La relegazione di Ovidio
Mattia Milani
Assegnista di ricerca in Diritto romano, Università di Padova
La relegazione di Ovidio* **
English Title: The relegation of Ovid
Sommario: 1. Introduzione. 2. I due “crimina” ovidiani: il carmen … 3. (Segue) … e l’error. 4. La procedura. 5. La sanzione. 6. Conclusioni.
DOI: 10.26350/18277942_000062
1. Introduzione
Ovidio era all’apice della sua fama, nell’8 d.C., quando Augusto gli ordinò di abbandonare l’Italia e di trascorrere il resto dei suoi giorni a Tomi, una sperduta località della costa occidentale del Ponto Eusino (l’attuale Mar Nero).
Il poeta di Sulmona, allora cinquantenne[1], apprese che il suo destino era segnato verso la fine di ottobre di quell’anno[2], mentre si trovava presso l’isola d’Elba[3]. Non è chiaro se il messaggero che lo raggiunse in quei luoghi gli abbia dato notizia della punizione – tecnicamente, una relegazione – già disposta dal princeps nei suoi confronti[4], ovvero se si sia limitato a comunicargli che l’imperatore lo voleva vedere a Roma quanto prima, per un faccia a faccia che, in quest’ottica, precedette la pronuncia del bando a suo carico[5].
Sembra più probabile quest’ultima ipotesi.
Aurelio Cotta Massimo, insieme a Ovidio nei momenti in cui questi ricevette le infauste notizie provenienti dalla capitale[6], pare infatti gli abbia chiesto, stando a
- Pont. 2.3.85-88:
cum tibi quaerenti, num verus nuntius esset,
attulerat culpae quem mala fama meae,
inter confessum dubie dubieque negantem
haerebam …
se le voci che circolavano sul suo conto fossero vere, e non invece se lo fossero i fatti posti a fondamento della sua punizione.
Inoltre, da alcuni versi in cui il poeta ricorda quando Augusto gli rivolse parole di fuoco, ossia
Ov. trist. 2.133-134:
Tristibus invectus verbis – ita principe dignum –
ultus es offensas, ut decet, ipse tuas.
sembra lecito inferire che un incontro tra i due avesse avuto luogo[7].
Non possiamo tuttavia esserne sicuri.
Ciò che invece sappiamo è che il Sulmonese abbandonò frettolosamente l’isola d’Elba, per far ritorno quanto prima nella capitale. Gli era stato concesso poco tempo per preparare la sua partenza, come risulta dai versi che aprono Ov. trist. 1.3[8].
Non ci è noto se Augusto avesse o meno previsto un aggravamento della sanzione a carico di Ovidio nel caso in cui questi avesse tergiversato troppo prima di abbandonare l’Italia[9]. È tuttavia una circostanza piuttosto probabile, almeno secondo Luigi Labruna[10], considerando che il poeta si imbarcò da un porto dell’Adriatico – verosimilmente Brindisi[11] – ai primi di novembre di quell’anno[12]: un periodo non certo indicato per compiere lunghe traversate via mare[13]. Il maltempo, in effetti, rallentò notevolmente il suo viaggio[14], mettendo anche a serio rischio la sua incolumità[15]: giunse a Tomi solo alla fine di marzo del 9 d.C.[16].
Quanto alle condotte che indussero Augusto a relegare il poeta ai confini estremi dell’impero (cioè alla fine del mondo, per un romano di allora)[17], esse rimangono avvolte da un fitto velo di mistero: un mistero su cui gli studiosi non hanno mai smesso di interrogarsi[18], senza giungere peraltro a soluzioni condivise.
La ragione è legata in massima parte all’assenza di fonti in argomento, al di là delle testimonianze – inevitabilmente di parte[19] – di Ovidio stesso, peraltro piuttosto reticente, come si vedrà, nel dichiarare quali fossero le colpe che il princeps gli attribuiva.
Nessuno dei contemporanei del poeta parla delle sue vicende: un segno dei tempi, è stato detto[20], e del clima di sospetto che pervadeva la Roma augustea.
Alcuni cenni circa la permanenza di Ovidio a Tomi nell’ultimo tratto della sua esistenza si trovano in Plinio il Vecchio (nat. 32.54.152) e in Stazio (silv. 1.2.254-255), i quali però non riferiscono alcunché in ordine alle ragioni del suo allontanamento forzato dalla capitale. Qualche informazione in più riportano l’Epitome de Caesaribus[21] e i Carmina di Sidonio Apollinare[22]: testimonianze su cui la dottrina tende però a fare scarso affidamento[23], soprattutto perché composte in un’epoca alquanto lontana rispetto alle vicende ovidiane[24].
Le opere del Sulmonese, al contrario, non mancano di offrire indizi circa le ragioni della sua relegazione[25], ma è del tutto assente una descrizione chiara di quali condotte avessero meritato una simile punizione.
Ovidio era convinto che fosse più prudente passare sotto silenzio i fatti in cui era rimasto coinvolto[26]: parlarne, a suo dire, avrebbe riaperto le ferite causate ad Augusto stesso[27] – segno, dunque, di come i suoi comportamenti avessero in qualche modo colpito direttamente il princeps[28] –, scoraggiandolo dal perdonare il poeta o, quanto meno, dall’autorizzare un suo rientro in patria.
A parte ciò, Ovidio ripete più volte che la causa della sua relegazione a Tomi era legata al suo ingenium, alla sua opera poetica[29]. È un carmen, scrive, che ha causato la sua rovina[30], e questo carmen viene da lui stesso identificato nell’Ars amatoria[31].
Al contempo, però, non nasconde come vi fosse dell’altro.
Lo fa dire al dio dell’Amore, in un dialogo intrattenuto in sogno con il poeta: dopo averlo rassicurato che ‘nullum crimen’ vi è nella sua Ars, Amore dichiara ‘aliud quod te laeserit esse magis’[32]:
Ov. Pont. 3.3.70-72:
Artibus et nullum crimen inesse tuis.
Utque hoc, sic utinam defendere cetera possem!
Scis aliud quod te laeserit esse magis.
In un altro notissimo passaggio, poi, Ovidio “confessa” di essersi macchiato di due crimina, un carmen e un error, aggiungendo che solo del primo si sente libero di parlare[33]:
- trist. 2.207-208:
Perdiderint cum me duo crimina, carmen et error,
alterius facti culpa silenda mihi:
I riferimenti a un carmen e a un error, e all’esigenza di tenere sotto silenzio il secondo, tornano in maniera costante all’interno della produzione ovidiana dal confino[34].
Per la verità, la dottrina si è mostrata scettica circa la possibilità che carmen ed error abbiano avuto lo stesso peso nell’indurre Augusto ad allontanare per sempre il poeta da Roma. In molti, facendo leva sulla notevole distanza temporale – almeno sette/otto anni, se non di più[35] – che separa l’apparizione dell’Ars amatoria dalla condanna del Sulmonese[36], hanno denunciato il carattere pretestuoso delle accuse mosse nei suoi confronti in relazione a tale opera e, in particolare, rispetto al messaggio lascivo e dissacrante che questa avrebbe diffuso, specie tra le più giovani generazioni[37]. Non è dunque inconsueto imbattersi in ricostruzioni che attribuiscono un rilievo nettamente preponderante all’error così spesso menzionato dal poeta nei suoi scritti.
Gli studiosi, nel tentativo di determinare in cosa consistesse questo error, hanno formulato le ipotesi più varie, evocando intrighi di corte, rapporti proibiti con donne della casa imperiale, scandali sessuali, partecipazioni a riti misterici o a culti vietati, lotte politiche, sospetti di congiure, e molto altro ancora[38].
Nonostante la vasta mole di studi in argomento, non appare del tutto inutile tornare ad affrontare il tema dell’“esilio”[39] ovidiano e delle cause che lo determinarono, nel tentativo di inquadrare giuridicamente il caso che lo vide coinvolto: un profilo, questo, talvolta lasciato in secondo piano dalla dottrina[40], interessata piuttosto a determinare quali condotte avesse materialmente tenuto il poeta per meritare la punizione inflittagli.
Si tratta di una strada che le pagine composte da Ovidio dopo il suo allontanamento forzato da Roma, in particolare i Tristia[41]e le Epistulae ex Ponto, mi pare permettano di percorrere.
In una certa misura, infatti, tali opere formano delle articolate linee difensive della posizione del loro autore[42], volte a persuadere Augusto – anche attraverso l’“intercessione” dei vari destinatari dei singoli poemi che le compongono e, in generale, della platea dei lettori a cui si rivolgevano[43] – a ritirare la condanna pronunciata nei suoi confronti o, quanto meno, a mitigarne la durezza (avvicinando, ad esempio, il luogo di relegazione all’Italia e a Roma)[44].
Il poeta di Sulmona, coerentemente con la sua formazione[45], si è peraltro servito in più frangenti di termini, espressioni e modi di ragionare riconducibili all’ambito giuridico[46], secondo una tendenza che emerge anche in altre sue opere, come efficacemente messo in luce da più di un autore[47].
Il combinarsi di questi elementi giustifica – almeno a mio modo di vedere – il tentativo che sarà condotto nelle prossime pagine di determinare, nei limiti del possibile, a che titolo (cioè per quale o quali fattispecie di reato), sulla scorta di quali poteri e irrogando quale sanzione Augusto costrinse il più grande poeta della Roma del tempo ad abbandonare la capitale e a concludere la sua esistenza in una sperduta località del Mar Nero[48].
2. I due “crimina” ovidiani: il carmen …
Conviene avviare l’indagine partendo dal modo in cui il poeta presenta le cause che portarono alla sua relegazione e, in particolare, dalla prima di esse: il carmen.
È veramente difficile sostenere, come pur è stato fatto[49], che questo carmen,più volte indicato dal Sulmonese quale ragione ufficiale del suo confinamento a Tomi, possa consistere in qualcosa di diverso dall’Ars amatoria[50].
Una simile conclusione confligge però non solo con i numerosi passaggi tratti dalle sue opere che individuano proprio nell’Ars la causa della sanzione inflitta al poeta, tra i quali ad esempio
Ov. trist. 2.345-346:
Haec tibi me invisum lascivia fecit, ob Artes,
quis ratus es vetitos sollicitare toros
- trist. 5.12.67-68:
Sic utinam, quae nil meutentem tale magistrum
perdidit, in cineres Ars mea versa foret
ma anche con i versi in cui il poeta evidenzia che Augusto avrebbe assunto una decisione assai differente nei suoi confronti, se solo avesse letto quelle pagine delle Metamorfosi – opera non ancora terminata nell’8 d.C.[51], ma che già da qualche tempo circolava a Roma[52] – in cui viene esaltata la gens Iulia[53].
Ma perché, viene da chiedersi, un’opera poetica avrebbe dovuto suscitare una simile reazione del princeps? E ancora: di quale reato poteva essersi macchiato il suo autore, componendola?
Per rispondere a simili domande non si può far altro che cercare qualche indizio negli scritti ovidiani, osservando in controluce le argomentazioni sviluppate dal poeta per giustificare una sua riabilitazione o, comunque, una mitigazione del provvedimento adottato nei suoi confronti[54].
Ebbene, Ovidio innanzitutto non nega il carattere licenzioso dei temi trattati nella sua Ars[55], ma esclude che la lettura di quei suoi versi possa aver in qualche modo incentivato a violare la legge o contribuito alla degenerazione dei costumi e alla corruzione dei valori romani tradizionali, che Augusto, proprio in quegli anni, stava cercando con grande determinazione di ripristinare[56]. In particolare, contesta che l’Ars possa aver messo a repentaglio matrimoni legittimi, traviato donne sposate o incoraggiato rapporti clandestini e, dunque, causato problemi di attribuzione della paternità[57].
Insomma, sembra voler chiarire che la sua opera non ha in alcun modo spinto all’inosservanza delle prescrizioni dettate dalla lex Iulia de adulteriis coercendis[58], il provvedimento fatto votare da Augusto tra la metà del 17 e la metà del 16 a.C. – secondo la proposta di datazione più attendibile[59] – e che per la prima volta rese perseguibile dinanzi a un’apposita corte permanentel’adulterio[60], cioè l’unione sessuale con una donna sposata (adulterium in senso stretto) o, comunque, di onesta condizione (cd. stuprum)[61].
Da una simile “linea difensiva” sembra lecito ricavare che Augusto imputasse all’Ars, e dunque al suo autore, di aver incoraggiato l’adulterio[62] e di aver quindi istigato a violare la lex Iulia de adulteriis coercendis [63]. Secondo Andreas Schilling, il poeta sarebbe stato punito proprio sulla base di questa lex, che già agli inizi del I secolo d.C. sanzionava, a suo dire, la mera istigazione all’adulterio[64].
A sostegno di questa idea Schilling invoca una testimonianza ulpianea, in cui si afferma che è colpevole di adulterio tanto colui che ha spinto a commetterlo, quanto l’autore del rapporto vietato[65].
D.48.5.13(12) Ulp. 1 de adult.: Haec verba legis ‘ne quis posthac stuprum adulterium facito sciens dolo malo’ et ad eum, qui suasit, et ad eum, qui stuprum vel adulterium intulit, pertinent.
Non credo si possa escludere che Augusto, nel relegare il poeta a Tomi, possa aver interpretato in questi termini quanto disponeva la lex Iulia de adulteriis coercendis da lui stesso voluta[66]: tuttavia, il brano di Ulpiano, essendo di molto successivo alle vicende ovidiane, non mi pare offra un appiglio sicuro per sostenere quanto vorrebbe Schilling, ossia che già agli inizi del I secolo d.C. l’istigazione all’adulterio fosse punita dalla lex Iulia de adulteriis coercendis.
Trovo comunque difficile ammettere che la condanna alla relegazione poggiasse solamente su questo capo d’accusa, considerata l’insistenza con cui Ovidio nega di aver più in generale contributo, con le sue opere e il suo stile di vita (di cui sovente ne rimarca l’assoluta correttezza)[67], a traviare i suoi concittadini, offrendo un modello di esistenza in palese contrasto con i nuovi canoni della moralità familiare e pubblica propugnati da Augusto.
Ovidio, in ogni caso, denuncia il carattere pretestuoso dell’accusa mossagli[68], che rendeva a suo dire ancora più arbitraria e crudele la pena inflittagli[69].
Al momento dell’emanazione del provvedimento che lo relegava a Tomi, infatti, l’Ars – come ricorda il poeta –circolava ormai da tempo[70], al punto che poteva considerarsi un vetus libellus[71]:
Ov. trist. 2.545:
Sera redundavit veteris vindicta libelli,
distat et a meriti tempore poena sui.
Non solo. Il Sulmonese si lamenta del fatto che Augusto, con ogni probabilità, nemmeno ben conosceva l’opera in questione[72]: imputa a un suo detrattore l’aver portato all’attenzione del princeps solo alcune pagine del suo componimento, appositamente scelte per danneggiarlo[73].
Ov. trist. 2.77-80:
A, ferus et nobis crudelior omnibus hostis,
delicias legit qui tibi cumque meas,
carmina ne nostris quae te venerantia libris
iudicio possint candidiore legi.
Se il princeps avesse letto l’Ars amatoria, scrive Ovidio, si sarebbe reso conto della sua innocenza, perché ‘nullum crimen’ avrebbe potuto trovare in essa:
Ov. trist. 2.239-240:
At si, quod mallem, vacuum tibi forte fuisset,
nullum legisses crimen in Arte mea.
Il poeta non fa certo mistero del fatto che la vera causa del suo allontanamento, ben nota ai suoi contemporanei (a quanto scrive)[74], andava ricercata altrove: più precisamente, in quell’error a cui egli, quasi in maniera ossessiva, fa riferimento.
