fbevnts Dissimulatio: the relationship between the need for mercy , Canon Law and the central position of the human being

La dissimulatio tra esigenze di misericordia, legge canonica e centralità della persona

01.11.2019

Leonardo Caprara

Dottore di ricerca in diritto canonico ed ecclesiastico, Università Cattolica del Sacro Cuore

 

Anna Sammassimo

Ricercatrice in diritto canonico ed ecclesiastico, Università Cattolica del Sacro Cuore

 

La dissimulatio tra esigenze di misericordia, legge canonica e centralità della persona[1]

 

Dissimulatio: the relationship between the need for mercy , Canon Law and the central position of the human being

 

 

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Sommario: Introduzione. 1. Innocenzo III e la dissimulatio. 2. Comportamento omissivo. 3. L’oggetto. 4. I motivi. 5. Foro interno e foro esterno. 6. L’autorità competente. 7. Dissimulatio e altri istituti. 7.1. Il cd. silenzio economico; 7.2. La dispensa. 8. Elasticità dell’ordinamento canonico. 9. Uniformità e varietà. 10. Centralità della persona. Conclusioni.

 

Introduzione

 

La dissimulatio è un istituto[2] peculiare e tipico dell’ordinamento canonico[3] che consente all’autorità ecclesiastica di non sanzionare una determinata condotta in sé non ammissibile in considerazione del fatto che, dalla applicazione della sanzione, può derivare un male peggiore rispetto alla mera violazione[4].

Dal punto di vista formale, essa consiste in un atteggiamento passivo dell’autorità ecclesiastica[5] che, a rigore, dovrebbe infliggere una sanzione di fronte alla violazione di una norma da parte di un fedele ma si astiene dal farlo considerando tale violazione un male minore rispetto alla sanzione stessa. Con tali modalità essa è applicabile in diversi settori del diritto canonico (civile, penale, amministrativo) e rispetto alle più disparate situazioni di difformità dal diritto come anche alle più varie sanzioni, dalla invalidazione di negozi giuridici alla rimozione di ufficiali, alla inflizione di pene e ad altro ancora, senza che possa definirsi tassativamente e neppure indicativamente l’elenco di tali difformità e sanzioni[6].

La dissimulatio trae la sua ragion d’essere nella natura stessa dell’ordinamento canonico e, pur essendo presumibile che sia stata utilizzata sin dagli albori della vita della Chiesa[7], comincia ad apparire in documenti ufficiali e magisteriali solo nel XII secolo, ai tempi di Alessandro III, per poi diventare oggetto di studio e di trattazione da parte di glossatori e commentatori nel successivo XVI secolo, quando ne vengono individuate quelle caratteristiche, finalità e modalità ancora oggi riconosciute dalla dottrina canonistica[8].

Si parla, infatti, e si deve oggi necessariamente ed esclusivamente fare riferimento alla dottrina a proposito di questo istituto perché né il Codex Iuris Canonici del 1917[9] né quello del 1983 né alcuna altra fonte normativa contengono al proposito una disciplina specifica[10].

Ciò non significa ovviamente che questo strumento così caratteristico e di origini tanto remote nell'ordinamento canonico sia stato in qualche modo abrogato.

Anzi, si può presumere non solo che esso continui ad essere applicato, ma anche che, probabilmente, ai nostri giorni, il suo più vasto campo di applicazione sia da ricercarsi nel foro interno[11],  ambito in cui esso risponde soprattutto all'esigenza, come vedremo, di non turbare la quiete spirituale, e cioè la buona fede degli autori dei comportamenti dissimulati. Basti pensare, ad esempio, all'ipotesi di persone che vivono unite da un vincolo matrimoniale invalidamente contratto (e magari non sanabile)[12] di fronte alle quali sarà proprio il rispetto della loro stessa buona fede a giustificare la dissimulazione da parte dell’autorità ecclesiastica[13].

La ragione per cui oggi non conosciamo (praticamente) nessun provvedimento recente di tale indole risiede molto probabilmente – ed anzi sicuramente – nel fatto che questi responsi non sono, per loro natura, destinati a diventare di dominio pubblico, almeno per un notevole lasso di tempo, ma anzi proprio per la funzione tipica della dissimulazione nell'economia generale della giurisdizione ecclesiastica, sono da tenersi riservati fra richiedente e rispondente. 

Dunque, l’unico modo per approcciare l’istituto è quello di fare riferimento alle fonti medievali e alla dottrina.

Del resto il problema presentatosi in sede di codificazione è stato proprio il fatto che la dissimulatio non ha né avrebbe mai potuto trovare un'adeguata formulazione normativa che ne segnasse i confini ed i termini di impiego. Era ed è la sua stessa indole che non permette di formalizzare questo modo di atteggiarsi del governo dei fedeli in uno o più articoli di legge[14] perché non si possono prevedere le circostanze ed i casi in cui si manifesti necessario.

Tentare allora di dare una disciplina “positiva” o codificata a tale istituto avrebbe rischiato e ancora oggi rischierebbe o di impedirne l'impiego in situazioni non prevedibili ex ante, oppure di sminuirne, se non di annullarne, proprio a causa della specifica previsione, sia l'efficacia sia la stessa utilità[15].

Scriveva Santi Romano che ci sono norme che o non possono scriversi o non è opportuno che si scrivano; ce ne sono altre che non possono determinarsi se non quando si verifica la evenienza cui debbono servire[16]. Questo è proprio il caso della dissimulatio.

Non avendo, dunque, una norma da cui partire per analizzare l’istituto e non potendo né avendo l’ambizione, in questa sede, di esaminare tutte le fonti medievali, il presente studio cercherà di presentarne i caratteri prendendo le mosse da tre esempi ben noti risalenti ad Innocenzo III[17], ritenendo che essi costituiscano un campione rappresentativo innanzitutto dei caratteri e della disciplina originale ed originaria della dissimulatio e poi della varietà delle ipotesi e situazioni per le quali essa è stata utilizzata sin dagli inizi nell’ordinamento canonico[18].

 

  1. Innocenzo III e la dissimulatio

 

a)              l’impedimento di consanguineità

 

Il primo esempio da cui si intende prendere le mosse riguarda la materia matrimoniale e, più specificamente, l'impedimento dirimente di consanguineità. È noto che esso fu limitato al quarto grado soltanto con il can. 50 del IV Concilio lateranense (nel 1215) per opera di Innocenzo III “quoniam in ulterioribus gradibus iam non potest absque gravi dispendio huiusmodi prohibitio generaliter observari”[19].

Nel periodo anteriore[20], però, non era inconsueta la prassi o di concedere la dispensa per i gradi compresi fra il 7° e il 4°, oppure di dissimulare, soprattutto se la coppia si fosse sposata in buona fede, ossia senza essere a conoscenza di tale impedimento. Le ragioni di tali eccezioni risiedevano, infatti,  non solo nella volontà di ricondurre a liceità i costumi decadenti di talune popolazioni (duritia populi), ma soprattutto nel desiderio di salvaguardare la quiete dei rapporti in cui si trovavano i coniugi che fossero stati in buona fede[21].

