa trattazione del tema; in precedenza, v. B. Albanese, s.v. Illecito (storia), in Enc. dir., vol. XX, Milano, 1970, p. 813; F. De Visscher, Les origines de l’obligation ‘ex delicto’, in RHD, 7 (1928), pp. 353 s. Di conseguenza, è da evitare un’impostazione concentrata sulla pura terminologia, come insegna M. Lauria, ‘Contractus’, ‘delictum’, ‘obligatio’, in SDHI, 4 (1938), pp. 164, 185. Il richiamo alle categorie generali di crimen e delictum, insomma, altro non può essere che il punto di approdo dell’analisi della natura pubblica o privata dei mezzi, rispettivamente di repressione e di persecuzione, dell’illecito: in questo senso, ex multis, E. Albertario, ‘Delictum’ e ‘crimen’ nel diritto romano-classico e nella legislazione giustinianea, Milano, 1924, p. 144, in nota; U. Brasiello, La repressione penale in diritto romano, Napoli, 1937, p. 14; Id., Note introduttive allo studio dei crimini romani, in SDHI, 12 (1946), pp. 149 s., 163; C. Gioffredi, I principi del diritto penale romano, Torino, 1970, pp. 18, 26; G. Longo, ‘Delictum’ e ‘crimen’, Milano, 1976, p. 60; P. Voci, Recensione a G. Longo, ‘Delictum’, cit., in Iura, 28 (1977), p. 219; L. Vacca, Azioni penali ‘ex delicto’, ne Il problema della pena criminale tra filosofia greca e diritto romano. Atti del deuxième Colloque de philosophie pénale. Cagliari, 20-22 aprile 1989, a cura di O. Diliberto, Napoli, 1993, p. 197, ora in Delitti privati e azioni penali. Scritti di diritto romano, a cura di B. Cortese - S. Galeotti - G. Guida - G. Rossetti, Napoli, 2015, p. 259; M. Pifferi, ‘Generalia Delictorum’. Il ‘Tractatus Criminalis’ di Tiberio Deciani e la ‘parte generale’ di diritto penale, Milano, 2006, pp. 172s.; G.P. Demuro, Il dolo, vol. I, Milano, 2007, p. 33; C. Masi Doria, L’illecito e le sue sanzioni, in Index, 25 (2007), p. 220; nella manualistica, v. G. Franciosi, Corso storico istituzionale di Diritto romano, Torino, 2014, p. 45; G. Valditara, Riflessioni sulla pena nella Roma repubblicana, Torino, 2015, p. 19; F. Costabile, Temi e problemi dell'evoluzione storica del Diritto pubblico romano, Torino, 2016, pp. 75 s.
[2] Come è noto, in estrema sintesi, la sostanza del fenomeno giuridico nelle due diverse epoche storiche consiste nella falsa rappresentazione della realtà, naturalistica (errore di fatto) o normativa (errore di diritto, cui è equiparata, sul piano giuridico, l’ignoranza), dicotomia oggi consacrata rispettivamente negli artt. 47 e 5 c.p. Senza pretesa di esaustività, per quanto concerne l’errore di fatto nel sistema penalistico odierno, cfr. R.A. Frosali, L’errore nella teoria del diritto penale, Roma, 1933; Id., s.v. Errore, in Noviss. dig. it., vol. VI, Torino, 1960, pp. 672 ss.; Id., L’errore nel diritto penale, in Studi in onore di F. Antolisei, vol. I, Milano, 1965, pp. 547 ss.;L. Galli, L’errore di fatto nel diritto penale, Milano, 1948;R. Santucci, s.v. Errore (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XV, Milano, 1966, pp. 280 ss.;F. Mantovani, L’errore nel diritto penale, in Studi in onore di G. Musotto, vol. III, Palermo, 1981, pp. 219 ss.;C.F. Grosso, s.v. Errore (dir. pen.), in Enc. giur. Treccani, vol. XIII, Roma, 1989, pp. 2 ss.; G. Flora, s.v. Errore, in Dig. disc. pen., vol. VI, Torino, 1990, p. 255 ss.; tra le trattazioni istituzionali, v. F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte generale, a cura di L. Conti, 16a ed., Milano, 2003, pp. 419 ss.;G. Fiandaca - E. Musco, Diritto penale. Parte generale, 8 a ed., Bologna, 2019, pp. 392 ss.; F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, 11a ed., Milano, 2020, pp. 394 ss.; A. Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte generale. Riveduta e aggiornata da V. Militello, M. Parodi Giustino e A. Sperna, 9a ed., Milano, 2020, pp. 445 ss.;F. Palazzo, Corso di diritto penale. Parte generale, Con la collaborazione di R. Bartoli, 8a ed., Torino, 2021, pp. 276 ss.;G. Marinucci - E. Dolcini - G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, 10a ed., Milano, 2021, pp. 376 ss.; D. Pulitanò, Diritto penale, 9a ed., Torino, 2021, pp. 298 ss.; per un approfondimento, cfr. A. Pagliaro, Il reato, in Trattato di diritto penale. Parte generale dir. C.F. Grosso - T. Padovani - A. Pagliaro,Milano, 2007, pp. 238 ss.; L. Risicato, L’errore di fatto, di diritto, su legge extrapenale e su legge penale, in Trattato di diritto penale. Parte generale, vol. II, Il reato a cura di A. Cadoppi - S. Canestrari - A. Manna - M. Papa, Torino, 2013,pp. 582 ss., cui si rinvia per ulteriori indicazioni di letteratura. Sull’errore di diritto, v. G. Penso, Ignoranza ed errore nel diritto penale, Messina, 1936;S. Piacenza, Errore ed ignoranza di diritto in materia penale, Torino, 1960;R.A. Frosali, s.v. Errore, cit., pp.672 ss.; R. Santucci, s.v. Errore, cit., pp. 292 ss.; G. Flora, s.v. Errore, cit., pp. 255 ss.;D. Pulitanò, s.v. Ignoranza della legge (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XX, Milano, 1970, pp. 23 ss.; Id., L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976;F. Bricola, s.v. Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., vol. XIX, Torino, 1973, pp. 7 ss.; M. Ronco, s.v. Ignoranza della legge (dir. pen.), in Enc. giur. Treccani, vol. XV, Roma, 1989, pp. 1 ss.; C.F. Grosso, s.v. Errore, cit., pp. 9 ss.; F. Palazzo, s.v. Ignoranza della legge penale, in Dig. disc. pen., vol. VI, Torino, 1990, pp. 122 ss.;tra le trattazioni istituzionali, v. F. Antolisei, Manuale, cit., pp. 412 ss.; G. Fiandaca - E. Musco, Diritto penale, cit., pp. 415 ss.; F. Mantovani, Diritto penale, cit., pp. 396 ss.; A. Pagliaro, Principi, cit., pp. 450 ss.; F. Palazzo, Corso, cit., pp. 276 ss., 422 ss.; G. Marinucci - E. Dolcini - G.L. Gatta, Manuale, cit., pp. 455 ss.; D. Pulitanò, Diritto penale, cit., pp. 315 ss.; per ulteriori approfondimenti, cfr. A. Pagliaro, Il reato, cit., pp. 242 ss.; L. Risicato, L’errore, cit.,pp. 598 ss.; nonché il lavoro monografico di M. Lanzi, ‘Error iuris’ e sistema penale. Attualità e prospettive, Torino, 2018, cui si rinvia per ulteriori indicazioni di letteratura; da ultimo, A. Vallini, s.v. ‘Culpa iuris’, in Enc. dir., I tematici, Reato colposo, vol. II, Milano, 2021, pp. 358 ss. Sviluppano le loro riflessioni in argomento quand’ancora era vigente il codice Zanardelli F. Carrara, Della ignoranza come scusa, in Opuscoli di diritto criminale, vol. VII, Lucca, 1877, pp. 385 ss.; G. Guidi, s.v. Ignoranza della legge penale, in Dig. it., vol. XIII, t. 1, Torino, 1902-1906, pp. 3 ss.;O. Condorelli, ‘Ignorantia iuris’, Catania, 1926, su cui si sofferma A.E. Cammarata, Sul fondamento del principio ‘ignorantia iuris non excusat’ (A proposito di O. Condorelli, ‘Ignorantia iuris’), in RIFD, 1928, pp. 327 ss. In giurisprudenza, fondamentale la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 5 c.p., nella parte in cui negava la scusabilità dell’errore inevitabile, Corte Cost., 24 marzo 1988, n. 364: per un commento della sentenza, cfr. G. Fiandaca, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della legge penale: ‘prima lettura’ della sentenza n. 364 del 1988; in Foro it., 1988, I, c. 1385; D. Pulitanò, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, p. 686; F. Palazzo, ‘Ignorantia legis’: vecchi limiti ed orizzonti nuovi della colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, pp. 920 ss.; L. Stortoni, L’introduzione nel sistema penale dell’errore scusabile di diritto: significati e prospettive, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, pp. 1313 ss.;T. Padovani, L’ignoranza inevitabile sulla legge penale e la declaratoria di incostituzionalitàparziale dell’art. 5 c.p., in Leg. pen., 1988, p. 449; G. Vassalli, L’inevitabilità dell’ignoranza della legge penale come causa generale di esclusione della colpevolezza, in Giur. cost., 1988, II, p. 3; M. Guardata, L’ignoranza della legge penale dopo l’intervento della Corte Costituzionale, in Cass. pen., 1988, p. 1152; M. Fumagalli Meraviglia, Tre decisioni sulla conoscibilità della legge, in Riv. intern. dir. uomo, 1988, p. 74; G. Flora, La difficile penetrazione del principio di colpevolezza: osservazioni per l’anniversario della sentenza costituzionale sull’art. 5 c.p., in Giur. it., 1989, IV, pp. 337 ss.
[3] Con ciò non si intende, quindi, tracciare un’esasperata linea di continuità tra l’esperienza giuridica romana e quella contemporanea, ma rilevare la riconducibilità dell’istituto alla tipologia di principi qui descritta con le parole di L. Garofalo, Concetti e vitalità del diritto penale romano, in ‘Iuris vincula’. Studi in onore di M. Talamanca, vol. IV, Napoli, 2001, p. 84, ora in Piccoli scritti di diritto penale romano, Padova, 2008, p. 102, da cui si cita. Con specifico riguardo all’errore di diritto, evidenziano significativi punti di contatto tra i due ‘sistemi’ H. Kupiszewski, ‘Ignorantia iuris nocet’, in ‘Sodalitas’. Scritti in onore di A. Guarino, vol. III, Napoli, 1984, p. 1357, n. 1; Th. Mayer-Maly, ‘Error iuris’, in ‘Ius humanitatis’. Festschrift zum 90. Geburtstag von A. Verdross, hrsg. H. Miehsler - E. Mock - B. Simma - I. Tammelo, Berlin, 1980, p. 150, n. 1; P. van Warmelo, ‘Ignorantia iuris’, in TR, 22 (1954), pp. 1 ss.