Tale error, peraltro, pur avendo giocato un ruolo decisivo rispetto alla pronuncia del princeps[75], non sembra essere stato da quest’ultimo espressamente richiamato o contemplato nel provvedimentoemanato quel fatidico giorno di ottobre dell’8 d.C.[76].
3. (Segue) … e l’error
Anche rispetto all’error,Ovidio sembra costruire, attraverso le pagine scritte dal confino, una composita linea di difesa della propria posizione. Ciò permette di avanzare qualche ipotesi in ordine alla fattispecie criminosa che il suo contegno avrebbe integrato, quanto meno agli occhi del princeps.
In primo luogo, egli nega di aver tenuto una condotta attiva di qualunque tipo[77]: dice di aver soltanto assistito a un fatto posto in essere da altri, e parla a tal proposito di un crimen e di un funestum malum[78]. Al contempo, esclude di aver preso parte alla sua organizzazione e pianificazione[79].
In relazione a ciò, si sforza poi di sottolineare come non avesse serbato alcuna condotta violenta[80], non avesse preso le armi contro l’imperatore[81], né attentato alla sua vita[82] o pensato di sovvertire il potere imperiale con una congiura di palazzo[83].
Ma il poeta non si limita a questo. Afferma altresì, e a più riprese, di non aver espresso opinioni contrarie all’imperatore, di nonaverne contestato il suo ruolo di pater patriae[84] e di non aver oltraggiato luio altri membri della sua famiglia.
Esclude, insomma, di aver tramato ai danni di Augusto[85], di aver messo in discussione il suo potere e le sue prerogative, pur riconoscendo di aver assistito a una qualche iniziativa in cui qualcosa di simile era avvenuto. Ed è difficile credere che il poeta possa essere insincero a riguardo, non solo per la (asserita) notorietà tra i suoi contemporanei delle vicende in cui era rimasto invischiato, ma anche perché un’eventuale distorsione della realtà, in ordine a questi dettagli, non avrebbe di certo giovato alla sua causa[86].
Sempre il Sulmonese sembra poi darci notizia che la condotta a lui ascrivibile poteva semmai essere considerata in termini di omessa denuncia all’imperatore di quanto a lui noto.
Nel seguente passaggio dei Tristia
Ov. trist. 3.6.11-14:
cuique ego narrabam secreti quicquid habebam,
excepto quod me perdidit, unus eras.
Id quoque si scisses, salvo fruerere sodali,
consilioque forem sospes, amice, tuo.
Ovidio si rammarica di non aver comunicato a un amico le informazioni di cui era venuto a conoscenza[87], perché – scrive – se attraverso di lui fossero giunte all’orecchio di Augusto, quest’ultimo forse non lo avrebbe sanzionato così duramente[88].
In ogni caso, il poeta proclama la mancanza di premeditazione nelle sue azioni[89].
Il suo silenzio, più che animato dal desiderio di architettare qualcosa alle spalle del princeps, era nato da un errore, da una leggerezza, la cui causa dipendeva da una pluralità di fattori: la sua stultitia[90], l’imprudentia[91], l’ingenuità[92], la timidezza di carattere[93], se non anche la pazzia[94].
Come già più volte riferito, però, la ragione a cui viene più spesso collegata la sua colpa è individuata in un errore[95].
Già l’uso del vocabolo error appare significativo.
Ovidio, servendosene, sembra voler convincere i suoi lettori – e in primis Augusto – che il contegno a lui ascrivibile era stato influenzato in maniera decisiva da una falsa rappresentazione della realtà, del tutto involontaria e semmai determinata da imperizia e negligenza (a questo forse allude parlando di stultitia e insipienza), che l’aveva indotto ad assumere una decisione differente da quella che avrebbe preso se solo avesse conosciuto tutti gli elementi della vicenda e soprattutto il desiderio del princeps di essere tenuto informato a riguardo.
Egli, inoltre, indica tra le cause del suo silenzio anche il timore[96], forse quello suscitatogli da chi era coinvolto nel crimen consumato davanti a suoi occhi[97]. E viene difficile non pensare che tra questi soggetti vi fossero anche personaggi di spicco della società del tempo, soprattutto alla luce di
Ov. trist. 3.4.3-6:
usibus edocto si quicquam credis amico,
vive tibi et longe nomina magna fuge.
Vive tibi, quantumque potes praelustria vita:
saevum praelustri fulmen ab arce venit.
dove il Sulmonese collega la propria sventura ad alcuni ‘magna nomina’[98], cogliendo l’occasione per suggerire al destinatario dell’elegia di evitare ogni frequentazione con i potenti.
Infine, in un crescendo quasi esasperato di giustificazioni, Ovidio si premura di sottolineare l’assenza di vantaggi derivanti dal comportamento tenuto[99].
Il poeta, al contempo, non nega la propria culpa[100]: ne riconosce anzi la gravità[101], ammettendo di aver meritato la punizione del princeps[102]. In ogni caso, conclude, il suo comportamento era almeno in parte scusabile[103].
Arrivati a questo punto, non resta che tentare di rispondere ad una domanda ormai pressante: quale ipotesi di reato Ovidio aveva in mente, nel costruire la propria linea difensiva rispetto all’error che affermava di aver commesso?
Non si può certo dire che il poeta sia esplicito a riguardo[104].
Tuttavia, in base agli elementi raccolti, credo si possa quanto meno ipotizzare che il crimen in questione fosse quello di lesa maestà[105].
Un crimen che diversi anni prima proprio Augusto aveva contributo a ridefinire, conferendogli – attraverso la cd. lex Iulia de maiestate[106] – un assetto stabile, ancorché non definitivo. In verità, non possediamo, neppure all’interno di fonti risalenti a epoche storiche successive, una precisa ed esauriente definizione del crimen maiestatis e delle condotte a esso riconducibili. È sempre rimasto costante l’interesse dell’autorità a lasciare indeterminati i confini di questa figura criminosa, proprio per la sua stessa natura di reato politico[107].
Vi rientravano, in ogni caso, l’alto tradimento, la sedizione, l’incitamento alla rivolta, la costituzione o partecipazione ad associazioni illecite, nonché – specie sulla scorta di un progressivo allargamento delle condotte punite a tale titolo, secondo una tendenza già attestata nel corso del principato augusteo – il turbamento dei poteri pubblici, gli scritti ingiuriosi o diffamatori rivolti contro la persona del princeps o i suoi familiari, il rifiuto della religione tradizionale.
Se si osservano quali comportamenti Ovidio nega di aver compiuto, emerge una potente assonanza: egli esclude di aver attentato alla vita dell’imperatore, di aver avviato o partecipato a una congiura armata nei suoi confronti, di aver negato il suo ruolo di pater patriae (appellativo che in letteratura è stato considerato rappresentativo di un aspetto della maiestas imperiale)[108], o di aver espresso pensieri offensivi nei confronti del princeps o dei membri della sua famiglia[109].
Un ulteriore indizio a sostegno di quanto detto si potrebbe ricavare riflettendo sulla pena comminata dalla lex Iulia de maiestate e tenendo presente non tanto quella concretamente inflitta da Augusto a Ovidio, bensì quella che, per clemenza, il princeps evitò di irrogare[110].
Il poeta sottolinea a più riprese che la sanzione disposta da Augusto nei suoi confronti era stata più mite di quella astrattamente possibile[111], essendogli stata risparmiata la vita e non avendo perso i propri beni e lo status di cittadino romano[112]. Ed è significativo notare che erano, queste, conseguenze ricollegabili alla pena al tempo prevista per chi avesse commesso il crimine di lesa maestà, ossia l’aqua et igni interdictio[113], la quale comportava – come è risaputo – la perdita della cittadinanza romana, la confisca dei beni del reo e il divieto per costui, sotto minaccia di morte, di rientrare a Roma[114].
A questo punto potrebbe però sorgere un dubbio: come conciliare questa ricostruzione con l’affermazione fatta da Ovidio in
- Pont. 2.9.71-72:
Nec quicquam, quod lege vetor committere, feci:
est tamen his gravior noxa fatenda mihi.
secondo cui la sua condotta non rientrava tra quelle punite dalla legge[115] (ossia, alla luce di quanto riferito, dalla lex Iulia de maiestate)?
Ebbene, una simile affermazione credo vada letta tenendo conto delle caratteristiche del sistema penale del tempo e, in particolare, dei meccanismi repressivi ordinari: quelli cioè di origine repubblicana, ancora operanti in epoca augustea[116]. Tale sistema riposava infatti su norme e organi giudicanti definiti da una serie di leggi specifiche, le quali – tra le altre cose – «descrivevano con una certa precisione il fatto o i fatti, in cui consisteva lo specifico crimen, oggetto … di ciascuna di esse» e «stabilivano rigidamente la pena da irrogare all’accusato riconosciuto colpevole»[117].
Quando Ovidio sostiene di non aver fatto nulla di vietato dalla legge potrebbe aver voluto evidenziare che la sua condotta non rientrava tra quelle contemplate da alcuna delle suddette leges, e dunque non era perseguibile avanti a una delle corti permanenti allora attive[118].
Tuttavia, non era affatto raro, già nel corso dei primi anni del principato augusteo, che si forzassero i limiti fissati della legislazione criminale ordinaria, reprimendo – attraverso l’intervento del Senato in funzione giudicante, o direttamente per opera del princeps – condotte non riconducibili a quelle punite dalle leggi istitutive delle relative corti permanenti, ma che pur presentavano con esse qualche tratto in comune.
Da Tacito, ad esempio, apprendiamo che proprio Augusto considerò delitto di lesa maestà anche l’adulterio commesso con donne della casa imperiale[119] o la diffusione di libelli diffamatori contro personaggi dell’alta società[120].
Alludo, con quest’ultimo riferimento, al processo che nello stesso anno della relegazione di Ovidio – anche se alcuni autori pensano al 12 d.C.[121] – venne avviato davanti al Senato nei confronti del retore Cassio Severo[122]. Questi era accusato di lesamaestà, per aver denigrato, con alcuni suoi scritti, personaggi di spicco della classe dirigente di allora[123]. Tacito ci informa[124] che l’accusa nei suoi confronti era stata promossa da Augusto in persona, ma che su di essa giudicò in via straordinaria il collegio senatorio, il quale riconobbe il retore colpevole del reato ascrittogli e lo relegò nell’isola di Creta[125].
A rilevare in questa sede è che tra le condotte punite dalla lex Iulia de maiestate non era ricompresa la diffusione di libelli diffamatori[126], e che fu possibile ritenere integrato il crimine di lesa maestàsolo attraverso un’interpretazione estensiva di quanto disposto dalla legge stessa[127]: un’interpretazione resa possibile dal fatto che il processo nei confronti di Cassio Severo era stato incardinato, secondo le precise istruzioni di Augusto[128], di fronte al Senato. Con l’intervento del princeps, dunque, azioni che propriamente non rientravano tra quelle contemplate dalla lex Iulia de maiestate potevano comunque essere punite, sia purnell’ambito di una modalità straordinaria di repressione criminale, a tale titolo.
Qualcosa di analogo potrebbe essere avvenuto nei confronti di Ovidio, ipoteticamente condannato dall’imperatore non solo per aver istigato, con la sua Ars (il carmen) e il suo stile di vita, alla violazione della lex Iulia de adulteriis coercendis, ma anche per aver tenuto un contegno (l’error) che poteva essere qualificato in termini di lesa maestà.
Non posso, tuttavia, fare a meno di avanzare il sospetto che l’attodi cui Ovidio fu destinatario si fondasse, formalmente, solo sulla prima delle accuse poc’anzi menzionate[129], e non contenesse alcun riferimento a condotte integranti il crimine di lesa maestà[130].
La reticenza del Sulmonese nel descrivere in cosa consistessero questi comportamenti sembra lo specchio del silenzio serbato dal provvedimento augusteo sul punto[131], del tutto comprensibile se si tiene conto del desiderio del princeps di evitare che le vicende in cui il poeta era rimasto coinvolto diventassero di dominio pubblico[132].
Contro questa opzione ricostruttiva si potrebbe obiettare che Augusto, condannando Ovidio alla relegatio a Tomi, non abbia compiuto alcun atto di clemenza nei suoi confronti, visto che proprio la relegatio era la pena prevista dalla lex Iulia de adulteriis coercendis[133]: in contrasto, dunque, con i molteplici passaggi in cui il poeta, come già rilevato, ringrazia il princeps per avergli risparmiato la vita e per avergli permesso di conservare la cittadinanza romana e il suo patrimonio.
Sennonché, la clemenzadi Augusto potrebbe essersi manifestata, almeno agli occhi del poeta, proprio nella scelta di non perseguirlo (e punirlo) per il reato di lesa maestà.
Non resta, a questo punto, che tentare di capire in che modo, cioè sulla base di quali poteri e secondo quali procedure, si giunse alla pronuncia della relegazione a suo carico.
4. La procedura
Per far luce in ordine a tali nodi problematici occorre, anche questa volta, procedere seguendo un sentiero le cui tracce sono tutt’altro che definite.
Partiamo, però, da un dato su cui è possibile fare un certo affidamento.
Ovidio, rivolgendosi all’imperatore, denuncia di essere stato costretto a lasciare l’Italia in assenza di una condanna nei suoi confrontipronunciata dal Senato o da un iudex selectus:
- trist. 2.131-132:
Nec mea decreto damnasti facta senatus,
nec mea selecto iudice iussa fuga est.
Questi due notissimi versi, per lo storico delle istituzioni romane, sono preziosi in quanto permettono di affermare che già nell’8 d.C. «il collegio senatorio svolgeva … un’attività giudicante in concorrenza con quella delle corti permanenti»[134]. Ma ai nostri fini rilevano perché ci fanno sapere che il provvedimento a carico di Ovidio era giunto direttamente ed esclusivamente da Augusto[135]: non da una delle corti permanenti al tempo attive (a queste si riferisce Ovidio parlando di iudex selectus)[136], né dal Senato, chiamato a operare come organo giudicante[137].
Augusto, verosimilmente, volle evitare che un processo pubblico a carico di Ovidio[138] svelasse alla collettività le vicende in cui il poeta era rimasto invischiato[139]: è per questo motivo, probabilmente, che il princeps scelse di imboccare una terza via, in cui si trovò ad essere l’unico e assoluto protagonista.
È difficile stabilire se l’imperatore abbia o meno dato ad Ovidio la possibilità di difendersi dalle accuse mosse nei suoi confronti[140]. Forse non è del tutto irragionevole supporlo, qualora si ritenga, sulla base di
Ov. trist. 2.133-134:
Tristibus invectus verbis – ita principe dignum –
ultus es offensas, ut decet, ipse tuas.
che un confronto tra i due, prima dell’ordine di allontanamento, avesse avuto luogo[141]. Nei versi appena riprodotti, come già rilevato in precedenza (§ 1), Ovidio ricorda che il princeps si scagliòcontro di lui con aspre parole[142]: parrebbe, dunque, in occasione di un faccia a faccia, visto che subito appresso si menziona il tono severo e minaccioso del provvedimento (un edictum, a dire del poeta) pronunciato da Augusto nei suoi confronti[143].
Ov. trist. 2.135:
Adde quod edictum, quamvis immite minaxque,
Sono scarsi gli elementi a disposizione per determinare se il caso di Ovidio sia stato uno dei primi esempi di cognitio personale dell’imperatore in materia criminale[144], ovvero se l’edictum di cui fu destinatario debba essere considerato una misura di coercitio[145], magariadottata da Augusto – come suppone Francesco De Martino[146] – in forza della tribunicia potestas che gli era stata conferita.