Al proposito, Innocenzo III, interrogato dall'arcivescovo di Lione intorno ad un matrimonio di consanguinei in sesto grado, dal quale era pure nata prole, risponde “quod cum videris expedire, dissimulare poteris taliter copulatos, maxime qui diu pacifice commanserunt”[22]. Dunque, nel caso di specie è la lunga e pacifica convivenza coniugale a far suggerire al Pontefice di dissimulare la violazione dell’impedimento matrimoniale.

 

b)              l'accusatio matrimonii

 

Un secondo esempio può essere tratto dalla materia processuale, e in particolare dal regime dell'accusatio matrimonii.

Il punto di partenza è la decretale Consuluit di Alessandro III ove si prevede che non possa chiedersi la nullità di un matrimonio quando ci sia stata una lunga convivenza[23]. Nel c. Per tuas ad Innocenzo III veniva sottoposto dal Vescovo di Orvieto il caso di un marito che accusava il matrimonio per vizio di consanguineità, mentre la moglie eccepiva la lunga durata della convivenza coniugale con la nascita di ben tre figli chiedendo l'applicazione della decretale alessandrina.

Benché la causa fosse già stata introdotta ed anzi fosse anche terminata la fase istruttoria, il vescovo di Orvieto esitava ad emettere sentenza e si rivolgeva al Pontefice per avere indicazioni su come procedere. Innocenzo III lo invitava a superare l'eccezione sostanziale della lunghezza della convivenza grazie ad un rilievo d'indole processuale: a parere del Pontefice infatti che la regola alessandrina sarebbe stata applicabile solo quando «nondum est lis coram iudice contestata... tunc habet locum huiusmodi decretalis, cum nondum accusatio contra matrimonium est admissa»[24].

 

c)               la nomina agli uffici ecclesiastici

 

Il terzo esempio riguarda una nomina agli uffici ecclesiastici[25]. Quanti dovevano provvedere ad essa avevano lasciato decorrere il termine, incorrendo nella privazione del potere di nomina sancita dal Concilio lateranense. All'avvicinarsi dei legati pontifici però, si preoccuparono di fare quel che non avevano fatto attuando ciò che non avevano più il potere di fare. Rimessa la questione al Pontefice, Innocenzo III valutò che il comportamento posto in essere era da qualificare come illegittimo ma nonostante tale illegittimità, per il minor male (ove le persone designate siano idonee agli incarichi), costitutivamente, attribuì efficacia alle nomine illegittimamente effettuate[26].

 

  1. Comportamento omissivo

 

Appare senza ombra di dubbio, dagli esempi anzi riportati, che la dissimulatio consiste, innanzitutto, nell’astenersi dal conoscere, con la volontà non solo di ignorare ma anche di mostrare di ignorare ciò che invece si conosce[27].

Dissimulando si finge che la realtà sia diversa da quella che è, le si sottrae qualche cosa, rappresentandosi fittiziamente un minus rispetto agli elementi che effettivamente la compongono. In altri termini, ci si comporta come se il fatto dissimulato non si fosse realizzato o come se esso non fosse affetto da quel vizio che, invece, presenta.

L’istituto, infatti, può declinarsi come voluta ignoranza di una condotta illecita oppure di un vizio di un atto[28]. Nel primo caso si avrà una ipotesi di dissimulazione integrale o radicale del fatto in se stesso in quanto cade sul quod actum est in se, specie quando questo sia un crimine, non qualificabile dall'ordinamento che sotto il profilo penalistico; nel secondo di dissimulazione parziale. Quest'ultima sarà ovviamente possibile soltanto rispetto ad atti e comportamenti che in astratto sono leciti e idonei a produrre modificazioni di situazioni giuridiche consentite dall'ordinamento ma che diventano, in concreto, illeciti od invalidi a causa del vizio che li colpisce. In questo caso la dissimulatio cadrà su un elemento o una modalità che vizia l’atto in astratto conforme al diritto che sarà, in concreto, considerato pro valido, pro licito, mentre non lo è.

Da quanto detto emerge che il primo carattere della dissimulazione è che trattasi di un comportamento omissivo, cioè sia di omissione delle sanzioni che i diversi comportamenti antigiuridici comporterebbero, sia di disapplicazione, ad maiora mala vitanda, delle norme che dettano le sanzioni corrispondenti alle varie violazioni della legge canonica[29], di singoli comandi legislativi che imporrebbero di ripristinare l'osservanza della disciplina ecclesiastica violata, di punire colpevoli, di far cessare comportamenti illegittimi ed abusivi, di sciogliere legami illeciti, e altro ancora.

È bene ribadire che non potrà mai aversi un elenco completo o esaustivo delle ipotesi di applicazione dell’istituto perché esso si presenta come elusione, nei singoli casi concreti, di numerosi e differenti precetti della legge canonica, elusione attuata mediante la finta ignoranza delle violazioni della disciplina ecclesiastica perpetrate[30].

Ciò premesso non si può non concordare con chi ritiene non potersi aversi dissimulazione praeter legem o approbativa[31]: se, infatti, una condotta è conforme all’ordinamento e comunque non è illecita, non c’è motivo per cui essa debba essere dissimulata. Probabilmente la tesi contraria è sostenuta da chi confonde la condotta dissimulata con l’atteggiamento dissimulatorio del superiore dimenticando che la prima, quando è contra o praeter legem, può essere legittimamente dissimulata; il secondo, invece, deve necessariamente essere secundum legem e cioè conforme alle esigenze dell'ordinamento, altrimenti la dissimulatio comporterebbe una violazione dei doveri di ufficio da parte dell’autorità e non è questo il caso. In altri termini, se l’autorità ignorasse volutamente il comportamento illecito di un fedele ad esempio per mero disinteresse e comunque senza che vi siano i presupposti di applicazione della dissimulatio, essa agirebbe contra legem e sarebbe perseguibile ai sensi di legge.

Altra è poi l’ipotesi di una res dissimulata che non contrasti con una norma specifica dell’ordinamento canonico, magari perché si tratta di materia non ancora sottoposta ad una disciplina legislativa ad hoc ma comunque in conflitto con i principi generali dell'ordinamento della Chiesa. Anche in questo caso il comportamento sarebbe certamente suscettibile di un giudizio di riprovazione da parte dell'ordinamento e dunque contra legem; se non lo fosse non si profilerebbe un malum, pro maiore malo vitando da dissimulare non reprimendolo. Nessun dubbio deve infatti aversi sul fatto che anche i generalia iuris principia[32] concorrano ad integrare l'ordinamento e che la contraddittorietà con tali norme sia sicuramente sufficiente affinché la res dissimulata possa e debba essere considerata contra legem.