[4] Sui rapporti tra retorica forense e diritto si segnalano paradigmaticamente le seguenti opere, limitatamente agli ultimi decenni: F. Bona, Cicerone tra diritto e oratoria. Saggi su retorica e giurisprudenza nella tarda repubblica, Como, 1984;H. Braet, The Classical Doctrine of Status and the Rhetorical Theory of Argumentation, in Philosophy and Rhetoric, 20 (1987), pp. 79 ss.; L. Calboli Montefusco, La dottrina degli ‘status’ nella retorica greca e romana, Hildesheim - Zurich - New York, 1986; Ead., Logica, retorica e giurisprudenza nella dottrina degli ‘status’, in Per la storia del pensiero giuridico romano. Dall’età dei pontefici alla scuola di Servio. Atti del Seminario di San Marino. San Marino, 7-9 gennaio 1993, a cura di D. Mantovani, Torino, 1993, pp. 209 ss.; M. Miceli, La prova retorica tra esperienza romanistica e moderno processo penale, in Index, 26 (1998), pp. 241 ss.; G. Sposìto, Il luogo dell’oratore. Argomentazione topica e retorica forense in Cicerone, Napoli, 2001, in specie pp. 37 ss. sugli status causae; i contributi in Quintilian and the Law. The Art of Persuasion in Law and Politics, ed. O. Tellegen-Couperus, Leuven, 2003;R. Martini, Antica retorica giudiziaria (gli ‘status causae’), in Studi sen., 116 (2004), pp. 30 ss., anche in Diritto @ Storia, 2 (2004); U. Vincenti, Quel filo che lega la retorica al diritto nell’occidente giuridico, in La retorica fra scienza e professione legale. Questioni di metodo, a cura di G.A. Ferrari - M. Manzin, Milano, 2004, pp. 207 ss.; G. Santucci, Retorica e diritto: un primo approccio circa l’esperienza giuridica romana, in La retorica fra scienza e professione legale, cit., pp. 213 ss.; U. Vincenti, Argomenti e decisioni argomentate correttamente, in Retorica, processo, verità, a cura di F. Cavalla, Padova, 2005, pp. 109 ss.; Id., Introduzione alla retorica giuridica, Padova, 2018; G. La Bua, Diritto e retorica: Cicerone ‘iure peritus’in Seneca retore e Quintiliano, in ‘Ciceroniana’, vol. III,Atti del XII ‘Colloquium Tullianum’. Salamanca, 7-9 ottobre 2004, vol. XII, 2006, pp. 181 ss.; C. Masi Doria, Principi e regole. Valori e razionalità come forme del discorso giuridico, in Tra retorica e diritto. Linguaggi e forme argomentative nella tradizione giuridica. Incontro di studio. Trani, 22-23 maggio 2009, a cura di A. Lovato, Bari, 2011, pp. 19 ss.; R. Quadrato, Retorica e giurisprudenza: da Quintiliano a Gaio, in Tra retorica e diritto, cit., pp. 141 ss.; G. Cossa, I giuristi e la retorica, in Dogmengeschichte und historische Individualität der römischen Juristen. Storia dei dogmi e individualità storica dei giuristi romani. Atti del Seminario internazionale. Montepulciano 14-17 giugno 2011, a cura di C. Baldus - M. Miglietta - G. Santucci - E. Stolfi, Trento, 2012, pp. 299 ss.; A. Traversi, La difesa penale. Tecniche argomentative e oratorie, 5a ed., Milano, 2014; M.L. Biccari, Dalla pretesa giudiziale alla ‘narratio’ retorica (e viceversa). Spunti di riflessione sulla formazione dell’avvocato romano e la sua azione, Torino, 2017; A. Bellodi Ansaloni, Scienza giuridica e retorica forense, 3 a ed., Santarcangelo di Romagna, 2020. Per un primo sguardo sulla retorica, cfr. ex pluribus, O. Reboul, Introduzione alla retorica, trad. it., Bologna, 2002; B. Mortara Garavelli, Prima lezione di retorica, Roma - Bari, 2011.
[5] Da ultima, v. M.L. Biccari, Dalla pretesa giudiziale, cit., p. 53, n. 39: «proprio nella teoria retorica degli status si rileverebbe il vero punto di incontro tra retorica e diritto. La retorica, cioè, suggerendo al diritto gli status attraverso cui valutare e costruire l’interpretazione del concreto caso giuridico, diviene il supporto fondamentale nella pratica del foro». In argomento, fondamentali L. Calboli Montefusco, La dottrina degli ‘status’, cit.; Ead, Logica, cit., pp. 209 ss.;R. Martini, Antica retorica giudiziaria, cit., pp. 30 ss.; più di recente, A. Bellodi Ansaloni, Scienza giuridica, cit., pp. 187 s.
[6] Le definizioni sono ricavate da Rhet. Her. 1.24: Iuridicialis constitutio est cum factum convenit, sed iure an iniuria factum sit, quaeritur; Cic. inv. 1.12: Generis est controversia, cum et, quid factum sit, convenit et, quo id factum appellari oporteat, constat et tamen, quantum et cuiusmodi et omnino quale sit, quaeritur, hoc modo: iustum an iniustum, utile an inutile, et omnia, in quibus, quale sit id, quod factum est, quaeritur sine ulla nominis controversia.
[7] Così Rhet. Her. 1.24: … eius constitutionis partes duae sunt, quarum una absoluta, altera adsumptiva nominatur. Absoluta est cum id ipsum, quod factum est, ut aliud nihil foris adsumatur, recte factum est dicemus … Adsumptiva pars est cum per se defensio infirma est, adsumpta extraria re comprobatur. Adsumptivae partes sunt quattuor: concessio, remotio, criminis, translatio criminis, comparatio; Cic. inv. 1.15: Ac iudicialis quidem ipsa [et] in duas tribuitur partes, absolutam et adsumptivam. Absoluta est, quae ipsa in se continet iuris et iniuriae quaestionem; adsumptiva, quae ipsa ex se nihil dat firmi ad recusationem, foris autem aliquid defensionis adsumit. Eius partes sunt quattuor, concessio, remotio criminis, relatio criminis, comparatio.
[8] Sul punto, cfr. A. Bellodi Ansaloni, Scienza giuridica, cit., pp. 187 s.
[9] Nella teorica di Quintiliano, infatti, l’excusatio è un elemento indipendente, di fianco alla imminutio e alla deprecatio, a differenza della corrispondente purgatio nello schema seguito dall’Erenniana e da Cicerone, concepita quale ‘sottoparte’ della concessio: sul punto, cfr. L. Calboli Montefusco, La dottrina, cit., p. 132. Da ultima, sul valore giuridico dell’Institutio oratioria, cfr. M.L. Biccari, Dalla pretesa giudiziale, cit., pp. 49 ss.
[10] Condivide detta qualifica, seppur limitatamente al quadro restituito dall’opera dell’anonimo e da quella di Cicerone, F. Procchi, Plinio il giovane e la difesa di ‘C. Iulius Bassus’. Tra norma e persuasione, Pisa, 2012, p. 110. Le argomentazioni retoriche presentate dall’Institutio oratoria, invece, a detta dell’autore, avrebbero efficacia esimente. Per un approfondimento del modello quintilianeo, cfr. recentemente Id., Strategia e tecnica retorica nella ‘cognitio senatus’: a proposito di προκατάληψις in Plin. ‘ep.’ 3.9, in AUPA, 54 (2021), pp. 49 ss.
[11] In questi termini, per tutti, v. U. Zilletti, La dottrina dell’errore nella storia del diritto romano, Milano, 1961, pp. 201 s.
[12] Il passo fondamentale a tal proposito è Rhet. Her. 2.23, su cui v. C. Ferrini, Esposizione storica e dottrinale del diritto penale italiano, in Enciclopedia del diritto penale italiano, a cura di E. Pessina, vol. I, Milano, 1905, p. 68; U. Zilletti, La dottrina, cit., p. 203; T. Giaro, ‘Excusatio necessitatis’ nel diritto romano, Warsawa, 1982, pp. 15 ss., in cui sviluppa alcune riflessioni già formulate sinteticamente in Id., Diritto romano - filosofia e retorica greca. Premesse metodologiche per una ricerca sul concetto di necessità, in Klio, 61 (1979), pp. 1 ss.;O. Diliberto, Sull’applicazione dell’‘excusatio necessitatis’ ai ‘lapsi’, in ‘Sodalitas’. Scritti in onore di A. Guarino, vol. IV, Napoli, 1984, pp. 1771 ss.; ripreso in Id., La formazione della teologia cristiana: tra filosofia greca e diritto romano, in Pensiero giuridico romano e teologia cristiana tra il I e il IV secolo, a cura di G.M. Vian, Torino, 2020, pp. 1 ss.;A. Bellodi Ansaloni, Scienza giuridica, cit., p. 190.
[13] Tra i molti, cfr. C. Ferrini, Diritto penale romano. Parte generale, Torino, 1899, pp. 141 ss.; Id., Esposizione storica, cit., 68 s.; P. Voci, L’errore nel diritto romano, Milano, 1937, p. 181.
[14] In questo senso, cfr. U. Zilletti, La dottrina, cit., pp. 195 s.; anche per A. Guarino, L’ignoranza, cit., p. 274, diritto penale romano «è una espressione troppo vasta, che può essere pericolosamente fuorviante».
[15] A. Guarino, L’ignoranza, cit., p. 275.
[16] L’elenco di fonti, stilato da C. Ferrini, Diritto penale romano, cit., pp. 141 ss.; Id., Esposizione storica, cit., 68 ss., su cui ritorna P. Voci, L’errore, cit., p. 181, n. 1, è composto da D. 47.2.21.3 Paul. 40 ad Sab.; D. 47.2.35 pr. Pomp. 19 ad Sab.; D. 47.2.43.6 Ulp. 41 ad Sab.; D. 47.2.43.10-11 Ulp. 41 ad Sab.; D. 47.2.46.7 Ulp. 42 ad Sab.; D. 47.2.55.4 Gai 13 ad ed. prov.; D. 47.2.84 pr. Nerv. 1 resp.; D. 47.6.1.1 Ulp. 38 ad ed.; D. 47.8.2.20 Ulp. 54 ad ed.; D. 47.9.3.3 Ulp. 56 ad ed.; D. 47.10.4 Paul. 50 ad ed.; D. 47.10.12 Gai 22 ad ed. prov.; D. 47.10.17 pr. Ulp. 57 ad ed.
[17] D. 22.6.9 pr. Paul l.s. de iuris et facti ignorantia: Regula est iuris quidem ignorantiam cuique nocere, facti vero ignorantiam non nocere. videamus igitur, in quibus speciebus locum habere possit, ante praemisso quod minoribus viginti quinque annis ius ignorare permissum est. quod et in feminis in quibusdam causis propter sexus infirmitatem dicitur: et ideo sicubi non est delictum, sed iuris ignorantia, non laeduntur. hac ratione si minor viginti quinque annis filio familias crediderit, subvenitur ei, ut non videatur filio familias credidisse. I principali problemi relativi alla classicità e alla paternità del passo, nonché sul valore della regula paolina sono discussi soprattutto da A. Guarino, L’ignoranza, cit., pp. 171 ss.; U. Zilletti, La dottrina, cit., pp. 253 ss.; P. Voci, s.v. Errore (dir. rom.), in Enc. dir., vol. XV, Milano, 1966, p. 235, n. 50; H. Kupiszewski, ‘Ignorantia iuris nocet’, cit., pp. 1357 ss.; P. Cerami, ‘Ignorantia iuris’, cit., pp. 57 ss.