Contro la prima soluzione sembrerebbe deporre la forma stessa dell’atto del princeps (un edictum se si presta fede alla testimonianza ovidiana), alquanto inusuale per una decisione giurisdizionale[147] ma non per gli ordini di allontanamento pronunciati dai magistrati romani nell’esercizio delle loro funzioni[148].
Basti pensare a
Cic. Sest. 12-13.29: L. Lamiam, qui cum me ipsum pro summa familiaritate, quae mihi cum patre eius erat,m unice diligebat, tum pro re publica vel mortem oppetere cupiebat, in contione relegavit edixitque, ut ab urbe abesset milia passuum ducenta, quod esset ausus pro civi, pro bene merito civi, pro amico, pro re publica deprecari. 13. Quid hoc homine facias aut quo civem importunum aut quo potius hostem tam sceleratum reserves? qui, ut omittam cetera, quae sunt ei cum conlega immani impuroque coniuncta atque communia, hoc unum habet proprium, ut ex urbe expulerit, relegarit non dico equitem Romanum, non ornatissimum atque optimum virum, non amicissimum rei publicae civem, non illo ipso tempore una cum senatu et cum bonis omnibus casum amici reique publicae lugentem, sed civem Romanum sine ullo iudicio ut edicto ex patria consul eiecerit.
in cui Cicerone menziona la relegazione dell’amico Lucio Elio Lamia[149], disposta nel 58 a.C.con un editto del console Aulo Gabinio[150], e a
Fest. s.v.Relegati (Lindsay 348): Relegati dicuntur proprie, quibus ignominiae, aut poenae causa necesse est ab urbe Romam aliove quo loco abesse lege †senatuique† consulto, aut edicto magistratuus; ut etiam Aelius Gallus indicat.
dove Festo ricorda che Elio Gallo[151] – vissuto secondo alcuni proprio tra le fine della repubblica e gli inizi dell’impero[152] – definiva ‘relegati’ coloro che ‘ignominae aut poenae causa’ erano costretti ad abbandonare Roma (o un altro luogo) sulla base di un provvedimento legislativo, di un senato consulto, nonché di un edictummagistratuale[153].
D’altro canto, un indizio a sostegno dell’idea che il poeta fosse stato vittima di un atto di coercitio del princeps basato sulla sua tribunicia potestas si potrebbe trarre dal collegamento, su cui Ovidio in più occasioni sembra insistere, tra la pronuncia di relegazione nei suoi riguardi e i compiti di cura morum esercitati da Augusto[154]. Compiti che, in un noto passaggio delle Res gestae divi Augusti vengono espressamente ricollegati alla tribunicia potestas,di cui il princeps era stato investito[155]:
Res gestae divi Augusti 6.1-2: Consulibus M. Vinicio et Q. Lucretio et postea P. Lentulo et Cn. Lentulo et tertium Paullo Fabio Maxima et Q. Tuberone senatu populoque Romano consentientibus ut curator legum et morum summa potestate solus crearer, nullum magistratum contra morem maiorum delatum recepi. 2. Quae tum per me geri senatus voluit, per tribuniciam potestatem perfeci, cuius potestatis conlegam et ipse ultro quinquiens a senatu depoposci et accepi.[156]
Tuttavia, considerata l’anomala posizione istituzionale di Augusto[157], e la scarsità di dati in nostro possesso circa la vicenda di Ovidio, appare più prudente astenersi da ogni tentativo volto a individuare su che basi il princeps ordinò al poeta di abbandonare l’Italia e di vivere relegato a Tomi fino alla fine dei suoi giorni[158].
Ciò che invece si può affermare con un certo margine di sicurezza è che la procedura da lui seguita per punirlodovette apparire già allora piuttosto singolare. Se così non fosse stato, infatti, sarebbe davvero difficile spiegare perché mai il poeta, nel denunciare ad Augusto le peculiarità del suo caso, abbia sentito l’esigenza di sottolineare che la sua punizione non era stata disposta né dal Senato, né da un iudex selectus (Ov. trist. 2.131-132), cioè al termine di una procedura giurisdizionale, ma dal princeps in persona (Ov. trist. 2.133-136).
5. La sanzione
Prima di chiudere, vale la pena di spendere qualche parola intorno alla condizione in cui si venne a trovare Ovidio dopo l’ordine di allontanamentopronunciato nei suoi confronti.
Sebbene il Sulmonese presenti sé stesso, in più d’uno dei suoi scritti, come un esule[159], egli non poteva tecnicamente considerarsi tale, avendo conservato sia la cittadinanza romana, sia il proprio patrimonio[160].
L’interdictio aqua et igni,che sin dall’età risalente veniva pronunciata nei confronti dell’esiliato –e che si tramutò, nell’ultima età repubblicana, in una vera e propria sanzione criminale[161] – faceva perdere automaticamente lo status civitatis[162] e comportava, quanto meno ai tempi di Ovidio[163], la confisca dei beni del colpevole.
Ma non è questo l’unico aspetto che distingueva la condizione dell’esule(in senso tecnico) da quella che toccò in sorte al Sulmonese.
Un esiliato, infatti, era libero di scegliere il luogo in cui trascorrere i propri giorni, senza dovervi necessariamente risiedere per tutta la durata della pena inflittagli[164]: al di là del divieto di rientrare in patria, tale condizione non comportava, di per sé, limitazioni della libertà di movimento. In verità, come ha rilevato Bernardo Santalucia, già sul finire della repubblica, si cominciò nei confronti dell’esiliato/interdetto a «limitare la libertà di scelta del luogo d’asilo mediante la designazione di talune località o regioni da cui l’interdetto doveva tenersi lontano»[165]. Ma pur a fronte di prescrizioni di questo tipo, l’esiliato/interdetto conservava comunque la possibilità di scegliere il luogo ove risiedere[166].
A Ovidio, invece, tale libertà venne preclusa, essendogli stato specificamente imposto di trascorrere il resto dei suoi giorni[167] in un luogo determinato (Tomi), senza possibilità di recarsi altrove[168].
Inoltre, a questa punizione venne affiancato il bando dell’Ars amatoria – è difficile dire, invece, se anche le altre sue opere abbiano subito il medesimo destino – dalle biblioteche pubbliche romane[169].
Tutti elementi, quelli passati in rassegna sin qui, che nulla hanno a che vedere con la condizione dell’esiliato, come ben sapeva anche il Sulmonese[170], il quale del resto precisa
Ov. trist. 2.137:
quippe relegatus, non exul, dicor in illo,
Ov. trist. 5.11.21-22:
Ipse relegati, non exulis utitur in me
nomine …
Ovidio, in definitiva, fu destinatario della sanzione che va sotto il nome di relegatio (in perpetuum, nel caso di specie)[171], la quale determinava conseguenze meno gravi di quelle derivanti dall’interdictio aqua et igni (e, in seguito, dalla deportatio), non comportando né la confisca dei beni del reo (a meno che nel provvedimento irrogante tale sanzione non fosse diversamente stabilito), né la perdita della cittadinanza romana[172], pur limitando fortemente la libertà di spostamento di chi la subiva[173].
6. Conclusioni
A quanto è emerso dalla disamina svolta sin qui, il motivo ufficiale per cui Ovidio, nell’8 d.C., fu costretto da Augusto ad abbandonare l’Italia per vivere confinato a Tomi si ricollegava alla pubblicazione della sua Ars amatoria[174]: in quanto opera intrisa di una «profonda carica eversiva nei confronti della morale ufficialedel regime augusteo»[175], essa, ad avviso del princeps, aveva non solo contribuito alla dilagante corruzione dei costumi romani tradizionali, ma aveva soprattutto istigato all’adulterio e, così, alla violazione della lex Iulia de adulteriis coercendis.
Di tutto ciò, con ogni probabilità, era fatta esplicita menzione nel provvedimentocon cui Ovidio venne punito.
Un atto, vale la pena di ricordare, che non fu pronunciato al termine di un processo pubblico celebrato davanti a una delle corti permanenti o di fronte al collegio senatorio, ma che venne emanato da Augusto in persona. È difficile stabilire se si trattò di un provvedimento coercitivo del princeps o reso nell’ambito della cognitio personale da questi esercitata.
Quanto alla condizione in cui si venne a trovare il Sulmonese dopo tale pronuncia, è indubbio che non fosse tecnicamente quella dell’esule, bensì quella del relegatus. Il poeta non perse la cittadinanza romana, né subì la confisca dei propri beni, come invece capitava agli esuli. La sua punizione consisteva nel passare il resto dei suoi giorni confinato in una località specifica (Tomi), senza possibilità di allontanarsi da lì.
Tuttavia, la ragione della sua rovina era un’altra, legata a un error che egli non nasconde di aver commesso.
Il suo racconto, per quanto reticente, fa trasparire la preoccupazione che tale contegno potesse in qualche modo essere accostato al crimine di lesa maestà. La colpa a lui ascrivibile, tuttavia, consisteva a sue dire soltanto nell’aver assistito[176] a qualcosa – un incontro, una riunione, un evento mondano: è impossibile prendere posizione sul punto[177] – di cui aveva omesso di dare notizia a chi di dovere[178], forse per timore nei confronti delle persone che, come lui, erano in quell’occasione presenti[179].
Dalla puntuale autodifesa sviluppata dal poeta si potrebbe ipotizzare che l’evento di cui era stato testimone avesse riguardato personalità di spicco della Roma del tempo, ostili al princeps e al suo operato[180], o comunque critiche nei suoi confronti, coinvolte forse in intrighi di palazzo, lotte di potere o più probabilmente piani riguardanti la successione di Augusto[181]: personaggi, questi sì, che a differenza di Ovidio – almeno secondo il suo modo di vedere – avrebbero potuto essere considerati responsabili del crimen di lesa maestà[182].
Ogni tentativo volto a tratteggiare con maggior precisione chi fossero costoro e quali progetti avessero in mente appare tuttavia assai poco prudente, alla luce delle scarse informazioni di cui disponiamo[183].
Abstract: This paper deals with Ovid’s relegation ordered by Augustus in 8 A.D. The research aims to determine, as much as possible, for what crime(s) Augustus banished Ovid from Rom and forced the poet to live in Tomis, a small village on the Black Sea coast. The investigation will also analyse on what basis and by what procedure Ovid was punished and what kind of punishment (technically speaking) was inflicted on him.
Keywords: Ovid, Augustus, exile, banishment, relegation, lex Iulia de adulteriis coercendis, lex Iulia de maiestate, crimen maiestatis, relegatio.
* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
** Il contributo trae spunto dall’intervento svolto in occasione del convegno Ovidio e i Fasti. Memorie dall’antico, tenutosi a Treviso il 12 e 13 febbraio 2020, ed è destinato a comparire anche nel volume che ne raccoglierà gli atti.
[1] Ov. trist. 4.8.33; 4.10.95-96; cfr. P. White, Ovid and the Augustan Milieu, in Brill’s Companion to Ovid, ed. B. Weiden Boyd, Leiden - Boston - Köln, 2002, p. 16.
[2] Cfr. J.C. Thibault, The Mystery of Ovid’s Exile, Berkeley - Los Angeles, 1964, p. 13; L. Labruna, «Relegatus, non exul»: Ovidio e il diritto, in Antologia giuridica romanistica ed antiquaria, a cura di L. Gagliardi, vol. II, Milano, 2018, p. 127.
[3] Ov. Pont. 2.3.83-84.
[4] Come pensa, ad esempio, S.G. Owen, Introduction, in P. Ovidi Nasonis Tristium liber secundus, ed. S.G. Owen, Oxford, 1924 (rist. Amsterdam, 1967), p. 8.
[5] Cfr. R.S. Rogers, The Emperor’s Displeasure and Ovid, in TAPhA, (1966), p. 375; P. Green, Carmen et error: πρόφασιςandαἰτίαin the Matter of Ovid’s Exile, in ClAnt, 2 (1982), p. 205; G.P. Goold, The Cause of Ovid’s Exile, in ICS, 1 (1983), p. 99.
[6] Ov. Pont. 2.3.83-88; su di lui, v. F. della Corte, Introduzione, in Opere di Publio Ovidio Nasone. II. Tristia, Ibis, Ex Ponto, Halieuticon liber, a cura di F. della Corte - S. Fasce, Torino, 1986, p. 45.
[7] Sul punto, oltre a J.C. Thibault, The Mystery, cit., p. 7, v. anche quanto si dirà infra, al § 4.
[8] In Ov. trist. 1.3, Ovidio descrive l’ultima notte trascorsa nella capitale insieme ai propri cari e ad alcuni amici (v. anche 1.5.33; 1.5.64; 1.8.17-28; 1.9.17-22): pochi, per la verità, rispetto ai molti che prima lo circondavano. La maggior parte di loro, infatti, per timore di mettersi in cattiva luce agli occhi del princeps (Ov. Pont. 3.2.15-20) nemmeno si presentò per un ultimo saluto prima della sua partenza (Ov. trist. 3.5.5-10; cfr. S. D’Elia, Ovidio, Napoli, 1959, pp. 276 s.; F. Corsaro, Sulla relegatio di Ovidio, in Orpheus, 2 (1968), pp. 127 e 152; L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., pp. 128 s.). Ovidio, a quanto pare, meditò in quei frangenti di porre fine alla propria vita (Ov. trist. 1.5.5-6; Pont. 1.9.21-22), ma fu dissuaso da una delle poche persone accorse a consolarlo, un certo Celso (sul quale v. D. Marin, Ovidio fu relegato per la sua opposizione al regime augusteo?, in Acta philologica, vol. I, Roma, 1958, pp. 137 ss.), di cui il poeta, in seguito, piangerà la morte (Ov. trist. 1.5.5-7; Pont. 1.9). Sulle sue ultime ore di permanenza a Roma, v. F. della Corte, Introduzione, cit., p. 11; B.R. Nagle, The Poetics of Exile. Program and Polemic in the Tristia and Epistulae ex Ponto of Ovid, Bruxelles, 1980, pp. 23 s.; A. Luisi, Il perdono negato. Ovidio e la corrente filoantoniana, Bari, 2001, p. 12; G. Brescia, Ovidio e la morte in esilio: modi e forme di una sceneggiatura funebre, in BStudLat, 1 (2016), pp. 63 ss.
[9] Si v. anche Ov. trist. 1.3.5-6: Iam prope lux aderat, qua me discedere Caesar / finibus extremae iusserat Ausoniae, su cui v. P. Green, Carmen et error, cit., p. 206; F. della Corte, Introduzione, cit., p. 25.
[10] Cfr. L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., p. 129, al pari di quanto già pensavano G.P. Goold, The Cause, cit., p. 99; F. della Corte, Introduzione, cit., p. 25; A. Luisi, Vendetta-perdono di Augusto e l’esilio di Ovidio, in Amnistia, perdono e vendetta nel mondo antico, a cura di M. Sordi, Milano, 1997, p. 271, n. 4.
[11] Cfr. A. Luisi, Vendetta-perdono, cit., p. 272; Id., Il perdono, cit., 17 s.; L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., p. 129; incerto, invece, rispetto al luogo di partenza, F. della Corte, Introduzione, cit., p. 21.
[12] Cfr. F. della Corte, Introduzione, cit., p. 22. Tuttavia, anche in relazione a questo dettaglio, regna in dottrina una notevole incertezza: v. G.O. Hutchinson, Some New and Old Light on the Reasons for Ovid’s Exile, in ZPE, (2017), p. 81, il quale pensa che Ovidio abbia lasciato le coste della penisola nell’inverno del 9 d.C.
