The “special” nullity of contracts as a consequence of an anticompetitive agreement and the “fragmentation” of the nullity category

La nullità “speciale” dei contratti a valle di un’intesa anticoncorrenziale e la “frantumazione” della categoria della nullità

28.06.2022

Ludovica Diodato*


 La nullità “speciale” dei contratti a valle di un’intesa anticoncorrenziale e la “frantumazione” della categoria della nullità**

 

English title: The “special” nullity of contracts as a consequence of an anticompetitive agreement and the “fragmentation” of the nullity category

 

DOI: 10.26350/18277942_000080

 

Sommario: 1. Il caso e il quesito giuridico. – 2. La risposta delle Sezioni Unite. – 3. Le ricostruzioni degli interpreti tra la nullità del contratto a valle e la responsabilità dell’impresa. – 4. La nullità “doppiamente speciale” dei contratti a valle: fondamento normativo e assiologico. – 4. La “frantumazione” della categoria della nullità.

 

  1. Il caso e il quesito giuridico

 

La decisione delle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 30 dicembre 2021, n. 41994) interviene a seguito di una controversia che ha visto contrapporsi, da un lato, un privato in qualità di fideiussore di una società per azioni di cui era socio e, dall’altro, un istituto di credito, Intesa Sanpaolo s.p.a., che con tale società aveva concluso un contratto di mutuo.

Nel 2004, la società debitrice stipulava con la banca un contratto di mutuo a garanzia del quale veniva richiesto il rilascio di due distinte fideiussioni, poi sottoscritte dal ricorrente.

Successivamente, l’istituto di credito recedeva dal contratto di finanziamento chiedendo al debitore la restituzione del relativo scoperto.

A fronte dell’inadempimento della richiesta, la banca proponeva ricorso per decreto ingiuntivo con cui domandava la condanna del fideiussore al pagamento dell’importo.

Emesso il provvedimento monitorio da parte del Tribunale di merito, il garante proponeva opposizione ed instaurava, nel frattempo, altro procedimento dinanzi alla Corte d’appello di Roma.

Dinanzi alla Corte, il ricorrente lamentava la nullità dei contratti di fideiussione stipulati per violazione dell’art. 2, comma 2, lett. a) legge 287 del 1990 e chiedeva il risarcimento del danno, patrimoniale e non, patito per effetto della condotta della banca, oltre che la cancellazione del proprio nominativo dalla Centrale Rischi della Banca d’Italia.

In subordine, egli chiedeva che venisse dichiarata la nullità delle sole clausole di cui agli artt. 2, 6 e 8 dei contratti di fideiussione per violazione dell’art. 2, comma 2, lett. a) legge 287 del 1990 nonché la non debenza di quanto richiesto nel rispetto dell’art. 1957 CC. L’attore, invero, rilevava il mancato rispetto del termine semestrale ivi previsto, essendo stato il decreto ingiuntivo depositato più di un anno dopo dalla comunicazione al debitore principale della risoluzione del rapporto di credito.

La Corte d’appello di Roma, rigettate le opposte richieste avanzate da Italfondiario s.p.a., procuratore di Intesa San Paolo s.p.a., dichiarava, innanzitutto, la nullità delle predette clausole contenute nei contratti di fideiussione per violazione dell’art. 2 comma 2 lett. a) legge 287 del 1990. In secondo luogo, respingeva la domanda di risarcimento del danno patrimoniale avanzata dal fideiussore mentre accoglieva quella relativa al danno non patrimoniale subito a causa della condotta scorretta della banca. Ordinava, infine, la cancellazione del nominativo dello stesso dalla Centrale Rischi della Banca d’Italia e condannava il procuratore dell’istituto di credito al pagamento delle spese di giudizio.

Proposto, da parte del soccombente, ricorso per Cassazione avverso la decisione, la prima sezione civile della Corte rilevava che sul regime giuridico del contratto stipulato a valle di un’intesa anticoncorrenziale non sussiste unità di vedute né in dottrina, né in giurisprudenza.

Gli orientamenti formatisi sul punto si dipanavano nelle tesi della nullità integrale, della nullità parziale, limitata cioè alle sole clausole che riproducono il contenuto dell’intesa anticoncorrenziale e, infine, del riconoscimento, quale unico strumento di tutela, del risarcimento del danno.

Trattandosi di una questione di rilevante importanza, data anche dalla frequente ricorrenza della fattispecie nella prassi, la sezione rimetteva la questione alle Sezioni Unite affinchè chiarissero: “1) se la coincidenza totale o parziale con le condizioni dell’intesa a monte – dichiarata nulla dall’organo di vigilanza di settore – giustifichi la dichiarazione di nullità della clausole accettate dal fideiussore, nel contratto a valle, o legittimi esclusivamente l’esercizio dell’azione di risarcimento del danno; 2) nel primo caso, quale sia il regime applicabile all’azione di nullità, sotto il profilo della tipologia di vizio e della legittimazione a farlo valere; 3) se sia ammissibile una dichiarazione di nullità parziale della fideiussione; 4) se l’indagine a tal fine richiesta debba avere ad oggetto, oltre alla predetta coincidenza, la potenziale volontà delle parti di prestare ugualmente il proprio consenso al rilascio della garanzia, ovvero l’esclusione di un mutamento dell’assetto d’interessi derivante dal contratto”.

 

  1. La risposta delle Sezioni Unite

 

Richiamati i motivi di ricorso formulati dal soccombente, le Sezioni Unite delineano il percorso che ha condotto la Banca d’Italia a dichiarare, nel provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005, la nullità di talune clausole contenute nello schema contrattuale predisposto dall’ABI (Associazione Bancaria Italiana) per violazione dell’art. 2, c. 2, lett. a) legge 287 del 1990.

Nell’ottobre 2002, invero, l’ABI sottopose alla Banca d’Italia uno schema di contratto per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie. Sul punto, la Banca d’Italia, all’epoca Autorità Garante della Concorrenza tra gli Istituti di Credito, avviò un’istruttoria e, a tal fine, consultò l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.

Quest’ultima mosse rilievi critici, in particolare, avverso le clausole n. 2, 6 e 8 delle citate condizioni generali di contratto che contenevano previsioni derogatorie rispetto alla disciplina generale della fideiussione ex artt. 1936 e ss. CC.

In forza della prima, c.d. clausola di reviviscenza, il fideiussore era tenuto a rimborsare alla banca le somme che questa avesse dovuto restituire a causa di annullamento, inefficacia, revoca del pagamento o per qualsiasi altro motivo; in forza della seconda, c.d. clausola di rinuncia ai termini, invece, il fideiussore restava obbligato anche dopo la scadenza dell’obbligazione principale senza che la banca dovesse escutere il debitore, il fideiussore o altro coobbligato nei termini di cui all’art. 1957 CC; in forza dell’ultima, c.d. clausola di sopravvivenza, in caso di invalidità dell’obbligazione principale il fideiussore restava vincolato a garantire l’obbligo del debitore di restituire le somme percepite.

Tali clausole, secondo l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, erano idonee a restringere la concorrenza rendendo più difficile l’accesso al credito e accrescendo i costi del finanziamento per il debitore che sarebbe stato, così, costretto a remunerare il maggior rischio assunto dal fideiussore.

Acquisito il parere e considerato che, nel frattempo, le condizioni generali de quibus erano state adottate da numerose banche, la Banca d’Italia ha adottato il provvedimento n. 55 del 2005.

In quest’ultimo, essa ha chiarito, in via preliminare, che lo schema contrattuale predisposto dall’ABI rientra nell’art. 2 c. 1 legge 287 del 1990, a norma del quale: “Sono considerati intese gli accordi e/o le pratiche concordate tra imprese nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari”.

In secondo luogo, che gli effetti distorsivi della concorrenza prodotti da tale intesa avrebbero avuto un impatto rilevante sul mercato, atteso l’elevato numero di imprese associate all’ABI per le quali quest’ultima costituisce un punto di riferimento nell’ottica del coordinamento del relativo modus operandi.

L’Autorità, infine, ha dichiarato che, fatte salve le altre clausole, finalizzate a facilitare l’accesso al credito, quelle ex artt. 2, 6 e 8 sono in contrasto con l’art. 2 c. 2, lett. a) legge 287 del 1990 in quanto addossano al garante le conseguenze negative derivanti dalla negligenza della banca ovvero dall’inefficacia o invalidità dell’obbligazione principale.

Riscontrata la nullità di tali previsioni, si è posto, così, il problema della sorte che avessero i contratti stipulati a valle dell’intesa ABI che riproducessero il contenuto delle clausole anticompetitive. Ci si domandava, più precisamente, se al fideiussore spettasse una tutela demolitoria o soltanto risarcitoria.

Ebbene, le Sezioni Unite muovono dall’art. 41 della Costituzione rilevando come la concorrenza tra imprese sia posta a presidio non soltanto della libertà di accesso al mercato degli imprenditori ma anche della libertà di scelta degli acquirenti, garantendone la possibilità di cogliere le migliori opportunità offerte dal mercato senza subire interferenze negative da parte dello Stato o da coalizioni di imprese.