 

  1. Oggetto

 

I tre esempi supra riportati mettono in luce anche il profilo del secondo elemento della dissimulatio, ossia il suo oggetto: infatti, emerge come ciò che si vuol ignorare, e cioè si dissimula, è, dal punto di vista giuridico, un comportamento riprovevole, di fronte al quale l'autorità ecclesiastica, se non dissimulasse, dovrebbe intervenire con l'applicazione di sanzioni dirette a reprimerlo, a farne cessare le conseguenze, a punirne l'autore. In una parola, l’autorità in assenza di dissimulazione sarebbe chiamata a promuovere con le sanzioni a sua disposizione il ristabilimento dell'ordine giuridico.

Oggetto della dissimulazione può essere dunque solamente un comportamento riprovevole e giuridicamente rilevante. Deve infatti concordarsi con chi ritiene che non possa aversi una dissimulatio legis[33] ma solamente una dissimulatio facti[34]. Vero è, infatti, che rispetto all'ordinamento giuridico un qualsiasi fatto o comportamento diventa rilevante solo se e quando ci sono delle norme che lo qualificano. Vero è anche che, come qualunque altro istituto giuridico, pure la dissimulazione fa sempre riferimento per un verso al fatto e per altro alla norma. Resta, però, sempre il fatto, il comportamento ad essere dissimulato e mai la norma di legge, che non subisce alcuna relaxatio ma continua a dettare ai fedeli la debita condotta ed a qualificare il loro agire[35].

Deve poi essere messo in risalto che possono essere dissimulati comportamenti, sempre accomunati dalla connotazione dell'antigiuridicità, suscettibili di diversa qualificazione giuridica e pertanto tali da attirare su se stessi sanzioni di diversa natura.

Si pensi, come nel primo degli esempi innocenziani richiamati, al caso dei matrimoni nulli per un impedimento dirimente[36]: in tale ipotesi la dissimulazione riguarda un negozio giuridico e ne lascia mascherata l'invalidità, facendo sì che l'autorità ecclesiastica non proceda all'applicazione delle sanzioni di legge e in primis alla declaratoria d'invalidità.

Si pensi anche, però, a comportamenti rilevanti sotto il profilo amministrativo, come nel caso delle nomine in un altro degli esempi riportati, o a comportamenti rilevanti sotto il profilo penale[37]. Si ribadisce, infatti, che la dissimulazione investe i più diversi profili di antigiuridicità, non definibili una tantum e a priori, e comunque comprendenti anche comportamenti che, se non fossero dissimulati, dovrebbero certamente essere colpiti da sanzione penale.

 

  1. I motivi

 

Il mostrare di ignorare (cioè l'aspetto esteriore della dissimulazione) è il mezzo idoneo e necessario grazie al quale la Chiesa può esimersi – e di fatto si esime – dall'applicare le sanzioni che a rigore di diritto dovrebbero essere conseguenza dell'infrazione della disciplina.

Dobbiamo ora chiarire quale sia la ragione, il motivo per cui il superiore competente procede in tal modo. Si tratta del terzo elemento caratterizzante la dissimulatio e ben evidente, ancora una volta, dagli esempi innocenziani anzi riportati.

Ebbene, la legittimità di tale provvedimento omissivo di carattere amministrativo riposa su quella che da sempre e per sempre è la norma fondamentale dell'ordinamento della Chiesa. Grazie ad essa le sanzioni e le coercizioni devono essere impiegate fin dove se ne ravvisa la rispondenza al perseguimento delle finalità che all'ordinamento canonico sono proprie, e devono invece arrestarsi quando l'impiego di quei mezzi anziché giovevole tornerebbe nocivo alla salus animarum[38].

Si è già detto che il criterio che deve fare da discrimine tra la prima e la seconda opzione si basa sulla valutazione, necessariamente discrezionale, da parte dell’autorità, del timore che l’applicazione della sanzione determini o causi un male maggiore. Il vitare maiora mala si persegue e si ottiene proprio grazie alla disapplicazione delle sanzioni (civili, penali, amministrative, disciplinari) previste dalla legge. È l'applicazione di queste, infatti, e non la mera dichiarazione di scienza del fatto antigiuridico da parte dell'autorità, che potrebbe provocare quelle sfavorevoli più gravi reazioni che, dissimulando, si vogliono scongiurare. Ma per esimersi dal colpire — senza causare altri tipi di mali, come lo scandalo — la Chiesa non può mostrare di conoscere, deve piuttosto mostrare di ignorare la condotta antigiuridica. Ecco perché, come si è anzi specificato, la dissimulazione non è soltanto una finzione di ignoranza, ma disapplicazione della norma che dispone la sanzione, disapplicazione attuata proprio grazie a quella finzione.

Scriveva già a suo tempo San Tommaso che “in regimine humano illi qui praesunt, recte aliqua mala tolerant, ne aliqua bona impediantur, vel etiam ne aliqua mala peiora incurrantur”[39]. Si tratta dunque di una forma di compromesso che determina l’autorità ecclesiastica competente a dissimulare il fatto antigiuridico (che, comunque, tale rimane): si tollerano dei comportamenti riprovevoli o per non impedire il verificarsi di un bene oppure per evitare il verificarsi di un male peggiore.

È bene concludere ricordando che anche la necessitas, e cioè l'impossibilità in cui l'autorità ecclesiastica si trovi di reagire efficacemente, può costituire giusta causa per ignorare la violazione della disciplina ecclesiastica[40].

 

  1. Foro interno o foro esterno

 

Esaminati i tre elementi essenziali della dissimulatio è fondamentale ora trattare del suo ambito di applicazione.

La dissimulazione può essere impiegata tanto nel foro interno quanto nel foro esterno, come del resto è emerso dai tre esempi anzi riportati di Innocenzo III.

La dissimulazione di foro interno ovviamente, per la stessa natura dell’ambito applicativo, sfugge a qualsiasi controllo sia qualitativo che quantitativo. Si può però presumere, senza paura di sbagliare, che essa trovi nel sacramento della penitenza applicazioni frequentissime oltre che qualitativamente assai varie[41].

Quando la dissimulatio riguarderà il foro interno o sacramentale sarà indispensabile che l’autorità dissimulante verifichi il presupposto della buona fede dell'autore dell'atto dissimulato, essendo lo scopo caratteristico e principale dell’istituto in esame quello di non turbare coloro che in bono statu sunt.

Nel foro esterno invece la dissimulazione avrà uno scopo differente, ossia evitare lo scandalo o mantenere la pace. Si tratta quindi di uno scopo che interessa direttamente ed immediatamente un ambito più vasto di soggetti, anziché quei soli che si identificano come autori del comportamento dissimulato, cosicché la buona fede di chi ha posto in essere la condotta contra legem non sarà più da considerarsi un presupposto indispensabile per la sua legittimità[42].

È fondamentale mettere in luce che nel foro interno la dissimulazione può essere impiegata con minor ristrettezza rispetto a quanto può avvenire nel foro esterno, dal momento che qui, di regola, esula la possibilità di scandalo o di lesione dell'interesse pubblico della Chiesa[43].