[18] D. 22.6.9.2 Paul. l.s. de iuris et facti ignorantia: Sed facti ignorantia ita demum cuique non nocet, si non ei summa neglegentia obiciatur: quid enim si omnes in civitate sciant, quod ille solus ignorat? et recte Labeo definit scientiam neque curiosissimi neque neglegentissimi hominis accipiendam, verum eius, qui cum eam rem curet, diligenter inquirendo notam habere possit. La definizione labeoniana, condivisa da Paolo, è lungi dall’avere portata generale e astratta: piuttosto, indica un criterio, fondato sulle norme della comune esperienza, per accertare l’assolvimento o meno dell’onere di conoscenza, alla luce delle circostanze di fatto. Per un commento del passo, v. U. Zilletti, La dottrina, cit., pp. 183 ss., che sostiene la classicità del passo, contro le mende formali eccepite da F. Vassalli, ‘Iuris et facti ignorantia’, in Studi sen., 30 (1914), pp. 20 ss., 23 s., ora in Studi giuridici, vol. III, t. 1, Milano, 1960, pp. 425 ss.; W. Kunkel, ‘Diligentia’, in ZSS, 45 (1925), p. 315. Al netto dei sospetti interpolazionistici, merita di essere evidenziato che il criterio ulpianeo della media diligentia, ancorché avvalorato da Paolo, non figura nelle testimonianze in argomento degli altri giuristi, tra cui, per esempio, D. 22.6.2 Nerat. 5 memb.: In omni parte error in iure non eodem loco quo facti ignorantia haberi debebit, cum ius finitum et possit esse et debeat, facti interpretatio plerumque etiam prudentissimos fallat, che propugna la più ampia scusabilità dell’ignorantia facti, in considerazione del fatto che anche i più accorti possono essere indotti in errore dall’interpretazione dei fatti, riservata istituzionalmente al iudex: sul punto, cfr. P. Cerami, ‘Ignorantia iuris’, in Sem. Compl., 4 (1993), p. 83; A. Burdese, Note sull’interpretazione in diritto romano, in BIDR, 91 (1988), p. 220.
[19] D. 47.2.21.3 Paul. 40 ad Sab.: Sed et si quis subripuit furto duos sacculos, unum decem alterum viginti, quorum alterum suum putavit, alterum scit alienum: profecto dicemus tantum unius, quem putavit alienum, furtum eum facere, quemadmodum si duo pocula abstulerit, quorum alterum suum putavit, alterum scit alienum: nam et hic unius fit furtum;D. 47.2.35 pr. Pomp. 19 ad Sab.: Si quis perferendum acceperit et scierit furtivum esse, constat, si deprehendatur, ipsum dumtaxat furem manifestum esse, si nescierit, neutrum, hunc, quia fur non sit, furem, quia deprehensus non sit; D. 47.2.84 pr. Nerv. 1 resp.: Si quis ex bonis eius, quem putabat mortuum, qui vivus erat, pro herede res adprehenderit, eum furtum non facere.
[20] D. 47.2.55.4 Gai 13 ad ed. prov.: Qui ferramenta sciens commodaverit ad effringendum ostium vel armarium, vel scalam sciens commodaverit ad ascendendum: licet nullum eius consilium principaliter ad furtum faciendum intervenerit, tamen furti actione tenetur.
[21] D. 47.2.43.6 Ulp. 41 ad Sab.: Sed si non fuit derelictum, putavit tamen derelictum, furti non tenetur; D. 47.2.43.10 Ulp. 41 ad Sab.: Si quis sponte rem iecit vel iactavit, non quasi pro derelicto habiturus, tuque hanc rem tuleris, an furti tenearis, celsus libro duodecimo digestorum quaerit. et ait: si quidem putasti pro derelicto habitam, non teneris. quod si non putasti, hic dubitari posse ait: et tamen magis defendit non teneri, quia, inquit, res non intervertitur ei, qui eam sponte reiecit; D. 47.2.43.11 Ulp. 41 ad Sab.: Si iactum ex nave factum alius tulerit, an furti teneatur? quaestio in eo est, an pro derelicto habitum sit. et si quidem derelinquentis animo iactavit, quod plerumque credendum est, cum sciat periturum, qui invenit suum fecit nec furti tenetur. si vero non hoc animo, sed hoc, ut, si salvum fuerit, haberet: ei qui invenit auferendum est, et si scit hoc qui invenit et animo furandi tenet, furti tenetur. enimvero si hoc animo, ut salvum faceret domino, furti non tenetur. quod si putans simpliciter iactatum, furti similiter non tenetur; D. 47.2.46.7 Ulp. 42 ad Sab.: Recte dictum est, qui putavit se domini voluntate rem attingere, non esse furem: quid enim dolo facit, qui putat dominum consensurum fuisse, sive falso id sive vere putet? is ergo solus fur est, qui adtrectavit, quod invito domino se facere scivit; D. 47.6.1.1 Ulp. 38 ad ed.: Haec autem facultas domino tribuitur totiens, quotiens ignorante eo furtum factum est: ceterum si sciente, facultas ei non erit data: nam et suo nomine et singulorum nomine conveniri potest noxali iudicio, nec una aestimatione, quam homo liber sufferret, defungi poterit: is autem accipitur scire, qui scit et potuit prohibere: scientiam enim spectare debemus, quae habet et voluntatem: ceterum si scit, prohibuit tamen, dicendum est usurum edicti beneficio.
[22] D. 47.8.2.20 Ulp. 54 ad ed.: Si publicanus pecus meum abduxerit, dum putat contra legem vectigalis aliquid a me factum: quamvis erraverit, agi tamen cum eo vi bonorum raptorum non posse Labeo ait: sane dolo caret: si tamen ideo inclusit, ne pascatur et ut fame periret, etiam utili lege Aquilia; D. 47.9.3.3 Ulp. 56 ad ed.: Non tantum autem qui rapuit, verum is quoque, qui recepit ex causis supra scriptis, tenetur, quia receptores non minus delinquunt quam adgressores. sed enim additum est ‘dolo malo’, quia non omnis qui recipit statim etiam delinquit, sed qui dolo malo recipit. quid enim, si ignarus recipit? aut quid, si ad hoc recepit, ut custodiret salvaque faceret ei qui amiserat? utique non debet teneri.
[23] D. 47.10.17 pr. Ulp. 57 ad ed.: Sed si unius permissu id fecero, si quidem solius eius esse putavi, nulli competit iniuriarum actio. plane si scii plurium, ei quidem, qui permisit, non competit iniuriarum actio, ceteris competit.
[24] D. 47.10.12 Gai 22 ad ed. prov.: Si quis de libertate aliquem in servitutem petat, quem sciat liberum esse, neque id propter evictionem, ut eam sibi conservet, faciat: iniuriarum actione tenetur.
[25] D. 47.10.4 Paul. 50 ad ed.: Si, cum servo meo pugnum ducere vellem, in proximo te stantem invitus percusserim, iniuriarum non teneor
[26] È stata convincentemente dimostrata, da parte della critica interpolazionistica, la natura spuria di un gruppo di frammenti ulpianei: in materia di adulterio, v. D. 48.5.18.1 Ulp. 2 ad l. iul. de adult.: Quid ergo, si non quidem denuntiavit, verum libellos accusatoris dedit, antequam nuberet, eaque, cum id cognovisset, nupsit, vel ignorans? puto non videri ei denuntiatum: idcirco non posse accusatorem ab ea incipere, in cui vel ignorans è un’alterazione glossematica, come evidenzia H. Levy, Der Hergang der römischen Ehescheidung, Weimar, 1925, p. 54, n. 2; sul lenocinio, cfr. D. 48.5.30 pr. Ulp. 40 de adult.: Mariti lenocinium lex coercuit, qui deprehensam uxorem in adulterio retinuit adulterumque dimisit: debuit enim uxori quoque irasci, quae matrimonium eius violavit. tunc autem puniendus est maritus, cum excusare ignorantiam suam non potest vel adumbrare patientiam praetextu incredibilitatis: idcirco enim lex ita locuta est ‘adulterum in domo deprehensum dimiserit’, quod voluerit in ipsa turpitudine prehendentem maritum coercere, alterato nel tratto tunc autem puniendus est maritus, cum excusare ignorantiam suam non potest vel adumbrare patientiam praetextu incredibilitatis come dimostrato da E. Volterra, Alcune innovazioni di Giustiniano al sistema classico di repressione dell’adulterio, in RIL, 63 (1930), pp. 189 s.; D. 48.5.30.4 Ulp. 4 de adult.: Quaestum autem ex adulterio uxoris facere videtur, qui quid accepit, ut adulteretur uxor: sive enim saepius sive semel accepit, non est eximendus: quaestum enim de adulterio uxoris facere proprie ille existimandus est, qui aliquid accepit, ut uxorem pateretur adulterari meretricio quodam genere. quod si patiatur uxorem delinquere non ob quaestum, sed neglegentiam vel culpam vel quandam patientiam vel nimiam credulitatem, extra legem positus videtur, interpolato da meretricio in poi secondo Id., Alcune innovazioni, cit., pp. 188 ss.; Id., ‘Delinquere’ nelle fonti giuridiche romane, in RISG, 5 (1930), p. 128. I sospetti interpolazionistici individuati sono condivisi da U. Zilletti, La dottrina, cit., pp. 105 s.
[27] Sulla ricostruzione del frammento, cfr. E. Levy, Verschollenheit und Ehe in antiken Rechten, in Gedächtnisschrift für E. Seckel, Berlin, 1927, pp. 155 ss. Per il commento, cfr. U. Zilletti, La dottrina, cit., pp. 106 s.; C. Gioffredi, I principi del diritto penale romano, Torino, 1970, p. 87; P. Giunti, Il valore della convivenza nella struttura del matrimonio romano: rivisitazione di un’antica ‘querelle’, in Sem. Compl., 12 (2000), pp. 139 ss., ora in Ead., ‘Consors vitae’. Matrimonio e ripudio in Roma antica, Milano, 2004, pp. 164 ss., richiamata da M. Ravizza, Sui rapporti tra matrimonio e ‘deportatio’ in età imperiale, in Riv. dir. rom., 14 (2014), p. 9, n. 50.