[13] Cfr. A. Luisi, Il perdono, cit., pp. 16 s.
[14] Si v. Ov. trist. 1.2, un «vero e proprio diario di viaggio ricalcato su una sceneggiatura odissiaca» per G. Brescia, Ovidio, cit., p. 65; in dottrina, v. anche F. della Corte, Introduzione, cit., pp. 21 ss.; A. Luisi, Vendetta-perdono, cit., p. 273; Id., Il perdono, cit., pp. 16 ss.
[15] Ov. trist. 3.2.7; cfr. A. Luisi, Il perdono, cit., p. 22.
[16] Cfr. L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., p. 129. Per altre proposte di datazione v. A. Rădulescu, Ovid in Exile, Iași - Oxford - Palm Beach - Portland, 2002, pp. 58 ss.
[17] Si v. Ov. trist. 1.1.127-128; 1.3.83; 2.195-200; 3.1.50; 3.3.3; 3.4.52; 4.9.9; Pont. 1.3.49; 2.7.65-66; 3.3.39-40. Sul punto, v. anche S. D’Elia, Ovidio, cit., p. 371;F. Norwood, The Riddle of Ovid’s Relegatio, in CPh, 3 (1963), p. 150; M.M. McGowan, Ovid, cit., p. 19; L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., p. 128. Sulla posizione geografica, il clima e l’ambiente di Tomi v. J.F. Gaertner, Introduction, in Ovid. Epistulae ex Ponto. Book I, ed. J.F. Gaertner, New York, 2005, pp. 16 ss., mentre sulle genti che abitavano quei territori v. A. Barchiesi, Il poeta e il principe. Ovidio e il discorso augusteo, Roma - Bari, 1994, p. 5; L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., p. 129. La scarsa conoscenza del greco e del latino delle popolazioni locali costrinse Ovidio – a quanto egli riferisce (v. Ov. trist. 4.1.89-90; 5.7.51-54), forse esagerando un po’ (cfr. F. della Corte, Introduzione, cit., pp. 31 ss.; G. Williams, Ovid’s exile poetry: Tristia, Epistulae ex Ponto and Ibis, in The Cambridge Companion to Ovid, ed. P. Hardie, Cambridge, 2002, pp. 235 ss.; D. Liebs, Vor den Richtern Roms. Berühmte Prozesse der Antike, München, 2007, p. 79) – a vivere in un lungo isolamento, non solo culturale (cfr. G. Brescia, Ovidio, cit., p. 72), ma soprattutto linguistico (cfr. M. Bettini, Ovidio straniero a Tomi, in M. Bettini - A. Barbero, Straniero. L’invasore, l’esule, l’altro, Milano, 2012, pp. 10 e 36 ss.), che perdurò finché il poeta, dopo quattro anni dal suo arrivo, non apprese la lingua di quelle genti.
[18] Per una prima rassegna delle opinioni prospettate in letteratura, v. F. Corsaro, Sulla relegatio, cit., pp. 136 ss., e L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., p. 134.
[19] Cfr. L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., p. 126.
[20] Ibidem.
[21] In Ps. Aur. Vict. epit. 1.24: … Nam poetam Ovidium, qui et Naso, pro eo, quod tres libellos amatoriae artis conscripsit, exilio damnavit.
[22] In Sidon. carm. 23.158-161: et te carmina per libidinosa / notum, Naso tener, Tomosque missum, / quondam Caesareae nimis puellae / ficto nomine subditum Corinnae?
[23] Cfr. R.S. Rogers, The Emperor’s Displeasure, cit., p. 373.
[24] L’Epitome de Caesaribus risale alla fine del IV secolo d.C., mentre i Carmina di Sidonio Apollinare alla seconda metà di quello successivo (cfr A. Schilling, Poena extraordinaria. Zur Strafzumessung in der frühen Kaiserzeit, Berlin, 2010, pp. 93 s.; L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., p. 126). Per P. Green, Carmen et error, cit., pp. 207 s., il perdurare, per più di tre secoli, del silenzio su quanto accaduto a Ovidio deporrebbe contro l’idea che Seneca il Retore, Aufidio Basso, Cremazio Cordo o Svetonio, in una delle loro opere perdute, si fossero occupati della questione (come aveva invece congetturato J.C. Thibault, The Mystery, cit., pp. 21 s.). La morte in esilio del poeta di Sulmona è ricordata anche nel Chronicon di San Girolamo, relativamente all’anno 17 d.C., ove si trova scritto: Ovidius poeta in exilio diem obiit et iuxta oppidum Tomos sepelitur (per il testo di quest’opera ho fatto riferimento a R. Helm, Eusebius Werke. VII. Die Chronik des Hieronymus, 2a ed., Berlin, 1956).
[25] Cfr. L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., pp. 126 s.
[26] Cfr. P. White, Ovid, cit., p. 16.
[27] Ov. trist. 2.209-210: nam non sum tanti, renovem ut tua vulnera, Caesar, / quem nimio plus est indoluisse semel; Pont. 2.2.57-59: vulneris id genus est, quod, cum sanabile non sit, / non contrectari tutius esse put. / Lingua, sile: non est ultra narrabile quicquam. Cfr. R.A. Bauman, The Crimen Maiestatis in the Roman Republic and Augustan Principate, Johannesburg, 1970, p. 244; F. della Corte, Introduzione, cit., p. 15; A. Luisi, Vendetta-perdono, cit., p. 281; L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., p. 133; G. Rosati, Microfisica del potere nelle opere ovidiane dell’esilio, in Excessive Writing. Ovids Exildichtung, hrsg. M. Möller, Heidelberg, 2020, pp. 97 s. e n. 2.
[28] Cfr. R. Syme, History in Ovid, Oxford, 1978, p. 218; P. Green, Carmen et error, cit., p. 209; G.P. Goold, The Cause, cit., p. 100; P. White, Ovid, cit., p. 16;C. Cascione, Il senato poetico. Appunti sul senato romano nella poesia latina fino a Lucano, inRappresentazione e uso dei senatus consulta nelle fonti letterarie della repubblica e del primo principato. Darstellung und Gebrauch der senatus consulta in den literarischen Quellen der Republik und der frühen Kaiserzeit, a cura di/hrsg. A. Balbo - P. Buongiorno - E. Malaspina, Stuttgart, 2018, p. 483.
[29] Si v., ad esempio, Ov. trist. 1.1.55-56; 1.7.21;2.1-12; 2.87-88; 2.496; 3.3.77-79; 3.7.9; 5.7.31-32; Pont. 3.5.4 e 21; 4.13.41-42; 4.14.17-18. Sul punto, v. G. Focardi, Difesa, preghiera, ironia nel II libro dei Tristia di Ovidio, in SIFC, 1-2 (1975), pp. 114 s., ma è tornato di recente ad occuparsene anche M. Labate, La carriera spezzata: letteratura e potere nell’autodifesa ovidiana, in Excessive Writing, cit., pp. 78 s.
[30] Ov. trist. 1.1.63.
[31] Ov. trist. 1.1.67-68; 1.9.57-62; 2.8; 2.345-346; 3.1.8-10; 3.14.5-6; 5.12.67-68; Pont. 2.9.73-76; 2.10.12; 2.11.2; 3.3.37-40; Ib. 6.
[32] Cfr. D. Marin, Ovidio, cit., p. 118;F. della Corte, Introduzione, cit., p. 19.
[33] Cfr., ex multis,D. Liebs, Vor den Richtern, cit., p. 80.
[34] Ov. trist. 1.5.45-56; 3.6.27-33; 4.10.99-100;Pont. 2.2.57-59; 2.2.75-76; 3.3.73.
[35] Cfr. P. White, Ovid, cit., p. 16; T. Spagnuolo Vigorita, Casta domus. Un seminario sulla legislazione matrimoniale augustea, 3a ed., Napoli, 2010, p. 92, n. 16; A. Barchiesi, Ovid, Boccaccio and the equites: Autography and the Question of the Audience, in Excessive Writing, cit., p. 146.
[36] Cfr. A. Luisi, Vendetta-perdono, cit., p. 279.
[37] Cfr. ivi,p. 280.
[38] Per le proposte elaborate fino al 1963, v. J.C. Thibault, The Mystery, cit., passim, cui adde R. Verdière, Le secret du voltigeur d’amour ou le mystère de la relégation d’Ovide, Bruxelles, 1992, pp. 21 ss. (con recensione di J.-M. Claassen, in Scholia, (1994), pp. 107 ss.); D. Marin, Ovidio, cit., 100 ss.; E. Meise, Untersuchungen zur Geschichte der Julisch-Claudischen Dynastie, München, 1969, pp. 223 ss.; Ph.H. Leitner, Nasonis Relegatio. Zu den Hintegründen der Verbannung Ovids, in ZRG, (2005), pp. 151 ss.
[39] Mi servo delle virgolette perché non si trattò di un esilio in senso tecnico, bensì di una relegatio, come meglio si dirà oltre, al § 5.
[40] Le eccezioni, naturalmente, non mancano: penso, in particolare, agli scritti di D. Liebs, Vor den Richtern, cit., pp. 79 ss.; A. Schilling, Poena extraordinaria, cit., pp. 93 ss.; U.C.J. Gebhardt, Sermo iuris: Rechtssprache und Recht in der augusteischen Dichtung, Leiden - Boston, 2009, pp. 335 ss.; C. Cascione, Il senato, cit., pp. 482 s.;L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., pp. 126 ss.
[41] Tra cui spicca Ov. trist.2, la lunga lettera con cui il Sulmonese si rivolge ad Augusto, affinché questi riconsideri la decisione assunta nei suoi riguardi (cfr. G. Focardi, Difesa, cit., pp. 86 ss.; S.G. Nugent, Tristia 2: Ovid and Augustus, in Between Republic and Empire. Interpretations of Augustus and His Principate, ed. K.A. Raaflaub - M. Toher, Berkeley - Los Angeles - Oxford, 1993, pp. 242 ss.). Sulla struttura espositiva di questa sorta di “memoria difensiva” del poeta, v. W.-W. Ehlers, Poet und Exil. Zum Verständnis der Exildichtung Ovids, in A&A, (1988), pp. 146 ss., il quale ne sottolinea l’articolarsi secondo una progressione tipica dei discorsi giudiziari, con introduzione, esposizione dei fatti, individuazione delle questioni giuridiche, confutazione delle accuse e conclusioni.
[42] Cfr. U.C.J. Gebhardt, Sermo iuris, cit., pp. 335 ss.
[43] Cfr. ivi, p. 340.
[44] Ov. trist. 1.1.30-34; 2.185; 2.577-578; 3.5.26; 3.5.53-54; 3.6.23-24; 3.8.21-22 e 41-42; 3.12.53-54; 4.4.49-50; Pont. 1.2.59-64, 101-106 e 128; 1.6.27-28; 1.8.73-74; 2.2.65-66; 3.1.85-86; cfr. J.C. Thibault, The Mystery, cit., pp. 18 s.; W.-W. Ehlers, Poet, cit., p. 147; A. Luisi, Vendetta-perdono, cit., pp. 273 e 289 s.;L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., p. 130.
[45] Ovidio frequentò alcune delle migliori scuole di grammatica e di retorica del tempo (v. Ov. trist. 4.10.15-16 e cfr. E.J. Kenney, Ovid and the Law, in YClS, (1969), p. 250; P. White, Ovid, cit., p. 3; K. Balsley, Between Two Lives: Tiresias and the Law in Ovid’s Metamorphoses, in Dictynna, (2010), pp. 14 s. e n. 3), nell’ambito delle quali l’insegnamento del diritto era considerato un elemento fondamentale per la formazione dei giovani rampolli dell’alta società (cfr. R. VerSteeg - N. Barclay, Rhetoric and Law in Ovid’s Orpheus, in Law and Literature, 3 (2003), p. 396; L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., p. 122). Inoltre, ricoprì alcune cariche giudiziare minori: fece parte di un collegio triumvirale (Ov. trist. 4.10.34), probabilmente quello dei tresviri capitales (cfr. C. Cascione, Tresviri capitales. Storia di una magistratura minore, Napoli, 1999, p. 217; contra P. White, Ovid, cit., p. 3), e fu uno dei decemviri stlitibus iudicandis (Ov. trist. 2.93-94; Pont. 3.5.24; fast. 4.383-384). Operò, altresì, come iudex privatus (Ov. trist. 2.95-96). Sul punto, v. S.G. Owen, Introduction, cit., p. 2;L. Wenger, Die Quellen des römischen Recht, Wien, 1953, p. 229 e n. 63; R. Düll, Ovidius iudex. Rechtshistorische Studien zu Ovids Werken, in Studi in onore di B. Biondi, vol. I, Milano, 1965, p. 76; E.J. Kenney, Ovid, cit., pp. 244 ss.; C. Cascione, Tresviri capitales, cit., pp. 217 s.; P.E. Knox, A Poet’s Life, in A Companion to Ovid, ed. P.E. Knox, Malden MA, 2009, p. 5.
[46] Cfr. P. White, Ovid, cit., p. 4;U.C.J. Gebhardt, Sermo iuris, cit., p. 335.
[47] Cfr. R. Düll, Ovidius iudex, cit., pp. 77 ss.; E.J. Kenney, Ovid, cit., pp. 243 ss.; G. Focardi, Difesa, cit., pp. 86 ss.; R. VerSteeg - N. Barclay, Rhetoric, cit., pp. 396 e 402 ss.; K. Balsley, Between Two Lives, cit., pp. 14 ss.; L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., p. 120, nonché, da ultima, P. Lambrini, Ovidio giurista (contributo destinato alla raccolta degli atti del convegno Ovidio e i Fasti. Memorie dall’antico, su cui v. la nota di apertura, che ho potuto consultare in anteprima grazie alla cortesia dell’autrice).
[48] Cfr. W.-W. Ehlers, Poet, cit., p. 146;M. Labate, La carriera, cit., pp. 79 s.; G. Rosati, Microfisica, cit., p. 106.
[49] Si v. a tal riguardo Ph.H. Leitner, Nasonis Relegatio, cit., pp. 154 s.; A. Schilling, Poena extraordinaria, cit., p. 94, n. 151.
[50] Cfr. F. Corsaro, Sulla relegatio, cit., p. 134; K. Marót, L’esilio di Ovidio, in AAntHung, 3 (1955), pp. 224 s.; E. Meise, Untersuchungen, cit., p. 223; F. della Corte, Le leges Iuliae e l’elegia romana, in ANRW, II.30.1, Berlin - New York, 1982, p. 552; Id., Introduzione, cit., p. 18; A. Luisi, Vendetta-perdono, cit., p. 277; P.E. Knox, Il poeta e il “secondo” principe: Ovidio e la politica all’epoca di Tiberio, in Maecenas. Studi sul mondo classico, 1 (2001), p. 176; Ph.H. Leitner, Nasonis Relegatio, cit., pp. 156 ss.; M.M. McGowan, Ovid, cit., p. 20; G.O. Hutchinson, Some New and Old Light, cit., p. 76.
[51] Ma v. T. Spagnuolo Vigorita, Casta domus, cit., p. 92.
[52] Cfr. Ov. trist. 1.7.15 ss., e in letteratura v. J.C. Thibault, The Mistery, cit., p. 36; F. della Corte, Introduzione, cit., p. 13; M. Labate, La carriera, cit., p. 87.
[53] Ov. trist. 2.63-66: Inspice maius opus, quod adhuc sine fine tenetur, / in non credendos corpora versa modos: / inventes vestri praeconia nominis illic, / invenies animi pignora multa mei; sul punto, v. M. Labate, La carriera, cit., pp. 87 s.