Potrebbe infine anche verificarsi che una medesima condotta benché sia oggetto di dissimulazione nell'uno (foro interno) e non nell'altro foro (esterno) ma anche che nel foro esterno il comportamento venga represso ed occorra invece dissimularne l'illiceità nel foro della penitenza, per la convinzione del penitente, sorretta forse da un'ignoranza invincibile della legittimità del proprio agire.

 

  1. L’autorità competente

 

Altro argomento da non tralasciare è quello di quale sia l’autorità ecclesiastica competente a dissimulare.

Negli esempi di Innocenzo III anzi riportati come pure negli altri casi noti di applicazione dell'istituto si trova quasi costantemente la formula «dissimulare poteris» od altra analoga ed equivalente. È, infatti, così che il Pontefice - quando, ovviamente, lo ritenga opportuno - risponde al vescovo che lo ha informato di fatti deplorevoli accaduti sotto la sua giurisdizione[44].

Si evidenzia innanzitutto che non è il responso pontificio contenente un dissimulare poteris a integrare il comportamento omissivo che è la dissimulazione: esso semplicemente ci permette di venire a conoscenza del fatto che che in quelle circostanze si è proceduto ad una dissimulazione, consistente sempre nell'atto omissivo del superiore, per lo più del vescovo, che nella sua potestà giurisdizionale avrebbe il potere-dovere di intervenire con i mezzi sanzionatori e correttivi a sua disposizione[45].

Dunque l’autorità competente a dissimulare è sempre il superiore cui per diritto spetterebbe promuovere e applicare quelle sanzioni di cui invece la dissimulazione paralizza l'applicazione (e che sarebbe competente a dispensare[46]).

Ciò premesso, deve rilevarsi che possono aversi competenze concorrenti, alternative, successive[47].

Altro problema che è stato sollevato in dottrina è quello se si possa configurare in capo al Superiore, ricorrendo nel caso concreto tutte le circostanze che rendano opportuno dissimulare un fatto o un comportamento antigiuridico, un dovere e non un mero potere di ignorare il fatto o il comportamento. Al proposito sembra doversi escludere, data la discrezionalità che caratterizza l’istituto e le difficoltà di inquadramento dello stesso entro confini ben precisi, che si possa parlare di un dovere vero e proprio, almeno dal punto di vista giuridico[48]: semmai potrebbe porsi un problema di obbligo di coscienza[49] ma si ritiene difficile che questo possa transitare dal piano morale a quello giuridico[50].

 

 

  1. Dissimulatio e altri istituti

 

Una volta analizzata la dissimulatio nei suoi elementi essenziali è ora opportuno distinguerla da altri istituti di diritto canonico e da altri atteggiamenti di “politica ecclesiastica” affini o comunque simili sotto vari aspetti. Se ne prenderanno in considerazione due[51], i cui confini sostanziali ed applicativi con la figura di cui si tratta sono particolarmente labili.

 

7.1.           Il cd. silenzio economico

 

Una prima differenziazione va fatta con il cd. silenzio economico[52] o taciturnitas[53], definibile un istituto di politica ecclesiastica o, meglio ancora, un atteggiamento prudenziale dell’autorità ecclesiastica. Può accadere, infatti, talvolta, che all’interno della Chiesa nascano e si sviluppino prassi, strutture di vita associativa, forme cultuali, metodi di proselitismo la cui corrispondenza con la disciplina canonica, con la tradizione e col costume consolidato può apparire dubbia. In tali casi un giudizio di approvazione o di riprovazione, e una conseguente deliberazione con provvedimenti “ufficiali”, potrebbe risultare avventato o quanto meno intempestivo. Può anche accadere che in ambito dottrinale scaturiscano, sempre in seno alla Chiesa, correnti di pensiero innovatrici – e contrastanti con altre ben note e consolidate – rispetto alle quali è difficile prendere una posizione netta.

Orbene proprio queste sono le ipotesi che si suole far rientrare nell’istituto del cd. silenzio economico o taciturnitas, ad indicare che la Chiesa tace perché non vuol prendere posizione, pur se sia sollecitata a pronunciarsi per esempio in favore dell'una o dell'altra di correnti dottrinali contrastanti.

Le suddette ipotesi, però, nulla hanno a che vedere con la dissimulazione, poiché in questi casi si tratta semplicemente, come si spiegava poc’anzi, di un atteggiamento prudenziale dell’autorità, definibile certo in sede di “politica ecclesiastica”, ma, probabilmente, indifferente – ossia non comportante effetti – dal punto di vista giuridico.

 

7.2.         La dispensa

 

Un’altra e ben più delicata differenziazione deve essere fatta tra la dissimulatio e un istituto, pure di antichissime origini, di diritto (amministrativo) canonico: la dispensa[54]. Al proposito è da ricordare che parte della dottrina, richiamando quella decretalistica che non distingueva fra l’una e l’altra e  anzi faceva della prima una species della seconda, ancora in tempi recenti ha ravvisato nella dissimulazione proprio una forma di dispensa[55].

In realtà si ritiene che la dogmatica canonistica moderna permetta di chiarire, senza ombra di dubbio, che si tratta di due istituti giuridici distinti ed autonomi l’uno rispetto all’altro, e che non possa assolutamente pensarsi alla dissimulazione come a un provvedimento attributivo di diritti quale è, appunto, la dispensa.

Alcuni aspetti aiuteranno a comprendere le differenze tra i due istituti, entrambi certo riconducibili ai provvedimenti amministrativi singolari.

Si è visto, almeno nelle sue linee essenziali, la sostanza della dissimulazione. Dal canto suo, ai sensi del can. 85 del Codice di diritto canonico possiamo definire la dispensa come quel provvedimento amministrativo singolare con cui l’autorità ecclesiastica competente esonera dall’osservanza di una legge puramente ecclesiastica in un caso particolare in presenza di una causa adeguata[56]. Si tratta, dunque, di una forma di relaxatio legis, cioè di “allentamento” della legge in un caso particolare e per una causa adeguata che permette di imprimere, assieme ad altri istituti tra i quali, in primis, gli altri atti amministrativi singolari, elasticità all’ordinamento canonico[57].

 

7.2.1.    Codificazione

 

Innanzitutto, una prima differenza balza subito in evidenza: la dispensa ha trovato un suo posto nella codificazione canonica e la dissimulazione no. Per quanto, dunque, anche la dispensa presenti una notevole complessità e varietà sia di caratteristiche formali che di campo di applicazione, il legislatore canonico è comunque riuscito a ricavarne una disciplina, positivamente tradotta in norme giuridiche, al contrario di quanto è accaduto per la dissimulatio.

 

7.2.2.  Aspetto temporale

 

In secondo luogo, una diversità sul piano temporale è anche immediatamente percettibile: la dissimulazione è sempre post factum[58] mentre la dispensa non solo può essere, ma di regola deve essere ed è ante factum[59]. Deve infatti considerarsi che fin quando nulla di antigiuridico si è verificato, non c’è né la possibilità di dare (o non dare) corso a sanzioni, né la possibilità di istituire una comparazione fra maggiore e minor male: in altre parole non vi è nulla da dissimulare. Invece il concetto di “esonero” contiene in sé l’idea che la dispensa intervenga prima che il fatto o il comportamento sia posto in essere.

