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La prova dell’esclusione implicita del bonum fidei: note a margine di una sentenza coram Salvatori

28.06.2018

Paolo Giuseppe Maria Lobiati

Dottorando di ricerca in “Persona e ordinamenti giuridici” Università Cattolica del Sacro Cuore Milano

La prova dell’esclusione implicita del bonum fidei: note a margine di una sentenza coram Salvatori[1]

 

Sommario: 1. Introduzione. 1. 1. Il valore della giurisprudenza della Rota Romana. 1. 2.La fattispecie della sentenza. 2. L’oggetto dell’exclusum fidei bonum – 3. L’esclusione implicita del bonum fidei – 4. La prova dell’intentio implicita – 5. Conclusioni

 

Nox erat et caelo fulgebat Luna sereno
      inter minora sidera,
cum tu, magnorum numen laesura deorum,
      in verba iurabas mea,
artius atque hedera procera adstringitur ilex
      lentis adhaerens bracchiis;
dum pecori lupus et nautis infestus Orion
      turbaret hibernum mare
intonsosque agitaret Apollinis aura capillos,
      fore hunc amorem mutuom,
o dolitura mea multum virtute Neaera:
      nam siquid in Flacco viri est,
non feret adsiduas potiori te dare noctes

et quaeret iratus parem

nec semel offensi cedet constantia formae,

      si certus intrarit dolor.

(Horatius, Ep. XV, 1 -16)

 

L’adulterio, ossia la mancanza della fedeltà coniugale, è un elemento che ha sempre contraddistinto, fin dalla mitologia classica, la crisi della relazione matrimoniale, portando con sé un carico emotivo, sia per la parte che lo commette sia per quella che lo subisce, assai forte. Proprio in virtù delle conseguenze che da tale condotta scaturiscono per il consorzio coniugale, l’ordinamento canonico prevede la possibilità che al coniuge tradito, che lo richiede, sia concessa separazione perpetua con permanenza di vincolo (cfr. can. 1152): questo, tuttavia, è un rimedio che, adito, non intacca né indaga la validità del consenso, considerando semplicemente il fatto dell’adulterio riprovevole in sé dal punto di vista morale, senza, però, che sia indagata la sua rilevanza giuridica sul momento genetico del consenso. Può, tuttavia, accadere, come nel poema oraziano, che non ci si trovi soltanto di fronte ad una mera condotta adulterina ma che vi sia una vera e propria difformità, o fictio, tra ciò che un coniuge giura, ossia l’amore eterno, ed il suo proposito di non mantenere tale promessa, proposito consciamente nascosto verbalmente ma espresso poi con una condotta concludente, nel poema origine dell’ira dell’innamorato tradito. Nella sua concisione, il testo, redatto ancora prima che l’elaborazione cristiana e canonica della dottrina sul matrimonio potesse prendere forma, apre la riflessione sulla problematica della differenza tra semplice adulterio, che può causare il naufragio del matrimonio, ed esclusione del bonum fidei che può determinare invece, la dichiarazione di nullità del vincolo. Questo breve saggio, prendendo le mosse dall’analisi di una sentenza rotale inedita, vuole aiutare a comprendere su quale base, di fronte ad un comportamento moralmente riprovevole come quello dell’adulterio, la giurisprudenza canonica abbia proposto risposte diverse in tema di simulazione (parziale) del consenso.


 

1. Introduzione

 

1. 1. Il valore della giurisprudenza della Rota Romana

 

L’art. 35 §3 dell’Istruzione Dignitas Connubii invita gli operatori dei tribunali ecclesiastici, nonché gli studiosi di diritto canonico, a confrontarsi sistematicamente con la giurisprudenza della Rota Romana, atteso che tra i compiti ad essa demandati dall’art. 126 della Costituzione Apostolica Pastor Bonus spicca quello di unitatis iurisprudentiae consulere, a conferma che la sua funzione nomofilattica possa ancora di più spiegarsi nella sua qualità di fonte di diritto suppletorio (can. 19)[2].

Nel tempo i Pontefici non hanno esitato a sottolineare il valore di tale giurisprudenza che, diventata fruibile nelle raccolte ufficiali delle Decisiones a partire dalla Rota restituta, si è rivelata anche oggetto di riflessioni dottrinali, soprattutto per quel che concerne la nozione di unitas cui il testo normativo citato rimanda[3]. In questo modo, specialmente in materia matrimoniale, il Tribunale Apostolico è stato, e continua ad essere, investito del compito di guida e di indirizzo per la giurispudenza dei tribunali inferiori: infatti, “necesse est iuriprudentiam in re matrimoniali uniformem esse, quod verificari nequit nisi a summa iurisdictione per Signaturam Apostolicam et Rotam[4].

Ciò premesso è innegabile che la giurisprudenza canonica, nell’applicare i principi giuridici al caso concreto, pur nella necessità di “salvaguardare la dignità del matrimonio secondo il prospetto divino”[5], sia chiamata ad un continuo confronto non soltanto con il mutamento delle condizioni sociali e culturali in cui le cause sottoposte ai Tribunali hanno origine, ma anche con gli strumenti che la dottrina giuridica ed antropologica forniscono per la risoluzione di controversie e che possono essere d’aiuto alla conoscenza delle cause stesse. In questo senso diventa fondamentale per un corretto sillogismo probatorio[6] - attraverso cui l’organo giudicante valuta concretamente i singoli mezzi di prova per giungere alla certezza morale nella sentenza che dichiara la nullità del matrimonio[7] - che il giudice conosca gli indirizzi giurisprudenziali più recenti, affinché la decisione emanata non sia espressione di un’operazione intellettuale ristretta al sentire del singolo, ma possa essere inserita in un alveo già segnato che garantisca la giustizia applicata al caso concreto oltre alla fedeltà al Magistero.

 

1. 2. La fattispecie della sentenza

 

La decisione coram Salvatori[8], da cui prende spunto questo saggio, si occupa di una causa riguardante sia il difetto di discrezione di giudizio sia l’esclusione del bonum fidei, da parte dell’uomo convenuto in causa: l’interesse che essa suscita è dovuto a come il Turno, in sede decisionale, e, soprattutto, l’Uditore, in sede di stesura della sentenza, abbiano argomentato la risposta affermativa al dubbio di causa. Infatti, dal punto di vista processuale è stato ritenuto fondato il capo della simulazione parziale da parte dell’uomo, mentre dal punto di vista sostanziale si è fatto ricorso alla categoria della ‘simulazione implicita’, accettata e riconosciuta sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza ma, di fatto, poco applicata.

Accostiamoci più da vicino alla sentenza. Nella fattispecie matrimoniale (n. 1) si spiega come i due giovani si conobbero all’Università ove la donna insegnava e l’uomo stava terminando gli studi. La relazione prenuziale, durante la quale le parti si incontravano soltanto nel fine settimana a causa della distanza delle rispettive abitazioni, durò quattro anni, mentre la vita matrimoniale pochissimi mesi, nei quali la moglie venne a scoprire la viri infidelitatem (n. 2), aseguito della quale l’uomo domandò la separazione ed il divorzio.