Bilancia tali opposte esigenze la legge 287 del 1990, il cui art. 2, che riproduce il contenuto dell’art. 101 TFUE, vieta tutte le intese che abbiano, per oggetto o per effetto, quello di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza.

Richiamati i riferimenti normativi, italiani ed europei[1], il Supremo Consesso passa in rassegna gli interventi giurisprudenziali succedutisi sul punto[2].

La prima decisione, di grande rilevanza per la soluzione del caso de quo, è quella della Cass., sez. I, 1 febbraio 1999, n. 827. In essa è stato chiarito che, sebbene l’art. 2 della legge antitrust faccia riferimento alle “intese”, il legislatore non abbia voluto riferirsi esclusivamente ai contratti in senso tecnico, ben potendo sussumersi nella disposizione anche comportamenti non negoziali né contrattuali che, posti in essere da almeno due imprese, realizzino un risultato distorsivo della concorrenza.

In un’altra decisione, Cass., sez. I, 9 dicembre 2002, n. 17475, la Suprema Corte ha affrontato il tema specifico delle tutele attivabili dal privato parte del contratto stipulato a valle, escludendo la legittimazione dello stesso a proporre qualsiasi azione.

Una pronuncia di poco successiva, invece, ammesso il privato a far valere la nullità dell’intesa conclusa a monte, aveva ritenuto proponibile unicamente l’azione di risarcimento del danno, escludendo una tutela reale (Cass., sez. III, 11 giugno 2003, n. 9384).

A dare una svolta al quadro giurisprudenziale così delineato, sono, poi, intervenute le Sezioni Unite che hanno chiarito che la legge antitrust non è la legge degli imprenditori soltanto, ma di tutti quei soggetti interessati acchè il mercato mantenga un carattere competitivo e che possano subire un pregiudizio dal venir meno dello stesso. Tra questi si collocano, quindi, i consumatori che, per effetto dell’intesa vietata, vedono eluso il proprio diritto ad una scelta effettiva tra i prodotti in concorrenza. Costituendo il contratto concluso con il consumatore lo sbocco naturale dell’intesa anticoncorrenziale, le Sezioni Unite hanno riconosciuto a questi la possibilità di esercitare sia l’azione di accertamento di nullità dell’intesa, sia l’azione di risarcimento del danno ai sensi dell’art. 33 legge 287 del 1990.

Con specifico riguardo alla sorte del contratto stipulato a valle, il Supremo Consesso, sia pur in motivazione, ha riconosciuto che questo non possa avere un rilievo giuridico diverso dall’intesa di cui costituisce applicazione, “giacchè il suo collegamento funzionale con la volontà anticompetitiva a monte lo rende rispetto ad essa non scindibile” (Cass., Sez. Un., 4 febbraio 2005, n. 2207).

Non essendosi tale sentenza occupata direttamente della questione, stante la sensibile differenza della fattispecie di base[3], la pronuncia in commento richiama gli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali formatisi sul punto, i primi prevalentemente direzionati verso il riconoscimento della tutela reale.

Ebbene, per un primo orientamento, l’art. 2 legge 287 del 1990 dà rilievo non solo al negozio originario, fonte dell’accordo illecito, ma a tutta la vicenda complessiva che realizza un ostacolo alla concorrenza. Ne deriva, come conseguenza, la nullità totale sia dell’intesa a monte che della fideiussione stipulata a valle (Cass., sez. I, 12 dicembre 2017, n. 29810[4] e, nello stesso senso, Cass., sez. I, 10 marzo 2021, n. 6523).

Un’altra sentenza, invece, sposa la tesi della nullità parziale, limitata, cioè, alle sole clausole che realizzino il risultato anticompetitivo, restando il contratto valido per il resto (Cass., sez. I, 26 settembre 2019, n. 24044, conforme a Cass., sez. III, 13 febbraio 2020, n. 3556).

Quanto alla dottrina, invece, le Sezioni Unite richiamano, innanzitutto, l’orientamento che sostiene la tesi della nullità totale del contratto a valle.

Nell’ambito dello stesso, poi, si distingue una prima tesi che riconduce la nullità del contratto ad una nullità derivata alla luce del collegamento negoziale sussistente tra l’intesa a monte e la garanzia a valle. L’applicazione del principio simul stabunt simul cadent, invero, farebbe sì che, dichiarata l’invalidità della prima, verrebbe meno anche il secondo.

Una seconda tesi, invece, ritiene che la fideiussione sarebbe nulla per illiceità della causa, perseguendo una funzione illecita, vietata dalle norme antitrust. Per lo stesso motivo, altri autori ritengono che il contratto a valle abbia, piuttosto, un oggetto illecito, con conseguente radicale nullità del medesimo.

Un’altra impostazione, ancora, ritiene che venga in rilievo una nullità virtuale stante il carattere imperativo delle norme poste a tutela della concorrenza.

Altra parte della dottrina, poi, sulla scorta del principio di conservazione degli atti giuridici, sostiene che, di regola, la nullità colpisca unicamente le clausole riproduttive dell’intesa illecita ai sensi dell’art. 1419 CC.

Un ulteriore filone interpretativo, infine, relega la tutela del privato alla sola possibilità di azionare la richiesta di risarcimento del danno patito per effetto della condotta anticoncorrenziale sul modello del dolo incidente ex art. 1440 CC. La norma, infatti, consentirebbe di reagire alla malafede dell’altro contraente che abusi della propria posizione in presenza di un’anomalia di mercato da egli stesso creata.

Ciò premesso, le Sezioni Unite affermano che la tesi più aderente agli obiettivi perseguiti dalla normativa antitrust sia quella che ravvisa nella fattispecie un’ipotesi di nullità parziale[5].

Alle obiezioni mosse dal Procuratore Generale[6], secondo cui i contratti di fideiussione così stipulati costituirebbero espressione dell’autonomia negoziale delle parti ai sensi dell’art. 1322 CC, il Supremo Consesso risponde evidenziando che l’autonomia negoziale si scontra con i limiti imposti dalla legge, tra cui rientra l’art. 41 della Costituzione.

Né, tantomeno, esso ritiene fondata la preoccupazione secondo cui, così opinando, si finirebbe per introdurre nel sistema “tutele reali atipiche”. Soccorre, in questa direzione, l’art. 2, c. 3 legge antitrust che, nel dichiarare le intese vietate nulle “ad ogni effetto”, legittima l’estensione della nullità anche ai contratti che realizzano l’intesa vietata.

Come conseguenza, la tesi che riconosce la sola tutela risarcitoria si pone in contrasto con la ratio della normativa, oltre che con la giurisprudenza non solo recente, ma anche più remota (Cass., sez. III, 13 luglio 2005, n. 14716 e Cass., sez. III, 21 gennaio 2010, n. 993).

Ciò non esclude, afferma la Corte, che la tutela risarcitoria sia sì ammessa, ma in uno con l’azione reale. L’interesse protetto dalla normativa antitrust, infatti, non è solo quello individuale del privato ma anche quello generale del mercato. Il meccanismo risarcitorio, tutelando soltanto il primo, non sarebbe idoneo a soddisfare l’obiettivo perseguito dalla legge né avrebbe un’efficacia dissuasiva significativa per tutte le imprese che hanno partecipato all’intesa.

A diversa conclusione, proseguono le Sezioni Unite, non conduce neppure il diritto dell’Unione europea, per il quale il risarcimento del danno costituisce solo la forma minimale di tutela da apprestare al soggetto leso da una condotta anticoncorrenziale, rimettendo poi ai singoli Stati Membri l’individuazione di ulteriori strumenti di tutela (così, sia la decisione della Commissione CE n. 93/50, sia, tra le altre, Corte di Giustizia, 14 dicembre 1983, C- 319/82; 10 luglio 1987, C- 261/95; 20 settembre 2001, C- 453/99).

In quest’ottica, l’organo nomofilattico ritiene che la nullità parziale sia la soluzione che meglio assicura lo scopo perseguito dalla normativa antitrust, l’interesse degli istituti di credito a mantenere la garanzia fideiussoria, nonché il principio di conservazione[7].

Quest’ultimo, che emerge dagli artt. 1419, 1420 e 1424 CC, rende eccezionale l’estensione della nullità all’intero contratto, richiedendo, a tal fine, da parte di chi ne abbia interesse, la prova dell’interdipendenza tra la clausola o la parte nulla e il resto del contratto, mentre resta preclusa al giudice la possibilità di rilevare d’ufficio tale effetto estensivo[8].

La sussistenza del predetto interesse alla caducazione dell’intero contratto, osservano le Sezioni Unite, è di difficile riscontro nel caso sottoposto al Loro esame. Da un lato, infatti, il garante, in qualità di parente o di socio del debitore garantito, è portatore di un interesse economico al finanziamento bancario, ha un interesse concreto e diretto alla prestazione della garanzia; dall’altro, è maggiormente evidente che l’istituto di credito abbia interesse al mantenimento della garanzia, sia pur alle condizioni “più sfavorevoli” derivanti dalla caducazione delle suddette clausole.

Il Supremo Consesso muove dal rilievo che, tanto l’art. 2 legge 287 del 1990, quanto l’art. 101 TFUE, impediscono un “risultato economico”, quello distorsivo della concorrenza, qualunque sia l’atto o il comportamento mediante il quale questo si realizzi.