 

7.2.3.  Sfera giuridica del soggetto

 

Dal punto di vista delle facoltà giuridiche, poi, la dissimulazione, al contrario della dispensa, non dilata la sfera giuridica del soggetto dell'atto dissimulato[60]. Vero è che essa non è qualificabile soltanto come finta ignoranza ma si attua nella disapplicazione, resa possibile e attuata grazie alla finta ignoranza delle sanzioni che l'antigiuridicità del fatto perpetrato imporrebbe. Tale disapplicazione tuttavia non attribuisce al soggetto dell'atto dissimulato – ossia a colui che ha attuato la condotta antigiuridica – alcun diritto, alcun potere, alcuna facoltà giuridicamente apprezzabile. Si è detto che dissimulando l'autorità ecclesiastica omette di prender provvedimenti sanzionatori, “dis-applica” la norma che dispone sanzioni a carico dell'autore di un comportamento antigiuridico. Ne discende che il soggetto del comportamento dissimulato si trova ad essere, di fatto, esente da sanzioni, come se il superiore ecclesiastico realmente ignorasse il comportamento contra ius a lui imputabile. Al contrario, la dispensa permette al soggetto di fare qualcosa che altrimenti, senza il provvedimento amministrativo singolare, non potrebbe compiere e dunque elimina, per quel caso concreto, la contraddittorietà tra l’atto o il fatto e l’ordinamento.

Ancora e conseguentemente se, con la dissimulazione, non svanisce tale contraddittorietà e quindi neppure si ha un arricchimento della sfera giuridica del suo autore, questi non acquista alcun diritto né può vantare alcuna pretesa di continuare a beneficiare dell'atteggiamento elusivo da parte del superiore ecclesiastico. Ciò spiega il carattere provvisorio della dissimulazione[61] che costituisce un ulteriore elemento che la distingue dalla dispensa, la quale, invece, tendenzialmente fa acquisire al soggetto un diritto in qualche modo permanente.

 

7.2.4.  Conoscenza da parte del soggetto

 

Altra importante differenza tra i due istituti consiste nel fatto che per la dissimulazione non è affatto necessario che il soggetto che abbia posto in essere il comportamento da dissimulare conosca la deliberazione dell'autorità: anzi è probabile che egli ignori che il superiore sia al corrente della condotta antigiuridica che ha posto in essere. Dal proprio canto, poi, il superiore può del tutto discrezionalmente, senza che al soggetto a lui sottoposto sia riconosciuto alcun diritto ad opporsi o a lamentarsi in qualche modo, porre fine al proprio atteggiamento dissimulatorio se e nel momento in cui vengano meno le ragioni di quel male minore che in un primo momento lo avevano indotto a dissimulare.

Tutto ciò è ben comprensibile se non si dimentica che la ratio della dissimulazione nel foro esterno può basarsi sulla considerazione di un interesse non dello stesso autore dell'atto dissimulato ma di terzi, ad esempio della collettività, come quando si teme, quale maggior male, il dilagare di uno scandalo. Si prenda il caso in cui sanzionare un determinato e grave comportamento lo porterebbe a conoscenza della collettività che invece lo ignora e l’autorità ritiene che sia meglio mantenere questa situazione di ignoranza. Se la notizia del fatto si diffondesse ugualmente, la ragion d’essere del dissimulare verrebbe meno ed anzi potrebbe verificarsi il contrario, ossia l’eventuale inerzia dell’autorità ecclesiastica potrebbe tramutarsi in ragione di scandalo: il maius malum consisterebbe proprio nell’opposto.

Tutto ciò ci conferma anche e ancora una volta che l'autorità ecclesiastica, dissimulando un fatto o un atto, non ne elimina l’antigiuridicità, differentemente da quanto avviene con la dispensa post factum, la situazione di antigiuridicità di quel fatto o atto. Se, infatti, la dissimulazione facesse venire meno l’antigiuridicità del fatto o dell’atto, non si intravvederebbe la ratio del giudizio di comparazione fra due diversi mala che sta alla radice dell’istituto. E se appunto si dissimula allo scopo di scongiurare un male maggiore, ciò presuppone che anche l'altra alternativa, che si sopporta, continua ad esser valutata come illecita o comunque contra legem[62]; il che è del tutto estraneo alla concezione della dispensa.

Ancora: se si dissimula allo scopo di scongiurare un male maggiore, mezzo sufficiente al raggiungimento di tale risultato è quello di non affrontare direttamente l'atto che costituisce un turbamento della disciplina, senza che occorra supporre che da esso si sottragga — ove pur fosse possibile — la connotazione di antigiuridicità. Non affrontare direttamente significa che, pur dissimulando, la Chiesa non si preclude affatto l'impiego di altri mezzi indiretti, ad esempio esortativi, pur sempre efficaci a sollecitare i fedeli a rientrare nell'ordine[63].

 

7.2.5.   Diritto naturale

 

Si è già detto e sottolineato più volte che gli atti e i comportamenti suscettibili di essere dissimulati sono i più vari, compresi anche i delitti, relativamente ai quali, soprattutto se si tratti di violazione di un precetto di diritto naturale, la stessa suprema autorità della Chiesa non potrebbe mai scriminare il fatto mutandone la qualificazione. Infatti ci sono fatti la cui antigiuridicità può essere emendata dal Sommo Pontefice e altri che invece sono sottratti anche alla Sua suprema potestà.

Invece, fra i comportamenti suscettibili di dissimulazione se ne possono ravvisare, nelle fonti, taluni che la Chiesa mai potrebbe valutare non sfavorevolmente o privare della loro antigiuridicità o cancellare il loro carattere delittuoso.

Deve allora ammettersi che la dissimulazione, a differenza di quanto vale per la dispensa, possa applicarsi anche a comportamenti lesivi della legge naturale[64]: del resto ciò non apparirà incomprensibile se si tiene a mente che la dissimulazione è quel comportamento meramente omissivo dell'autorità a seguito del quale la condotta del suddito non risulta meno difforme dall'ordinamento di quanto prima non fosse. Inoltre, la dissimulazione non può produrre conseguenze diverse a seconda dell'indole dei comportamenti dissimulati.

In merito alla violazione di norme di diritto naturale che viene dissimulata, si può certamente ipotizzare, da parte dell’autorità, un mero pati, un mero difetto di repressione di fatti riprovati dalla stessa legge, come del resto appare chiaro dal c. 1 Dist. XIII del concilio toletano: Adversus ius naturale nulla dispensatio admittitur, nisi forte duo mala ita urgeant, ut alterum eorum, necesse sit eligi. Dunque, contro il diritto naturale è esclusa la dispensa ma non la dissimulatio, cui si fa luogo a seguito della electio ex necessitate. Il principio della scelta del minor male (quod minori nexu noscitur obligare) è enunciato nei termini più generali, senza riserve o limitazioni. E poiché anche nell'ordine della legge naturale si dà una gerarchia, una graduazione di beni, di valori da essa promossi e difesi, così è che pur in quest'ambito è possibile una comparazione fra comportamenti entrambi lesivi di tale ordine, e quindi una comparativa permissio del minore fra essi.