Nella fattispecie processuale, più complessa, si assiste ad un sovrapporsi di capi di nullità proposti nei vari gradi di giudizio, dalla incapacità a consentire alla simulazione parziale, sempre da parte dell’uomo convenuto, fino ad arrivare alla definizione in Rota della formula: “An constet de nullitate matrimonii in casu[9] (n. 3) atteso che: “Patres decreverunt: «Iuvat mentem renovare haec capita nullitatis, in formula dubii nuper concordata, sunt intelligenda: defectus discretionis iudicii ex parte viri conventi in tertia instantia et, tamquam in prima instantia, exclusio boni fidei ex parte eiusdem viri conventi»” (n. 3). La risposta sarà affermativa e dichiarerà la nullità del matrimonio per esclusione dei bonum fidei da parte dell’uomo convenuto. Tale decisione risulta, così, atta a fornire delle linee guida in cause, quali quelle di esclusione del bonum fidei, che per la natura dell’argomento trattato risultano sempre meno introdotte e, qualora lo siano, più difficoltose dal punto di vista probatorio, proprio per il valore sociale e morale dell’elemento oggettivo, ossia il tradimento perpetrato, che esse toccano.

 

2. L’oggetto dell’exclusum fidei bonum

 

Nell’aprire la pars in iure, per quel che concerne l’esclusione del bonum fidei, il Ponente, asserendo “cum vero pernota quammaxime sint principia de hanc exclusione, pauca verba referre heic tantummodo sufficit» (n. 5), recepisce - aderendovi in modo totale - il cammino giurisprudenziale che ha visto, sentenza dopo sentenza, definirsi sia l’oggetto dell’esclusione in questione sia le sue implicazioni probatorie e processuali, attraverso un percorso cheha spostato il baricentro del contenuto del capo di nullità in esame dalla essentialis matrimonii proprietas dell’unità all’essentiale instituti elementum.

Infatti, il secondo paragrafo del can. 1101, ove si tratta del consenso simulato, ricalcando quanto definito nel secondo paragrafo del can. 1086 del C.I.C. ’17[10], dichiara che il matrimonio è nullo qualora: “[...]alterutra vel utraque pars positivo voluntatis actu excludat matrimonium ipsum vel matrimonii essentiale aliquod elementum, vel essentialem aliquam proprietatem”. La formulazione dei due canoni citati si diversifica per pochi lemmi, eppure nel caso specifico del bonum preso in esame tale, seppur lieve, differenza ha segnato una netta evoluzione nell’intendere il contenuto del bonum fidei, sia per quel che concerne la sua delimitazione concettuale, ossia se fosse assimilabile esclusivamente alla proprietà essenziale dell’unità, sia per quel che concerne gli effetti che da tale inquadramento derivano, ossia l’identificazione delle condotte escludenti tale bonum[11].

La dottrina e la giurisprudenza più risalenti – specialmente fino agli anni sessanta[12] - riconducevano il bonum fidei alla sola proprietà essenziale dell’unitas matrimonialis, fondandosi sulla dottrina di Tommaso D’Aquino: “necesse est igitur quod matrimonium, secundum est ecclesiae sacramentum, sit unius ad unam indivisibiliter habendam. Et hoc pertinet ad fidem, qua sibi invicem vir et uxor obligantur[13]. Sulla base di tale affermazione, già le prime sentenze della Rota statuenti in merito sostenevano che soltanto chi escludesse l’unità del matrimonio escludesse anche il bonum fidei[14], così concretizzando ed applicando quanto la dottrina più autorevole affermava riguardo al bene in oggetto.

In questo senso, nel Tractatus de matrimonio, il card. Gasparri, descrivendo analiticamente le due proprietà essenziali del matrimonio, ossia l’unità e l’indissolubilità, identificava l’una con il bonum fidei e l’altra con il bonum sacramenti[15]. Sulla stessa linea Wernz nel Ius matrimoniale, trattando dell’unità, collegava saldamente il suo rifiuto – per quel che concerne la validità del consenso - ancora prima che all’esclusione del bonum fidei all’impedimento ligaminis[16], considerandola teleologicamente, in modo squisitamente moderno, quale mezzo atto a promuovere il mutuo aiuto tra gli sposi che si realizza tramite l’amore coniugale[17].

Stante la nozione di consenso matrimoniale di cui al can. 1081 del codice previgente, che determinava l’oggetto del consenso nella donazione ed accettazione del diritto perpetuo ed esclusivo sul corpo della comparte in ordine agli atti per loro natura idonei alla procreazione[18], l’esclusione del bonum fidei, ossia della unitas, veniva considerata invalidante il matrimonio soltanto qualora il contraente, nel prestare il consenso, avesse inteso rifiutare l’obbligo di avere rapporti coniugali, per sé atti alla generazione della prole, esclusivamente con la comparte, riservandosi il diritto di compierli anche con un terzo o più persone[19]. Tale concezione affondava le sue radici, oltre che nella concezione di proprietà essenziali, nella definizione di consenso presente nel codice previgente, ossia: “actus voluntatis quo utraque pars tradidit et acceptat ius in corpus, perpetuum et exclusivum, in ordine ad actus per se aptos ad prolis generationem”. Conseguentemente la nozione di unitas veniva a ricomprendere un duplice profilo: l’unitas vinculi, comportante l’obbligo di un unico vincolo matrimoniale, e l’unitas copulae, concernente l’esclusività della tradizione del ius in corpus[20].

L’applicazione pratica di una simile comprensione dell’oggetto del bonum fidei determinava così, se portata alle sue estreme conseguenze[21], forti implicazioni sia sul piano sostanziale che su quello processuale. Infatti, il ‘semplice proposito’ da parte del contraente, già al momento delle nozze, di commettere adulterio veniva considerato, benché moralmente riprovevole, di nessun valore giuridico[22] e, allo stesso modo, l’intenzione – o l’effettiva attuazione - di proseguire relazioni adulterine sentimentali e, eventualmente, anche sessuali con terze persone, pure dello stesso sesso, era valutata come non rilevante al fine del configurarsi dell’esclusione di cui si tratta[23].

Tale modo di concepire il bonum fidei, totalmente identificato con l’unità e con il ius in corpus, man mano che il rapporto coniugale veniva interpretato alla luce della spinta personalistica del Concilio Vaticano II[24] diventava sempre meno accettabile e sempre meno adatto ad interpretare la realtà e, quindi, a fungere da criterio scriminante nei casi concreti che venivano sottoposti all’esame degli Uditori della Rota Romana.

A tale situazione rispondono, con soluzione di continuità, due sentenze  coram De Jorio che, negli anni sessanta, riformulano la nozione di bonum fidei, svincolandone il concetto dall’identificazione con l’unità del matrimonio.

Nella prima delle due decisioni[25], già a partire dalla formula della concordanza del dubbio“ob exclusum bonum fidei seu fidelitatis”, ci si trova di fronte ad una sostanziale svolta, cioè alla scelta di non limitare il bonum in oggetto alla proprietà essenziale, volendolo estendere anche, attraverso l’utilizzo congiunzione seu,ad un elementum[26], quello della fedeltà, arrivando così a recuperarne l’originaria concezione agostiniana[27], nel periodo precedente lasciata in secondo piano perché ci si fondava su quella tomista anzi citata.