[28] Il frammento è stato esaminato soprattutto dalla specola dell’errore, mentre non ha rivestito un ruolo fondamentale nelle indagini relative al crimen adulterii, del quale sembra in ogni caso opportuno fornire alcuni riferimenti bibliografici essenziali, senza entrare qui ora nel merito della questione: tra i lavori degli ultimi decenni, v. M. Zablocka, Le modifiche introdotte nelle leggi matrimoniali augustee sotto la dinastia giulio-claudia, in BIDR, 89 (1986), pp. 396 ss.; G. Rizzelli, ‘Stuprum’ e ‘adulterium’ nella cultura augustea e la ‘lex Iulia de adulteriis’, in BIDR, 90 (1987), pp. 355 ss.; R. Astolfi, La ‘lex Iulia et Papia’, 4a ed., Milano, 1996; G. Rizzelli, ‘Lex Iulia de adulteriis’. Studi sulla disciplina di ‘adulterium’, ‘lenocinium’, ‘stuprum’, Lecce, 1997, su cui v. A. Burdese, Recensione a G. Rizzelli, ‘Lex Iulia’, cit., in SDHI, 63 (1997), pp. 555 ss.; T.A.J. McGinn, Prostitution, Sexuality and Law in Ancient Rome, Cambridge - New York, 1998, pp. 140 ss.; C. Fayer, La ‘familia romana’. Aspetti giuridici ed antiquari. Concubinato, divorzio, adulterio. Parte terza, Roma, 2005, pp. 189 ss.; su cui v. J.F. Stagl, Recensione a C. Fayer, La ‘familia’, cit., in ZSS, 125 (2008), pp. 912 ss.;G. Rizzelli, ‘Adulterium’. Immagini, etica, diritto, in Riv. dir. rom., 8 (2008), pp. 1 ss.; ora in ‘Ubi tu Gaius’. Modelli familiari, pratiche sociali e diritti delle persone nell’età del principato. Relazioni del convegno internazionale di diritto romano. Copanello, 4-7 giugno 2008, a cura di F. Milazzo,Milano, 2014, pp. 145 ss.; P. Panero Oria, ‘Ius occidendi et ius accusandi’ en la ‘lex Iulia de adulteriis coercendis’, Valencia, 2001; segnalata da C.M.A. Rinolfi, La repressione dei ‘crimina’ in diritto romano, in Diritto @ Storia, 5 (2006); J.G. Wolf, Die ‘lex Iulia de adulteriis coercendis’, in Iura, 62 (2014), pp. 47 ss.; F. Lucrezi, L’adulterio in diritto ebraico e romano. Studi sulla ‘Collatio’, Torino, 2020, pp. 67 ss.
[29] In questo senso, cfr. U. Zilletti, La dottrina, cit., pp. 195 ss.; in termini simili anche C. Gioffredi, I principi del diritto penale romano, cit., p. 87.
[30] Su questo passo, v. U. Zilletti, La dottrina, cit., p. 197; recentemente, nell’ambito di un più ampio studio sul crimen plagii, cfr. P.O. Cuneo, Sequestro di persona, riduzione in schiavitù e traffico di esseri umani. Studi sul ‘crimen plagii’ dall’età dioclezianea al V sec. d.C., Milano, 2018, p. 53.
[31] Il frammento solleva una pluralità di questioni: ci si limiterà, in questa sede, all’individuazione delle tematiche essenziali e alla relativa bibliografia. Per quanto concerne il profilo ricostruttivo, sospettano di interpolazione l’inciso ‘etiam … denuntiationem’ G. von Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, vol. II, Tübingen, 1911, p. 23; E. Volterra, Indice delle glosse, delle interpolazioni e delle principali ricostruzioni segnalate dalla critica nelle fonti pregiustinianee occidentali, in RISG, 8 (1935), pp. 107 ss., 389 ss.; ma v. anche S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, vol. I, Introduzione. Diritto delle persone. Le cose e i diritti sulle cose. Il possesso, 2a ed., Roma, 1908, p. 236, n. 1. Sterminata è la bibliografia sul SC Claudianum: si segnalano ex pluribus, W.W. Buckland: The Roman Law of Slavery. The Condition of the Slave in Private Law from Augustus to Justinian. Cambridge, 1908, pp. 401 ss.; G. May, L’activité juridique de l’empereur Claude, in RHDFE, 35 (1936), pp. 213 ss.; B. Albanese, Appunti sul Senatoconsulto Claudiano, ne Il circolo giuridico, 22 (1951), pp. 86 ss., ora in Scritti giuridici, a cura di M. Marrone, vol. I, Palermo, 1991, pp. 29 ss.; B. Biondi, Vicende postclassiche del SC Claudiano, in Iura, 3 (1952), pp. 142 ss.; M.A. de’ Dominicis, Di alcuni testi occidentali delle ‘Sententiae’ riflettenti la prassi postclassica, in Studi in onore di V. Arangio Ruiz nel XLV anno del suo insegnamento, vol. IV, Napoli, 1953, pp. 512 ss.;T. Rado, Le ‘senatus consultum Claudianum’, in Annales de la Faculté de Droit d’Istanbul, 3 (1954), pp. 44 ss.; H.R. Hoetnik, Autour du Sénatus-Consulte Claudien, in Droits de l’antiquité et sociologie juridique. Mélanges H. Lévy Bruhl, Paris, 1959, pp. 153 ss.; P.R.C. Weaver: Gaius i. 84 and the S.C. Claudianum, in CR, 14 (1964), pp. 137 ss.; J. Crook, Gaius, Institutes, I. 84-86, in CR,17 (1967), pp. 7 s.; E. Volterra, s.v. ‘Senatus consulta’, in Noviss. dig. it., vol. XVI, Torino, 1969, pp. 1047 ss.; O. Robinson, Slaves and the Criminal Law, in ZSS, 98 (1981), pp. 213 ss.;J. Gaudemet, Esclavage et Dépendance dans l’Antiquité. Bilan et Perspectives, in TR, 119 (1982), pp. 119 ss.; R.J.A. Talbert, The Senate of Imperial Rome, Princeton, 1984, pp. 431 ss.; J.-H. Michel, Du neuf sur ‘Gaius’?, in RIDA, 38 (1991), pp. 176 ss.; E. Herrmann-Otto, ‘Ex ancilla natus’. Untersuchungen zu den ‘hausgeborenen’ Sklaven und Sklavinnen im Westen des Römischen Kaiserreiches, Stuttgart, 1994, pp. 29 ss.; A.J. Boudewijn Sirks, ‘Ad senatus consultum Claudianum’, in ZSS, 111 (1994), pp. 436 s.; M. Munzinger, ‘Vincula deterrimae condicionis’. Die rechtliche Stellung der spätantiken Kolonen im Spannungsfeld zwischen Sklaverei und Freiheit, München, 1998, pp. 49 ss.; A. Storchi Marino, Restaurazione dei ‘mores’ e controllo della mobilità sociale a Roma nel I secolo d.C. Il ‘senatusconsultum Claudianum de poena feminarum quae servis coniugerentur’, in Femmes-Esclaves. Modèles d’interprétation anthropologique, économique, juridique. Atti del XXI colloquio internazionale GIREA. Lacco Ameni - Schia, 27-29 ottobre 1994, a cura di F. Reduzzi Merola - A. Storchi Marino, Napoli, 1999, pp. 391 ss.; H. Wieling, Die Begründung des Sklavenstatus nach ‘ius gentium’ und ‘ius civile’, Stuttgart, 1999, pp. 20 ss.; C. Masi Doria, In margine a PS. 2.21a.11, in Au-delà des frontières. Mélanges W. Wołodkiewicz, éd. M. Zablocka, vol. I, Warszawa, 2000, pp. 507 ss.; A.J. Boudewijn Sirks, Der Zweck der ‘Senatus Consultum Claudianum’ von 52 n. Ch., in ZSS, 122 (2005), pp. 138 ss.; P. Buongiorno, ‘Senatus consulta Claudianis temporibus facta’, Napoli, 2010, pp. 310 ss.; E. Herrmann-Otto, Sklaverei und Freilassung in der griechisch-römischen Welt, 2a ed., Darmstadt, 2017, pp. 226 ss.; J. Erdődy, ‘SC Claudianum’ – Halfway between Institutionalism and Natural Law Thiking, in Iustum Aequum Salutare, (16) 2020, pp. 13 ss. Tra questi si segnalano, con specifico riguardo al commento del passo in esame, B. Albanese, Appunti sul Senatoconsulto Claudiano, cit., pp. 86 ss.; M.A. de’ Dominicis, Di alcuni testi occidentali, cit., pp. 512 ss.; B. Biondi, Vicende postclassiche, cit., pp. 142 ss.; J. Erdődy, ‘SC Claudianum’, cit., pp. 22 s.; cui va aggiunto U. Zilletti, La dottrina, cit., pp. 198 s.
[32] Sul tema, cfr. U. Zilletti, La dottrina, cit., p. 198.
[33] L’interruzione del rapporto vietato quale indice della scusabilità dell’errore si rinviene anche in materia di incesto: a tal riguardo, si legga Coll. 6.5.1: His, qui incestas nuptias per errorem contrahunt, ne poenis subiciantur, ita demum clementia principum subvenit, si postea quam errorem suum rescierint, illico nefarias nuptias diremerint, che E. Volterra, Osservazioni sull’‘ignorantia iuris’ nel diritto penale romano, in BIDR, 38 (1930), p. 116; cfr. anche G. Lombardi, Ricerche in tema di ‘ius gentium’, Milano, 1946, p. 40; cui aderisce U. Zilletti, La dottrina, cit., p. 199. È utile richiamare anche Coll. 6.6.1: Qui sororis filiam uxorem duxerat per errorem, antequam praeveniretur a delatore, diremit coitum: quaero an adhuc possit accusari? Respondit: ei qui coitu sororis filiae bona fide abstinuit, poenam remitti palam est, quia qui errore cognito diremit coitum, creditur eius voluntatis fuisse, ut, si scisset se in eo necessitudinis gradu positum, non fuisset tale matrimonium copulaturus.
[34] Sul passo, cfr. H. Levy, Von den römischen Anklägervergehen, in ZSS, 53 (1933), p. 162, n. 7, ora in Gesammelte Schriften, vol. II, Köln, 1963, pp. 379 ss.; U. Zilletti, La dottrina, cit., p. 199; L. Fanizza, Delatori e accusatori. L’iniziativa nei processi di età imperiale, Roma, 1988, p. 57, n. 132;H.D. Spengler, Studien zur ‘interrogatio in iure’, München, 1994, p. 68 e n. 34; G. Zanon, Le strutture accusatorie della ‘cognitio extra ordinem’ nel principato, Padova, 1998, p. 18.