Come conseguenza, e richiamando in parte le parole della giurisprudenza precedente, “anche la combinazione di più atti, sia pur di natura diversa, può dar luogo ad una violazione della normativa antitrust, qualora tra gli atti stessi sussista un “collegamento funzionale[9].

Tale nesso funzionale è agevolmente riscontrabile quando il contratto a valle riproduca, interamente o parzialmente, il contenuto dell’intesa a monte, diventando, così, esso stesso un mezzo per violare la normativa antitrust.

Non è, dunque, la deroga alla disciplina codicistica della fideiussione a venire in rilievo, quanto piuttosto il nesso funzionale sussistente tra l’intesa anticoncorrenziale e l’accordo di garanzia, che rende quest’ultimo uno strumento di attuazione della prima.

Questo collegamento funzionale è tanto più rilevante a fronte del diffuso recepimento, da parte degli istituti di credito, dello schema di contratto predisposto dall’ABI, determinandosi un potenziale abbassamento della qualità dei servizi rinvenibili sul mercato.

La nullità dei contratti a valle è posta a presidio dell’“ordine pubblico economico”, connotandosi di specialità rispetto alle nullità già diffuse nell’ordinamento[10]. In confronto a queste, invero, l’invalidità in questione ha una portata più ampia, colpendo anche atti non aventi natura contrattuale.

Viene esclusa, così, la nullità integrale del contratto di fideiussione, relegata alla sola ipotesi in cui questo abbia come effetto diretto quello di restringere la concorrenza (ad esempio quando riproduca interamente il contenuto dell’intesa illecita) o al caso in cui la parte colpita da nullità fosse essenziale per i contraenti e sempre che di tale essenzialità venga data prova dalla parte interessata (cfr. Corte Giustizia, 30 giugno 1966, C- 56/65; 01 settembre 2008, C- 279/06)[11].

Le Sezioni Unite ritengono che la Corte d’Appello di Roma abbia correttamente affermato la nullità delle clausole del contratto di fideiussione riproduttive dello schema negoziale predisposto dall’ABI, anche avvalendosi della prova privilegiata rappresentata dal provvedimento della Banca d’Italia di accertamento dell’infrazione alla legge antitrust.

Da questa nullità, osservano, discendono diverse conseguenze, sostanziali e processuali. Sotto il primo profilo, i contratti di fideiussione, depurati dalle clausole illecite, restano pienamente validi ed efficaci. Sotto il secondo, invece, qualora le parti propongano istanza di nullità totale del contratto, il giudice deve rilevarne la nullità parziale. Quando, però, i contraenti non avanzino la relativa richiesta, egli è tenuto a rigettare l’originaria istanza, non potendo sostituirsi alle stesse[12].

Consegue, infine, l’imprescrittibilità dell’azione di nullità e la proponibilità dell’azione di ripetizione dell’indebito, oltre che di risarcimento dei danni.

Applicata la suddetta soluzione alla controversia che vi ha dato origine, le Sezioni Unite hanno affermato il seguente principio di diritto: "I contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate parzialmente nulle dall'Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con la L. n. 287 del 1990, art. 2, comma 2, lett. a) e art. 101 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea, sono parzialmente nulli, ai sensi dell'art. 2, comma 3 della Legge succitata e dell'art. 1419 CC, in relazione alle sole clausole che riproducano quelle dello schema unilaterale costituente l'intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti".

 

  1. Le ricostruzioni degli interpreti tra la nullità del contratto a valle e la responsabilità dell’impresa

 

I rimedi privatistici rappresentati dal risarcimento del danno e dalla sanzione di invalidità costituiscono strumenti fondamentali nella lotta alle condotte anticoncorrenziali. Il public e il private enforcement, invero, costituiscono nel settore rimedi complementari[13].

Affermata la necessità di far leva -anche- sull’arsenale privatistico al fine di neutralizzare gli illeciti antitrust[14], la legislazione comunitaria ha rimesso all’interprete l’arduo compito di mettere a punto possibili soluzioni domestiche per raggiungere questo obiettivo, riservando ai singoli ordinamenti la disciplina diretta dei rimedi[15].

Il tema, oltre ad essere stato oggetto di esame da parte della giurisprudenza, è stato molto dibattuto in dottrina, dando luogo a molteplici ricostruzioni.

A fronte di quanti ritengono che la violazione dell’art. 2 legge 278 del 1990, nel rispetto degli obiettivi perseguiti dall’ordinamento comunitario, conduca alla caducazione dei singoli contratti stipulati dall’impresa in adesione al contenuto dell’intesa vietata, vi sono coloro che, invece, sostengono che gli stessi obiettivi siano conseguibili condannando la “parte forte” del contratto a valle al risarcimento del danno.

Per quanto riguarda il primo orientamento, esso muove da un approccio definito “parcellizzante” e “a cascata [16]. Partendo dal comune presupposto della nullità del contratto a valle, il fondamento della stessa è stato, poi, diversamente individuato.

Un primo indirizzo ha ricondotto il fenomeno alla categoria dell’invalidità derivata, facendo leva sull’esistenza di una relazione di “strumentalità necessaria” tra l’intesa anticoncorrenziale e i negozi secondari. Si sottolinea, in particolare, la sterilità di una sanzione che, pur rivolta ai cartelli, non coinvolga gli strumenti attraverso cui le imprese conseguono l’illecito vantaggio[17].

A questo orientamento se ne contrappone un altro che ritiene che il contratto stipulato sulla falsariga di un’intesa vietata ex art. 2 sia nullo per illiceità della causa[18] o dell’oggetto[19], perché contrastante con una norma imperativa o con l’ordine pubblico.

Sempre illuminando la causa dell’accordo, alcuni autori, postulata l’atipicità del contratto di fideiussione omnibus[20], hanno ritenuto lo stesso immeritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322 c. 2 CC[21].

Alla tesi della nullità assoluta ed insanabile del contratto “a valle”, nelle sue declinazioni, sono state mosse non poche critiche.

Sotto un primo profilo, si è sottolineato[22] che la prospettiva dell’invalidità derivata del contratto “a valle” postuli l’esistenza di un collegamento negoziale tra l’intesa a monte e il contratto a valle, in realtà insussistente. Ciascun atto, infatti, conserva inevitabilmente la sua intrinseca autonomia non soltanto da un punto di vista oggettivo, ma anche soggettivo: manca l’intento comune delle parti di realizzare lo scopo perseguito con l’intesa principale. Uno dei contraenti, difatti, è del tutto estraneo all’intesa, essendo piuttosto vittima della stessa.

A ciò si aggiunga il carattere non necessariamente negoziale delle intese restrittive della concorrenza: un collegamento sarebbe riscontrabile unicamente quando l’intesa assuma la forma del contratto e non, ad esempio, quella della pratica concordata. In questo modo, si prospetterebbe un trattamento diversificato nonostante la pari attitudine a pregiudicare l’interesse della concorrenza.

Sotto un diverso profilo, neppure la soluzione della nullità per illiceità della causa ha unanimemente convinto gli interpreti, e ciò per una ragione che in parte richiama quella adottata per respingere la ricostruzione dell’invalidità derivata.

Si deve tener conto, cioè, della duplice natura che presentano tali contratti a seconda che ad essi si guardi dalla prospettiva dell’imprenditore oppure del consumatore. Mentre all’imprenditore la stipulazione del contratto consente di realizzare l’obiettivo anticoncorrenziale, tale circostanza, al contrario, non gioca alcun ruolo nella prospettiva del consumatore. Per quest’ultimo, infatti, il contratto è retto dalla causa in concreto da esso perseguita. Mancando, quindi, una comune volontà delle parti in ordine alla funzione dell’operazione negoziale, si esclude la possibilità di porre a fondamento della nullità dei contratti a valle l’illiceità della causa, rimanendo l’obiettivo perseguito dall’impresa allo stadio di semplice motivo[23].      

D’altra parte, non è sembrata neppure convincente la tesi che inquadra il fenomeno sub specie di illiceità dell’oggetto. È vero che l’art. 2 legge 287 del 1990 vieta di stabilire prezzi di vendita uniformi ma, in tali ipotesi, l’illiceità non riguarda propriamente il prezzo oggetto del contratto quanto piuttosto la modalità attraverso cui si è a questo pervenuti[24]. Al di fuori di questo caso, poi, un’illiceità dell’oggetto, potrebbe ravvisarsi soltanto nella misura in cui il contratto a valle riproduca interamente il contenuto dell’intesa illecita[25].

Queste obiezioni, tuttavia, non hanno dissuaso la dottrina ad abbandonare la concezione che vede i contratti stipulati da ciascuna impresa partecipante ad un’intesa e su di essa modellati come affetti da nullità. Si ritiene, infatti, che questa sia una soluzione necessaria se si vuole garantire un sistema di concorrenza efficiente.

Secondo una diversa lettura, invero, la nullità potrebbe trovare fondamento in una applicazione analogica dell’art. 2 della legge antitrust, così colmandosi in via interpretativa la lacuna legis[26].