 

  1. Elasticità dell’ordinamento canonico

 

Quanto detto fino ad ora rende ben evidente perché la dottrina ritiene che la dissimulatio, forse più di ogni altro istituto, consenta di comprendere l’elasticità della legge canonica[65].

Si deve, infatti, sempre avere presente che per il diritto canonico valgono principi (parzialmente) diversi rispetto a quelli statuali[66], che non lo irrigidiscono ma, al contrario, gli imprimono una speciale elasticità, caratterizzandolo come sistema dinamico in considerazione della priorità che in esso ha la tutela dei diritti della persona e il suo bene spirituale o salus animae. Come ha puntualmente sottolineato il Del Giudice, infatti, il diritto canonico è “filosoficamente basato sul concetto aristotelico della giustizia generale e particolare, elaborato dalla scolastica, e assolutisticamente ordinato”[67].

Certo anche nell'ordinamento della Chiesa vige il principio della legge uguale per tutti. Non solo: ancora più che negli ordinamenti civili, in quello canonico si ha un nucleo intangibile di valori da salvaguardare, e quindi di precetti da far rispettare: quelli integranti il ius divinum (e tuttavia, come si è visto, può darsi dissimulazione anche rispetto a comportamenti contrastanti con esso). La regola uniforme, però, non è fine a se stessa ma un mezzo per il conseguimento dei fini dell'ordinamento[68]. Tale presupposto non esclude affatto, ma anzi presuppone possibile, che in determinate circostanze l'osservanza della legge possa non essere utile al perseguimento dei fini della Chiesa ed anzi risultare addirittura contrastante con la ragion stessa per cui la legge fu dettata. Proprio in queste circostanze si inserisce la dissimulazione[69].

L’autorità ecclesiastica ha allora il potere-dovere di porre in atto le sanzioni o di astenersene, indulgendo a comportamenti antigiuridici che pur la legge prevede passibili delle varie sanzioni: inflizioni di pene, rimozioni da uffici, censure, declaratorie ex officio della nullità di determinati atti, etc.

 

  1. Uniformità e varietà

 

Certamente anche nel diritto canonico deve ritenersi fondamentale il principio di uguaglianza di tutti i fedeli, ma esso va sempre inteso nel senso per cui può e deve riconoscersi a ciascuno quanto possa – senza nocumento altrui – prevedersi utile e giovevole alla sua salus animarum[70], che resta il fine ultimo ed imprescindibile della Chiesa.

In altri termini non può, nella Chiesa (ed invero forse non potrebbe né dovrebbe anche nei cd. ordinamenti civili), riconoscersi come un’istanza ideale, una meta da raggiungere e, raggiunta, da tener ferma ad ogni costo quella della instaurazione di un regime di uguaglianza formale dei fedeli che, riducendo al minimo le eccezioni, attribuisca a tutti una pari quantità di diritti e poteri, oneri ed obblighi[71].

Ancora: certamente anche nell’ordinamento canonico vige il principio della generalità della legge sicuramente per ragioni che potremmo definire “pratiche” ma anche e soprattutto perché la disciplina da esso risultante si identifica quale quella normalmente più idonea al raggiungimento della salus animarum.

Deve, però, essere considerato il fatto che il popolo di Dio non ha confini né spaziali[72] né temporali[73] e ciò comporta ed impone che la gerarchia ecclesiastica debba essere in grado di adattare la propria concreta azione di governo alle esigenze che di volta in volta si fanno sentire nei diversi ambienti, alle condizioni di vita che da luogo a luogo, da tempo a tempo possono esser assai diverse[74]. La communitas fidelium, in altri termini, proprio a causa della sua illimitatezza sia spaziale che temporale, è, sotto molti aspetti, la comunità meno uniforme che si possa pensare, cosicché a questa condizione di cose occorre far fronte con un sano senso realistico e con la consapevolezza dei limiti del possibile.

La logica conclusione di questo dato di fatto è che nell’ordinamento canonico è fondamentale la costante ricerca di equilibrio, del punto di incontro, tra due spinte contrastanti. Da un lato vi è l’esigenza di una disciplina comune uniforme, giustificata non solo dall'identità dei caratteri fondamentali propri a tutta la stirpe umana (diritto naturale); non solo dall'identità del comune fine e destino proposto a tutti gli uomini (diritto divino positivo); ma altresì dall'individuazione di una disciplina ecclesiastica che tradizione, esperienza e ragione fanno ravvisare la più idonea al raggiungimento di quel fine[75].

Dall'altro lato vi sono però le “humanae naturae varietates et machinationes eius inopinabiles”[76], la consapevolezza che la legge positiva non sempre e non dovunque può essere applicata in uguale modo comportando un uguale con egual successo.

Questo pone un costante problema di mediazione, di contemperamento che richiede una soluzione la quale senza infirmare né compromettere il valore sostanziale della legge canonica, senza oscurarne la dignità di paradigma indicativo del comportamento più conforme ai fini della società ecclesiastica, tenga conto dei molteplici ostacoli che si possono frapporre al mantenimento dell'uniformità della disciplina.

In tale contesto la dissimulatio scaturisce dall’esigenza di misericordia[77] che la Chiesa e il suo diritto devono avere nel considerare il singolo in un caso concreto. Non solo: essa scaturisce dall’obbligo che la stessa autorità ecclesiastica ha di aiutare il singolo ad uscire da una situazione negativa ed evitare al contempo uno scandalo.

Proprio perché scaturisce dalla misericordia, essa ha limiti di applicazione che temperano le eventuali conseguenze riguardanti posizione soggettive di terzi o lo sconcerto che l’atteggiamento omissivo potrebbe provocare nella comunità dei fedeli: infatti opera solo quando chi avrebbe dovuto esperire l’azione ha omesso di farlo, e può essere attivata qualora non vi sia una ratio scandali.

 

  1. Centralità della persona

 

È stato correttamente ed autorevolmente affermato[78] che la dissimulazione costituisce un punto di osservazione privilegiato per l'indagine sui caratteri fondamentali dell'ordinamento canonico in quanto mostra l’estrema rilevanza attribuita dall'ordinamento alla persona, alla singola persona.

La dissimulazione, infatti, non opera a seguito o in conseguenza di meriti riconoscibili al fedele ma, al contrario, in conseguenza di un suo comportamento antigiuridico. Ciò fa ben comprendere come il singolo sia all’apice delle preoccupazioni del legislatore e come il risultato di salvare anche una sola anima possa giustificare una larga elasticità nella disciplina generale della Chiesa.