[54] Cfr. J.C. Thibault, The Mystery, cit., pp. 18 s.;A. Barchiesi, Il poeta, cit., p. 20.
[55] Cfr. D. Marin, Ovidio, cit., pp. 112 s.
[56] Cfr. D. Marin, Ovidio, cit., p. 108, secondo il quale il contenuto dell’Ars, «scandalosamente crudo e immorale, era in stridente antitesi con tutti i tentativi – spesso di vasto respiro e lungimiranti – fatti da Augusto per riportare la società del tempo sulla scia del mos maiorum»;B.T. Buchert, The Reasons for Ovid’s Banishment, in Akroterion, 1-2 (1974), p. 45; A. Luisi, Vendetta-perdono, cit., p. 278. Sul valore anticonformistico, rispetto alla morale familiare e pubblica che Augusto intendeva restaurare, delle opere erotiche ovidiane e del modello di vita propugnato dal poeta, v. T. Spagnuolo Vigorita, Casta domus, cit., pp. 38 ss.
[57] Ov. trist. 2.251-252; Pont. 3.3.51-58.
[58] Ov. trist. 2.211-212; 2.240-242; 2.249-250 (ove sono riportati alcuni versi dell’Ars); Pont. 3.3.53-58.
[59] Cfr. T. Spagnuolo Vigorita, La data della lex Iulia de adulteriis, in Iuris vincula. Studi in onore di M. Talamanca, vol. VIII, Napoli, 2001, pp. 85 ss. Sui problemi di datazione di questo provvedimento v. anche P. Giunti, Adulterio e leggi regie. Un reato fra storia e propaganda, Milano, 1990, pp. 223 s., n. 35, e G. Rizzelli, Lex Iulia de adulteriis. Studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, Lecce, 1997, p. 10 e n. 3.
[60] Cfr. J.A.C. Thomas, Lex Julia de adulteriis coercendis, in Études offertes à J. Macqueron, Aix en Provence, 1970, p. 638;W.-W. Ehlers, Poet, cit., p. 146;T.A.J. McGinn, Concubinage and the Lex Iulia on Adultery, in TAPhA, (1991), pp. 340 s.;B. Santalucia, Augusto e i iudicia publica, in Gli ordinamenti giudiziari di Roma imperiale. Princeps e procedure dalle leggi Giulie ad Adriano. Atti del convegno internazionale di diritto romano e del III Premio romanistico «G. Boulvert». Copanello, 5-8 giugno 1996, a cura di F. Milazzo, Napoli, 1999, p. 261.
[61] Cfr., per tutti, G. Pugliese, Linee generali dell’evoluzione del diritto penale pubblico durante il principato, in ANRW, II.14, Berlin - New York, 1982, p. 731, n. 17; P. Giunti, Adulterio, cit., p. 230, n. 42; B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, 2a ed., Milano, 1998, pp. 201 ss.; G. Rizzelli, Lex Iulia de adulteriis, cit., passim.
[62] Si v. i celebri versi di Ov. trist. 2.211-212, ove il poeta ricorda che il princeps lo aveva accusato di essere divenuto maestro di turpe adulterio (‘obsceni doctor adulterii’), nonché D. Liebs, Vor den Richtern, cit., p. 82.
[63] Cfr. A. Schilling, Poena extraordinaria, cit., p. 94.
[64] Cfr. ivi, p. 98.
[65] Cfr. ibidem. Sul passo, v. anche G. Rizzelli, Lex Iulia de adulteriis, cit., p. 166, e U. Agnati, Costantino e le donne della locanda (CTh. 9.7.1 = C. 9.9.28), in TSDP, (2015), p. 25.
[66] Magari imputando al Sulmonese una sorta di “partecipazione morale” all’adulterio commesso della nipote Giulia minore, condannata sempre nell’8 d.C. alla relegatio, per aver intrattenuto una relazione extraconiugale con Decimo Giunio Silano: su tale vicenda v. oltre, alle nn. 83 e 183.
[67] Ov. trist. 2.353-355: Crede mihi, distant mores a carmine nostro / – vita verecunda est, Musa iocosa mea – / magnaque pars mendax operum est et ficta meorum; 4.8.33: Iamque decem lustri omni sine labe peractis; Pont. 2.7.49: Vita prior caret et sine labe peracta est; 4.8.19-20: sive velis qui sint mores inquirere nostri, / errorem misero detrahei, labe carent.
[68] Cfr. A. Luisi, Vendetta-perdono, cit., p. 280.
[69] Cfr. A. Barchiesi, Il poeta, cit., p. 22.
[70] Cfr. D. Marin, Ovidio, cit., p. 108;R. Syme, History, cit., p. 222; F. della Corte, Introduzione, cit., p. 18; A. Luisi, Il perdono, cit., p. 83.
[71] Sul punto, v. R. Syme, History, cit., p. 222; F. della Corte, Introduzione, cit., p. 18; D. Liebs, Vor den Richtern, cit., p. 83, il quale però denuncia l’inconsistenza di una simile obiezione.
[72] Ov. trist. 2.215-224; 2.237-250.In argomento, v. S.G. Nugent, Tristia 2, cit., p. 252; F. Norwood, The Riddle, cit., p. 155; F. Corsaro, Sulla relegatio, cit., p. 131; A. Barchiesi, Il poeta, cit., p. 22.
[73] Cfr. G. Focardi, Difesa, cit., pp. 94 s.; D. Liebs, Vor den Richtern, cit., p. 83; M. Labate, La carriera, cit., p. 87.
[74] Ov. trist. 4.10.99: Causa meae cunctis nimium quoque nota ruinae; cfr. J.C. Thibault, The Mystery, cit., p. 20; G.P. Goold, The Cause, cit., p. 95;F. della Corte, Introduzione, cit., p. 17.
[75] Cfr. F. Corsaro, Sulla relegatio, cit., p. 148.
[76] Cfr. D. Marin, Ovidio, cit., p. 148;J.C. Thibault, The Mystery, cit., p. 8; E. Meise, Untersuchungen, cit., p. 226; D. Liebs, Vor den Richtern, cit., p. 82, ma v. anche quanto si dirà oltre, al termine del § 3. Secondo R. Syme, History, cit., pp. 220 s., il contenuto del provvedimento augusteo era piuttosto vago, non precisando nulla né in ordine alle cause della relegatio, né rispetto all’indicazione del crimine di cui si sarebbe macchiato il poeta.
[77] Cfr. R. Syme, History, cit., p. 217; P. Green, Carmen et error, cit., p. 208.
[78] Ov. trist. 2.103-104: Cur aliquid vidi? Cur noxia lumina feci? / Cur imprudenti cognita culpa mihi?; 3.5.49-50: inscia quod crimen viderunt lumina, plector, / peccatumque oculos est habuisse meum; 3.6.27-28: Nec breve nec tutum, quo sint mea, dicere, casu / lumina funesti conscia facta mali; cfr. D. Marin, Ovidio, cit., p. 117; F. della Corte, Introduzione, cit., p. 17; A. Luisi, Vendetta-perdono, cit., pp. 282 s.; D. Liebs, Vor den Richtern, cit., pp. 84 s.
[79] Ov. trist. 4.4.43-44: … sic afuit omne / peccato facinus consiliumque meo.
[80] Ov. trist. 3.5.43-48: Denique non possum nullam sperare salutem, / cum poenae non sit causa cruenta meae. / Non mihi quaerenti pessumdare cuncta petitum / Caesareum caput est, quod caput orbis erat. / Non aliquit dixive, elatave lingua loquendo est, / lapsaque sunt nimio verba profana mero; 5.2.33: ... neque enim mea culpa cruenta est.
[81] Ov. trist. 1.5.41-42: Causa mea est melior, qui non contraria fovi / arma, sed hanc merui simplicitatte fugam; 2.51-52: Causa mea est melior, qui nec contraria dicor / arma nec hostiles esse secutus opes; Pont. 1.1.26: saeva deos contra non tamen arma tuli; 2.2.13-15: nec, quod Tydidae temeraria dextera fecit, / numina sunt telis ulla petita meis.
[82] Ov. trist. 3.5.45-46 (riprodotto sopra, n. 80).
[83] Queste affermazioni, nel loro complesso, potrebbero dar sostegno alla tesi che riallaccia la rovina di Ovidio al celebre scandalo che, sempre nell’8 d.C. (Tac. ann. 4.71.4), travolse la nipote di Augusto (Giulia minore), il suo presunto amante (Decimo Giunio Silano) e il marito di lei (Lucio Emilio Paullo), unitamente, come è probabile, ad altri membri dell’alta società (cfr. F. Norwood, The Riddle, cit., p. 151; F. Corsaro, Sulla relegatio, cit., pp. 161 ss.; M. Pani, Tendenze politiche della successione al principato di Augusto, Bari, 1979, pp. 77 ss.;G.P. Goold, The Cause, cit., pp. 102 s.; Ph.H. Leitner, Nasonis Relegatio, cit., pp. 161 ss.; D. Liebs, Vor den Richtern, cit., pp. 80 ss.; T. Spagnuolo Vigorita, Casta domus, cit., p. 91, n. 16). Giulia minore, al termine di un processo svoltosi davanti al Senato (cfr. T. Spagnuolo Vigorita, Casta domus, cit., p. 54, n. 217, sulla base di Tac. ann. 4.71.4), venne infatti condannata alla relegazione presso l’isola di Trimerus (l’attuale San Domino, la maggiore delle Tremiti), ufficialmente per aver violato la lex Iulia de adulteriis coercendis. La giovane, secondo l’accusa, aveva intrattenuto una relazione extraconiugale con Decimo Giunio Silano, anche’egli costretto, pur senza essere stato processato e condannato, a lasciare Roma (cfr. J.C. Thibault, The Mystery, cit., p. 56; R.A. Bauman, The Crimen Maiestatis, cit., p. 242). Ma non è tutto. Anche il marito di Giulia minore, nel medesimo torno di tempo (cfr. T. Spagnuolo Vigorita, Casta domus, cit., p. 54, n. 217, ma la circostanza è controversa: v. E. Meise, Untersuchungen, cit., pp. 37 s.), dovette allontanarsi forzatamente dalla capitale, perché accusato di aver cospirato contro Augusto (v. Svet. Aug. 19 e cfr. M. Pani, Lotte per il potere e vicende dinastiche. Il principato fra Tiberio e Nerone, in Storia di Roma. 2. L’impero mediterraneo. II. I principi e il mondo, a cura di G. Clemente - F. Coarelli - E. Gabba, Torino, 1991, 225; Ph.H. Leitner, Nasonis Relegatio, cit., pp. 162 s.; T. Spagnuolo Vigorita, Casta domus, cit., p. 54, n. 217). Questo insieme di eventi ha indotto diversi studiosi a sostenere, peraltro condivisibilmente, il carattere pretestuoso delle accuse di adulterio mosse a Giulia minore, che sarebbe stata allontanata dalla capitale per aver partecipato a quel disegno sedizioso che aveva visto coinvolto anche il marito (cfr. R. Syme, Tacitus, I, 1958, p. 404 e n. 1; F. Norwood, The Riddle, cit., p. 151; E. Meise, Untersuchungen, cit., pp. 42 ss.; R.A. Bauman, The Crimen Maiestatis, cit., pp. 242 ss.; contra G.P. Goold, The Cause, cit., p. 103) e che riguardava, con ogni probabilità, la scelta del successore di Augusto (cfr. D. Liebs, Vor den Richtern, cit., pp. 80 s.). È dunque ragionevole supporre che il princeps si fosse attivato per soffocare il clamore di una vicenda così delicata, in cui erano invischiate persone a lui molto vicine, facendo in modo che la nipote venisse punita per essersi macchiata di adulterio e che, al contempo, non si celebrassero processi pubblici nei confronti degli altri congiurati, come Decimo Giunio Silano e, a quanto pare ragionevole supporre (cfr., in questo senso, T. Spagnuolo Vigorita, Casta domus, cit., p. 54, n. 217), Lucio Emilio Paullo. Su tale intricata, e per molti versi ancora non del tutto chiara, vicenda, che anch’io (come D. Liebs, Vor den Richtern, cit., pp. 80 s., e molti altri) reputo in qualche modo connessa al bando di Ovidio, v. E. Meise, Untersuchungen, cit., pp. 35 ss.; R.A. Bauman, The Crimen Maiestatis, cit., pp. 242 ss.; F. della Corte, Introduzione, cit., p. 18, T. Spagnuolo Vigorita, Casta domus, cit., pp. 53 s., nonché A. Luisi, Vendetta-perdono, cit., pp. 284 s., il quale però – sulla scia di S.G. Owen, Introduction, cit., pp. 26 s., e di D. Marin, Ovidio, cit., p. 119 – nega una connessione tra il caso di Giulia minore e quello di Ovidio. Sulla nipote di Augusto, e sulle sue frequentazioni, v. E. Meise, Untersuchungen, cit., pp. 35 ss.; B. Levick, The Fall of Julia the Younger, in Latomus, (1976), pp. 301 ss.; T. Spagnuolo Vigorita, Casta domus, cit., pp. 53 s. e 136, n. 164.
[84] Il titolo di pater patriae fu ufficialmente conferito ad Augusto nel 4 a.C., ma nella prassi era già in uso da qualche anno: cfr. C. Cascione, Il senato, cit., pp. 481 s. e n. 171, con indicazione delle fonti rilevanti in argomento, nonché R.A. Bauman, The Crimen Maiestatis, cit., pp. 235 ss.
[85] Cfr. D. Liebs, Vor den Richtern, cit., p. 81.
[86] Cfr. P. Green, Carmen et error, cit., p. 204.
[87] Cfr. E. Meise, Untersuchungen, cit., p. 229.
[88] Sul punto, v. F. Corsaro, Sulla relegatio, cit., pp. 156 s.; J.C. Thibault, The Mystery, cit., pp. 20 e 118; F. della Corte, Introduzione, cit., p. 17. In Ov. trist. 3.4.13-14: Haec ego si monitor monitus prius ipse fuissem, in qua debebam forsitan urbe forem, invece, il poeta rimpiange di non essere stato consigliato a dovere in ordine alla condotta più opportuna da seguire.
[89] Cfr. G. Rizzelli, Adulterium. Immagini, etica, diritto, in RDR, (2008), pp. 78 s., n. 282.
[90] Ov. trist. 1.2.99-100: Immo ita, si me meus abstulit error, / stultaque mens nobis, non scelerata fuit; 3.6.35: stultitiamque meum crimen debere vocari; Pont. 1.6.20: stulta magis dici quam scelerata decet; 1.6.25: … ut non facinus, sic culpa vocanda est; 1.7.44: stultitiam dici crimina posse mea.
[91] Ov. trist. 2.104: Cur imprudenti cognita culpa mihi?
[92] Ov. trist. 1.5.41-42: Causa mea est melior, qui non contraria fovi / arma, sed hanc merui simplicitate fugam.
[93] Ov. Pont. 2.2.17: Nil nisi non sapiens possum timidusque vocari.
[94] Ov. Pont. 2.3.46: et mea non minimum culpa furoris habet.
[95] Ov. trist. 1.3.37-38: caelestique viro, quis me deceperit error, / dicite, pro culpa ne scelus esse putet; 2.109: Illa nostra die, qua me malus abstulit error; 3.5.52: sed partem nostri criminis error habet; 3.6.25-26: Idque ita, si nullum scelus est in pectore nostro, / principiumque mei criminis error habet; Pont. 2.2.55: Num tamen excuses errorirs origine factum; 2.5.61: Sic igitur, quasi me nullus deceperit error; 3.3.75-76: tu licet erroris sub imagine crimen obumbres, / non gravior merito iudicis ira fuit; cfr. G. Focardi, Difesa, cit., pp. 108 ss.; U.C.J. Gebhardt, Sermo iuris, cit., p. 342.