De Jorio parte, in primo luogo, dal presupposto che i concetti di bonum fidei e di unitas siano da scindere, attesa la possibilità che una parte possa escludere l’unità e nello stesso tempo conservare la fedeltà[28]. Nell’esclusione dell’unità si pone, infatti, l’intenzione positiva di riconoscere contemporaneamente a più parti i diritti ed i doveri coniugali, laddove nell’esclusione della fedeltà l’intenzione risulta, invece, negativa, ossia quella di ‘non riconoscere’ al proprio coniuge il diritto-dovere al rapporto coniugale quale esclusivo[29].

Con la decisione citata si può, quindi, asserire che ci si è trovati di fronte “ad un significativo cambiamento prospettico, di carattere interpretativo, che intende porre in luce l’importanza del diritto esclusivo sul corpo che il nubente concede alla comparte al momento dello scambio del consenso (e non più solamente al diritto esclusivo che il nubente intende concedere ad una terza persona), che comporta un preciso diritto ed un corrispettivo dovere circa il rispetto della fedeltà coniugale”[30].

Tale argomentazione, definibile di ‘scissione’, viene sviluppata ulteriormente in un’altra sentenza dello stesso Uditore, questa volta suffragata anche da un argomento biblico, ossia il fatto che i patriarchi, pur potendo avere simultaneamente più mogli, erano tenuti al rispetto della fedeltà verso tutte[31]. Infine, un’ulteriore argomentazione a sostegno dell’impossibilità di identificazione tra bonum fidei ed unità coniugale è sviluppata nell’ambito della aporia logica che deriverebbe comparando l’atto di volontà posto con l’esclusione ed il suo effetto pratico. Infatti, atteso che dall’impostazione bonum fidei seu unitas deriva che l’esclusione si dà soltanto trasferendo il diritto agli atti coniugali, ossia il c.d. ius in corpus, anche ad una terza persona, ogni qual volta l’atto positivo di volontà avesse questo oggetto si configurerebbe un ‘assurdo psicologico’[32], poiché l’escludente non attua la simulazione allo scopo di costituire più obbligazioni contemporanee, ma per disattendere l’obbligo della fedeltà verso il proprio coniuge, ossia per essere libero da un legame univoco[33].

La nuova lettura è diventata pacifica sia in dottrina che in giurisprudenza, tanto che per alcuni autori l’ipotesi di esclusione del bonum fidei sarebbe, addirittura, da separare, nella formulazione del dubbio di causa, dall’esclusione dell’unità[34].

Non manca, tuttavia, chi rifiuta tale distinzione, sostenendo nuovamente ed ulteriormente l’identificazione tra unità e bonum fidei e cercando un ritorno alla giurisprudenza tradizionale, per il fatto che la nozione di bonum fidei proposta da de Jorio e dalla dottrina e giurisprudenza a lui ispirantisi, si fonderebbe su una riduzione del bene in questione alla sola dimensione fisica dell’atto coniugale, estraendolo, in questo modo, da una più ampia visione della sponsalità, così che ogni ‘proposito’ di commettere adulterio – per lo meno in determinate circostanze – renderebbe nullo un matrimonio[35].

Da quanto finora riferito consegue che l’estremizzazione di una qualsiasi delle posizioni in merito sopra estopsta, qualificanti il bonum fidei seu unitas ovvero il bonum fidei seu fidelitas, arriverebbe a svuotare di contenuto, fornendone meramente una qualificazione parziale, non solo l’impianto della proprietà, o elemento, essenziale del matrimonio di cui si discute l’esclusione, ma l’essenza stessa del vincolo matrimoniale che si va contrarre. In questo modo andrebbero tratteggiandosi anche una serie di difficoltà pratiche in capo al giudice che è chiamato, nel giudicare la nullità del matrimonio, a distinguere i fatti semplicemente moralmente riprovevoli da quelli giuridicamente rilevanti[36].

Opportunamente la dottrina più recente, dal canto suo, rinviene una stretta correlazione tra unità e fedeltà, così che i due elementi, anche se concettualmente distinti, risultano come intrecciati poiché la seconda concezione deriva dalla prima: esse, infatti, possono definirsi “due punti di vista complementari per la comprensione della stessa realtà”[37], al punto da poter sostenere, insieme ad autorevole dottrina, che “nella intentio contra bonum fidei l’esclusione ha per oggetto la fedeltà, e cioè la qualità essenziale della unitas[38]”.

Mons. Salvatori, nel brevissimo richiamo al diritto sostanziale, cita una coram Pompedda del 1973, sembrando essere debitore di tale interpretazione ‘conciliatrice’, così intendendo l’oggetto dell’esclusione in maniera olistica di tutto il rapporto coniugale, alla stregua della dottrina dello stesso Autore che richiama. Pompedda, infatti, partendo dal presupposto che le questioni in merito all’identificazione tra bonum fidei ed unitas siano da mantenere in secondo piano, ritiene che, per quel che concerne il capo di nullità in esame, è fondamentale indagare sul diniego all’altro coniuge del diritto esclusivo, anziché “dell’aspetto di concedere il diritto ad una terza persona”. In altri termini “sufficit positiva voluntas non tradendi alteri parti ius exclusivum in proprium corpus[39]così da rendersi oggetto di grande considerazione anche il proposito di uno dei nubendi, già prima del matrimonio, di commettere adulterio[40]. In tale senso, quindi, la dottrina recentissima compie una sintesi del cammino svolto, sostenendo che il punto di riferimento in base a cui si possa circoscrivere l’oggetto del bonum fidei deve essere il consortium totius vitae, così che “la fedeltà coniugale esige non solo l’unità dell’istituto matrimoniale, ma anche l’unitatem personalem[41].

Tratteggiato l’oggetto dell’esclusione[42], il Ponente non si sofferma ad analizzare la distinzione tra ius e iuris exercitium[43], da un lato mostrandosi così aderente alla dottrina più recente che vede in tale distinzione, soprattutto se esasperata, un rischio per la comprensione del significato pieno di donazione sponsale proprio del matrimonio[44]; dall’altro per il fatto che ciò che risulta di maggior importanza è portare alla luce la questione fondamentale, ossia  ricerca della vera intenzione dell’asserito escludente e come raggiungerne la conoscenza[45]. Anche nel caso dell’esclusione del bonum fidei deve essere dimostrata la positiva voluntas dell’asserito simulante, o, per utilizzare lemmi più tradizionali, l’atto positivo di volontà, che, secondo la giurisprudenza consolidata, può essere attuale o virtuale, esplicito od implicito. Infatti, determinato l’oggetto della simulazione, è necessario che questa sia posta attraverso un atto della volontà per cui il nubente sceglie di celebrare un matrimonio non così come richiamato dalla Chiesa, ma sui placitis accomodatum, poiché voluto come privato di una sua proprietà od elemento essenziale[46].

 

3. L’esclusione implicita del bonum fidei

 

Nel n. 6 della pars in iure il Ponente cita una coram Bruno del 1985, in merito alla prova della c.d. simulazione implicita, mostrando grande attenzione alla dottrina ed alla giurisprudenza, meno sviluppata, sull’atto positivo di volontà implicito, che si andrà, quindi, ad approfondire in questa sede.

È bene, allo scopo, mettere subito in luce che, nelle cause di nullità riguardanti la simulazione, l’azione del giudice è volta essenzialmente a conoscere quale sia stata la “véritable intention de la personne[47], che viene identificata, nelle cause riguardanti l’esclusione del bonum fidei con la presenza di un “positivus voluntatis actus ad fidelitatis obligationem sese non ligandi[48].