[35] In generale, sul crimen calumniae cfr. M. Lauria, ‘Calumnia’, in Studi in onore di U. Ratti, Milano, 1934, pp. 97 ss.; M. Lemosse, Recherches sur l’histoire du serment de ‘calumnia’, in TR, 21 (1953), pp. 30 ss.; ora in Études romanistiques, Clermont - Ferrand, 1991, pp. 335 ss.; U. Brasiello, s.v. Calunnia (dir. rom.), in Enc. dir., vol. V, Milano, 1959, pp. 814 ss.;T. Spagnuolo Vigorita, ‘Exsecranda pernicies’. Delatori e fisco nell’età di Costantino, Napoli, 1984; su cui v. C. Venturini, Recensione a T. Spagnuolo Vigorita, ‘Exsecranda pernicies’, cit., in Iura, 35 (1984), pp. 153 ss.; J.P. von Meincke, Recensione a T. Spagnuolo Vigorita, ‘Exsecranda pernicies’, cit., in ZSS, 104 (1987), pp. 887 ss.; H.J. Horstkotte, Recensione a T. Spagnuolo Vigorita, ‘Exsecranda pernicies’, cit., in Gnomon, 58 (1988), pp. 249 ss.; F. Botta, s.v. Delatori, in Enc. Oraziana, vol. II, Roma, 1987, pp. 161 ss.; L. Fanizza, Delatori e accusatori, cit.;D.A. Centola, Il ‘crimen calumniae’. Contributo allo studio del processo criminale romano, Napoli, 1999; L. Garofalo, La ‘calumnia’ in Roma antica, in Labeo, 48 (2002), pp. 121 ss.; S. Puliatti, Per una storia del ‘crimen calumniae’, in Index, 30 (2002), pp. 383 ss.;Y. Riviere, Les délateurs sous l’Empire romain, Roma, 2002; A.M. Giomaro, Per lo studio della ‘calumnia’. Aspetti di deontologia processuale in Roma antica, Torino, 2003; su cui v. S. Puliatti, Recensione ad A.M. Giomaro, Per lo studio della ‘calumnia’, cit., in Iura, 54 (2003), pp. 245 ss.; S. Sciortino, Intorno a ‘Interpretatio Theodosiani 9.39 De calumniatoribus’, in AUPA, 52 (2007-2008), pp. 215 ss.
[36] La versione proposta è quella di H. Levy, Von den römischen Anklägervergehen, cit., p. 162, n. 7, seguita da U. Zilletti, La dottrina, cit., p. 199.
[37] In senso contrario, cfr. A. Donatuti, ‘Iustus error’ e ‘iusta causa erroris’ nelle fonti romane, in AG, 86 (1921), p. 225, secondo cui iustus error assumerebbe in epoca classica il significato di errore effettivo, in contrapposizione a errore simulato, mentre in epoca giustinianea quello di errore scusabile. Rileva P. Voci, L’errore, cit., p. 233, che l’accezione classica proposta dall’autore non è condivisibile, in considerazione dello stile dei giuristi romani: sarebbero stati assai pedanti ove avessero avvertito, anche senza necessità, che l’errore non era simulato; condivide tale critica U. Zilletti, La dottrina, cit., p. 200, n. 116. Sembrerebbe fare eco al iustus error qui richiamato il seguente frammento ulpianeo, come prospettato da O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, vol. II, Lipsiae, 1889, p. 949: D. 22.6.6 Ulp. 18 ad l. Iul. et Pap.: Nec supina ignorantia ferenda factum ignorantis, ut nec scrupolosa inquisitio exigenda: scientia enim hoc modo aestimanda est, ut neque neglegentia crassa aut nimia securitas satis expedita sit neque delatoria curiositas exigatur, inserito in un’ipotetica rubrica denominata de delatoribus. Senonché, tanto l’Index interpolationum quae in Iustiniani Digestis inesse dicuntur, a cura di L. Mitteis, E. Levy ed E. Rabel, vol. I, Weimar, 1929, quanto P. Voci, L’errore, cit., p. 256, ne hanno convincentemente dimostrato la natura insiticia, di cui è spia il tentativo di generalizzazione; tuttavia, come rileva S. Perozzi, Istituzioni, vol. I,, cit., p. 149, n. 1, tale elemento non esclude necessariamente la classicità della sostanza del frammento; in senso adesivo, cfr. U. Zilletti, La dottrina dell’errore, cit., p. 200, n. 117.
[38] Sebbene le fonti dell’età severiana presentino aspetti sia della vecchia sia della nuova concezione di calumnia – su cui v., per tutti, D.A. Centola, Il ‘crimen calumniae’, cit., pp. 110 ss.; A.M. Giomaro, Per lo studio della ‘calumnia’, cit., pp. 17 ss. – è da ritenersi che il frammento in esame rifletta la concezione classica del crimen: in questo senso, cfr. M. Lauria, ‘Calumnia’, cit., p. 117, n. 1; U. Zilletti, La dottrina, cit., p. 200, n. 118.
[39] Quanto alla dottrina precritica, i sostenitori dell’opinione tralatizia, a favore dell’inescusabilità dell’error iuris quale regola generale (per tutti, W. Rein, Criminalrecht der Römer, Leipzig, 1844, pp. 214 s.; T. Mommsen, Römisches Strafrecht, Leipzig, 1899, pp. 92 s.) si contrappongono alla tesi di K. Binding, Die Normen und ihre Übertretung, vol. II, Schuld und Vorsatz, Leipzig, 1877, pp. 310 s. (ripreso poi in altri volumi dell’opera, vol. II, t. 2, 2a ed., 1916, Leipzig, pp. 680 s.; vol. III, Leipzig, 1918, pp. 52 s.), il quale – concependo la scientia quale presupposto del dolus malus – riteneva che l’errore di diritto scusasse al pari di quello di fatto. Tra i due poli concettuali si colloca la teoria di A. Pernice, ‘Labeo’, vol. II, t. 1, 2a ed., Halle, 1895, pp. 120 s., e di C. Ferrini, Diritto penale romano, cit., pp. 144 s. (anche se di tale distinzione vi è una primissima traccia in T. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., pp. 92 s.), secondo cui solo l’ignoranza di ‘norme di mera creazione politica’, tipizzanti mala quia prohibita,avrebbe scusato, per lo meno in certi casi, mentre la sua efficacia sarebbe stata esclusa nel caso in cui la mancata conoscenza fosse ricaduta su norme di chiaro ed evidente fondamento etico, relative a mala in se. L’impiego del ‘metodo interpolazionistico’ nelle ricerche della dottrina critica, invece, è finalizzata all’individuazione di due regimi, quello ‘classico’ e quello ‘giustinianeo’: per E. Volterra, Osservazioni sull’‘ignorantia iuris’ nel diritto penale romano, in BIDR, 38 (1930), pp. 75 ss., la regola classica era quella dell’inescusabilità dell’errore di diritto, mentre in epoca giustinianea il riferimento alla distinzione prospettata da Ferrini appare di fattura compilatoria; secondo F. De Martino, L’‘ignorantia iuris’ nel diritto penale romano, in SDHI, 3 (1937), pp. 387 ss. (ora in Scritti di diritto romano, vol. I, Roma, 1979, pp. 424 ss., nonché in Diritto, economia e società nel mondo romano, vol. II, Napoli, 1996, pp. 1 ss., sul saggio, v. C. Masi Doria, Francesco De Martino e l’‘ignorantia iuris’: un problema storico-giuridico tra Italia e Argentina, in Tra Italia e Argentina. Tradizione romanistica e culture dei giuristi, a cura di C. Masi Doria - C. Cascione, Napoli, 2013, pp. 361 ss.), l’ignorantia iuris scusava sempre in diritto classico e mai in quello giustinianeo, salvi i casi di venia aetatis e di infirmitas sexus; interessante è il riferimento, ancorché limitato a un cenno, alle opere retoriche, dalle quali sembra potersi ricavare che i retori riconoscessero nell’ignoranza della legge uno specifico motivo di scusa; P. Voci, L’errore, cit., pp. 178 s., inquadrato l’errore quale causa qualificatrice dell’illecito escludente il dolo, circoscrive la scusabilità dell’error iuris ai reati di mera creazione politica, in parte riprendendo l’impostazione di Ferrini, in tutte le epoche del diritto romano. Gli esiti sinora illustrati rappresentano il punto di partenza dell’indagine di A. Guarino, L’ignoranza, cit., pp. 266 ss., condotta alla luce della dicotomia tra illeciti di diritto privato e illeciti di diritto pubblico. In ordine ai primi, l’autore afferma la vigenza del principio ignorantia iuris nocet sia in epoca classica, sia in epoca giustinianea, avvertendo che molti dei frammenti che testualmente riportano ignorantia iuris sono alterati e che, in ogni caso, ciò non determina una sicura tendenza dell’epoca tarda ad ammettere eccezioni alla regula enunciata. Egli osserva, inoltre, come nelle fonti relative ai delicta non vi sia traccia della distinzione ferriniana. In merito ai secondi, in relazione al diritto classico, egli sostiene l’estraneità della questione all’ordo iudiciorum privatorum e ammette una sua considerazione, seppur parziale, nel sistema della cognitio extra ordinem, dove però risulta assorbita da ulteriori circostanze (aetas, sexus, militia) relegabili al campo dell’imputabilità; di marca post-classica, invece, sono le testimonianze che adducono l’ignorantia iuris come autonomo motivo di scusa: tali casi, tuttavia, non rappresentano altro che eccezioni rispetto alla regola generale dell’irrilevanza. Lo studio di van Warmelo, invece, si sofferma sulla matrice filosofico-religiosa, ancor prima che giuridica, del principio ignorantia iuris nocet, tradito in D. 22.6.9 pr. Paul. l.s. de iuris et facti ignorantia. Nel ritenere pacifica la vigenza, sia nel diritto classico, che in quello post-classico, della suddetta regula, l’autore reputa che le eccezioni rispetto alla medesima siano riconducibili sub specie di ‘iustus error’: in altre parole, a prescindere dall’oggetto (fatto o diritto) della falsa rappresentazione, è necessario che l’errore sia ‘scusabile’ per operare quale causa di esclusione della colpevolezza (P. van Warmelo, ‘Ignorantia iuris’, cit., in specie pp. 1 ss. per quanto riguarda il profilo filosofico, pp. 14 ss. sulla categoria del iustus error). U. Zilletti, La dottrina, cit., pp. 204 ss., condivide le conclusioni di Guarino, evidenziando che, a fronte di una generale irrilevanza dell’errore di diritto, vi sono alcuni casi, in tema di incesto e di falso testamentario, in cui l’istituto assume i tratti di causa di esclusione della pena; H. Kupiszewski, ‘Ignorantia iuris nocet’, cit., pp. 1358 ss., riflettendo sulle motivazioni sottese alla formulazione della regula paolina ignorantia iuris nocet, attribuisce fondamentale importanza alla conoscenza del diritto a Roma, elemento imprescindibile dell’educazione romana, nonché vera e propria virtù cittadina, attestata da una pluralità di fonti classiche, giuridiche e letterarie; diversa, invece, la situazione in epoca post-classica, in cui il ‘postulato’ di conoscere il ius diviene per il suddito un vero e proprio dovere, sancito in CTh. 1.1.2 e ribadito in C. 1.18.12. L.C. Winkel, ‘Error iuris nocet’: Rechtsirrtum als Problem der Rechtsordnung, Zutphen, 1985, pp. 165 ss., una volta approfondita l’origine filosofica, in specie la matrice aristotelica, del Rechtsirrtum, giunge ad affermare la vigenza del principio error iuris nocet nel diritto giustinianeo, eccezion fatta per le personae privilegiatae (minores, feminae, rustici, milites) in quest’epoca, a differenza della precedente, in cui la scusabilità veniva riconosciuta caso per caso. Da ultimo, nel dibattito relativo all’origine classica e all’attribuzione al giurista Paolo della regula di D. 22.6.9 pr., P. Cerami, ‘Ignorantia iuris’, cit., pp. 57 ss. adduce ulteriori elementi a favore dell’orientamento dottrinale che sostiene tanto la genuinità del frammento, quanto la paternità paolina del medesimo. In seguito, volge il proprio sguardo alle opere retoriche ciceroniane, così coltivando gli stimoli suggeriti dall’opera di De Martino, dalle quali è possibile dedurre la scusabilità dell’imprudentia legis, quale specie di purgatio, nei casi in cui la mancata conoscenza della norma fosse inevitabile per l’agente (per esempio, in ipotesi di ius controversum), soluzione che evoca la categoria di iustus error, approfondita da van Warmelo.