Altri autori, invece, hanno ricondotto la nullità dei contratti a valle dell’intesa all’art. 1418 c. 1 CC, riconoscendo nell’art. 2 della legge 287 del 1990 la norma imperativa in violazione della quale il contratto è stato stipulato[27].

Siffatta soluzione, se ha il vantaggio di considerare le norme che tutelano la concorrenza come principi fondamentali dell’ordinamento, non ha mancato di suscitare critiche.

Si sottolinea, infatti, che soltanto l’intesa a monte è contraria alla disposizione di ordine pubblico economico, essendo i contratti “a valle” illuminati dalla propria causa in concreto e, quindi, del tutto “neutri”[28]. Si esclude, cioè, la sussistenza di un contrasto diretto tra questi ultimi e l’art. 2 della legge antitrust, pur là dove il loro contenuto presenti una maggior inerenza all’intesa “a monte”[29].

In altri termini, posto che, in virtù dell’accordo vietato, l’utente si trova ad accettare condizioni più gravose di quelle praticabili in un regime “proconcorrenziale”, lo strumento adottabile non sarebbe quello della nullità virtuale che non può scaturire dall’iniquità del contratto a valle quanto piuttosto dalla sua illiceità, immoralità o inesistenza.

Al di là delle diverse interpretazioni della nullità del contratto a valle e delle connesse critiche, taluno ha escluso, a monte, la stessa configurabilità di tale forma di invalidità.

Si è osservato, infatti, che, essendo la legittimazione all’azione attribuita a chiunque vi abbia interesse, a norma dell’art. 1421 CC, aderendo a quest’orientamento si finisce per fare della declaratoria di nullità dei contratti uno strumento di lotta che trasforma il mercato in una sorta di “far west”. Si consentirebbe, cioè, ad ogni impresa di utilizzare quest’azione per travolgere i contratti conclusi dai propri concorrenti[30].

Si è paventato, poi, il rischio che la nullità di detti contratti possa non tutelare adeguatamente gli interessi della vera vittima dell’intesa illecita allorchè la declaratoria intervenga quando ormai questa non possa più ottemperare agli obblighi di restituzione della prestazione ricevuta[31].

Si è posto, infine, l’accento sul fatto che, sancire la nullità di tutti i contratti a valle di un’intesa restrittiva della concorrenza, condurrebbe alla presumibile disfatta economica delle imprese coinvolte nell’intesa vietata, che potrebbero non essere capaci di far fronte agli oneri derivanti dalle obbligazioni risarcitorie che conseguono all’accertamento della nullità del vincolo negoziale[32] [33].

Alla luce di tali critiche, altra parte della dottrina ritiene che il consumatore potrebbe attivare, quale unico strumento, quello del risarcimento del danno eventualmente patito per effetto dell’intesa illecita.

Il contratto a valle di un’intesa anticoncorrenziale, dunque, sarebbe valido ma la condotta dell’impresa darebbe luogo a un illecito produttivo di obbligo di risarcimento del danno. Si consentirebbe, così, la conservazione del contratto “a valle”, che rimarrebbe valido, posto che il contraente tratto in inganno ha liberamente prestato il proprio consenso e avrebbe ugualmente concluso il contratto, sebbene a condizioni diverse da quelle concretamente pattuite[34].

In questo dibattito, le Sezioni Unite in commento prendono posizione aderendo al primo degli orientamenti proposti. Esse, invero, ritengono non sufficiente, né tantomeno efficiente, il solo rimedio del risarcimento del danno nella lotta alle condotte anticoncorrenziali.

Pur condividendo la tesi della nullità, tuttavia, la pronuncia, nell’individuare il fondamento dell’invalidità, si distacca dalle teorie sopra richiamate per proporre una soluzione diversa e, soprattutto, “speciale”, senza tralasciare l’analisi dei caratteri di tale nullità[35].

 

  1. La nullità “doppiamente speciale” dei contratti a valle: fondamento normativo e assiologico

 

Tra le tesi proposte, le Sezioni Unite sembrano condivisibilmente trovare la soluzione del problema all’interno della stessa legge 287 del 1990.

In risposta all’obiezione mossa dal Procuratore Generale, secondo cui la tesi della nullità del contratto a valle configurerebbe una “tutela reale atipica”, esse, infatti, richiamano la stessa formulazione dell’art. 2. La norma, nella parte in cui prevede che le intese vietate sono nulle “ad ogni effetto”, legittimerebbe “inequivocabilmente” la conclusione dell’invalidità anche dei contratti che realizzano l’intesa vietata[36].

A supporto di tale conclusione soccorre la giurisprudenza formatasi sulla questione che ha dato un’interpretazione “estensiva” al concetto di intesa.

Se, infatti, da un punto di vista lessicale il concetto di intesa corrisponde a quello di accordo e in questo si esaurisce, di esso ne sono state allargate le “maglie” ad opera del legislatore, prima, e della giurisprudenza, poi.

Sotto il primo profilo, la legge antitrust al c. 1 dell’art. 2 fornisce un’interpretazione “autentica” della nozione. Si afferma, invero, che: “Sono considerati intese gli accordi e/o le pratiche concordate tra imprese nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari”.

Il concetto, dunque, si scompone nelle sottocategorie degli accordi, delle decisioni (o deliberazioni) di associazioni di imprese e delle pratiche concordate: i primi comprendono ogni manifestazione di volontà, anche giuridicamente non rilevante perché non formalizzata in un rapporto contrattuale, proveniente da soggetti economicamente indipendenti; le seconde consistono nelle decisioni prese collettivamente da imprese aderenti ad una determinata organizzazione al fine di coordinare i rispettivi comportamenti; le pratiche concordate, infine, costituiscono una sub specie degli accordi, da cui si differenziano per il fatto che il coordinamento dell’attività di impresa risulta esclusivamente da fatti concludenti[37].

Sotto l’altro profilo, la giurisprudenza, se non è stata univoca nell’individuare il regime giuridico del contratto stipulato a valle di un’intesa anticoncorrenziale illecita, è stata maggiormente uniforme nell’interpretare il concetto di intesa.

A partire dal 1999[38], infatti, gli interpreti hanno precisato che le intese non vadano interpretate in senso necessariamente tecnico-giuridico, ben potendo in esse rientrare anche comportamenti non negoziali né contrattuali che vedono coinvolte almeno due imprese e che, soprattutto, producano l’effetto di falsare il gioco della concorrenza.

A venire in rilievo non è soltanto il negozio che, eventualmente, si ponga all’origine del percorso anticoncorrenziale ma la complessiva situazione che realizza il risultato anticompetitivo.

Ad un ampiamento del concetto di intesa corrisponde, infatti, una maggiore valorizzazione dell’elemento funzionale, su cui le Sezioni Unite hanno costruito una categoria “speciale” di nullità.

Tale valorizzazione, infatti, consente di neutralizzare il rischio derivante da un allargamento della nozione di intesa vietata che porterebbe ad estendere il rimedio della nullità ben oltre gli spazi immaginati dal legislatore.

La legge, tanto nazionale quanto comunitaria, impone, infatti, un divieto di risultato: quello di alterare il gioco della concorrenza, qualunque sia lo strumento utilizzato per perseguirlo, sia esso negoziale, non negoziale, bilaterale, plurilaterale, unilaterale o meramente comportamentale.

In quest’ottica, allora, il risultato anticoncorrenziale svolge un duplice ruolo fondamentale nella ricostruzione delle Sezioni Unite: da un lato, conferisce base legale ad una fattispecie di nullità che, altrimenti, sarebbe atipica; dall’altro, consente di perseguire quelle pratiche vietate dalla legge senza frapporvi ostacoli formali ma con un approccio sostanziale in linea con l’intentio legis.

Tali osservazioni rendono la categoria della nullità richiamata dalle Sezioni Unite non solo speciale ma, sembra, doppiamente speciale. Essa, infatti, si distacca dalle soluzioni finora proposte dalla dottrina e, più in generale, dalla configurazione tradizionale di questa forma di invalidità.

Un primo profilo di specialità, rilevato dallo stesso Supremo Consesso, si rinviene, come osservato, nell’attitudine della nullità in parola a colpire anche atti non negoziali.

Un secondo, invece, è dato dalla elaborazione di una “nuova” fattispecie di nullità: la nullità derivata per collegamento “funzionale”.

Le Sezioni Unite, invero, aderiscono a quell’orientamento che esclude la sussistenza di un collegamento negoziale proprio alla luce del fatto che, a monte, potrebbe non ravvisarsi un atto che abbia questa natura.

Limitare l’ambito applicativo della nullità ai soli casi in cui fosse riscontrabile un nesso negoziale avrebbe dato una risposta parziale al problema, affidando, ancora una volta, ai soggettivismi interpretativi la soluzione di gran parte della casistica.

Quanto al nesso funzionale, invece, esso è facilmente riscontrabile quando il contratto a valle riproduca, in tutto o in parte, il contenuto dell’intesa a monte. In questi casi, invero, non può negarsi che l’accordo a valle diventi uno strumento per dare attuazione all’intesa illecita. Tale strumento, anzi, risulta essere indispensabile posto che, senza di esso, l’intesa illecita si ridurrebbe ad una mera “dichiarazione di intenti” priva di rilevanti risvolti fattuali.