La dottrina classica e più risalente, interrogandosi sul significato dell’espressione actus voluntatis positivus, già a partire da Gasparri, riteneva che nel consenso simulato coesistessero due atti di volontà tra di loro contrapposti, l’uno diretto a contrarre il matrimonio, l’altro per il quale veniva escluso o il matrimonio stesso od una o più delle sue proprietà essenziali, con la conseguenza che i due atti si annullassero a vicenda[49]. Questa linea dottrinale, benché non esente da critiche[50], ha proseguito il suo percorso per arrivare a definirsi nella teoria secondo cui nel caso di simulazione si assisterebbe alla presenza contestuale della volontà generale di contrarre il matrimonio e di quella escludente, attraverso un ulteriore atto positivo di volontà, di un qualche elemento della struttura essenziale dello stesso istituto[51]. Il risultato, in ogni modo, è che quanto effettivamente voluto dal nubente altro non è se non una volontà matrimoniale che non corrisponda più a quella dell’ordinamento canonico, il c.d. matrimonium suis placitis accomodatum[52].

Partendo dal risultato anzi descritto, allora, è apparso più convincente per inquadrare le fattispecie concrete parlare di un unico “atto di volontà nel fenomeno simulatorio, concretizzato nell’atto di esclusione”[53], così da risultare chiaro che, nel caso, non è necessario “volere il matrimonio e, in un secondo atto, non volerlo fedele”, poiché ciò che si vuole è un matrimonio chiuso al bene della fedeltà[54].

Premessa la necessità di una ‘sola’ volontà positiva (intentio) nella esclusione del bonum fidei, è bene prestare attenzione agli elementi di cui questa si compone. La dottrina e la giurisprudenza[55] sono concordi nel sostenere che, in primo luogo, si deve dare l’intervento della voluntas, ossia la causa efficiente dell’agire umano e, di conseguenza, anche dell’atto matrimoniale (cfr. can. 1057) ovvero simulatorio (cfr. can. 1101 §2)[56]. Ne deriva che si debba trattare di una electio, che non può essere confusa né con i semplici desideri o inclinazioni né, tanto meno, con la volontà interpretativa[57]. L’elemento della volontà permette di entrare nell’analisi del cuore dell’azione escludente: la presenza di un actus, ossia la concretizzazione dell’elemento volontario, al quale si dà forma di operatio. Esso, nel campo psicologico, corrisponde alla decisione che viene qualificata a livello antropologico come il passaggio dal conoscere all’agire per mezzo della deliberazione dell’io[58]. L’atto di cui si tratta per avere forza invalidante il consenso deve, infine, essere positivus, cioè qualificante e non esprimente la semplice assenza di volontà matrimoniale (nolle) per definirsi positivamente come un ‘volere il matrimonio’ diversamente da come richiesto dal legislatore canonico (velle non)[59]. Inoltre, il concetto di positività dell’atto, da parte della dottrina, viene anche collegato alla c.d. ‘obiettivazione’ della volontà effettiva, che si esprime all’esterno non solo mediante le dichiarazioni ma anche attraverso il comportamento non equivoco che conduce a dimostrare l’intento simulatorio anche in foro esterno[60]. Tale atto di volontà, per costituire una esclusione, viene qualificato dalla giurisprudenza come umano, positivo e fermo[61], e può esprimersi come actualis ovvero virtualis, cioè posto dal nubente prima della celebrazione e mai revocato[62].

Se requisito per la sussistenza dell’esclusione è l’atto positivo di volontà, quindi nato e posto nel foro interno, consegue che il suo essere esplicito o meno non andrà ad influire né sulla sostanza né sul valore dell’atto stesso, quanto piuttosto sulla dimostrazione della sua esistenza in sede processuale.

In merito, la giurisprudenza e la dottrina sono concordi nel distinguere la c.d. intenzione esplicita da quella implicita, che si manifesta non tanto mediante dichiarazioni bensì attraverso comportamenti concludenti della parte asserita, o sedicente, escludente ovvero attraverso una serie di circostanze che emergono dalla vita del medesimo[63], o, in altre parole, nel caso in cui l’oggetto dell’atto sia tale per cui in esso sia contenuta l’esclusione della proprietà o di un elemento essenziale del matrimonio[64].

Parte della dottrina, pur discostandosi dalle locuzioni giurisprudenziali che trattano di atto positivo di volontà implicito, ovvero di intentio implicita, arriva a presentare la categoria di ‘simulazione implicita’, con cui si possono intendere un’ampia serie di fattispecie che, pur mancando di dichiarazione esplicita della volontà simulatoria, sono connesse alla stessa al punto da includerla e permettere di qualificare le condotte attuate come escludenti[65]. Ne consegue che anche tale inclusione nella condotta tenuta di un elemento contrastante con il matrimonio canonico debba avere in sé il tratto della positività, ossia essere reale e positiva “no como simple presunción o interpretación dentro de otra manifestación de voluntad[66], così come anche espresso costantemente dalla giurisprudenza, dalla quale si richiede che l’atto che ha per oggetto l’esclusione della fedeltà sia positivo, anche se implicito, e non semplicemente presunto[67]. In altre parole, ciò che è necessario indagare è la presenza di condotte che per loro natura risultano inequivocabilmente rendere noto l’atto positivo della volontà posto dal soggetto ma non espresso verbalmente.

Dal punto di vista processuale, la categoria dell’atto implicito di volontà, o della simulazione implicita, risulta, quindi, fondamentale per dirimere le cause, e quindi mantenere l’azione di giustizia[68], ove manchino totalmente delle dichiarazioni – o c.d. confessioni – dell’asserito simulante, atteso che la ‘riserva implicita’, consistente nella non inclusione nel consenso di elementi essenziali dell’istituto matrimoniale canonico, è radicata nella forma mentis del nubente al punto da configurare una esclusione invalidante il consenso[69]. Ne consegue che, una volta ravvisata la sussistenza di una simulazione implicita, l’assetto probatorio dovrà essere volto con maggior attenzione alla prova indiretta, specialmente alla causa simulandi remota[70] ed agli rerum ac personarum adiuncta, purché possano essere in grado di permettere che: “intentio implicita, actualis vel saltem virtualiter perseverans, percipitur, denegandi comparti ius exclusivum in corpus[71].

 

4. La prova dell’intentio implicita

 

La breve disamina sul contenuto essenziale del bonum fidei e sulla modalità con cui l’esclusione possa essere messa in atto è volta, secondo il processo argomentativo del Ponente che ha mostrato di fare propri i percorsi giurisprudenziali più recenti, ad certitudinem moralem adipiscendam (n. 5). L’espressione, che nell’architettura della sentenza potrebbe risultare pleonastica, racchiude in sé non soltanto la definizione di quale sia il livello di convincimento sulla base del quale il Turno ha deliberato[72] - ossia che in esso sia stato escluso qualsiasi dubbio prudente positivo di errore, tanto di diritto quanto di fatto, pur non essendo esclusa la possibilità di contrario[73] - ma anche la modalità sulla cui base si è giunti a tale statuizione, ossia ex actis et probatis. L’espressione citata, contenuta nel secondo paragrafo del can. 1608, diventa fondamentale per lo sviluppo del sillogismo svolto dall’Uditore, poiché la coscienza che la sentenza non possa essere emanata solo sulla base di semplici supposizioni, ma debba fondarsi sia sulle “asserzioni e negazioni, petizioni e dinieghi dedotti in giudizio e riferiti negli atti [acta]” sia sulle “prove prodotte in giudizio e riferite negli atti [probata]”[74], comporta che la valutazione dei singoli mezzi di prova da parte del giudice sia “basata su giudizi di probabilità attinenti ai fatti”[75]. In questo modo, prima di giungere alla valutazione del fatto generico su cui si fonda il dubbio di causa, ossia la causa petendi, è necessario che sia attuato un sillogismo sulle tavole processuali che presentano una serie di singoli fatti, scindendo quelli necessari per giungere alla risoluzione della controversia da quelli fuorvianti[76].