[40] Riferimenti in questo senso si rinvengono in F. De Martino, L’‘ignorantia’, cit., pp. 387 ss.; P. Cerami, ‘Ignorantia iuris’, cit., pp. 57 ss.
[41] Cfr. sopra, § 3.
[42] Sul passo, cfr. F. De Martino, L’‘ignorantia iuris’, cit., p. 417; P. Cerami, ‘Ignorantia iuris’, cit., pp. 71 ss.
[43] Per un commento della pronuncia, si rinvia agli autori citati in n. 1.
[44] Si tratta di Gai 2.50, in tema di furtum,riconducibile – come è stato autorevolmente dimostrato da A. Guarino, L’ignoranza, cit., pp. 276 s. – alla fattispecie dell’errore di fatto; contra,C. Ferrini, Diritto penale romano, cit., p. 152, secondo cui a scusare sarebbe l’ignoranza di una norma diversa da quella penale; P. Voci, L’errore, cit., pp. 186 s.; P. Cerami, ‘Ignorantia iuris’, cit., pp. 80 s., per il quale il ius controversum circa l’usucapibilità del partus ancillae farebbe deporre per un’ipotesi di riconoscimento della rilevanza dell’errore di diritto, in deroga a D. 22.6.4 Pomp. 13 ad Sab.;di D. 5.3.25.6 Ulp. 15 ad ed. va eccepita l’estraneità a qualsiasi riflessione penalistica, atteso che l’errore verte sulle norme ereditarie di ius civile, assieme a E. Volterra, Osservazioni, cit., pp. 93 s.; seguito da A. Guarino, L’ignoranza, cit., p. 278; quanto all’actio vi bonorum raptorum di I. 4.2.1, la ragione determinante l’assoluzione si sostanzia nelle motivazioni politiche, come ben evidenziano E. Volterra, Osservazioni, cit., p. 95; P. Voci, L’errore, cit., pp. 187 s.; A. Guarino, L’ignoranza, cit., p. 278; irrilevante sembra pure D. 3.2.11.4 Ulp. 6 ad ed., non solo per la più opportuna qualifica in termini di errore di fatto, ma anche per l’impossibilità di estendere ad altre fattispecie la disciplina della rilevanza dell’error iuris sancita nell’ambito dell’infamia, concettualmente distinta dalla pena (sul punto, cfr. P. Voci, L’errore, cit., pp. 189 s., sulla base di Plut. Num. 12; A. Guarino, L’ignoranza, cit., p. 279); infine, sempre nell’alveo dell’ignorantia facti, si pone l’ipotesi di corruptio dell’editto pretorio di D. 2.1.7.4 Ulp. 3 ad ed., su cui v. E. Volterra, Osservazioni, cit., pp. 89 s.; in senso adesivo, P. Voci, L’errore, cit., p. 192; F. De Martino, L’‘ignorantia iuris’, cit., p. 417, n. 118;A. Guarino, L’ignoranza, cit., p. 280.
[45] G. von Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, vol. IV, Tübingen, 1920, p. 165;F. Pringsheim, Die archaistische Tendenz Justinians, in Studi in onore di P. Bonfante, vol. I, Milano 1930, p. 583, n. 184.
[46] Non scartano la genuinità del testo P. Voci, L’errore, cit., p. 192; A. Guarino, L’ignoranza, cit., p. 280, sebbene dubiti della classicità del riferimento alla rusticitas, ancorché ritenga che «di essa abbia tenuto conto, sia pure in misura molto minore e sotto un profilo diverso, già il diritto classico»; Th. Mayer-Maly, ‘Rusticitas’, in Studi in onore di C. Sanfilippo, vol. I, Milano, 1982, pp. 330 ss.;da condividere, sul punto, l’osservazione di P. Cerami, ‘Ignorantia iuris’, cit., p. 61, n. 13: «per quanto attiene, poi, alla pretesa matrice postclassica della dispensa a favore di rustici e militari, la dottrina ha argomentato sulla base di asserite interpolazioni di testi giurisprudenziali e di costituzioni imperiali dell’età classica. In contrario è, però, da osservare che nessuna costituzione dell’età postclassica può essere addotta a sostegno delle asserite interpolazioni».
[47] Nega la presenza di una zwingenden Befreiungstatbestand Th. Mayer-Maly, ‘Rusticitas’, cit., p. 325.
[48] Sul punto, cfr. F. De Martino, L’‘ignorantia iuris’, cit., p. 409; C. Ferrini, Le presunzioni in diritto romano, in Riv. it. sc. giur., 14 (1892), pp. 258 ss., ora in Opere, vol. III, Milano, 1929, pp. 417 ss.; O. Gradenwitz, Interpolationen in den Pandekten, in ZSS, 7 (1888), pp. 70 ss. La dottrina è generalmente concorde nell’individuare l’origine delle presunzioni nel diritto bizantino: ex plurimis, cfr. G. Coppola, s.v.Presunzione, in Dig. it., vol. XIX, Torino, 1924, p. 870; P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano, 3a ed., Torino, 1946, p. 120;R. Reggi, s.v.Presunzione(dir. rom.), in Enc. dir., vol. XXV, Milano, 1986, pp. 255 ss.; ritiene, invece, che l’inquadramento tecnico-giuridico del fenomeno presuntivo sia avvenuto in epoca pre-giustinianea G. Donatuti, Le ‘praesumptiones iuris’ in diritto romano, in Ann. Perugia, 42 (1931), pp. 1 ss.; Id., Le ‘praesumptiones iuris’ come mezzi di svolgimento del diritto sostanziale, in Studi di diritto romano, vol. I, Milano, 1976, pp. 492 ss.
[49] Opta per tale qualifica dogmatica P. Voci, L’errore, cit., pp. 221 s. Contra,A. Guarino, L’ignoranza, cit., che intravede nella rusticitas una causa di incapacità o di limitata capacità. Sul punto si tornerà in seguito, ma è il caso di anticipare che la ricostruzione di Guarino sembra essere riferita a un’epoca successiva rispetto a quella considerata.
[50] A. Guarino, L’ignoranza, cit., p. 283.
[51] C. Ferrini, Diritto penale romano, cit., p. 149;E. Volterra, Osservazioni, cit., p. 82, richiamato nella nota a pié di pagina non numerata;P. Voci, L’errore, cit., pp. 193 s.
[52] A. Guarino, L’ignoranza, cit., p. 283.
[53] Sul passo, v. D. Dalla, ‘Senatus consultum Silanianum’, Milano, 1994, p. 46 e n. 12; L.C. Winkel, ‘Error iuris nocet’, cit., pp. 123 s.
[54] G. von Beseler, Beiträge, vol. IV, cit., p. 242; E. Volterra, Osservazioni, cit., p. 89; A. Guarino, L’ignoranza, cit., p. 281.
[55] F. De Martino, L’‘ignorantia iuris’, cit., pp. 414 s.; P. Voci, L’errore, cit., p. 193.
[56] Sul frammento, v. C. Ferrini, Diritto penale, cit., p. 149; E. Volterra, Osservazioni, cit., p. 91; P. Voci, L’errore, cit., p. 194; F. De Martino, L’‘ignorantia iuris’, cit., pp. 416 s.; A. Guarino, L’ignoranza, cit., p. 282.
[57] A. Guarino, L’ignoranza, cit., p. 282.
[58] In questo senso, P. Voci, L’errore, cit., p. 194; F. De Martino, L’‘ignorantia iuris’, cit., pp. 416 s.
[59] Sul passo, cfr. F. De Martino, L’‘ignorantia iuris’, cit., p. 417; con specifico riguardo alla militum disciplina,v. soprattuttoG.W. Currie, The Military Discipline of the Romans from the Founding of the City to the Close of the Republic, Bloomington, 1928; O. Mauch, Der lateinische Begriff ‘disciplina’. Eine Wortuntersuchung, Freiburg, 1941, pp. 72 ss.; A. Neumann, s.v. ‘Disciplina militaris’, in RE, vol. X Suppl., Stuttgart, 1965, pp. 142 ss.; V. Giuffré, ‘Militum disciplina’ e ‘ratio militaris’, in ANRW, vol. II, t. 13, Berlin - New York, 1980, p.253, n. 67; più in generale, fondamentali gli approfondimenti sul tema svolti dall’autore in Id., La letteratura ‘de re militari’. Appunti per una storia degli ordinamenti militari, Napoli, 1974; Id., Arrio Menandro e la letteratura ‘de re militari’, in Labeo, 20 (1974), pp. 27 ss.; Id., Testimonianze sul trattamento penale dei ‘milites’, Napoli, 1989; Id., Letture e ricerche sulla ‘res militaris’, voll. I e II, Napoli, 1996; Id., I ‘milites’ ed il ‘commune ius privatorum’, in International Network. ‘Impact of Empire’. The Impact of the Roman Army (200 B.C. - A.D. 476). Economics, Social, Political, Religious and Cultural Aspects. Capri, Italy, March 29-April 2, 2005, ed. L. de Blois - E. Lo Cascio, Leiden - Boston, 2007, pp. 129 ss.; in seguito, cfr.S.E. Phang, Roman Military Service. Ideologies of Discipline in the Late Republic and Early Principate, Cambridge - New York, 2008, p. 148; M.N. Faszcza, Research Problems Associated with the Roman Military Discipline of the Periods of the Republic and the Principate, in Res historica, 42 (2017), pp. 13 ss.
[60] Per un commento, v. H. Heinemann, Die Binding’sche Schuldlehre. Ein Beitrag zu ihrer Widerlegung, Freiburg, 1889, p. 23, confluita in Abhandlungen des kriminalistischen Seminars zu Marburg, hrsg. F. von Liszt, Freiburg, 1889, p. 273; C. Ferrini, Diritto penale romano, cit., p. 147; E. Volterra, Osservazioni, cit., pp. 82 s.; F. De Martino, L’‘ignorantia iuris’, cit., p. 417; A. Guarino, L’ignoranza, cit., p. 283; sotto il profilo tributario, v. soprattutto D. Rathbone, Nero’s Reforms of ‘Vectigalia’ and the Inscription of the ‘Lex Portorii Asiae’, in The Customs Law of Asia, ed. M. Cottier - M.H. Crawford - C.V. Crowther - J.-L. Ferrary - B.M. Levick - O. Salomies - M. Wörrle, Oxford, 2008, p. 271; G.D. Merola, ‘Edixit princeps ut leges cuiusque publici, occultae ad id tempus, proscriberentur’, in RIDA, 57 (2010), p. 303, n. 57.
[61] Così G.D. Merola, ‘Edixit princeps’, cit., p. 303.