Occorre precisare, però, che, quando il contenuto del contratto sia totalmente sovrapponibile a quello dell’intesa illecita, non viene in rilievo la nullità derivata, essendo l’accordo illecito in sé e per sé. Diversamente, quando, come nel caso affrontato dalla Suprema Corte, esso contenga soltanto alcune clausole o alcune parti tratte dall’accordo a monte, la proiezione dei diversi atti verso il perseguimento di un risultato anticompetitivo sembra essere l’unico elemento che giustifica il ricorso alla più grave sanzione della nullità.

La nullità speciale così configurata, oltre a fondarsi su una base normativa individuata nell’art. 2 c. 3 della legge antitrust, risponde ad un interesse pubblico e, in particolare, all’ “ordine pubblico economico” a presidio del quale si sono affermate le discipline antitrust.

Le Sezioni Unite, tuttavia, apprezzabilmente, nell’individuare una soluzione alla questione, tengono conto non soltanto dell’interesse generale ma anche di quello particolare dei soggetti coinvolti nella vicenda.

Se, infatti, un’attenta considerazione del primo avrebbe potuto condurre alla configurazione di una nullità integrale, la valutazione dei secondi, insieme al principio di conservazione, ha portato le Sezioni Unite ad affermare la nullità parziale del contratto a valle.

Ad orientare in questa direzione è, innanzitutto, l’interesse dell’istituto di credito a mantenere in piedi la garanzia fideiussoria, sia pur “indebolita” per effetto della caducazione delle clausole anticoncorrenziali, ma lo è anche l’interesse del garante.

Il fideiussore, invero, di regola, non è portatore di un interesse legittimo all’estensione della nullità all’intero contratto. Da un lato, infatti, egli vanta un interesse diretto, concreto ed attuale all’ottenimento del finanziamento, in quanto legato al debitore da un rapporto di lavoro o di parentela; dall’altro, occorre constatare che, anche se così non fosse, questi non potrebbe invocare la nullità al solo fine di sottrarsi dalla garanzia prestata. Dietro questa condotta, infatti, si celerebbe un utilizzo opportunistico della nullità avversato dalla giurisprudenza quand’anche questa sia prevista nell’esclusivo interesse della parte debole del rapporto[39].

Ricondotta la nullità al c. 3 dell’art. 2 della legge antitrust, appaiono superate anche le perplessità, avanzate da parte della dottrina, circa la configurazione della nullità a fronte della violazione di una mera regola di condotta[40].

Anche ammesso che la legge antitrust imponga alle parti un onere di comportamento, infatti, la sanzione della nullità sarebbe comminata dalla legge, sia pur interpretata estensivamente.

In altri termini, se è vero che la violazione di una regola di condotta dà luogo, di regola, all’attivazione dei rimedi risolutori e/o del risarcimento del danno, secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite del 2007[41], è anche vero che il legislatore, in considerazione della rilevanza degli interessi coinvolti nella vicenda, può prevedere diversamente, come del resto già avviene in altri settori[42].

Alla luce delle osservazioni che precedono, pare, dunque, doversi accogliere con favore la soluzione adottata dalle Sezioni Unite in commento.

In primo luogo, esse hanno ben coniugato gli interessi coinvolti nella vicenda, salvaguardando tanto quello generale, dell’ordine pubblico economico, quanto quello individuale.

Sotto il primo profilo, il Supremo Consesso non ha aderito a quegli orientamenti, per vero minoritari, che postulavano la validità dei contratti “a valle” e riconoscevano alla vittima dell’intesa illecita unicamente il risarcimento del danno. Esso, infatti, ha stigmatizzato le condotte anticoncorrenziali con la forma più grave di invalidità.

D’altra parte, tuttavia, ha tenuto conto delle esigenze di cui sono portatrici entrambe le parti del contratto a valle, escludendo una nullità integrale. Nella prassi, invero, sia il professionista che il consumatore hanno interesse al mantenimento in vita del contratto depurato dalle clausole illecite, come dimostra plasticamente, nell’interesse del secondo, la vocazione naturalmente parziale della nullità virtuale.

In secondo luogo, la nullità elaborata dalle Sezioni Unite non dà vita ad una “tutela reale atipica” ma trova il proprio referente normativo nello stesso art. 2 della legge antitrust, sia pur interpretato estensivamente, con un approccio teleologico e sostanziale. Il Supremo Consesso, infatti, valorizzando lo scopo perseguito dal legislatore, quello di impedire il conseguimento di un risultato anticoncorrenziale, ha elaborato una soluzione perfettamente in linea con lo stesso.

Alla medesima soluzione, a ben vedere, poteva giungersi percorrendo un’altra strada. Piuttosto che interpretare estensivamente il concetto di intesa vietata, le Sezioni Unite avrebbero potuto, come proposto da parte della dottrina[43], prendere atto della lacuna legis e applicare analogicamente l’art. 2 della legge antitrust ai casi di cui ci si occupa.

Il percorso per raggiungere questo risultato, del resto, sarebbe stato il medesimo. In entrambi i casi, invero, si valorizza la ratio della norma e, dunque, l’obiettivo che il legislatore vuole perseguire al fine di estendere la portata della disposizione al di là di una stretta interpretazione letterale della stessa.

Resta, allora, da chiedersi se tale obiettivo, quale che sia la strada seguita, potesse essere perseguito dalla giurisprudenza o necessitasse, piuttosto, di un intervento del legislatore.

La risposta non può che passare da un’analisi delle forme di nullità “speciale” già conosciute dall’ordinamento[44].

 

 

 

  1. La “frantumazione” della categoria della nullità

 

È vero, infatti, che le Sezioni Unite hanno inaugurato un nuovo tipo di nullità, definita appunto “speciale”: una nullità, di regola parziale, derivata da atti, anche non negoziali, situati a monte del contratto e che abbiano un nesso funzionale con lo stesso.

È anche vero, però, che, in disparte la considerazione, già sopra sviluppata, secondo cui tale nullità è stata enucleata da una lettura, sia pur estensiva -e forse evolutiva-, del dato legislativo, l’ordinamento ha già conosciuto diverse forme di nullità “speciali”, che si discostano dalla disciplina civilistica per soddisfare diverse esigenze[45].

Il riferimento è non solo alla nullità di protezione, sorta per compensare le asimmetrie informative o economiche che sussistono, rispettivamente, nei rapporti tra professionisti e consumatori e tra imprese “forti” e “deboli”, ma anche a discipline più settoriali.

Si pensi, ad esempio, alla nullità per mancata registrazione del contratto di locazione ex art. 1 c. 346 legge 311 del 2004, non a caso definita “impropria o atipica”[46]: una nullità sopravvenuta -dunque non genetica-, per inadempimento -quindi per violazione di una regola di comportamento-, e sanabile -in deroga all’art. 1423 CC-.

Alla creazione delle stesse è, talvolta, pervenuta anche la prassi, ricevendo l’avallo successivo della giurisprudenza.

È il caso della c.d. nullità selettiva, con cui si consente al consumatore o al cliente di un rapporto “bifasico” di selezionare e quindi caducare solo taluni atti emessi in esecuzione di un contratto quadro invalido, fermo sempre il limite della buona fede oggettiva[47].

In disparte tale ultima ipotesi in cui, per vero, ad essere speciale non è tanto la nullità in sé quanto piuttosto il modo in cui questa viene azionata, occorre constatare che la delineazione di ipotesi peculiari è, di regola, ad appannaggio del legislatore.

Per quanto apprezzabile, la soluzione fornita dal Supremo Consesso avrebbe, forse, richiesto un intervento legislativo volto ad estendere espressamente l’ambito applicativo dell’art. 2 della legge antitrust.

Nonostante gli sforzi della giurisprudenza, portati avanti sin dal 1999[48], invero, non c’è dubbio che, quantomeno al momento dell’emanazione della legge 287 del 1990, il legislatore avesse voluto colpire con la nullità unicamente le intese poste a valle della complessiva vicenda anticoncorrenziale.

Le Sezioni Unite, tuttavia, poste dinanzi all’alternativa tra il riconoscere una mera tutela risarcitoria, a parere di chi scrive insufficiente, e sanzionare le condotte “incriminate” con la forma più grave di invalidità, sembra abbiano scelto l’unica strada perseguibile[49].

Le categorie “classiche” della nullità, invero, si espongono tutte a diverse obiezioni.

Quanto alla nullità testuale, manca l’appiglio legislativo, riferendosi l’art. 2, come già rilevato, alle sole intese a monte; quanto, poi, alla nullità ex art. 1418 c. 2 CC, essa non pare configurabile, non potendo ritenersi illecito l’oggetto né, tantomeno, la causa del contratto a valle, condividendosi, sul punto, le obiezioni già mosse da gran parte della dottrina e sopra richiamate[50]; alcun supporto, infine, fornisce la categoria della nullità virtuale, atteso che, si ripete, la norma imperativa con cui l’accordo a valle sarebbe in contrasto si rivolge direttamente all’intesa che lo precede.