Definito il compito dell’organo giudicante ed il fine perseguito, il Ponente, già nella parte in diritto, affronta un ostacolo che, nel caso concreto, rende difficile il raggiungimento della verità dei fatti, ossia l’atteggiamento ostile del convenuto che “praesens in iudicio simulationem refellat”, così che “veritatem facti adipisci potest solummodo per applicationem notui brochardi verbis facta sunt potiora” (n. 5). In realtà, l’applicazione del brocardo - tipica, secondo la costante giurisprudenza, di qualsiasi giudizio - diviene ancora più importante se riferita alla nozione di simulazione implicita, ove, come si è sopra ricordato, l’atto positivo di volontà escludente è evinto da comportamenti inequivocabili. La conseguenza è che il sillogismo richiesto al collegio, per deliberare con certezza morale, non può essere altro se non quello di tipo ‘inferenziale’, ossia perseguito attraverso la c.d. ‘logica induttiva’[77]. Secondo tale base logica, gli ‘enunciati fattuali’ delle parti, descriventi fatti, permettono di giungere alla certezza morale richiesta per emanare una sentenza affermativa attraverso l’interconnessione loro attribuita dall’organo giudicante[78]. Fondamentale, per la dimostrazione della sussistenza di un fatto giuridico risulta, così, il ricorso alla prova indiretta, (cfr. nn. 7; 10-13), attraverso il quale si traggono delle “inferenze circa la verità ovvero la falsità degli enunciati relativi ai fatti principali”[79], tanto da condurre l’Uditore ad asserire nella parte in facto, dopo aver valutato le circostanze: “Haec omnia elementa singula sumpta atque singillatim considerata nullius momenti (vel fere) videri Patres censent, sed collecta atque insimul pensitata satis probantia reperiuntur” (n. 11). Emerge, inoltre, che il Ponente, nel sillogismo probatorio svolto, citando il brocardo “quae singula non prosunt, collecta iuvant” (n. 8), abbraccia la concezione della ‘natura trascendentale’ della prova[80], consistente nel suo non poter essere considerata fine a se stessa ma propedeutica all’introduzione nel processo del ‘contraddittorio’, ossia “l’esplicarsi delle virtualità e delle potenzialità inesauribili del processo”[81], permettendo che dalla dimostrazione della sussistenza certa di vari fatti giuridicamente rilevanti “deducitur actus positivus voluntatis clare et invicte demonstratus” (n. 8).

Se quella enunciata è la causa sia formale che finale del sillogismo probatorio, l’organo giudicante, che è la causa eficiente dello stesso, ha il compito di verificare sia i fatti allegati dalle parti sia la fondatezza delle loro pretese[82] attraverso una valutazione ex sua coscientia (cfr. can. 1608 §3). Tale valutazione non può, tuttavia, prescindere dalla comparazione tra le dichiarazioni delle parti ed i fatti desunti, e verificati, in sede di istruttoria processuale, al punto che tale criterio deve essere applicato non soltanto alla valutazione di un’eventuale confessione della parte asserita simulante, ma anche alla determinazione della portata probatoria della negatio dell’esclusione sostenuta dalla stessa (n. 5). Principio, questo, che non va minimamente a scalfire quello dell’onere della prova che grava su chi asserisce in giudizio la sussistenza di un fatto (cfr. can. 1526) ma, attesi i livelli degli enunciati fattuali sopra richiamati, lo rafforza. Nel caso specifico, infatti, la strenua asserzione del convenuto di non aver escluso il bonum fidei risulta “minus credibilis quam mulier” (n. 13), proprio perché, sulla base della valutazione del Turno – fondata sulla dottrina e sulla giurisprudenza[83] -, non è riuscita a interferire su quanto dichiarato[84] e dimostrato[85] dalla parte attrice.

Nella fattispecie in esame, attesa l’impossibilità di rinvenire la presenza di prova diretta, aspetto che, invero, accomuna la maggior parte delle cause concernenti l’esclusione del bonum fidei[86], il Ponente raggiunge la certezza morale attraverso la prova indiretta, innestandosi in un percorso già tracciato dalla giurisprudenza sia più risalente[87] che più recente[88], e precisamente facendo uso delle praesumptiones[89], regolate nel Codice vigente al can. 1584 e dallo stesso Uditore definite, sulla base della Regula iuris XLV, come attività per cui: “Inspicimus in obscuris quod est verisimils vel quod plerumque fieri consuevit” (n. 7)[90], attraverso l’utilizzo di un procedimento ‘deduttivo’ o ‘presuntivo’[91].

È per questa ragione che nella motivazione in diritto della sentenza si sviluppa una disamina sul valore delle presunzioni nel diritto canonico, atteso che le medesime rientrano tra i mezzi di prova e, in virtù di questo, sono considerate ai cann. 1584-1586. Citando una coram Pompedda[92], l’Uditore non si addentra ad analizzare la problematica distinzione tra praesumptiones iuris, che si qualificano come affermazioni protette dal diritto e da scardinare attraverso il sillogismo giudiziale[93], e praesumptiones hominis. Queste ultime, infatti, secondo la dottrina si qualificano attraverso la combinazione della ‘premessa maggiore’, ossia una regula iuris, una massima di esperienza ovvero un principio scientifico, con la ‘premessa minore’, ossia il fatto o l’indizio che si è provato direttamente con gli atti, così che da tale interazione si possa giungere alla ‘conclusione’, ossia la certezza della sussistenza del fatto controverso ed incerto[94]. In realtà, analizzando attentamente il sillogismo del Giudice si comprende che ciò che è definito con il lemma ‘presunzione’ consiste in un giudizio ex post su fatti indizianti già raccolti[95], ossia gli adiuncta di cui si dice che “praecipuum possunt constituere argumentum et aliquando etiam concludens” (n. 7), qualificandosi cronologicamente come posteriore alla raccolta delle prove e non anteriore[96].

Quanto alle circostanze che possono fornire valore alla praeseumptio hominis per costituire prova piena,  il Ponente (cfr. n. 8), sembra ritenere che queste per portare a presumere l’esclusione debbano essere praecisa ed urgentes, certa, determinata e coaherentia, concordantia ed evidentia, nonché connexa[97]. Emerge - a differenza di quanto si poteva rinvenire nella disciplina antecedente al codice del ’17[98] - che già a partire dalla prima codificazione il metodo logico fondato sulla praesumptio hominis richiedeva di essere applicato con cautela per non incombere nel soggettivismo giuridico[99]. Inoltre, facendo propria la dottrina consolidata della triplice qualificazione delle presunzioni in leves, graves e gravissimae, cui corrisponde una differente forza probatoria (n. 7)[100], il Ponente nel valutarle come capaci di indurre la certezza morale, si riferisce ad un duplice criterio[101], secondo il quale da un lato è necessario valutare le circostanze, atte a fondare la presunzione, nella loro globalità, atteso che le stesse, se considerate singolarmente, non potrebbero assurgere ad alcun interesse probatorio; dall’altro, come conseguenza del primo aspetto, i fatti possono considerarsi più eloquenti delle parole qualora siano numerosi, certi ed univoci[102].