[62] D. 48.5.39(38) pr. Pap. 36 quaest.: Si adulterium cum incesto committatur, ut puta cum privigna nuru noverca, mulier similiter quoque punietur: id enim remoto etiam adulterio eveniret. 1. Stuprum in sororis filiam si committatur, an adulterii poena sufficiat mari, considerandum est. occurrit, quod hic duplex admissum est, quia multum interest, errore matrimonium illicite contrahatur an contumacia iuris et sanguinis contumelia concurrant. 2. Quare mulier tunc demum eam poenam, quam mares, sustinebit, cum incestum iure gentium prohibitum admiserit: nam si sola iuris nostri observatio interveniet, mulier ab incesti crimine erit excusata. 3. Nonnumquam tamen et in maribus incesti crimina, quamquam natura graviora sunt, humanius quam adulterii tractari solent: si modo incestum per matrimonium illicitum contractum sit. 4. Fratres denique imperatores Claudiae crimen incesti propter aetatem remiserunt, sed distrahi coniunctionem illicitam iusserunt, cum alias adulterii crimen, quod pubertate delinquitur, non excusetur aetate. nam et mulieres in iure errantes incesti crimine non teneri supra dictum est, cum in adulterio commisso nullam habere possint excusationem. 5. Idem imperatores rescripserunt post divortium, quod cum noverca bona fide privignus fecerit, non esse crimen admittendum incesti. 6. Idem Pollioni in haec verba rescripserunt: ‘incestae nuptiae confirmari non solent: et ideo abstinenti tali matrimonio poenam praeteriti delicti, si nondum reus postulatus est, remittimus’. 7. Incestum autem, quod per illicitam matrimonii coniunctionem admittitur, excusari solet sexu vel aetate vel etiam puniendi correctione, quae bona fide intervenit, utique si error allegetur, et facilius, si nemo reum postulavit.
[63] Fondamentali, a tal proposito, E. Volterra, Osservazioni, cit., pp. 96 ss.; F. De Martino, L’‘ignorantia iuris’, cit., pp. 401 ss.; P. Voci, L’errore, cit., pp. 198 ss.; A. Guarino, Studi sull’‘incestum’, in ZSS, 63 (1943), pp. 188 ss.; G. Lombardi, Ricerche, cit., pp. 3 ss.; U. Zilletti, La dottrina, cit., pp. 204 ss. Sull’incestum in generale, v. Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., pp. 682 ss.; C. Ferrini, Diritto penale romano, cit., pp. 366 ss.; E. Weiss, Endogamie und Exogamie im römischen Kaiserreich, in ZSS, 29 (1908), pp. 340 ss.; Ph. Lotmar, ‘Lex Iulia de adulteriis’ und ‘incestum’, in Mélanges P.F. Girard, vol. II, Paris, 1912, pp. 119 ss.; F. Klingmüller, s.v. ‘Incestus’, in RE, vol. IX.2, Stuttgart, 1912, pp. 1246 ss.; P. Bonfante, Corso di diritto romano, vol. I, Diritto di famiglia, Roma, 1925, pp. 274 ss.; E. Volterra, Per la storia dell’‘accusatio adulterii iure mariti vel patris’, in Studi dell’Università di Cagliari, 7 (1928), pp. 1 ss., ora in Scritti giuridici, vol. I, Napoli, 1991, pp. 219 ss.; Id., In tema di ‘accusatio adulterii’, in Studi in onore di P. Bonfante, vol. II, Milano, 1930, pp. 109 ss., ora in Scritti giuridici, cit., pp. 313 ss.;U. Brasiello, La repressione criminale in diritto romano, Napoli, 1937, p. 521; C. Castello, Osservazioni sui divieti di matrimonio fra parenti ed affini. Raffronto dea concili della Chiesa e diritto romano, in RIL, 72 (1938-1939), pp. 319 ss.;A. Guarino, Studi sull’‘incestum’, in ZSS, 63 (1943), pp. 175 ss., ora in Pagine di diritto romano, vol. VII, Napoli, 1995, pp. 180 ss., da cui si citerà; G. Lombardi, Ricerche, cit., pp. 3 ss.; J. Gaudemet, ‘Iustum matrimonium’, in RIDA, 3 (1950), pp. 309 ss.; B. Biondi, Il diritto romano cristiano, vol. III, La famiglia. Rapporti patrimoniali. Diritto pubblico, Milano, 1954, pp. 478 s.; U. Brasiello, s.v. Incesto (dir. rom.), in Noviss. dig. it., vol. VIII, Torino, 1962, pp. 499 s.; J. Modrzejewski, Die Geschwisterehe in der hellenistischen Praxis und nach römischem Recht, in ZSS, 81 (1964), pp. 52 ss.; R. Bonini, Considerazioni in tema di impedimenti matrimoniali nel diritto postclassico e giustinianeo, in Studi in onore di B. Biondi, vol. I, Milano, 1965, pp. 485 ss.; O. Robleda, El matrimonio en derecho romano. Esencia, requisitos de validez, efectos, disolubilidad, Roma, 1970, pp. 181 ss.; Id., Matrimonio inexistente o nulo en derecho romano, in Studi in memoria di G. Donatuti, vol. III, Milano, 1973, pp. 1153 s.; G. Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche. Contributo alla storia della famiglia romana, vol. II, Napoli, 1976, pp. 29 ss.; Th. Mayer-Maly, Einsicht und Erkundigungspflicht, in Iura, 27 (1976), pp. 1 ss.; S. Roda, Il matrimonio fra cugini germani nella legislazione tardoimperiale, in SDHI, 45 (1979), pp. 289 ss.;Y. Thomas, Mariages endogamiques à Rome. Patrimoine, pouvoir et parenté depuis l’époque archaïque, in RHD, 58 (1980), pp. 345 ss.; T.J. Cornell, Some Observation on the ‘crimen incesti’, in Le délit religieux dans la cité antique. Actes de la table ronde de Rome, 6-7 avril 1978, Rome, 1981, pp. 27 ss.; A.D. Manfredini, La donna incestuosa, in AUFE, n.s., sez. V, 1 (1987), pp. 11 ss.; W. Formigoni Candini, In margine al divieto di torturare gli schiavi ‘in caput domini’, in AUFE, n.s., sez. V, 2 (1988), pp. 61 ss.; E. Franciosi, Il regime delle nozze incestuose nelle Novelle giustinianee, in Estudios in homenaje al Profesor Juan Iglesias, Madrid, 1988, pp. 727 ss.; V. Marotta, ‘Multa de iure sanxit’. Aspetti della politica del diritto di Antonino Pio, Milano, 1988, pp. 316 ss.; G. Franciosi, Famiglie e persone in Roma antica. Dall’età arcaica al Principato, Torino, 1989, pp. 147 ss.; D. Mantovani, Il problema d’origine dell’accusa popolare. Dalla ‘quaestio’ unilaterale alla ‘quaestio’ bilaterale, Padova, 1989, pp. 232 ss.; M. Bettini, Il divieto fino al ‘sesto grado’ incluso nel patrimonio romano, in Parenté et stratégies familiales dans l’antiquité romaine. Actes de la table ronde des 2-4 octobre 1986, Roma, 1990, pp. 27 ss.; S. Puliatti, Ricerche sulle novelle di Giustino II. La legislazione imperiale da Giustiniano I a Giustino II, vol. II, Problemi di diritto privato e di legislazione e politica religiosa, Milano, 1991, pp. 3 ss.; N. Scapini, Diritto e procedura penale nell’esperienza giuridica romana. Parma, 1992, pp. 110 s.; A. Guareschi, Le note di Marciano ai ‘de adulteriis libri duo’ di Papiniano, in Index, 21 (1993), pp. 453 ss.; G. Lanata, Figure dell’altro nella legislazione giustinianea, in Società e diritto nel mondo tardo antico, Torino, 1994, pp. 25 ss.; S. Puliatti, D. 48.5.39 (36 ‘quaest’.) e la problematica dell’incesto nell’elaborazione dottrinale di Papiniano, in Studi Parmensi, 43 (1997), pp. 153 ss.; B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, 2a ed., Milano, 1998, pp. 202, 296; T.A.J. McGinn, Prostitution, cit., pp. 140 ss.; S. Puliatti, ‘Incesti crimina’. Regime giuridico da Augusto a Giustiniano, Milano, 2001; C. Fayer, La ‘familia romana’, cit., pp. 29, 217 e n. 111, 314; recentemente, A. Cusmà Piccione, Vincoli parentali e divieti matrimoniali: le innovazioni della legislazione del IV sec. d.C. alla luce del pensiero cristiano, in AUPA, 55 (2012), pp. 191 ss.
[64] Una simile impostazione è ricalcata da D. 23.2.57a Marc. not. ad Pap. 2 adult.: Divus Marcus et Lucius imperatores Flaviae Tertullae per mensorem libertum ita rescripserunt: ‘Movemur et temporis diuturnitate, quo ignara iuris in matrimonio avunculi tui fuisti, et quod ab avia tua collocata es, et numero liberorum vestrorum: idcircoque cum haec omnia in unum concurrunt, confirmamus statum liberorum vestrorum in eo matrimonio quaesitorum, quod ante annos quadraginta contractum est, perinde atque si legitime concepti fuissent’; l’essere ignara iuris, a ben guardare, è solo uno degli elementi che inducono a ritenere lecite le nozze di Flavia Tertulla, a tutto vantaggio delle circostanze di fatto (la condotta assai risalente, la nascita di figli, l’ingenuità della sposa, l’influsso dell’ava e lo scioglimento della relazione), che trasudano ragioni di equità e di opportunità senz’altro meritevoli di essere considerate: sul frammento, v. A. Guarino, Studi, cit., pp. 243 ss.; Th. Mayer-Maly, ‘Error iuris’, cit., p. 164; C. Castello, Regola ed eccezione sulla ‘ignorantia iuris’, in Studi in onore di G. Tarello, vol. I, Milano, 1990, pp. 142 ss.; P. Cerami, ‘Ignorantia iuris’, cit., p. 76.
[65] Per la disamina delle interpolazioni, si rinvia a Ph. Lotmar, ‘Lex Iulia’, cit., p. 126; E. Volterra, Osservazioni, cit., p. 105; F. De Martino, L’‘ignorantia iuris’, cit., pp. 411 s., riconosciute anche da A. Guarino, Studi, cit., pp. 247 s. A favore della genuinità del passo, v. M. Lauria, ‘Calumnia’, cit., p. 108.
[66] L’argomento è messo a fuoco da A. Guarino, Studi, cit., p. 248.
[67] Sul punto, cfr. C. Ferrini, Le presunzioni, cit., pp. 417 ss.; A. Donatuti, Le ‘praesumptiones’, cit.; A. Guarino, Studi, cit., p. 249, il quale però ritiene che si possa parlare di una generale regola di scusabilità della donna.