Ci si può, tuttavia, domandare se le Sezioni Unite avrebbero potuto fare un passo in avanti e, valorizzando il richiamo all’ordine pubblico economico, a presidio del quale rientrano anche le regole poste a tutela del consumatore, configurare una nullità di protezione.

La stessa, difatti, in quanto relativa e parziale, sarebbe stata più idonea a proteggere gli interessi della parte debole del rapporto.

Nella maggior parte dei casi, infatti, a configurarsi è un rapporto tra un professionista, come l’istituto di credito o un assicuratore, e un consumatore.

Né la nullità relativa incontrerebbe un ostacolo nei casi in cui, come quello esaminato dal Supremo Consesso, venga in rilievo un rapporto di garanzia in cui il garantito è un professionista, essendo stata superata la teoria del c.d. professionista di rimbalzo[51].

In passato, invero, per qualificare come consumatore il garante si aveva riguardo alla posizione del debitore principale. Soltanto in quanto quest’ultimo rispettasse i requisiti ex art. 3 c. 1 lett. a) Cod. Cons., il garante poteva definirsi tale. Al contrario, laddove il debitore principale fosse un professionista, la qualificazione veniva estesa automaticamente al garante, anche se questi prestasse la garanzia al di fuori dell’attività professionale o commerciale eventualmente svolta[52].

Questo approccio ermeneutico è stato recentemente sconfessato da un orientamento che sostiene che la qualità soggettiva del fideiussore vada valutata autonomamente da quella del debitore principale. Rifuggendo da qualsiasi automatismo, occorre, infatti, verificare se il fideiussore abbia prestato la garanzia per finalità non inerenti all’esercizio dell’attività professionale svolta, in applicazione della normativa generale[53]. In questo caso, quindi, il fideiussore sarà destinatario della più favorevole disciplina consumeristica anche se ad essere garantito è un debitore-professionista.

Sebbene tale approdo abbia fatto guadagnare maggiori spazi applicativi alla normativa protezionistica, la tesi parrebbe osare troppo.

Da un lato, infatti, le clausole di cui si discute non sono vessatorie ai sensi degli artt. 33 e 36 del Codice del consumo; dall’altro, il c. 3 dell’art. 2 legge 287 del 1990, su cui le Sezioni Unite sembrano aver costruito la propria decisione, non qualifica la nullità come relativa.

Osta, allora, alla configurabilità di una nullità relativa l’art. 1421 CC che richiede una previsione normativa espressa, a meno di non voler accogliere la tesi, molto discussa, della nullità relativa virtuale[54].

Alla luce di quanto esposto, pare opportuno chiedersi se, visto l’ampliamento del catalogo delle “nullità speciali” ad opera della pronuncia in commento, si possa dire avverato quel fenomeno di “frantumazione della categoria unitaria della nullità”[55] in una pluralità di tipi e di corrispondenti discipline eterogenee tra loro.

A parere di chi scrive, in realtà, sembra doversi parlare, più che di “frantumazione”, di una funzionalizzazione della nullità ai risultati perseguiti dal legislatore[56].

Posto che il legislatore, nazionale e comunitario, vuole vietare un risultato economico, ovvero impedire che venga alterato, falsato o ristretto il gioco della concorrenza, le Sezioni Unite, invero, hanno interpretato il dettato normativo nel senso più confacente al perseguimento dello stesso.

Al di là della qualificazione formale degli atti coinvolti nella sequenza anticoncorrenziale, infatti, non può revocarsi in dubbio che il contratto a valle di un’intesa vietata rappresenti uno strumento essenziale per dare esecutività alla stessa e raggiungere l’obiettivo avuto di mira.

Pare, dunque, confermarsi l’idea di una nullità che “non a torto è stata definita, all'esito del sopravvento del diritto europeo, ad assetto variabile, e di tipo funzionale, in quanto calibrata sull'assetto di interessi concreto, con finalità essenzialmente conformativa del regolamento contrattuale”, sempre tesa alla tutela di interessi e di valori fondamentali[57].

 

Abstract:With the commented decision, the Supreme Court Joint Sections judges on the debated theme of the invalidity of contracts concluded after an anticompetitive agreement of wich they reproduce part of the content. The provided solution further implements the range of “special nullities” by setting up – on an extended, telelogical and substantial reading of article 2 of the Antitrust law – a partial nullity which results from a functional link between not all necessary negotiation acts.

Rather than “shatter” the category of nullity, the Supreme Court seems to consistently decline the subject in a way that is functional to the legislator’s target: to prevent the competition from being limited, distorted or altered.

 

Keywords: Nullity, invalidity, competition, agreement, interpretation, fragmentation


*Università degli Studi di Napoli Parthenope  (ludovica.diodato001@studenti.uniparthenope.it)

** Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1]§ 2.4 ss.

[2]§ 2.5 ss.

[3] La questione, invero, riguardava l’individuazione del giudice competente, ai sensi dell’art. 33 legge 287 del 1990, in ordine all’azione di restituzione del maggior premio corrisposto per effetto di un contratto di assicurazione stipulato conformemente alle condizioni fissate dal cartello delle compagnie assicuratrici cui aveva partecipato la convenuta.

[4] Sulla sentenza e sull’erronea interpretazione che ne è stata data, v. s. bastianon, La fideiussione omnibus e la responsabilità della banca tra illeciti antitrust “a monte” e contratti “a valle”, in Resp. civ. prev., 3 (2020), pp. 695 ss. Diversamente, invece, v. s. d’orsi, Nullità dell’intesa e contratto a valle nel diritto antitrust, in Giur. comm., 3 (2019), pp. 575 ss.

[5]§ 2.11 ss.

[6] Sul punto, v. G.P. La Sala, Aspettando le Sezioni Unite: le osservazioni del Procuratore Generale sulla sorte delle fideiussioni omnibus in contrasto con la normativa antimonopolistica, in Giustizia Civile.com, 12 (2021), pp. 3 ss.

[7]§ 2.15: “Una volta esclusa la idoneità della sola tutela risarcitoria, disgiunta dalla tutela reale, a garantire la realizzazione delle finalità perseguite dalla normativa antitrust, deve ritenersi che la forma di tutela più adeguata allo scopo, ma che consente di assicurare anche il rispetto degli altri interessi coinvolti nella vicenda, segnatamente quello degli istituti di credito a mantenere in vita la garanzia fideiussoria, espunte le clausole contrattuali illecite, sia la nullità parziale, limitata – appunto – a tali clausole. Né va tralasciato il rilievo che la nullità parziale è idonea a salvaguardare il menzionato principio generale di conservazione del negozio".

[8] Cass., Sez. Un., 12 dicembre 2014, n. 26242 e 26243, in Foro it., 1 (2015), pp. 862 ss., nt. A. Palmieri - R. Pardolesi - D. Di Ciommo - S. Pagliantini - S. Menchini - A. Proto Pisani, essendo il petitum rivolto al giudice strutturalmente diverso.

[9]§ 2.16.1.

[10]§ 2.17: “Si è, pertanto, evidentemente in presenza di una «nullità speciale», posta – attraverso le previsioni di cui agli artt. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e 2 lett. a) legge 287 del 1990 – a presidio dell’«ordine pubblico economico»; dunque «nullità ulteriore a quelle che il sistema già conosceva» (Cass., n. 827/1999)”.

[11]§ 2.18.1.

[12] V., sul punto, nota n. 8.

[13]m. libertini, Il ruolo necessariamente complementare di public e privat enforcement in materia antitrust, in Funzioni del diritto privato e tecniche di regolazione dei mercati, a cura di m. maugeri - a. zoppini, Bologna, 2009, pp. 171 ss.; c. castronovo – s. mazzamuto, Manuale di diritto privato europeo, Milano, 2007, p. 366, secondo cui: “Un efficace sistema repressivo dei comportamenti anticoncorrenziali delle imprese deve avvalersi di un mix di strumenti pubblicistici e di strumenti privatistici”.

[14] Come dimostrato, tra l’altro, dall’adozione della direttiva 2014/104/UE, recepita dal D.lgs. 3 del 2017, che ha disciplinato specificamente il risarcimento del danno da illecito anticoncorrenziale.

[15] C. Giust., 16 dicembre 1976, 33/76, Rewe/Landwirtschatfskammer Saarland, in Racc., p. 1989; 7 luglio 1981, 158/80, Rewe/Huptzollamt, in Racc., p. 1805; 10 luglio 1997, 261/295, Palmisani, in Racc., p. 4025.

[16]f. longobucco, Violazione di norme antitrust e disciplina dei rimedi nella contrattazione “a valle”, Napoli, 2009, p. 95.

[17] V. m. tavassi – m. scuffi, Diritto processuale antitrust, Milano, 1998, p. 29; a. bertolotti, Illegittimità delle norme bancarie uniformi per contrasto con le regole antitrust e effetto sui contratti a valle: un’ipotesi di soluzione ad un problema dibattuto, in Giur. it., 4 (1997), pp. 345 ss.; n. salanitro, Disciplina antitrust e contratti bancari, in Banca borsa, 1 (1996), pp. 765 ss.