Richiamando la disciplina generale sulle presunzioni e sul loro valore probatorio, mons. Salvatori, pur non citandolo, mostra una piena adesione ed un chiaro rinvio all’art. 216 §2 dell’istruzione Dignitas Connubii, che vieta al singolo giudice di utilizzare presunzioni che contrastino con quelle già statuite dalla giurisprudenza rotale[103]. Egli, pur non elencando nella motivazione in diritto quali siano le circumstantiae che la giurisprudenza rotale ritiene tali da fondare la presunzione atta a diventare prova della simulazione[104], le analizza tutte nella motivazione in fatto, traendo dai singoli fatti - ossia la relazione adulterina pre e post nuziale e le difficoltà che sorgevano nella relazione già prima del matrimonio (n. 10) - uniti agli argomenti documentali raccolti - come le chat o le email presentate dalla convenuta in giudizio[105] - quegli elementi tanto forti da scardinare il favor validitatis. In questo modo, attraverso il sillogismo probatorio inferenziale, è stato possibile all’Uditore, partendo dalla praxis adulterina del convenuto, solitamente considerata dalla giurisprudenza quale argumentum aequivocum[106], arrivare a ricostruire, attraverso le motivazioni e le circostanze soggiacenti a tale atteggiamento, la vera volontà dell’uomo, asserito simulante, e definire il matrimonio nullo “ob exclusum bonum fidei a viro convento” (n. 14).

 

5. Conclusioni

 

In conclusione si può affermare che la sentenza esaminata, pur ponendosi all’interno di una consolidata tradizione giurisprudenziale che considera di valore primario la dimostrazione dei fatti al fine del raggiungimento della certezza morale del giudice, assume uno specifico rilievo per la ricostruzione della prova della simulazione c.d. implicita e delle sue peculiarità, arrivando al raggiungimento della certezza morale con la conseguente dichiarazione di nullità del matrimonio sulla base della sola prova indiretta.

Il ricorso alla figura della simulazione implicita, riconosciuta ma ugualmente poco applicata dalla giurisprudenza, risulta, a livello pratico, quanto mai fondamentale per il giudice che voglia cercare la realtà dei fatti in merito all’accaduto matrimoniale in tutte quelle situazioni in cui i coniugi, per motivi extraprocessuali, portino all’interno dell’aula del Tribunale la loro conflittualità. In questi casi, infatti, è sempre presente il rischio che la contraddittorietà delle dichiarazioni rese dalle parti e dai loro testimoni comporti, poi, una statuizione iniqua non solo per gli agenti in giudizio, ma per il Sacramento stesso, sulla cui verità ed esistenza il giudizio di dichiarazione di nullità del matrimonio verte[107].

 

apostolicum romanae rotae tribunal – Vianensis Castelli – 24 ianuarii 2018 – Salvatori, Ponente

 

Nullità di matrimonio – esclusione del bonum fidei – Prova indiretta

 

Affinchè sussista l’esclusione del bonum fidei si richiede un atto di volontà con cui un nubente rifiuti di consegnare all’altro il diritto esclusivo alla fedeltà. Per perpetrare l’esclusione è necessaria la presenza di un atto positivo di volotnà escludente che può essere anche implicito, rinvenibile nel complesso delle circostanze. Per dimostrare l’esclusione il giudice deve comprendere quale sia stata l’intenzione del contraente non soltanto sulla base delle confessioni dell’asserito simulante ma anche attraverso l’analisi delle circostanze da valutarsi con massima diligenza, al punto che queste possano essere considerate anche la prova fondamentale su cui poggiare la certezza morale da raggiungere.

 

Omissis. 1. – Facti species. – Partes inter se occurrerunt anno 2005, dum mulier actrix munus docentis in Universitate studiorum perficiebat et conventum in eadem Universitate studiis incumbebat. Mutuo capti adlectique amore iuvenes relationem amatoriam instituerunt quae quattuor vix annos ullis sine peculiaribus difficultatibus producta est. Partes distantem domum habebant, qua re alter alterum fine uniusquisque hebdomadis frequentare solummodo poterat. Mense novembri anni 2008 sponsalia celebrata sunt et conventus matrimonium mulieri eodem mense proposuit, quod statim actrix acceptavit.

Dum praeparationes ad matrimonium perficiebantur, primae dissentiones inter partes in conversatione amatoria adfuerunt. Nuptiae die 2 maii 2009 in ecclesia paroeciali Sanctae Mariae dicata, intra fines dioecesis Vianen. Castelli, celebratae sunt.

Iugalis convictus iam ab intinere nuptiarum difficultates passus est, cum vir conventus modum suum sese gerendi erga mulierem de improvisopermutavisset. Itinere voluptuario perfecto, eaedem difficultates deminutae non sunt, sed potius auctae. Aestate eiusdem anni transacta, mulier infidelitatem viri prorsus detexit et, viro instante, mense decembri anni 2009 – septem solummodo mensibus a matrimonio vix transactis – separationem decrevit et pariter instituit. Eodem viro petente, sententia civilis divortii inter partes die 18 maii 2010 prolata est. A matrimonio nulla prolis est enata neque mulier unquam gravida facta est.

2. – Mulier recuperandae suae libertatis gratia introductorium libellum – die 26 maii 2011 subsignatum – Tribunali Ecclesiastico Vianen. Castelli competenti ratione loci celebrationis matrimonii porrexit, matrimonium nullitatis accusans.

Tribunal rite constitutum suam agnoscens competentiam, Partibus citatis, dubium hac sub formula die 22 septembris 2011 concordavit: An constet de matrimonii nullitate, in casu, ob gravem defectum discretionis iudicii in utraque parte necnon ob dolum a viro convento patratum et ob totalem simulationem ab eodem viro.

Excussis partibus ac quattuor testibus – duobus a sola muliere actrice adductis et duobus ex officio inductis –, aliquibus documentis receptis et peritia ex officio iussa atque obtenta, actis publici iuris factis decretoque conclusionis in causa lato, scripturis defensionalibus receptis, omnibus de iure peragendis rite peractis, Iudices Tribunalis primae curae sententiam votis mulieris actricis partim faventem die 29 augusti 2013 tulerunt, edicentem: affirmative, seu constare de matrimonii nullitate, in casu, ob gravem defectum discretionis iudicii in viro convento dumtaxat.