[96] Ov. trist. 4.4.39: Aut timor aut error nobis, prius obfuit error.
[97] Cfr. P. Green, Carmen et error, cit., p. 208; A. Luisi, Vendetta-perdono, cit., p. 285.
[98] Cfr. P. Green, Carmen et error, cit., p. 207; P. White, Ovid, cit., p. 16.
[99] Ov. trist. 3.6.33-34: Nil igitur referam nisi me peccasse, sed illo / praemia peccato nulla petita mihi; cfr. U.C.J. Gebhardt, Sermo iuris, cit., p. 343
[100] Ov. trist. 3.5.51-52: Non equidem totam possum defendere culpam, / sed partem nostri criminis error habet; Pont. 3.3.74: nec opotes a culpa dicere abesse tua. Sul riconoscimento di colpa di Ovidio, v. A. Luisi, Il perdono, cit., p. 92, nonché M.M. McGowan, Ovid, cit., pp. 59 s.
[101] Ov. Pont. 2.2.15-16: Est mea culpa gravis, sed quae me perdere solum / ausa sit, et nullum maius adorta nefas, ma v. anche trist. 1.2.98: a culpa facinus scitis abesse mea; 1.3.38: … pro culpa ne scelus esse putet; 3.1.52: non facinus causam, sed suus error habet; 4.1.24: et culpam in facto, non scelus, esse meo; 4.4.37-38: Hanc quoque, qua perii, culpam scelus esse negabis, / si tanti series sit tibi nota mali; 5.2.17: Et mea, si facinus nullum commisimus, opto; 5.4.18: conscius in culpa non scelus esse sua.
[102] Ov. trist. 2.29: Illa quidem iusta est, nec me meruisse negabo; Pont. 3.3.72-76: Scis aliud quod te laeserit esse magis. / Quicquid id est – neque enim debet dolor ipse referri, / nec potes a culpa dicere abesse tua – / tu licet erroris sub imagine crimen obumbres, / non gravior merito iudicis ira fuit (sta parlando Amore).
[103] Ov. trist. 1.9.63-64: Ergo ut defendi nullo mea posse colore, / sic excusari crimina posse puto; 3.5.51-51: Non equidem totam possum defendere culpam, / sed partem nostri criminis error habet; Pont. 1.7.41-42: Quod nisi delicti pars excusabilis esset, / parva relegari poena futura fuit, nonché 2.3.91-92: … mea crimina primi / erroris venia posse latere vides; cfr. D. Liebs, Vor den Richtern, cit., p. 84; F. della Corte, Introduzione, cit., p. 16.
[104] Cfr. D. Marin, Ovidio, cit., p. 120.
[105] Lo pensano, tra gli altri, anche D. Marin, Ovidio, cit., pp. 119 s.; Id., Intorno alle cause dell’esilio di Ovidio a Tomi, in Atti del Convegno internazionale ovidiano. Sulmona, maggio 1958, vol. I, Roma, 1959, pp. 35 s.;P. Green, Carmen et error, cit., p. 209; F. della Corte, Introduzione, cit., p. 13; A. Luisi, Il perdono negato, cit., p. 83; A. Luisi - N.F. Berrino, Culpa silenda. Le elegie dell’error ovidiano, Bari, 2002, p. 13;D. Liebs, Vor den Richtern, cit., pp. 81 e 84; M.M. McGowan, Ovid, cit., p. 46 e n. 35; A. Schilling, Poena extraordinaria, cit., p. 98; L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., p. 135. Non ritiene invece possibile prendere posizione a riguardo W. Kunkel, Über die Entstehung des Senatsgerichts, in Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-historische Klasse, München, 1969, p. 37, n. 51 (anche in Id., Kleine Schriften. Zum römischen Strafverfahren und zur römischen Verfassungsgeschichte, Weimar, 1974, pp. 267 ss.).
[106] Provvedimento che si tende a riportare al 27 a.C. (cfr. L. Solidoro, La disciplina del crimen maiestatis tra tardo antico e medioevo, in Crimina e delicta nel tardo antico. Atti del Seminario di Studi. Teramo, 19-20 gennaio 2001, a cura di F. Lucrezi – G. Mancini, Milano, 2003, 125), anche se non manca chi pensa all’8 a.C. (cfr. G. Pugliese, Linee, cit., p. 750). Sulle discussioni sorte in dottrina circa la matrice cesariana o augustea di questa lex v. M. Scognamiglio, Nullum crimen sine lege. Origini storiche del divieto di analogia in materia criminale, Salerno, 2009, p. 118, n. 69.
[107] Cfr. L. Solidoro, La disciplina, cit., pp. 129 ss. e 138 s.
[108] Cfr. R.A. Bauman, The Crimen Maiestatis, cit., pp. 235 ss. Sul rapporto tra il titolo di pater patriae e il concetto di maiestas, v. ora L. di Cintio, Pater patriae e maiestas. Un possibile nuovo modello normativo, in Iura & Legal Systems, 2 (2019), 9 ss.
[109] Come ha condivisibilmente rilevato D. Marin, Ovidio, cit., p. 116, «l’insistenza del poeta su alcuni particolari crimini da lui non commessi ci farebbe pensare che anche il proprio crimine fosse affine a questi, apartenesse alla stessa sfera e, pertanto, fosse da ricercare nella stessa direzione».
[110] Cfr. F. della Corte, Introduzione, cit., p. 14, nonché L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., pp. 135 s.
[111] Basti solo ricordare Ov. trist. 2.125-126: Cuius in eventu poenae clementia tanta est, / venerit ut nostro lenior illa metu. Sulla clementia romana, e sull’importanza che assunse per la propaganda imperiale, v. A. Schilling, Poena extraordinaria, cit., pp. 35 ss.
[112] Ov. trist. 1.1.20: id quoque, quod vivam, munus habere dei; 1.2.61: quamque dedit vitam mitissima Caesaris ira; 1.2.64: culpa mea est ipso iudice morte minor; 2.127-130: Vita data est, citraque necem tua constitit ira, o princeps parce viribus use tuis. / Insuper accedunt, te non adimente, paternae, / tamquam vita parum muneris esset, opes; 4.4.45-46: idque deus sentit; pro quo nec lumen ademptum, / nec mihi detractas possidet alter opes; 4.8.39-40: Ipsaque delictis victa est clementia nostris, / nec tamen error vita negata meo est; 5.2.55-61: Ira quidem moderata tua est, vitamque dedisti, / nec mihi ius civis nec mihi nomen abest, / nec mea concessa est aliis fortuna, nec exul / edicti verbis nominor ipse tui. / Omniaque haec timui, quia me meruisse videbam; / sed tua peccato lenior ira meo est. / Arva relegatum iussisti visere Ponti; 5.4.21-22: nam, quod opes teneat patrias, quod nomina civis, / denique quod vivat, munus habere dei; 5.9.11: Caesaris est primum munus, quod ducimus auras; 5.10.51-52: … Ipsam quoque perdere vitam, / Caesaris offenso numine dignus eram; 5.11.15-16: Nec vitam nec opes nec ius mihi civis ademit, / qui merui vitio perdere cuncta meo, ma v. pure Pont. 1.2.11: … cum me poena dignum graviore fuisse; 1.8.47: Nec vitam nec opes nec ademit posse reverti; cfr. D. Marin, Ovidio, cit., p. 122; F. della Corte, Introduzione, cit., p. 14; A. Luisi, Vendetta-perdono, cit., pp. 275 e 288 s.; J.F. Gaertner, Introduction, cit., p. 15.
[113] Cfr. C.W. Chilton, The Roman Law of Treason under the Early Principate, in JRS, (1955), p. 75; G. Pugliese, Linee, cit., p. 738; B. Santalucia, Diritto, cit., p. 196 e n. 31; R. De Castro-Camero, El crimen maiestatis a la luz del senatus consultum de Cn. Pisone Patre, Sevilla, 2000, pp. 53 ss.; A. Schilling, Poena extraordinaria, cit., p. 88; M. Melounová, Crimen maiestatis and the poena legis during the Principate, in AAntHung, 4 (2014), pp. 429 s. Di diverso avviso B.M. Levick, Poena legis maiestatis, in Historia, 3 (1979), pp. 358 ss. (e gli autori da questa indicati), secondo cui la lex Iulia de maiestate prevedeva la pena capitale.
[114] V. quanto si dirà meglio oltre, § 5.
[115] Cfr. R.S. Rogers, The Emperor’s Displeasure, cit., p. 374:P. Green, Carmen et error, cit., p. 208.
[116] Cfr. G. Pugliese, Linee, cit., p. 731.
[117] Ivi, pp. 724 s.
[118] Cfr. R. Syme, History, cit., p. 216.
[119] Tac. ann. 3.24.2, in cui lo storico critica l’imperatore per aver superato i limiti fissati dalla sua stessa legge (‘nam culpam inter viros ac feminas vulgatam gravi nomine laesarum religionum ac violatae maiestatis appellando clementiam maiorum suasque ipse leges egrediebatur’): cfr. B. Santalucia, Diritto, cit., p. 196, n. 29, e p. 257, n. 244, nonché F. della Corte, Introduzione, cit., p. 13.
[120] Tac. ann. 1.72.3: primus Augustus cognitionem de famosis libellis specie legis eius [cioè la lex Iulia de maiestate] tractavit, commotus Cassii Severi libidine, qua viros feminasque inlustris procacibus scriptis diffamaverat …; cfr. B. Santalucia, Diritto, cit., p. 257, n. 244.
[121] Cfr. T. Mommsen, Römisches Strafrecht, Leipzig, 1899, p. 801, n. 1; J.G.C. Anderson, Augustan Edicts from Cyrene, in JRS, (1927), p. 47; C.W. Chilton, The Roman Law, cit., p. 75; W. Kunkel, Über die Entstehung, cit., p. 37. A favore dell’8 d.C. si sono invece schierati, tra gli altri, H. Volkmann, Zur Rechtsprechung im Principat des Augustus. Historische Beiträge, München, 1935, p. 88, n. 2; F. De Marini Avonzo, La funzione giurisdizionale del Senato romano, Milano, 1957, pp. 22 s. e n. 22; R.A. Bauman, Impietas in principem. A study of treason against the Roman emperor, with special reference to the first century A.D., München, 1974, pp. 29 ss.; R. Syme, History, cit., p. 213; D. Lassandro, La condanna di Cassio Severo, in Processi e politica nel mondo antico, a cura di M. Sordi, Milano, 1996, p. 213 e n. 3; P.E. Knox, Il poeta, cit., p. 174; A. Balbo, I frammenti degli oratori dell’età augustea e tiberiana. I. Età augustea, Alessandria, 2004, pp. 224 s., i quali valorizzano in particolare quanto riporta il Chronicon di San Gerolamo, in cui la morte di Cassio è collocata nel 32 d.C., espressamente considerato il suo venticinquesimo anno di esilio (disposto, dunque, nell’8 d.C.): Cassius Severus orator egregius, qui Quintianum illud proverbium luserat, XXV exilii sui anno in summa inopia moritur vix panno verenda contectus,
[122] Cfr. F. De Marini Avonzo, La funzione, cit., pp. 22 s.; G. Pugliese, Linee, cit., pp. 737 s. e 751; D. Lassandro, La condanna, cit., pp. 213 ss.
[123] Tac. ann. 1.72.3, riprodotto sopra, in n. 120; cfr. R. Syme, History, cit., p. 213;B. Santalucia, Diritto, cit., p. 235; L. Solidoro, La disciplina, cit., p. 145.
[124] Tac. ann. 4.21.3.
[125] Cfr. F. De Marini Avonzo, La funzione, cit., pp. 22 s.; G. Pugliese, Linee, cit., p. 738.
[126] Cfr. B. Santalucia, Diritto, cit., p. 257, n. 244; Id., Augusto, cit., p. 275.
[127] Cfr. D. Lassandro, La condanna, cit., p. 218.
[128] Cfr. F. De Marini Avonzo, La funzione, cit., pp. 22 s.; F. De Martino, Storia della costituzione romana, vol. IV.1, 2a ed., Napoli, 1974, p. 568, n. 62; G. Pugliese, Linee, cit., pp. 737 s.
[129] Cfr., in questo senso, D. Marin, Ovidio, cit., p. 148; E. Meise, Untersuchungen, cit., p. 226; D. Liebs, Vor den Richtern, cit., p. 82; A. Schilling, Poena extraordinaria, cit., p. 99.
[130] È questa l’opinione anche di D. Liebs, Vor den Richtern, cit., p. 87. Così ragionando, peraltro, si potrebbe anche meglio spiegare su quali basi quel nemico misterioso di Ovidio, da lui più volte evocato nei suoi scritti (e destinatario di uno di essi: l’Ibis), cercò di trarre profitto dalla sventura toccata in sorte al poeta, una volta che questi abbandonò la capitale. Da Ov. trist. 1.6.7-16: siquid adhuc ego sum, muneris omne tui est. / Tu facis, ut spolium non sim, nec nuder ab illis, / naufragii tabulas qui petiere mei. / Utque rapax stimulante fame cupidusque cruoris / incustoditum captat ovile lupus, / aut ut edax vultur corpus circumspicit ecquod / syb nulla positum cernere possit humo, / sic mea nescioquis, rebus male fidus acerbis / in bona venturus, si paterere, fuit. / Hunc per tua per fortis virtus summovit amicos, / nulla quibus reddi gratia digna potest,e Ib. 17-22: cumque ego quassa meae complectar membra carinae, / naufragii tabulas pugnat habere mei, / et, qui debuerat subitas extinguere flammas, / hic praedam medio raptor ab igne petit. / Nititur ut profugae desinit alimenta senectae. / Heu quanto est nostris dignior ipse malis!, sembra lecito ricavare che tale personaggio mirasse ad appropriarsi dei beni del poeta. Forse, per raggiungere un simile risultato, si adoperò affinché venissero puniti a titolo di lesa maestà le condotte che configuravano l’error ovidiano, in modo da conseguire le ricompense previste dalla lex Iulia de maiestate per i delatori (Tac. ann. 4.20.2): cfr., in una simile prospettiva, A. La Penna, Prolegomeni, in Publi Ovidi Nasonis Ibis. Prolegomeni, testo, apparato critico e commento, a cura di A. La Penna, Firenze, 1957, p. viii; P. Green, Carmen et error, cit., pp. 204 s., n. 18; S.G. Owen, Introduction, cit., pp. 46 s. (contra J.C. Thibault, The Mystery, cit., pp. 15 s., con argomenti che non appaiono però decisivi). La dottrina ha variamente tentato di identificare chi fosse questo personaggio (v. A. La Penna, Prolegomeni, cit., pp. xiii ss.), che Ovidio mai fa uscire dall’anonimato (Ov. trist. 4.9.1; Ib. 49-50): tra le varie ipotesi prospettate, si è anche pensato a C. Ateio Capitone, giurista in effetti molto vicino ad Augusto (cfr. R. Verdière, Un amour secret d’Ovide, in AC, 2 (1971), pp. 634 s.; Id., Le secret, cit., 131; L. Janssen, Deux complexes d’acrostiches delateurs d’Ibis, alias C. Ateius Capito. Le mysticism du culte d’Abrasax, in RPh, (1981), pp. 57 ss.; D. Liebs, Vor den Richtern, cit., pp. 83 s., secondo il quale Augusto potrebbe aver ricevuto dal giurista consigli di natura legale su come procedere nei confronti del poeta di Sulmona; scettico in ordine a tale identificazione U.C.J. Gebhardt, Sermo iuris, cit., p. 343).