[18] V. l. delli priscoli, La dichiarazione di nullità dell’intesa anticoncorrenziale da parte del giudice ordinario, in Giur. comm., 2 (1999), pp. 226 ss.; n. salanitro,Disciplina antitrust e contratti bancari,cit., pp. 420 ss.; v. scalisi, Nullità e inefficacia nel sistema europeo dei contratti, in Europa dir. priv., 3 (2001), p. 492. Il riferimento all’illiceità della causa ha trovato applicazione anche in giurisprudenza: Trib. Roma, 20 febbraio 1997, in Giur. Comm., 2 (1999), pp. 449 ss.

[19] V. a. albanese, Contratto mercato responsabilità, Milano, 2008, pp. 258 ss.; c. castronovo, Antitrust e abuso di responsabilità civile, in Danno resp., 5 (2004), pp. 473 ss.; a. bertolotti, Ancora su norme antitrust e contratti a valle, in Giur. it., (2000), p. 1876.

[20] Sulla natura della fideiussione omnibus e sui confini tra questa e il contratto autonomo di garanzia, v., tra gli altri, g. stella, Sulla natura giuridica della fideiussione omnibus, tra fideiussione ordinaria o contratto autonomo di garanzia, in https://www.dirittobancario.it/art/sulla-natura-giuridica-della-fideiussione-omnibus-tra-fideiussione-ordinaria-o-contratto-autonomo-di-garanzia/, (9.2.2022); r. carli, Contratto autonomo di garanzia e fideiussione: differenze in ordine alla funzione e all’oggetto della prestazione, in Resp. civ. prev., 3 (2021), pp. 936 ss.; g. stella, Il problema della qualificazione della fideiussione omnibus come contratto autonomo di garanzia, in Resp. civ. prev., 6 (2021), pp. 1807 ss.; s. tomasi, Interpretazione contrattuale e qualificazione della garanzia personale, in Banca borsa, 1 (2018), pp. 93 ss.

[21] Cfr. f. greco – a. zurlo, Analisi della garanzia fideiussoria, tra validità anticoncorrenziale e revisionismo consumeristico, in Resp. civ. prev., 5 (2020), pp. 1432 ss., secondo cui, ripercorrendo le coordinate dettate da Cass., sez. III, 28 aprile 2017, n. 10506, le clausole nn. 2, 6 e 8 del modello ABI, da un lato, attribuiscono un vantaggio sproporzionato ad una parte senza contropartita per l’altra e, dall’altro, collocano la stessa in una condizione di indeterminata soggezione.

[22] V. g. guizzi, Concorrenza e teoria del contratto. Il mercato concorrenziale: problemi e conflitti, Milano, 2010, p. 82; e. camilleri, Contratti a valle, rimedi civilistici e disciplina della concorrenza, Napoli, 2008, pp. 98 ss.; a. albanese, Contratto mercato responsabilità, cit., pp. 260 ss.; m. libertini, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), in Danno resp., 3 (2005), p. 243; g. guizzi, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, in Riv. dir. comm., 1 (1999), pp. 67 ss.

[23] Cfr. f. greco – a. zurlo, Analisi della garanzia fideiussoria, tra validità anticoncorrenziale e revisionismo consumeristico, cit., pp. 1426 ss.; g. guizzi, Concorrenza e teoria del contratto. Il mercato concorrenziale: problemi e conflitti, cit., pp. 218 ss.; m. libertini, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, in Riv. dir. comm., 1 (2002), pp. 433 ss.

[24] Cfr. a. gentili, La nullità dei “contratti a valle” come pratica concordata anticoncorrenziale (Il caso delle fideiussioni ABI), in Giustizia civile, 4 (2019), pp. 691 ss.; f. longobucco, Violazione di norme antitrust e disciplina dei rimedi nella contrattazione “a valle”, cit., p. 107; m. libertini, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), in Danno resp., 3 (2005), pp. 246 ss.

[25]e. camilleri, Contratti a valle, rimedi civilistici e disciplina della concorrenza, cit., pp. 116 ss.

[26]a. albanese, Contratto mercato responsabilità,cit., pp. 264 ss. L’autore propende per la tesi dell’illiceità dell’oggetto del contratto riconoscendo, tuttavia, che essa non si adatta a tutte le possibili varianti di intese illecite. Egli, inoltre, esclude che la nullità si fondi sulla violazione di una regola di ordine pubblico, richiedendo, piuttosto, l’accertamento dell’identità di ratio tra la regola dettata dalla legge per la fattispecie vietata e quella elaborata dall’interprete con riguardo al caso disciplinato.

[27] Cfr. V. m. moresco, Fideiussioni omnibus su moduli standard ABI: condizioni generali di contratto anticoncorrenziali e nullità parziale, in Banca borsa, 1 (2020), pp. 94 ss.; a. gentili, La nullità dei “contratti a valle” come pratica concordata anticoncorrenziale (Il caso delle fideiussioni ABI), cit., p. 701; m. onorato, Nullità dei contratti nell’intesa anticompetitiva, Milano, 2012, pp. 179 ss. Nello stesso senso, Trib. Napoli, Sez. Spec. Imprese, 5 maggio 2021, su cui v. C. Chessa, Sulla invalidità delle fideiussioni bancarie omnibus per violazione della disciplina antitrust, in Giustizia Civile.com, 12 (2021), pp. 5 ss.

[28]e. camilleri, Contratti a valle, rimedi civilistici e disciplina della concorrenza, cit., p. 105.

[29] V. G. P. La Sala, Aspettando le Sezioni Unite: le osservazioni del Procuratore Generale sulla sorte delle fideiussioni omnibus in contrasto con la normativa antimonopolistica, cit., p. 6. Ravvisa, invece, un contrasto diretto tra contratto “a valle” e art. 2 legge antitrust a. gentili, La nullità dei “contratti a valle” come pratica concordata anticoncorrenziale (Il caso delle fideiussioni ABI), cit., p. 700.

[30]a. toffoletto, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per la violazione della normativa antitrust, Milano, 1996, pp. 340 ss.

[31] Proprio i caratteri che contraddistinguono la nullità, quali la legittimazione assoluta, la rilevabilità d’ufficio e le importanti conseguenze caducatorie che ne derivano hanno indotto altra parte della dottrina ad abbandonare la strada di tale forma di invalidità per ritenere il contratto de quo annullabile per vizio del consenso. Cfr. m. meli, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, Milano, 2001, pp. 187 ss. Ugualmente, g.t. elmi, La tutela di fronte all’A.G.O., in Concorrenza e mercato. Le tutele civili delle imprese e dei consumatori, a cura di g. vettori, Padova, 2005, p. 334.

[32]a. toffoletto, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per la violazione della normativa antitrust, cit., p. 343.

[33] Anche queste osservazioni sono state, a loro volta, oggetto di critiche da parte della dottrina. Quanto alla constatazione che la sanzione di nullità diventerebbe uno strumento di lotta tra imprese concorrenti tale da trasformare il mercato in una sorta “far west”, questo rischio si ritiene neutralizzato dalla necessità che l’interesse che legittima la proposizione dell’azione sia diretto, concreto e attuale, condizione processuale che non detengono tutte le imprese presenti sul medesimo mercato in cui opera l’impresa concorrente. Il vantaggio che loro deriverebbe dall’accertamento della nullità del vincolo negoziale, vale a dire la possibilità di attrarre a sé la domanda di beni o servizi in precedenza assorbiti dall’impresa concorrente, sarebbe, infatti, del tutto ipotetico. Ancora, dalla lettera della normativa antitrust non si evince che il legislatore abbia inteso scongiurare il rischio della presumibile disfatta economica delle imprese coinvolte nell’intesa vietata, ed anzi, il silenzio dello stesso potrebbe essere interpretato addirittura come un’accettazione di simile rischio. Così, g. guizzi, Concorrenza e teoria del contratto. Il mercato concorrenziale: problemi e conflitti, cit.,p. 226, secondo cui: “Si potrebbe persino ipotizzare che la l. n. 287 (…), abbia in qualche modo inteso rafforzare la portata del divieto posto dall’art. 2, e soprattutto introdurre un elemento che operi, dal punto di vista psicologico, come controspinta rispetto alla tendenza a violare il divieto, rafforzandone così la funzione general preventiva, e ciò in ragione dell’evidente inefficienza, a tal fine, della sola sanzione di carattere pecuniario”.

[34] Favorevoli al riconoscimento del solo risarcimento del danno: m. libertini, Diritto della concorrenza dell’unione Europea, Milano, 2014, p. 501; id., Gli effetti delle intese restrittive della concorrenza sui c.d. contratti “a valle”. Un commento sullo stato della giurisprudenza italiana, in Nuova giur. civ. comm., 2 (2020), pp. 382 ss.; nello stesso senso, sulla base del dato legislativo (art. 2 c. 3 legge 287 del 1990, art. 101, c. 2, TfUE e art. 1, c. 1. D.lgs. 3/2017) e giurisprudenziale (Cass., Sez. Un., 4 febbraio 2005, n. 2207), s. bastianon, La fideiussione omnibus e la responsabilità della banca tra illeciti antitrust “a monte” e contratti “a valle”, cit., pp. 699 ss. In senso contrario, v. f. denozza, I principi di effettività, proporzionalità ed efficacia dissuasiva nella disciplina dei contratti a valle di intese ed abusi, in Riv. dir. ind., 6 (2019), pp. 354 ss.