Causa iuxta abrogatum can. 1682 § 1 ad Tribunal superius transmissa est. Tribunali legitime constituto et causa ad examen ordinarium rite admissa, dubium hac sub formula die 22 septembris 2014 concordatum est: an constet de matrimonii nullitate, in casu, ob gravem defectum discretionis iudicii in viro convento et subordinate ob exclusam unitatem matrimonii ex parte eiusdem viri conventi. Nulla suppletiva instructione causae peracta et viro convento absente a iudicio declarato, Iudices secundae curae sententiam votis actricis minime faventem die 14 maii 2015 tulerunt, decernentes: negative, seu non constare de matrimonii nullitate, in casu, ob gravem defectum discretionis iudicii in viro convento. Adnotandum est capita de dolo et de totali simulatione in secundo iudicii gradu derelicta atque caput circa exclusionem unitatis matrimonii in sententia secundi iudicii gradus pertractatum non esse.

3. – Muliere actrice appellante, causa ad N.A.T. pervenit. Turno die 15 martii 2016 constituto, Patrono ex officio parti actrici die 9 maii 2016 ab Exc.mo Decano adsignato, Ponens (cum patrona partis actricis petivisset ut in formula caput gravis defectus discretionis iudicii in viro convento tantum subintelligendum esset) decreto diei 13 iunii 2016 dubium hac sub formula concordavit: «An constet de matrimonii nullitate, in casu».

Patrona ex officio – aliquibus receptis documentis a muliere actrice et in actis versis – amplificationem dubii quoad exclusionem boni fidei a viro convento postea petivit, sed Ponens decreto diei 3 octobris 2016 ita decrevit: «Quoad vero amplificationem dubii concordationis, sicut in instantia patronae ex officio diei 22 septembris 2016, videbitur post litteras rogatoriales».

Suppletiva instructio causae perfecta est per auditionem solius viri conventi. Litteris rogatorialibus die 30 maii 2017 receptis, acta eadem die publici iuris facta sunt. Patrona ex officio partis actricis iterum instante, amplificatio dubii die 12 iulii 2017 decreto Collegiali accepta est et dubium causae iuxta formulam genericam statutum est et itidem Patres decreverunt: «Iuvat mentem renovare haec capita nullitatis, in formula dubii nuper concordata, sunt intelligenda: defectus discretionis iudicii ex parte viri conventi in tertia instantia et, tamquam in prima instantia, exclusio boni fidei ex parte eiusdem viri conventi».

Scripturis defensionalibus receptis atque commutatis, Nobis tandem hodie dubio rite determinato ac modo relato respondendum est.

4. – In iure. De gravi defectu discretionis iudicii. Consensus matrimonialis est actus voluntatis quo vir et mulier vicissim sese tradunt atque accipiunt ad constituendum matrimonium. Iurisprudentia rotalis, cum agatur de consensu, de actu deliberato semper loquitur, id est de actu voluntatis procedente ab intellectu cum cognitione finis (Summa Theologiae I-II, q. 1, a. 1). Haec enim inveniuntur in psychologia thomista, qua semper iurisprudentia N.S.F. usa est.

Enimvero ad defectum discretionis iudicii dimetiendum haec scite adnotentur: «Cum de iuribus et officiis agatur, non sufficiens est capacitas theoretice intelligendi “matrimonium esse consortium permanens inter virum et mulierem ordinatum ad prolem, cooperatione aliqua sexuali, procreandam” (can. 1096 § 1), sed postulatur insuper capacitas practice ponderandi tum iura et officia matrimonii tum motiva, quae pro matrimonio contrahendo suadent quaeque ad coniugium celabrandum dissuadent. Sufficit tamen capacitas aestimandi, quin requiratur, ut contrahens de facto illa aestimaverit». Namque: «Defectus discretionis iudicii praeter necessariam capacitatem criticam seu aestimativam requirit etiam sufficientem usum facultatis electivae ita ut subiectus sese determinare valeat ad matrimonium hic et nunc cum determinata persona celebrandum. Uti legitur in una coram Erlebach: “Non requiritur tamen ut quis perfecte aestimare possit omnia et singula quae respiciunt hoc consortium ineundum vel ut perfecta polleat libertate interna. Sufficit ut sibi efformare valeat iudicium practico-practicum relate ad iura et officia matrimonialia essentialia atque minimam necessariam habeat maturitatem psycho-affectivam essneitlia, ita ut pervenire possit ad determinationem suipsius, saltem sub aspectu essentiali, ita ut haec decisio sit actus vere humanus. Hanc ob rem in can. 1095, n. 2 incapacitas agnoscitur solummodo si nupturiens laboret gravi defectu discretionis iudicii. Obiectum formale consensus sumitur heic nonnisi uti obiectum formale essentiale” (sent. diei 25 octobris 2007, RRDec., vol. XCIX, p. 296, n. 4)» (coram Arellano Cedillo, sent. diei 20 ianuarii 2017, Katovicen., A. 12/2017, n. 4). Verum tamen nullitas matrimonii propter hoc caput nullitatis tantum patet «si tales alterationes seu disfunctiones erodunt sive facultatem cognitivam in perceptione iurium et officiorum essentialium matrimonii, sive facultatem criticam et aestimativam in deliberatione et ponderatione indolis devincientis eorundem iurium et officiorum sive facultatem electivam in exercitio libertatis essentialis et effectivae in muto tradendis et acceptandis praefatis iuribus et officiis» (coram Arellano Cedillo, sent. diei 20 ianuarii 2017, cit., n. 5).

Uti par est in causis ob gravem defectum discretionis iudicii ex can. 1095, n. 2 opere periti vel peritorum utendum est. Has quaestiones late ac fusius Hoc Turnus pertractavit in quibusdam recentibus sentiis ad quas nunc remittitur de quaestionibus cum m.p. Mitis Iudex Dominus Iesus connexis (cf. coram Infrascripto Ponente, sent. diei 18 octobris 2017, Nictheroyen., A. 190/2017, nn. 5-6; coram eodem, sent. diei 18 octobris 2017, Sedunen., A. 191/2017, nn. 6-7; coram eodem, sent. diei 8 novembris 2017, Sancti Ioannis Portoricen., A. 219/2017, n. 6).

5. – De boni fidei exclusione. Cum vero pernota quammaxime sint principia de hac exclusione, pauca verba referre heic tantummodo sufficit.

Quoad definitonem huius exclusionis sic invenimus in iurisprudentia N.S.O.: «In eo qui bonum fidei excludit, inspici debet quaedam voluntas sibi effingendi connubium extra et contra doctrinam ac disciplinam Christi et Ecclesiae, atque ita celebrandi nuptias. […] Ideo, saltem in abstracto, bonum fidei ab uno contrahente excludi potest etiam quin ipse positive cogitet de adulterio patrando seu de habenda concubina instar coniugis; sufficit, e contra, positiva voluntas non tradendi alteri parti ius exclusivum in proprium corpus» (coram Exc.mo Pompedda, sent. diei 16 octobris 1973, SRRDec. vol. LXV, p. 649, n. 4). Et quidem positiva voluntas non tradendi alteri parti ius exclusivum in proprium corpus ab actu positivo simulantis dignoscitur, qui probatur iuxta iurisprudentiam N.F. per probationem directam et indirectam, quae unam constituit viam ad certitudinem moralem adipiscendam et tamen non est hyerarchia ponderis omnium probationum (e.g. coram Abbo, sent. 6 februarii 1969, SRRDec., vol. LXI, p. 139, n. 4; coram Huber, sent. 26 novembris 1993, RRDec. Vol. LXXXV, p.725, n.7). Cum vero adsertus simulans in iudicio desit aut – sicut in praesentiarum – ipse praesens in iudicio simulationem refellat, veritas facti adipisci potest solummodo per applicationem noti brochardi verbis facta sunt potiora.