[68] Nov. 12.1: Θεσπίζομεν τοίνυν, τοῦ λοιποῦ, εἴ τις ἀϑέμιτον καὶἐναντίον τῇ φύσει (ὃν ὁ νόμος incestόν τε καὶ nefariον καὶ damnatον καλεῖ) συναλλάξειε γάμον, εἴπερ οὐκ ἔχοι παῖδας ἐκ προτέρων γνησίων τε καὶἀμέμπτων αὐτῷ γενομένους γάμων, εὐϑὺς μὲν αὐτῷ τὴν τῶν οἰκείων πραγμάτων ἔκπτωσιν ἐπικεῖσϑαι, ἅμα δὲ καὶ τῶν ὀνόματι προικὸς ἐπιδεδομένων αὐτῷ μηδενὸς ἀπολαύειν, ἀλλὰ πάντα τῷ ταμείῳ προσκυροῦσϑαι. ἀνϑ᾽ὅτου γὰρ ἐξὸν γαμεῖν νενομισμένα παρανόμων ἐρᾷ, καὶ συγχεῖ μὲν γονάς, ἀδικεῖ δὲ τὰ γένη, πράττει δὲἀσεβῆ τε καὶἀνόσια, καὶ τοιαῦτά γε ἐπιϑυμεῖ, ὁποῖα πολλὰ καὶ τῶν ἀλόγων ἀποσείεται ζῴων, ἔστω γε αὐτῷ ποινὴ μὴ δήμευσις μόνον, ἀλλὰ καὶ ζώνης ἀφαίρεσις καὶἐξορία, καὶ εἴ γε εὐτελὴς εἴη, καὶ τοῦ σώματος αἰκισμός, ὅπως ἂν μάϑοι σωφρονεῖν καὶ εἴσω τῆς φύσεως μένειν, ἀλλὰ μὴ τρυφᾶν τε καὶἐρᾶν ὑπερόρια, καὶ τῶν παραδεδομένων ἡμῖν ἐκ τῆς φύσεως καταυϑαδιάζεσϑαι νόμων. καὶ τῆς γυναικός, εἰ τὸν νόμον ἐπισταμένη τούτου μὲν ἀμελήσειεν, ἀϑεμίτοις δὲἑαυτὴν ἐπιδοίη γάμοις, ὑπὸ τὴν αὐτὴν γινομένης ποινήν. Authenticum: Sancimus igitur, de cetero, si quis illicitas et contrarias naturae, quas lex incestas et nefandas et damnatas vocat, contraxerit nuptias, si quidem non habuerit filios ex prioribus legitimis et inculpabilibus sibi contractis nuptiis, mox ei suarum rerum casum imminere, simul autem et ea, quae nomine dotis data sunt ei, in nullo potiri, sed omnia aerario assignari, eo quod, dum licuerit nuptias facere legitimas, contra leges amaverit, et confuderit quidem sobolem, nocuerit autem et generi, egerit vero quae impia sunt et scelesta, et talia concupierit qualia plurima etiam irrationabilia amovent ammalia: sitque ei poena non confiscatio solum, sed etiam cinguli privatio et exilium, et si vilis fuerit, etiam corporis verberatio, quatenus discat caste vivere et intra naturam se continere, non autem delectari et amare ultra terminum et traditis nobis a natura etiam his legibus repugnare. Muliere quoque, si legem sciens hanc quidem neglexerit, incestis autem semetipsam tradiderit nuptiis, sub eadem constituenda poena.Per un approfondimento del contesto di emanazione della Novella, v. G. Luchetti, La legittimazione dei figli naturali nelle fonti tardo imperiali e giustinianee, Milano, 1990, p. 248, n. 130; recentemente, S. Puliatti, ‘Incesti crimina’, cit., pp. 49 ss., cui si rinvia anche per ulteriori riferimenti bibliografici; dalla specola dell’errore, per tutti, A. Guarino, Studi, cit., pp. 256 s. Per un excursus storico sul principio dell’ignorantia iuris connesso alla posizione della donna, fondamentale J. Beaucamp, Le statut de la femme à Byzance (4e-7e siècle), vol. I, Le droit imperial, Paris, 1990, pp. 79 ss.
[69] Sul SC Liboniamum, fondamentale E. Volterra, ‘Senatusconsulta’, cit., pp. 70 s.; nella letteratura più recente, v. ora M. Rizzi, ‘Poenam legis Corneliae … statuit’. L’apporto della legislazione imperiale allo sviluppo del falso in età classica, Roma - Bristol, 2020, pp. 55 ss., cui si rinvia anche per ulteriori riferimenti bibliografici.
[70] Su tale lex, v. W. Rein, Das Kriminalrecht der Römer von Romulus bis auf Justinian, Leipzig, 1844, pp. 774 ss.; G. Carnazza Rametta, Studio sul diritto penale dei romani, Messina, 1883 (rist. Roma, 1972), pp. 189 s.; G. Humbert, s.v. ‘Falsum’, in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, vol. II, t. 2, Paris, 1896, pp. 962 ss.; C. Ferrini, Diritto penale romano, cit.,pp. 393 ss.; E. Costa, Crimini e pene da Romolo a Giustiniano, Bologna, 1921, pp. 110 ss.; E. Levy, Gesetz und Richter im Kaiserlichen Strafrecht. Erster Teil. Die Strafzumessung, in BIDR, 45 (1938), pp. 60 ss., ora in Gesammelte Schriften, vol. II, Köln - Graz, 1963, pp. 435 ss.; G.G. Archi, Problemi in tema di falso nel diritto romano, Pavia, 1941, ora in Scritti di diritto romano, vol. III, Milano, 1981, pp. 1487 ss.; U. Brasiello, s.v. Falso (dir. rom.), in Noviss. dig. it.,vol. VII, Torino, 1957, pp. 34 ss.; E.E. Kocher, Überlieferter und ursprünglicher Anwendungsbereich der ‘Lex Cornelia de falsis’, Diss., München, 1965; M. Scarlata Fazio, s.v. Falsità e falso (storia), in Enc. dir.,vol. XVI, Milano, 1967, in specie pp. 506 ss.; G. Pugliese, Diritto penale romano, ne Il diritto romano. La costituzione - caratteri, fonti, diritto privato, diritto criminale, a cura di V. Arangio Ruiz - A. Guarino - G. Pugliese, Roma, 1980, pp. 294 ss.; F. Marino, Il falso testamentario nel diritto romano, in ZSS, 105 (1988), pp. 634 ss.; B. Santalucia, Diritto e processo penale, cit., pp. 149 ss.; M.P. Piazza, La disciplina del falso nel diritto romano, Padova, 1991, pp. 93 ss.; O.F. Robinson, The Criminal Law of Ancient Rome, London, 1995, pp. 36 ss. Alcuni cenni sono rinvenibili anche in R. Rilinger, ‘Humiliores’-‘honestiores’. Zu einer Dichotomie im Strafrecht der römischen Kaiserzeit, München, 1988, pp. 142 ss.; O. Robinson, An aspect of ‘falsum’, in TR, 60 (1992), pp. 29 ss.; P. Stein, The Crime of Fraud in the Uncodifed Civil Law, in Current Legal Problems, 46 (1993), pp. 135 ss.; M.U. Sperandio, ‘Dolus pro facto’. Alle radici del problema giuridico del tentativo, Napoli, 1998, pp. 30 ss.; S. Schiavo, Il falso documentale tra prevenzione e repressione. ‘Impositio fidei criminaliter agere civiliter agere’, Milano, 2007, pp. 119 ss. Di più recente, sul crimine di falso testamento v. anche R. Signorini, Un caso di falso testamentario: la vicenda di ‘Betitius Callinicus’, in Index, 43 (2015), pp. 176 ss.
[71] E. Volterra, Osservazioni, cit., p. 82; cui aderisce A. Guarino, L’ignoranza, cit., p. 287.
[72] Così A. Pernice, ‘Labeo’, cit., p. 120;C. Ferrini, Diritto penale romano, cit.,p. 148; P. Voci, L’errore, cit., p. 195.
[73] F. De Martino, L’‘ignorantia iuris’, cit., pp. 399 s.; seguito da U. Zilletti, La dottrina, cit., p. 209.
[74] A favore della genuinità del frammento et ne vel is venia detur, qui se ignorasse edicti severitatem praetendant, fondamentale B. Albanese, Sul senatoconsulto Liboniano, in AUPA, 36 (1976), pp. 318 ss., ora in Scritti giuridici, vol. II, Palermo, 1991, pp. 1406 ss., con adesione di P. Cerami, ‘Ignorantia iuris’, cit., p. 75.
[75] A. Guarino, L’ignoranza, cit., p. 287.
[76] In questo senso, M. Rizzi, ‘Poenam legis Corneliae’, cit., p. 56, n. 7. Di una simile applicazione sembrerebbe esserci traccia in C. 9.23.3 (Imp. Alexander A. Martiali a. 223): Senatusconsulto et edicto divi Claudii prohibitum est eos, qui ad scribenda testamenta adhibentur, quamvis dictante testatore aliquid emolumentum ipsius futurum scribere, et poena legis Corneliae facienti inrogata est: cuius veniam deprecantibus ob ignorantiam et profitentibus a relicto discedere raro amplissimo ordo vel divi principes veniam dederunt, e in C. 9.23.4 (Imp. Alexander A. Crescenti a. 225): Quae in testamento uxoris maritus sua manu legata sibi adscripserit, pro non scriptis habentur, et legis Corneliae poena, si venia impetrata non est, locum habet, ma nell’un caso il sospetto interpolazionistico verte proprio sul tratto in cui figura l’ignorantia (E. Volterra, Osservazioni, cit., pp. 86 s.; F. De Martino, L’‘ignorantia iuris’, cit., pp. 398 s.; P. Voci, L’errore, cit., p. 197; A. Guarino, L’ignoranza, cit., p. 289), nell’altro, invece, invece, la menzione probabilmente insiticia della venia, nonché il motivo della sua concessione,resta oscuro (E. Volterra, Osservazioni, cit., p. 85, n. 1; cui aderisce A. Guarino, L’ignoranza, cit., p. 289; contra,P. Voci, L’errore, cit., p. 197, n. 1; per un approfondimento sulle alterazioni del testo di C. 9.23.3, v. B. Albanese, Sul senatoconsulto Liboniano, cit., pp. 1415 ss.): in altre parole, la genericità delle previsioni nelle costituzioni appena viste impedisce di spingersi oltre, come suggerisce M. Rizzi, ‘Poenam legis Corneliae’, cit., pp. 60, 93 ss.
[77] In questo senso, A. Guarino, L’ignoranza, cit., p. 290. Contra,P. Voci, L’errore, cit., p. 197, che vede invece una netta correlazione, in chiave di scriminante, tra ignorantia iuris e assenza di malitia, senza dare troppo peso alla qualifica soggettiva dell’agente; in termini simili anche F. De Martino, L’‘ignorantia’, cit., p. 395, seppur con una riserva circa la genuinità di remissio. Sui milites, si rinvia alla bibliografia essenziale richiamata supra, n. 59.
[78] Sulla scusabilità dell’error iuris del soldato, seppur in altro contesto, cfr. C. 1.18.1 (Imp. Antoninus A. Maximo mil. a. 212): Quamvis, cum causam tuam ageres, ignorantia iuris propter simplicitatem armatae militiae adlegationes competentes omiseris, tamen si nondum satisfecisti, permitto tibi, si coeperis ex sententia conveniri, defensionibus tuis uti.