[131] Cfr. E. Meise, Untersuchungen, cit., p. 226, n. 18; D. Liebs, Vor den Richtern, cit., p. 82. Significativo quanto riportato in Ov. Pont. 2.9.73-76: Neve roges, quae sit, stultam conscripsimus Artem: / innocuas nobis haec vetat esse manus. / Ecquid praeterea peccarim, quaerere noli, / ut laetat sola cula sub Arte mea, su cui v. S.G. Owen, Introduction, cit., p. 10.
[132] Cfr. A. Schilling, Poena extraordinaria, cit., p. 99.
[133] Cfr. T. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., pp. 698 s.; C. Ferrini, Diritto penale romano. Esposizione storica e dottrinale, Roma, 1976, p. 365; T.A.J. McGinn, Concubinage, cit., p. 341 e n. 27, con ulteriore letteratura; B. Santalucia, Diritto, cit., p. 204; Id., Recensione ad A. Schilling, Poena extraordinaria, cit., in ZRG, (2012), pp. 845 s.; D. Liebs, Vor den Richtern, cit., p. 80; M. Melounová, Crimen maiestatis, cit., p. 420. Oltre alla relegatio, la lex Iulia de adulteriis coercendis comminava la confisca di una parte dei beni dei colpevoli: la donna subiva la publicatio di metà della dote e di un terzo dei beni parafernali; l’uomo della metà del patrimonio (cfr., sulla base di Paul. Sent. 2.26.14, R.A. Bauman, The Crimen Maiestatis, cit., p. 202;B. Santalucia, Diritto, cit., p. 204). Tuttavia, vi è anche chi ritiene che la lex Iulia de adulteriis coercendis prevedesse esclusivamente una pena patrimoniale: cfr. U. Brasiello, La repressione penale in diritto romano, Napoli, 1937, pp. 93 s.; C. Venturini, Accusatio adulterii e politica costantiniana (Per un riesame di CTh. 9.7.2), in Studi di diritto delle persone e di vita sociale in Roma antica. Raccolta di scritti, a cura di A. Palma, Napoli, 2014, p. 53, n. 61 (ma già in SDHI, (1988), pp. 66 ss.); C. Sánchez-Moreno Ellart, La relegatio in insulam y su progresiva definición durante el Principado, in Movilidad forzada entre la Antigüedad Clásica y Tardía, ed. M. Vallejo Girvés - J.A. Bueno Delgado - C. Sánchez-Moreno Ellart, Alcalá de Henares, 2015, pp. 40 s. Anche A. Schilling, Poena extraordinaria, cit., pp. 83 s., esclude che la poena prevista dalla lex Iulia de adulteriis coercendis fosse la relegatio (raccogliendo le critiche di B. Santalucia, Recensione ad A. Schilling, Poena extraordinaria, cit., pp. 845 s.).
[134] B. Santalucia, Diritto, cit., p. 235, ad avviso del quale si può «legittimamente supporre che negli ultimi anni del principato di Augusto la giurisdizione criminale dell’assemblea senatoria fosse già in buona misura stabilizzata». In argomento, v. anche A.H.M. Jones, Imperial and Senatorial Jurisdiction in the Early Principate, in Historia, (1955), p. 480; F. De Marini Avonzo, La funzione, cit., p. 23; Ead., Il senato romano nella repressione penale, Torino, 1977, p. 121; J. Bleicken, Senatsgericht und Kaisergericht. Eine Studie zur Entwicklung des Prozeßrechtes im frühen Prinzipat, Göttingen, 1962, p. 30; T. Masiello, Osservazioni sulla cognitio senatoria in materia penale, in Diritto e giustizia nel processo. Prospettive storiche, costituzionali e comparatistiche, a cura di C. Cascione - C. Masi Doria, Napoli, 2002, pp. 451 s.; F. Arcaria, Diritto e processo penale in età augustea. Le origini della cognitio criminale senatoria, Torino, 2009, pp. 1 ss.; Id., Quod ipsi Gallo inter gravissima crimina ab Augusto obicitur. Augusto e la repressione del dissenso per mezzo del Senato agli inizi del principato, Napoli, 2013, pp. 3 ss., nonché C. Cascione, Il senato, cit., p. 483 e n. 188, ove ulteriori indicazioni bibliografiche.
[135] Cfr. D. Liebs, Vor den Richtern, cit., pp. 79 e 82; M.M. McGowan, Ovid, cit., p. 20.
[136] Cfr. J. Bleicken, Senatsgericht, cit., p. 30; J.C. Thibault, The Mystery, cit., p. 7; R.S. Rogers, The Emperor’s Displeasure, cit., p. 373;T. Masiello, Osservazioni, cit., p. 451; C. Sánchez-Moreno Ellart, La relegatio in insulam, cit., p. 30; C. Cascione, Il senato, cit., p. 483 e n. 187; L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., p. 128.
[137] Cfr. J.C. Thibault, The Mystery, cit., p. 7; A. Schilling, Poena extraordinaria, cit., p. 98; C. Sánchez-Moreno Ellart, La relegatio in insulam, cit., p. 30.
[138] Cfr. J.C. Thibault, The Mystery, cit., pp. 5 ss.; G.P. Goold, The Cause, cit., p. 99; A. Luisi, Vendetta-perdono, cit., p. 275; M.M. McGowan, Ovid, cit., p. 38; M. Labate, La carriera, cit., p. 85. Escludono la celebrazione di un processo T. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., p. 974, n. 2; W. Kunkel, Über die Entstehung, cit., p. 37, t. 51; R.S. Rogers, The Emperor’s Displeasure, cit., p. 374; Ph.H. Leitner, Nasonis Relegatio, cit., p. 150; E.L. Grasmück, Exilium. Untersuchungen zur Verbannung in der Antike, Paderborn - München - Wien - Zürich, 1978, p. 136; P. Green, Carmen et error, cit., p. 205; T. Spagnuolo Vigorita, Casta domus, cit., pp. 55 s.
[139] Cfr. P. Green, Carmen et error, cit., p. 205;A. Rădulescu, Ovid, cit., p. 51; D. Liebs, Vor den Richtern, cit., p. 82; A. Schilling, Poena extraordinaria, cit., p. 99.
[140] Cfr. A. Schilling, Poena extraordinaria, cit., p. 98.
[141] Cfr. J.C. Thibault, The Mystery, cit., p. 8.
[142] Si v. anche Ov. Pont. 2.7.56: Addita sunt poenis aspera verba meis.
[143] Cfr. J.C. Thibault, The Mystery, cit., pp. 7 s.
[144] Lo pensano, ad esempio, B. Santalucia, Diritto,cit., p. 217; D. Liebs, Vor den Richtern, cit., p. 87 («Wir sehen uns in diesem Prozess mit den Anfängen des Kaisergerichts konfrontiert»); A. Schilling, Poena extraordinaria, cit., p. 98; C. Sánchez-Moreno Ellart, La relegatio in insulam, cit., p. 50; C. Cascione, Il senato, cit., p. 483, n. 189.
[145] Cfr. H. Volkmann, Zur Rechtsprechung, cit., pp. 185 s.; L. Wenger, Die Quellen, cit., p. 229; A.H.M. Jones, Studies in Roman Government and Law, Oxford, 1960, pp. 14 e 178 s., n. 42;J. Bleicken, Senatsgericht, cit., p. 70; R.S. Rogers, The Emperor’s Displeasure, cit., pp. 373 s.;F. De Martino, Storia, cit., pp. 207 s.; E.L. Grasmück, Exilium, cit., p. 136;R.A. Bauman, The Crimen Maiestatis, cit., p. 244; J.F. Gaertner, Introduction, cit., p. 14; T. Spagnuolo Vigorita, Casta domus, cit., pp. 55 s.; U.C.J. Gebhardt, Sermo iuris, cit., p. 336. Sulla potestà di disporre limitazioni alla libertà di spostamento da parte dei magistrati dotati di imperium, v. T. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., pp. 964 ss.; G. Kleinfeller, s.v. Relegatio, in PWRE, XX, Stuttgart, 1920, c. 563 s.; G.P. Kelly, A History of Exile in the Roman Republic, Oxford, 2006, pp. 65 ss.; C. Sánchez-Moreno Ellart, La relegatio in insulam, cit., p. 38 e n. 25.
[146] Cfr. F. De Martino, Storia, cit., pp. 207 s., che scrive: «Il notissimo esempio della relegazione di Ovidio nell’8 d.C., determinata dai suoi legami con i corrotti circoli dell’aristocrazia e dall’eccessiva libertà della giovane Giulia o forse anche dal fatto che egli nella sua Ars amatoria aveva dedicato i suoi versi alla esaltazione dell’adulterio, punito dalle leggi augustee, rientra appunto nell’esercizio della coercitio tribunicia da parte dell’imperatore. Non si trattò infatti di un vero e proprio exilium, che i tribuni non potevano decretare, ma di una misura di polizia, consistente nell’allontanamento dalla città ed aggravata con la misura dell’internamento o confino, come oggi si direbbe, in un luogo lontano. Ciò avvenne mediante un editto tribunicio del principe». Sul punto, v. anche L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., p. 128.
[147] Cfr. D. Liebs, Vor den Richtern, cit., pp. 80 e 87. Sennonché, tale edictum potrebbe anche essere l’atto con cui il princeps comunicò la decisione assunta nei confronti del poeta, analogamente a quanto aveva fatto con il secondo dei suoi editti ai Cirenei, attraverso il quale aveva dato notizia degli esiti di una delicata inchiesta condotta a Roma a carico di tre cittadini romani residenti in Cirenaica, accusati, con ogni probabilità, proprio del crimen di lesa maestà (cfr. V. Arangio-Ruiz, L’editto di Augusto ai Cirenei, in Id., Studi epigrafici e papirologici, a cura di L. Bove, Napoli, 1974, pp. 23 s.; Id., Storia del diritto romano, 7a ed., Napoli, 1957 (rist. 2006), p. 243, ma soprattutto G. Purpura, Gli Edicta Augusti ad Cyrenenses e la genesi del SC Calvisiano, in AUPA, (2012), pp. 463 e 472 ss., anche per la letteratura in argomento).
[148] Cfr. T. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., p. 48.
[149] Sul quale, v. E. Klebs, s.v. Aelius, n. 75, in PWRE, I, Stuttgart, 1894, c. 552.
[150] Si v. anche Cic. p. red. in sen. 5.12; Pis. 27.64; fam. 11.16.2 e 12.29.1, nonché F. von der Mühll, s.v. Gabinius, n.11, in PWRE, VII, Stuttgart, 1912, c. 426.
[151] Su di lui, v. G. Falcone, Per una datazione del «De verborum quae ad ius pertinent significatione» di Elio Gallo, in AUPA, (1991), cit., pp. 225 ss.
[152] Cfr. R. Orestano, s.v. Gallo C. Elio, in Noviss. dig. it., vol. VII, 1968, p. 738; J. Bleicken, Lex publica. Gesetz und Recht in der römischen Republik, Berlin, 1975, p. 216, n. 79; O. Behrends, Der römische Gesetzesbegriff und das Prinzip der Gewaltenteilung, in Zum römischen und neuzeitlichen Gesetzesbegriff. 1. Symposion der Kommission „Die Funktion des Gesetzes in Geschichte und Gegenwart“ vom 26. und 27. April 1985, hrsg. O. Behrends - Ch. Link, Göttingen, 1987, p. 106, n. 224 (ora anche in O. Behrends, Zur römischen Verfassung. Ausgewählte Schriften, Göttingen, 2014, pp. 129 ss., in particolare p. 201, n. 224). Di diverso avviso G. Falcone, Per una datazione, cit., pp. 225 ss., secondo il quale Elio Gallo visse tra il II e il I secolo a.C.
[153] Proprio alla luce di queste testimonianze, attestanti l’impiego di editti per disporre misure di relegazione, ho scelto di non affrontare una questione che pur meriterebbe di essere attentamente vagliata (come mi auguro di poter fare in futuro): quella concernente le affinità e le divergenze tra il contenuto e la portata dell’‘edictum’ ovidiano di cui Ov. trist. 2.135 e gli altri editti emanati da Augusto e dai suoi immediati successori, ovviamente alla luce degli approdi cui è giunta lo storiografia romanistica in ordine alla struttura e all’efficacia di questa forma provvedimentale.
[154] I Tristia e le lettere dal Mar Nero contengono molteplici allusioni a tale connessione, ma anche in un’opera come i Fasti sembra possibile scorgere qualche indizio in tal senso. Penso in particolare al racconto legato alla festa delle Quinquatrus minores (v. Ov. fast. 6.655 ss.), ove viene narrato l’esilio di alcuni flautisti disposto dalle autorità romane, in una vicenda che presenta diverse consonanze con la situazione dell’Ovidio relegato (cfr. A. Barchiesi, Il poeta, cit., p. 80). L’esilio dei flautisti viene infatti ritirato, con riabilitazione completa della loro ars: e ciò, con ogni probabilità, proprio grazie all’intervento di un censore, che sembrerebbe aver agito «contro la severità del suo collega in carica» (ivi, p. 81). Vi è infine un altro elemento, sempre conservato nell’opera ovidiana, che potrebbe suffragare la ricostruzione qui affacciata. In Ov. trist. 2.541-542,Ovidio ricorda che Augusto, già prima dell’8 d.C., avrebbe potuto punirlo per le sue abitudini e il suo stile di vita, scegliendo invece di non farlo, come ad esempio in occasione della cerimonia della transvectio equitum, la tradizionale sfilata annuale che i cavalieri effettuavano davanti al censore e che si concludeva con la consegna dei codicilli a chi era riconosciuto degno di far parte dell’ordine equestre. E se in epoca repubblicana tale compito era svolto dai censori, Augusto – ristabilita la cerimonia in parola (Svet. Aug. 38.3) dopo un periodo di desuetudine (cfr. F. Rebecchi, Per l’iconografia della transvectio equitum. Altre considerazioni e nuovi documenti, in L’ordre équestre. Histoire d’une aristocratie [IIe siècle av. J.-C. - IIIe siècle ap. J.-C.]. Actes du colloque international de Bruxelles - Leuven. 5-7 octobre1995, Rome, 1999, pp. 194 s. e n. 23) – lo avocò a sé, esercitandolo anche tramite i triumviri turmas equitum recognoscendi (cfr. ivi, p. 195 e n. 26).In occasione di tale sfilata, a cui Ovidio prese parte più volte dopo la pubblicazione dell’Ars, il princeps – sottolinea il poeta – mai gli rimproverò alcunché circa il suo stile di vita e le sue abitudini passate (cfr. F. della Corte, Le leges Iuliae, cit., p. 555): v. Ov. trist. 2.89-92: At, memini, vitamque meam moresque probabas / illo, quem dederas, praetereuntis equo: / quod si non prodest et honesti gloria nulla / redditur, at nullum crimen adeptus eram, e trist. 2.541-542: carminaque edideram, cum te delicta notantem / praeterit totiens inreprehensus eques.