Si badi che la Chiesa dissimula anche là dove non le mancherebbe il potere materiale di ottenere il rigoroso rispetto dell'ordinamento, dove non le sarebbe difficile imporre la sanzione e ripristinare la situazione di diritto. Invece preferisce essere e mostrarsi remissiva in considerazione di una necessitas, di un ostacolo (per nulla insormontabile e che le legittime sanzioni ben potrebbero infrangere) che si frappone al pieno dispiegarsi della disciplina ecclesiastica.

Il c. 6 Causa I, qu. VII tratta di necessitas temporum: essa va intesa piuttosto come necessità “condizionante”[79], alla quale ci si piega per la consapevolezza che il perseguire la puntuale osservanza della legge provocherebbe mali maggiori d'indole schiettamente spirituale: basti pensare all'eventualità di uno scisma, di un esodo dalla Chiesa di gruppi rilevanti di fedeli, ma anche alla possibilità di uno scandalo anche a carattere locale, ovvero ancora all'eventuale nocumento di un'anima sola. Ed è ben al cospetto di tali esigenze del tutto o comunque prevalentemente spirituali che si legittima il criterio del minor male ad peiora vitanda.

Si è detto già nell’introduzione che il problema di inquadramento di questo istituto in una disciplina puntuale e rigorosa deriva innanzitutto dalla difficoltà di prevederne, a priori e con precisione, confini e modalità di applicazione: lo si ribadisce ora, alla conclusione di queste riflessioni, sottolineando pure che i criteri di valutazione che emergono dalle fonti spesso sono in un certo senso “sovvertiti”, come se seguissero una logica al contrario.

Può infatti accadere che venga dissimulato il comportamento del ribelle inveterato mentre venga legittimamente punito chi, avendo sempre avuto una condotta specchiata, cada in fallo[80]. Ne risulta che il rapporto consueto fra intensità di colpa e sanzione risulti rovesciato, inversamente proporzionale, secondo un criterio di giustizia che si giustifica solo se non si perde di vista quello che è il fine ultimo della Chiesa e cioè la salus animarum.

 

Conclusioni

 

Quella della disapplicazione di una disposizione normativa nel caso concreto è questione atavica, delicata e complessa che non riguarda solo l’ordinamento canonico ma tutti gli ordinamenti positivi, compreso quello internazionale[81].

Anche gli studiosi dei diritti statuali si sono trovati e si trovano, dunque, ad avvertire, nell’ambito dei propri ordinamenti, il ricorrere di esigenze simili a quelle cui la Chiesa fa fronte con la dissimulazione e a (dover) riflettere sulle ripercussioni che ne derivano.

Nell’ambito della visione istituzionalistica del diritto è stato sottolineato che la necessità (o effettività) è non solo un'autonoma fonte di diritto ma addirittura la fonte primigenia, e una norma deve essere disapplicata quando la sua osservanza possa essere nociva[82].

In filosofia del diritto è stato sostenuto che laddove la legge scritta sia incompatibile con i principi di giustizia sostanziale «ad un livello intollerabile», o la legge statutaria sia stata posta in essere esplicitamente in aperto contrasto con «il principio di uguaglianza che costituisce il fondamento di tutta la giustizia», la legge statutaria deve essere disapplicata dal giudice per ragioni di giustizia sostanziale[83]. È la nota formula di Radbruch che, peraltro, si radica (quanto meno, anche) nell’esperienza del diritto terribile, aggiungendosi alle numerose ipotesi tipizzate in cui lo Stato – pur in assenza di cause di giustificazione o di ragioni di opportunità e cioè nel rispetto della sola condizione soggettiva – rinuncia a sanzionare anche le più gravi trasgressioni[84]. Per non parlare, poi, degli ampi spazi di discrezionalità accordati per il caso concreto nella cornice dell’esercizio non obbligatorio dell’azione penale nella tradizione di common law[85]e in quella, pur più recente, ma di massimo interesse per la sua costruzione discorsiva, del diritto penale internazionale[86].

Gli esempi dunque di “disapplicazione di una norma” non sono mancati, non mancano e non mancheranno in futuro perché il problema è quello, sempre fondamentale in ogni ordinamento giuridico, della giustizia nel caso concreto o di una giustizia che sia la “più giusta possibile”. Del resto, non si può dimenticare che «[I]l diritto sarà differente dalla violenza se lo sarà; sarà soltanto un’altra violenza se finirà per assomigliare troppo all’oggetto che dice di voler regolare e dalla cui distanza nasce tutta la possibilità della sua differenza»[87].

Molto prima che gli ordinamenti civili moderni nascessero, il diritto canonico questo problema lo aveva già affrontato, studiato, approfondito e risolto. Aveva predisposto criteri di applicazione puntuali ed adeguati (per quanto possibile) come pure parametri di riferimento chiari ed appropriati. Aveva elaborato dogmaticamente un istituto ad hoc che ancora oggi continua (e possiamo presupporre largamente) ad essere applicato nell’ordinamento della Chiesa che è un ordinamento universale.

Trattare di dissimulazione è oggi importante anche per un altro motivo: tale istituto, infatti, fornisce l’occasione di rimembrare e ribadire ciò che ai nostri giorni sembra caduto nell’oblio, e cioè che il diritto canonico è, assieme al diritto romano, uno dei pilastri sui quali si è costruito non solo il diritto europeo ma tutto il diritto cd. occidentale, sia continentale che di common law. Esso ha fornito agli ordinamenti giuridici moderni le categorie fondamentali sulle quali questi ultimi hanno potuto edificarsi ed organizzarsi; hanno potuto costruire le loro norme, sostanziali e procedurali; hanno potuto creare la propria giurisprudenza[88].

E’ la radice su cui abbiamo costruito il nostro diritto, la fonte che più di duemila anni or sono ha dato vita al principio di uguaglianza degli uomini, l’origine di quei concetti ed istituti senza i quali oggi non avremmo né potremmo avere sistemi giuridici così complessi e strutturati[89]. Non solo. Il diritto canonico non ha storicamente esaurito la sua funzione perché ancora oggi esso può essere strumento di comprensione di norme vigenti, di proficua comparazione e, indubbiamente, di utile ispirazione[90].

 

Abstract: Dissimulation is a technical canon law concept which means something like turning a blind eye to an illegal state of affairs because it would do more harm than good to take positive action against it.

 

Key words: dissimulation, canon law, Papacy


* Il contributo, sottoposto a double blind peer review, è frutto della riflessione comune dei due Autori; tuttavia, i paragrafi  3, 4, 5 e 6 sono opera di Leonardo Caprara; l’introduzione, i paragrafi 1, 2, 7, 8, 9 e le conclusioni di Anna Sammassimo.