[35] Su cui, v. § successivo.

[36]In senso simile si era espresso a. gentili, La nullità dei “contratti a valle” come pratica concordata anticoncorrenziale (Il caso delle fideiussioni ABI), cit., pp. 701 ss., secondo cui la soluzione alla questione era “esplicita” nella stessa legge, sebbene, poi, egli sussumesse i contratti “a valle” nelle pratiche concordate ritenendoli, quindi, in contrasto diretto, e non derivato, con l’art. 2 della legge antitrust. Cfr. m. onorato, Nullità dei contratti nell’intesa anticompetitiva, cit., pp. 168 ss., secondo cui i contratti che l’impresa stipula con i propri clienti rappresentano elementi costitutivi dell’intesa a monte sì da violare direttamente l’art. 2 della legge antitrust a cui, inoltre, l’autore riconosce dignità di norma imperativa. Non ritengono, invece, estendibile a tal punto la nozione di intesa, f. greco – a. zurlo, Analisi della garanzia fideiussoria, tra validità anticoncorrenziale e revisionismo consumeristico, cit., pp. 1423 ss.

[37] Per la nozione di pratica concordata, v. Autorità garante per la concorrenza, 12-10-2005, n. 14775, in Bollettino Autorità garante, 2005 n. 40; C. Giust., 8 luglio 1999, 49/92, Commissione/Anic Partecipazioni, in Racc., p. 4125.

Tale ultima categoria è stata introdotta dal legislatore per consentire di sanzionare quei comportamenti paralleli, non giustificati da esigenze di mercato, per i quali sia difficile dar prova della concertazione intercorsa tra le imprese. In questi casi, per stabilire se ci si trovi o meno davanti ad un’intesa lesiva della concorrenza si ricorre alla valutazione di indizi quali la prova di ripetuti incontri informali tra imprenditori ovvero dello scambio di informazioni sensibili, come i dati relativi ai costi, ai prezzi ovvero alle strategie aziendali.

[38] Il riferimento è a Cass., sez. I, 1 febbraio 1999, n. 827, in Giur.it, (2000), pp. 939 ss., nt. G. Afferni.

[39] Il riferimento è alle Sezioni Unite pronunciatesi sulla c.d. “nullità selettiva” con sentenza n. 28314 il 4 novembre 2019. Sul punto, v. m. depamphilis, Azione “selettiva” di nullità e obbligo di lealtà dell’investitore: il criterio ordinante della buona fede nella giurisprudenza delle Sezioni Unite, in Giur. comm., 4 (2021), pp. 795 ss.; f. greco, La nullità “selettiva” e un necessitato ripensamento del revisionismo consumeristico, in esito alla pronuncia delle Sezioni Unite, in Resp. civ. prev., 3 (2020), pp. 834 ss.; m. rinaldo, Quando la nullità (“selettiva”) invocata dall’investitore trascende in abuso, in Riv. not., 2 (2020), pp. 313 ss.; a. candian, Nullità di protezione e selezione degli atti impugnati, in Banca borsa, 5 (2020), pp. 705 ss.

[40] Cfr. a. gentili, La nullità dei “contratti a valle” come pratica concordata anticoncorrenziale (Il caso delle fideiussioni ABI), cit., pp. 702 ss., secondo cui l’art. 2 legge 287 del 1990, non è una norma di condotta, quanto piuttosto una norma “sugli effetti”, vietando non un comportamento ma il perseguimento di un obiettivo illecito.

[41] Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2007, n. 26724, in Giust. civ., 1 (2008), pp. 1175 ss., nt. G. Nappi, Le sezioni unite su regole di validità, regole di comportamento e doveri informativi, che ha posto un freno al fenomeno di “trascinamento” delle regole di comportamento nelle regole di validità affermando che: “il suaccennato dovere di buona fede, ed i doveri di comportamento in generale, sono troppo immancabilmente legati alle circostanze del caso concreto per poter assurgere, in via di principio, a requisiti di validità che la certezza dei rapporti impone di verificare secondo regole predefinite”.

[42] E come, del resto, prendono atto le stesse Sezioni Unite richiamate nella nota precedente. È il caso, ad esempio, dell’art. 67 septiesdecies del Codice del consumo che, al c. 4, sanziona con la nullità del contratto la condotta del professionista che ostacoli l’esercizio del diritto di recesso da parte del consumatore ovvero violi gli obblighi informativi.

[43] Cfr. a. albanese, Contratto mercato responsabilità, cit., pp. 264 ss.

[44] Su cui, v. § successivo.

[45] Cfr. a. pisani massamormile, Nullità di protezione e nullità virtuali, in Banca borsa, 1 (2017), p. 38, afferma che: “Come è fallace il tentativo di costruire una categoria generale di invalidità, così lo è quello di fondare la figura generale di nullità, cui contrapporre un fiorire antico e sempre più rigoglioso di specialità”; v. scalisi, Categorie e istituti di diritto civile, Milano, 2013, pp. 102 ss.

[46] Cass., Sez. Un., 9 ottobre 2017, n. 23601, in Arch. locazioni, 1 (2018), pp. 34 ss: 18.1. “È difatti innegabile che, nel caso di specie, l'interprete sia chiamato a confrontarsi con una vicenda di nullità efficacemente definita impropria o atipica -a tacer d'altro perché il contratto produce i suoi effetti almeno fino a trenta giorni dalla sua stipulazione, termine ultimo per effettuare la registrazione, per poi assumere la qualificazione negativa sancita dal legislatore, mentre l'ammissibilità di un effetto di sanatoria troverebbe ulteriore conferma nella interpretazione sistematica delle norme di registro, e, segnatamente, di quelle sulla registrazione d'ufficio (artt. 15 e 65 D.P.R. n. 131/1986)”.

[47] V. nota n. 39.

[48] Si rimanda, sul punto, alla nota n. 38.

[49] Non condivide queste conclusioni C. G. Antillo, La sorte dei contratti c.d. a valle dopo le Sezioni Unite, in Giustizia Civile.com, 2 (2022), pp. 9 ss., che reputa “artificioso” il processo interpretativo seguito dalle Sezioni Unite e non necessario il ricorso alla tutela reale offerta dalla nullità, ritenendo più adeguato lo strumento del risarcimento del danno. L’effetto deterrente garantito dalla nullità, infatti, egli ritiene debba essere assicurato al di fuori del diritto civile, non essendo necessario “forzare” lo statuto giuridico di tale forma di invalidità.

Sulle altre critiche alla tesi della nullità come rimedio attivabile, v. § 3, ultima parte.

[50] V. § 3 e, in particolare, le note nn. 23-25.

[51] V. a. zurlo, Il definitivo superamento del c.d. professionismo “di rimbalzo”, in Resp. civ. prev., 2 (2021), pp. 506 ss.; u. minneci, Sul tramonto della teoria del “professionista di rimbalzo”, in Banca borsa, 5 (2020), pp. 685 ss.; m. c. dolmetta, Sul fideiussore consumatore: linee dell’evoluzione giurisprudenziale, in Banca borsa, 3 (2017), pp. 269 ss.; m. rinaldo, Contratti di fideiussione e ambito applicativo della disciplina dettata dal Codice del Consumo, in Riv. not., 3 (2012), pp. 691 ss.

[52] In questo senso, tra le altre, Cass., sez. I, 12 novembre 2008, n. 27005, in DeJure; Cass., sez. I, 9 agosto 2016, n. 16827, ibid.; Cass., sez. I, 3 febbraio 2017, n. 2954, ibid.

[53] Così, Cass., sez. VI, 5 dicembre 2016, n. 24846, in DeJure; Cass., sez. VI, 16 gennaio 2020, n. 742, ibid., nonché C. Giust., 19 novembre 2015, C-74/15, in eur-lex.europa.eu.

[54] Tesi che, per vero, sembra aver indirettamente accolto Cass., Sez. Un., 17 settembre 2015, n. 18214, in DeJure, in tema di forma dei contratti di locazione ad uso abitativo nella parte in cui ha ritenuto che l’invalidità prevista dall’art. 1 c. 4 legge 431 del 1998 ante modifica del 2016 potesse esser fatta valere unicamente dal conduttore in quanto posta a tutela del medesimo, anche in assenza di indicazioni espresse in tal senso. Sul tema, v., tra gli altri, g. d’amico, Nullità di protezione – nullità virtuale (variazioni sulla nullità), in Le forme della nullità, a cura di S. Pagliantini, Torino, 2009; a. pisani massamormile, Nullità di protezione e nullità virtuali, cit.

[55]v. scalisi, Invalidità e inefficacia. Modalità assiologiche della negozialità, in Riv. Dir. Civ., 1 (2003), p. 206.

[56] Funzionalizzazione che, si ripete, avrebbe richiesto l’intervento del legislatore stesso, in assenza del quale si è, però, resa necessaria l’opera ermeneutica della Suprema Corte.

[57] Così, Cass., Sez. Un., 12 dicembre 2014, n. 26242, su cui v. nota n. 8, al punto 3.13.2.

Diodato Ludovica

 

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