Omnes revera declarationes partium, testibus fidedignis suffultae, secundum criterium nuper relatum cordato iudici cribrandae sunt et in casu valet ratiocinatio: «“animus ab operibus operantis dignoscitur... Nam licet ex verbis bene dignoscatur animus et intentio hominis… facta tamen sunt fortiora ad demonstrandum huiusmodi animum quam verba” (Barbosa, Tractatus varii. I. De axiomatibus iuris, Axioma XXVII). Facta tamen talia esse debent quae explicari nequeunt ex motivis post matrimonium ortis, sed tantummodo ex intentione in contrahendo habita» (coram Pinto, sent. diei 9 aprilis 1973, SRRDec., vol. LXV, p. 361, n. 4). Quam ob rem ex ipso criterio, ad verba ipsa simulantis sedulo applicato, non modo confessio eiusdem simulationis suspecta haberi potest, sed contra ipsa negatio, sicut in causa quae hodie est decernenda.

6. – De implicita exclusione boni fidei. «In huius generis causis, saepe intricatis, iudex sollicitus esse debet dignoscendi, ex foro externo, praevalentem nubentis voluntatem. Ut actus positivus habeatur, non necessario requiritur ut boni fidei exclusio sit in pactum deducta aut explicite manifesta, sed sufficit exclusio implicita, ex circumstantiarum complexu clare percepta. Concessio iuris enim non mere theorica sed realis esse debet. Si mulier ante et post matrimonium intimam relationem quodam cum determinato iuvene aut cum pluribus viris absque interruptione coluerit, fortissima exsurgit praesumpio ius exclusum fuisse. Et ideo si peculiaria adiuncta post nuptias non supervenerint, quae prosecutionem aut novarum relationum instaurationem explicare valeant, pro certo haberi debet simulatum consensum intercessisse» (coram Bruno, sent. diei 24 iulii 1985, RRDec. vol. LXXVII, p. 406, n. 4). Hae vero adnotationes magni fiunt ponderis in hodierna factispecie dimetienda sicut melius in sequenti numero dilucidatae sunt.

7. – De mediis probationis, praesertim de probatione indirecta et de praesumptionibus iuxta solidatam rotalem iurisprudentiam. Media probationis ad simulationem dimetiendam dividi solere in probationes directas et indirectas pernotum est. Ad probationes indirectas quod spectat, mens ad praesumptiones vertenda est, quae media sunt probationis (cf. can. 1584) et iuxta principium regulae iuris XLV fundatae videntur: «Inspicimus in obscuris quod est verisimilis vel quod plerumque fieri consuevit».

Enimvero «fundamentum super quo constituitur praesumptio est indicium, hoc est factum ex quo ascenditur, per ratiocinium, ad praesumptionem: illud autem distingui solet leve, grave et gravissimum»; insuper «liquido patet praesumptionem fundari in activitate intellectiva, quae, licet ad certam conclusionem devenire nequeat, ad probabilem tamen tuto pede accedit, ita ut ipsius humanae rationis exigentiis non renuntiet. Nucleum veritatis directe non inspicitur: dantur, tantum, quaedam facta, quaedam circumstantiae, quaedam indicia, quae gressus dirigunt ad ipsam veritatem detegendam: sane, non omnimoda certitudine, sed cum probabilitate quae formidinem errandi excudat in prudenti homine» (coram Exc.mo Pompedda, sent. diei 20 novembris 1989, RRDec. vol. LXXXI, pp. 687-688, nn, 5-6; vide ibidem alia elementa maximi momenti).

Ad dimentiendam nullitatem matrimonii haec scite adnotentur: «In genere qualis fuerit contrahentis intentio iudex in foro externo desumet ex adiunctis et circumstantiis maxima diligentia perpensis, sive antecedentibus, sive concomitantibus, sive subsequentibus matrimonium (cfr. ibid., vol. XVII, 1925, p. 62, n. 2, coram Massimi); idest in probanda simulatione legitime recursus fit ad coniecturas (ibid., vol. XVIII, 1926, pp. 254 ss., n. 5, coram Solieri), immo generaliter nonnisi ex eiusmodi coniecturis argui potest aliquem simulavisse (ibid., vol. XIX, 1927, p. 172, n. 5, coram Grazioli» (coram Ewers, sent. diei 13 februarii 1971, SRRDec., vol . LXIII, p. 122, n. 5). Quare iurisprudentia tenet adiuncta et coniecturas maximi esse momenti in pensitandis actis et in certitudine morali adipiscenda. Namque «in causis nullitatis matrimonii definiendis, adiuncta coniugii non sunt consideranda tamquam simplices confirmationes probationis iam aliunde perfectae. Siquidem in quibusdam casibus adiuncta praecipuum possunt constituere argumentum et aliquando etiam concludens (licet non autonomum), prout scite agnoscitur in una diei 18 ianuarii 1968 coram Abbo apteque illustratur in una diei 31 iulii 1925 coram Jullien (cfr. S. R. Rotae Decisiones, 60 [1968], p. 26, n. 9; et 17 [1925], pp. 308-312, nn. 3-9)» (coram Egan, sent. diei 2 martii 1974, SRRDec., vol. LXVI, n. 10., p. 165).

8. – Solam probationem indirectam iudici, ad iudicium ferendum cum morali certitudine, sufficere animadvertendum est, si facta probata et irrefragabilia sint e quibus deducitur actus positivus voluntatis clare et invicte demonstratus. Revera cum probatione deductiva seu praesumptiva utitur, necesse est ut illud quae singula non prosunt, collecta iuvant obtemperatum iri, sed secundum quid, et quidem hoc axiomate satisfaciendo: «Tantus enim potest esse cumulus indiciorum ut sufficienter explicari non possit, nisi supposita veritate facti, de quo quaeritur. Totum autem pendet a prudenti aestimatione et persuasione iudicis» (F.X. Wernz – P. Vidal – F. Cappello, Ius canonicum, De processibus, vol. VI, Romae 19492, p. 485, n. 520). Hic modus ratiocinandi in processibus de matrimonii nullitate declarandis applicatur tum a iurisprudentia N.A.F (e.g. coram Pinto, sent. diei 22 aprilis 1974, RRDec., vol. LXVI, pp. 272-281; coram Exc.mo Pompedda, sent. diei 20 novembris 1989, ibid., vol. LXXXI, pp. 687-689, nn. 5-9) tum a iurisprudentia S.C. Concilii (Ead., Resolutio dubii 1 februarii 1868,  in ASS 3 [1867] p. 408, n. 4) et demum tum a iurisprudentia S. Congregationis S. Officii: «Facta enim duplici ratione ostendi possunt, vel per testes aut documenta fide digna, quae facta directe et immediate demonstrent; quae probatio legitima dicitur; vel per cumulum, maiorem vel minorem, indiciorum, coniecturarum et praesumptionum, qui cumulus explicari prudenter non posset, si non supponatur factum de quo quaeritur: haec secunda factorum probatio, quamquam non stricto sensu legitima, sed aequipollens appellatur, deficiente prima legitimaque probatione, in iudiciis cum quodam pruden

Lobiati Paolo G.M.



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