[155] Cfr. F. De Martino, Storia, cit., pp. 207 s.; T. Spagnuolo Vigorita, La data, cit., p. 81;L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., p. 127. Questo passaggio delle Res gestae ha suscitato un intenso dibattito in dottrina, perché sembrerebbe porsi in contrasto con quanto riferiscono Svet. Aug. 27.5 e Dio 54.30.1; 54.10.5 (cfr. A. Guarino, Res gestae divi Augusti. Testo critico, introduzione, traduzione e commento, 2a ed., Napoli, 1968, p. 31). In Res gestae divi Augusti 6.1-2, infatti, Augusto dichiara di aver rifiutato per ben tre volte (nel 19, nel 18 e nell’11 a.C.) l’ufficio di curator legum et morum offertogli dal Senato e dal popolo romano, giacché in contrasto con i mores maiorum (su questo atteggiamento del princeps, v. F. Costabile - O. Licandro, Tessera Paemeiobrigensis. Un nuovo editto di Augusto dalla «Transduriana provincia» e l’imperium proconsulare del princeps, Roma, 2000, pp. 89 s.). Svetonio, però, in Aug. 27.5, riferisce che Augusto ebbe in perpetuo il controllo sui costumi e sulle leggi (‘recepit et morum legumque regimen aeque perpetuum, quo iure, quamquam sine censurae honore, censum tamen populi ter egit; primum ac tertium cum collega, medium solus’), mentre Dione Cassio, in 54.30.1 e 54.10.5, afferma che fu eletto due volte ‘ἐπιμελητὴςτῶντρόπων’, ossia curator morum (ma sull’espletamento di tali compiti da parte di Augusto, v. anche i cenni contenuti in Hor. epod. 2.1.2-3; carm. 4.5.21-24;4.15.8-12;Ov. trist. 2.233-234; met. 15.832-834). Molti, sulla scia del Mommsen, hanno svalutato le testimonianze degli storici, affidandosi a quanto versato nelle Res gestae. Alcuni autori (come P. De Francisci, La costituzione augustea, in Augustus. Studi in occasione del bimillenario augusteo, Roma, 1938, p. 92; F. De Martino, Storia, cit., pp. 204 ss.) hanno cercato di appianare il contrasto, ponendo l’accento sulla distinzione intercorrente tra il ricoprire una certa carica ed esercitare le relative funzioni. Augusto, rispetto ai compiti di controllo delle leggi e dei costumi, avrebbe sì declinato l’offerta di rivestire ufficialmente la magistratura di curator legum et morum propostagli dal Senato, ma non avrebbe affatto rifiutato di espletare i relativi compiti, come risulta per l’appunto da Res gestae divi Augusti 6.2, ove si lascia esplicitamente intendere che il princeps assunse tale funzione – «forse dapprima a titolo temporaneo e poi a titolo perpetuo» (A. Guarino, Res gestae divi Augusti, cit., p. 31) – incorporandola nella potestas tribuncia.
[156] Per il testo, che ho riportato senza segni diacritici, mi sono affidato a Res gestae divi Augusti, éd.J. Scheid, Paris, 2007.
[157] Cfr. L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., p. 127.
[158] Del resto, è quanto hanno fatto di recente anche due studiosi del calibro di L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., pp. 127 s., e di D. Liebs, Vor den Richtern, cit., p. 87.
[159] Ov. trist. 1.1.3; 1.2.74; 1.3.82; 2.185; 3.1.1; 3.3.36; 3.13.3; 3.14.13; 4.1.3; 4.2.49; 4.10.74; 5.9.6; Pont. 2.6.3; cfr. G. Focardi, Difesa, cit., pp. 121 ss.
[160] Lo ricorda in più occasioni: v. Ov. trist. 2.129-130: Insuper accedunt, te non adimente, paternae, / tamquam vita parum muneris esst, opes; 4.9.11: Omnia, si nescis, Caesar mihi iura reliquit; 5.2.55-61: Ira quidem moderata tua est, vitamque dedisti, / nec mihi ius civis nec mihi nomen abest, / nec mea concessa est aliis fortuna …; 5.4.21-22: nam, quod opes tenat patrias, quod nomina civis, / demique quo vivat, munus habere dei; 5.11.15: Nec vitam nec opes nec ius mihi civis ademit; Pont. 1.7.47: Nec vitam nec opes nec ademit posse reverti.
[161] Cfr. B. Santalucia, Diritto, cit., pp. 182 s.; Id., La situazione, cit., p. 10; G.P. Kelly, A History, cit., pp. 39 ss.; U.C.J. Gebhardt, Sermo iuris, cit., p. 335.
[162] E ciò, sin dai tempi più antichi della storia romana, quando l’esilio era ancora un “meccanismo” attraverso il quale un civis Romanus poteva evitare una condanna abbandonando il suolo patrio con il tacito consenso dell’autorità, che pronunciava nei suoi confronti un provvedimento noto con il nome di aqua et igni interdictio (cfr. R. De Castro-Camero, El crimen maiestatis, cit., pp. 59 ss.). Tale provvedimento «consisteva nel bando del reo da una parte del territorio romano, di regola da Roma e dall’Italia, sotto minaccia di morte nel caso di abusivo rientro in patria» (B. Santalucia, La situazione patrimoniale dei deportati in insulam, in Carcer II. Prison et privation de liberté dans l’Empire romain et l’Occident médiéval. Actes du colloque de Strasbourg [décembre 2000], éd. C. Bertrand-Dagenbach - A. Chauvot - J.-M. Salamito - D. Vaillancourt, Paris, 2004, p. 10) e comportava, per alcuni non ab origine, la perdita della cittadinanza romana e delle prerogative a essa connesse (cfr. B. Santalucia, Diritto, cit., p. 88; in una diversa prospettiva, v. G.P. Kelly, A History, cit., pp. 45 s.). Sul tema dell’esilio la letteratura è molto ampia: per una prima trattazione della materia, v. G. Crifò, s.v. Esilio (parte storica), in Enc. dir., vol. XV, Milano, 1966, pp. 712 ss.; B. Santalucia, Diritto, cit., pp. 88 e 182 ss.; R. De Castro-Camero, El crimen maiestatis, cit., pp. 59 ss.; G.P. Kelly, A History, cit., pp. 17 ss.
[163] Originariamente, infatti, l’interdictio aqua et igni non determinava, quale conseguenza automatica della sua pronuncia, la confisca dei beni del destinatario di tale provvedimento. Fu Cesare che mutò questo stato di cose, stabilendo – se prestiamo fede a Svet. Iul. 42.3 – che i colpevoli di parricidio fossero spogliati di tutte le loro sostanze, mentre i responsabili di altri crimini della metà. La misura fu successivamente inasprita (non ci è dato sapere quando: v. B. Santalucia, La situazione, cit., p. 11), eliminando la distinzione tra confisca totale o parziale dei beni: chi aveva subito l’interdizione veniva privato in ogni caso di tutte le sue sostanze, a prescindere dal tipo di reato commesso. Sul punto, v. B. Santalucia, La situazione, cit., p. 11; Id., Diritto, cit., p. 88 e n. 69, ove ulteriori indicazioni bibliografiche.
[164] Cfr. G.P. Kelly, A History, cit., p. 19.
[165] B. Santalucia, La situazione, cit., p. 12.
[166] Almeno finché, con Tiberio, non si affermò la prassi, sino ad allora sconosciuta, di imporre al destinatario di un’interdictio aqua et igni l’obbligo di dimora presso un luogo determinato (di norma, un’isola), ponendo così le basi per la nascita della sanzione designata con il nome di deportatio: cfr. B. Santalucia, La situazione, cit., pp. 16 s.
[167] Ov. trist. 1.5.83-84: at mihi perpetuo patria tellure carendum est, / ni fuerit laesi mollior ira dei.
[168] Limitazione che era per il poeta motivo di grande sofferenza: cfr. L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., p. 132.
[169] Ov. trist. 2.8; 3.1.59-82; 3.1.65-74; 3.14.17; Pont. 1.1.12. Sul punto, v. S.G. Owen, Introduction, cit., pp. 45 s.; J.C. Thibault, The Mystery, cit., p. 11; G.P. Goold, The Cause, cit., p. 100; P. Green, Carmen et error, cit., p. 206; P. White, Promised Verse. Poets in the Society of Augustan Rome, Cambridge MA - London, 1993, pp. 153 s.; Id., Ovid, cit., p. 16; D. Liebs, Vor den Richtern, cit., p. 85; M.M. McGowan, Ovid, cit., p. 46; T. Spagnuolo Vigorita, Casta domus, cit., p. 56; L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., p. 136.
[170] Cfr. M.M. McGowan, Ovid, cit., p. 51; A. Schilling, Poena extraordinaria, cit., p. 100; U.C.J. Gebhardt, Sermo iuris, cit., pp. 335 s.; L. Labruna, «Relegatus, non exul», cit., p. 136, ma v. altresì Ov. trist. 5.2.57-61: ... nec exul edicti verbis nominor ipse tui. / ... /Arva relegatum iussisti visere Ponti; 5.11.9-10: Fallitur iste tamen, quo iudice nominor exul: / mollior est culpam poena secuta meam. Sul percorso di emersione della relegatio come sanzione criminale, e sulla configurazione originaria della stessa, v. C. Sánchez-Moreno Ellart, La relegatio in insulam, cit., pp. 29 ss.
[171] Cfr. P. Green, Carmen et error, cit., p. 205; Ph.H. Leitner, Nasonis Relegatio, cit., p. 150.Ben diversa è la ricostruzione di A. Schilling, Poena extraordinaria, cit., pp. 100 s., secondo cui: «In Wahrheit war Ovid exul und seine Strafe Verbannung, was man in dieser Zeit aqua et igni interdictio oder exilium nannte».
[172] Cfr. A. Schilling, Poena extraordinaria, cit., p. 46.
[173] Cfr. G. Kleinfeller, s.v. Relegatio, cit., c. 563 s.; W.-W. Ehlers, Poet, cit., p. 148;B. Santalucia, La situazione, cit., p. 13.
[174] Cfr. S.G. Owen, Introduction, cit., p. 19; Ph.H. Leitner, Nasonis Relegatio, cit., p. 163;A. Schilling, Poena extraordinaria, cit., pp. 94 e 99.
[175] P. Giunti, Adulterio, cit., p. 246, n. 81; v. anche F. della Corte, Le leges Iulia, cit., pp. 552 ss.
[176] Cfr. D. Liebs, Vor den Richtern, cit., p. 81.
[177] Cfr. S.G. Owen, Introduction, cit., p. 34; A. Luisi, Il perdono, cit., p. 155.
[178] Cfr. D. Marin, Ovidio, cit., p. 125; B.T. Buchert, The Reasons, cit., p. 48; P. Green, Carmen et error, cit., p. 208; E. Meise, Untersuchungen, cit., p. 235;D. Liebs, Vor den Richtern, cit., p. 84.
[179] Cfr. F. Norwood, The Riddle, cit., p. 159;A. Luisi, Vendetta-perdono, cit., pp. 285 s.
[180] Cfr. D. Marin, Intorno alle cause, cit., p. 37.
[181] Cfr., con varie sfumature di pensiero, P. Green, Carmen et error, cit., pp. 210 ss.; P. Giunti, Adulterio, cit., p. 246, n. 42, secondo cui «la reticenza stessa del poeta, che per la sua ingenuità si fa carico di due generiche colpe …, lascia supporre che, dietro il pretesto della trasgressione morale e della licenziosità artistica (‘carmen’), si agitassero torbidi di palazzo (‘error’) ed intrighi politici … di cui Ovidio fu, forse, la vittima eccellente»; A. Luisi, Il perdono, cit., pp. 133 ss.; D. Liebs, Vor den Richtern, cit., p. 81;A. Schilling, Poena extraordinaria, cit., pp. 96 s. Sulle discussioni che dovevano essere sorte a Roma circa il problema della successione di Augusto, v. M. Pani, Tendenze, cit., pp. 7 ss.
[182] Cfr. F. Norwood, The Riddle, cit., p. 159; A. Luisi, Vendetta-perdono, cit., pp. 285 ss. e n. 56.
[183] Cfr., in un’analoga prospettiva, D. Marin, Ovidio, cit., p. 125. La congettura più probabile, tra le molte che sono state formulate (v. E. Meise, Untersuchungen, cit., pp. 230 ss.), mi pare comunque ancora quella secondo cui Ovidio rimase invischiato nelle stesse vicende che portarono Augusto, sempre nell’8 d.C., a relegare la nipote Giulia minore nelle isole Tremiti e a condannare per cospirazione il marito di lei, Lucio Emilio Paullo, verosimilmente per la partecipazione in trame di palazzo volte a scompaginare i progetti dinastici previsti dal princeps (che vedevano in Tiberio, figlio di primo letto della seconda moglie Livia, il successore designato: cfr. E. Meise, Untersuchungen, cit., p. 233; Ph.H. Leitner, Nasonis Relegatio, cit., pp. 163 s.). Sposando una simile chiave di lettura risulta più agevole spiegare perché Ovidio si mostri particolarmente scettico circa un suo possibile rientro in patria dopo la morte di Augusto (v. Ov. Pont. 4.6.15-16, e cfr. A. Luisi - N.F. Berrino, Culpa silenda, cit., pp. 31 s.) e perché il successore di quest’ultimo, Tiberio, confermando le pessimistiche previsioni del poeta (che mai si appellò a lui per essere perdonato: cfr. P.E. Knox, Il poeta, cit., p. 179), non abbia ritirato il provvedimento di relegazione disposto nei suoi confronti. In tale ottica, i vari passaggi dei Trista o delle Epistulae ex Ponto in cui il Sulmonese celebra la famiglia di Augusto (Ov. Pont. 2.2.69-74; 2.8) – non solo Germanico, su cui il poeta doveva aver riposte grandi speranze (Ov. Pont. 2.1; 2.2.71 e 81; 2.8.33-34; cfr. M. Pani, Tendenze, cit., pp. 77 ss.), ma anche Livia (Ov. trist. 2.161-164; 4.2.11-12; Pont. 2.8.29-30, 41 e 43-44; 4.9.107-108; 4.13.29-30) e Tiberio (Ov. trist. 2.165-167; 4.2.1-10; Pont. 2.8.31-32 e 37-38; 3.4.99-100) – sembrano volti più che altro a eliminare ogni sospetto circa la sua adesione a disegni successori di segno differente rispetto a quelli poi realizzatisi. È arduo tuttavia pensare che Ovidio, così disinteressato all’impegno politico (ma non ai temi della politica: cfr. E. Pianezzola, Conformismo e anticonformismo politico nell’Ars amatoria di Ovidio, in Quaderni dell’Istituto di Filologia Latina. Università di Padova - Facoltà di Magistero, vol. II, Bologna, 1972, pp. 37 ss. e 58.), sia stato uno dei promotori di simili iniziative (anche se non è possibile escludere la sua partecipazione a circoli più o meno apertamente ostili al regime augusteo: cfr. D. Marin, Intorno alle cause, cit., pp. 37 ss. e 228 ss.). Interessanti spunti circa il contesto storico-politico in cui maturò la decisione di relegare Ovidio a Tomi si trovano ora in G.O. Hutchinson, Some New and Old Light, cit. pp. 76 ss., e in A. Barchiesi, Ovid, cit., pp. 147 ss., i quali, valorizzando un recente ritrovamento epigrafico (alcuni frammenti dello statuto municipale di Troesmis, su cui v. F. Bonin, Tra ius antiquum, lex Iulia e lex Papia: il complesso destino dei caduca in età augustea, in TSDP, (2019), p. 3, n. 2; Id., Intra ‘legem Iuliam et Papiam’. Die Entwicklung des augusteischen Eherechts im Spiegel der Rechtsquellenlehren der klassischen Zeit, Bari, 2020, pp. 145 ss.), sottolineano la decisa opposizione di alcuni strati della società romana (in particolare degli equites) rispetto ai progetti augustei di riforma della legislazione matrimoniale, culminati come noto nella lex Papia Poppaea del 9 d.C.
Milani Mattia
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