[1] In questa sede si tratterà esclusivamente della dissimulatio nel diritto canonico ma in realtà l’istituto ha carattere generale e non esclusivamente giuridico nella Chiesa. Al proposito, per una sintetica ma puntuale disamina, si rinvia al Dictionarium morale et canonicum del Palazzini, nel quale, dopo aver chiarito che “dissimulatio habetur cum quis factis decipitur” e che i suoi elementi costitutivi sono il silenzio e la verità dell’oggetto cui si dirige, si distinguono ben tre ambiti di applicazione: quello della fede, quello dei sacramenti e quello del diritto canonico; cfr. P. Palazzini, Dissimulatio, in Dictionarium morale et canonicum, Roma 1965, pp. 124-126; P. G. Caron, Tolleranza e dissimulazione (diritto canonico) (voce), in Enciclopedia del Diritto, 44, Milano 1992, pp. 716-717.

[2] «Dissimulatio est actus iustitiae prudentis et benigna, quo hinc jura nobis competentia, illini contraventiones aliorum, assumta quadam ignorantia caute praeterimus et praecavendi majoris mali et injuriae gratiae, curiose inquirere supersedemus»; A. Beier – C. Heideck, Iustitia prudens et benigna, seu disputatio iuridica de dissimulatione, Jena 1676.

[3]Ch. Lefebvre, Dissimulation (voce), in Dictionnaire de droit canonique, IV, Paris 1949, col. 1296. L’A. giustamente la definisce «Institution tout à fait originale du droit canonique».

[4] Per una bibliografia essenziale sul tema cfr. A Di Pauli, Dissimulare poteris, in Archiv für katholisches kirchenrecht XCII (1912), pp. 250-269 e 397-414; J. Brys, De dispensatione in iure canonico, Bruges 1925, p. 175; H.G. Heumann, Handlexicon zu der Quellen des römischen Rechts, Iéna 1926; G. Michiels, Normae generales juris canonici, Lublin 1929, p. 680; J. Truemmer, Die Gewohneit als kirchliche Rechtsquelle, Vienne 1932, pp. 17-21; A. Van Hove, De privilegiis et dispensationibus, Malines-Rome 1939, pp. 313 ss; G. Oesterlé, De relatione inter forum externum et internum, in Apollinaris XIX (1946), pp. 83 ss; P. Fedele, Consideraciones sobre la dispense y sobre otras instituciones en la ordinación canónica, in Revista Española de Derecho Canónico 1947, pp. 21 ss; Id., La dispensa e gli istituti affini, in Id., Lo spirito del diritto canonico, Padova 1962, pp. 295-348; Ch. Lefebvre, La dissimulation et la dispense tacite, in Ephemerides iuris canonici III (1947), pp. 606-627; nonché l’opera monografica di G. Olivero, Dissimulatio e tolerantia nell’ordinamento canonico, Milano 1953. M.J. Roca, Disimulación, in Diccionario General de Derecho Canónico, dirr. Javier Otaduy – Antonio Viana – Joaquín Sedano, III (Instituto Martín de Azpilcueta, Facultad de Derecho Canónico, Universidad de Navarra; Pamplona, Thomson Reuters Aranzadi, 2012) p. 379 ss.

[5] Attenta dottrina spiega tale istituto figurandosi l’autorità ecclesiastica che non volendo, per ragioni di misericordia, infliggere una sanzione, “chiude gli occhi davanti ad una violazione della norma”; cfr. O. Fumagalli Carulli, Il governo universale della Chiesa e i diritti della persona, Milano 2003, p. 83.

[6] Puntualizza il Michiels, in perfetta sintonia con quanto (cfr. nota 2) afferma Ch. Lefebvre, che trattasi di “peculiare institutum iuridicum, certis regulis ordinatum, quod in iure canonico suum locum ac non exiguum habet”; G. Michiels, Normae generales juris canonici, cit., p. 680.

[7] Nel Decreto di Graziano ricorre sovente il motivo della condanna della dissimulazione; cfr. P.G. Caron, Tolleranza e dissimulazione (diritto canonico) (voce), cit., p. 715.

[8] Per una puntuale ricostruzione storica dell’istituto si rinvia a Ch. Lefebvre, Dissimulation, cit., esp. coll. 1297-1305, e G. Olivero, Dissimulatio e tolerantia nell’ordinamento canonico, cit., esp. cap. II.

[9] Di dissimulazione si parlava nel Codex Juris Canonici del 1917 e più precisamente nei cann. 637; 647 § 2, 2°; 2413 § 1 nel significato puntuale di occultamento colpevole della verità che si aveva obbligo di manifestare: si noti che le anzidette norme attengono tutte al diritto dei religiosi e non hanno interesse per il nostro argomento. Quanto all’istituto in sé considerato, aveva probabilmente ragione Francesco Ruffini quando, nel 1905, da poco cominciati i lavori di codificazione per volontà di Pio X, scriveva che in esso (come pure in quello della tolleranza) i redattori della nuova legislazione della Chiesa avrebbero trovato sul loro cammino un grave ostacolo tecnico, trattandosi di uno di quei peculiari strumenti di governo dei fedeli e di politica ecclesiastica che sarebbero loro sfuggiti di mano, del tutto inidonei ad essere imbrigliati e racchiusi nelle formule generali ed astratte di un codice. Meritano in questa sede di essere puntualmente riportate le osservazioni al proposito svolte dall’Autore (con riferimento alla codificazione del diritto canonico) perché continuano ad essere ancora oggi - e sicuramente resteranno anche per il futuro - dense di interessanti spunti di riflessioni: «Ha la Chiesa davvero un interesse a fissare in un codice l'intero suo diritto?... Stretta fra la rigidezza medievale delle sue linee direttive e l'incalzare e il premere dei tempi sempre mutabili e delle genti più diverse che mai ordinamento abbia in sé raccolte, essa ha potuto fin qui uscirne in un modo in cui si è addimostrata tutta la virtuosità del versatile spirito romano. Noi saremmo anche disposti a parlare addirittura, alla romana, di virtù; perché è stato certo un grande esperimento di abilità e di forza. Dove il Protestantesimo ha provveduto ai mutabili indirizzi dei tempi e ai diversi umori degli uomini con la infinità delle sue variazioni, come le chiamava il Bossuet, o delle sue confessioni e denominazioni, come le diciamo noi; il cattolicesimo ha posto la infinita varietà dei suoi provvedimenti od anche dei suoi espedienti. La Curia romana ha portato ad una eccellenza insuperabile l'arte di dire e di non dire, di proibire insieme e di concedere, di badare a tutto e di dissimulare: temporum ratione habita. Che capolavoro di adattabilità pratica non è l'istituto delle dispense, una creazione tutta quanta ecclesiastica, che consente alla Chiesa di tener ferma la legge unica di fronte al cozzo dei casi diametralmente opposti, di lasciar scritta la legge arcaica mentre la disciplina vigente la contraddice in tutto! E che portento di diplomazia giuridica quel più moderno accorgimento del tolerariposse che è venuto anch'esso assumendo poco alla volta consistenza di vero istituto del diritto ecclesiastico, e che ha permesso che la Chiesa potesse ad un tempo scomunicare come invasori dei suoi beni i Sovrani di Piemonte e sciogliere i soldati che militarono in quell'impresa, fulminare le leggi sul divorzio e togliere gli scrupoli ai giudici cattolici francesi che lo pronunciano, imporre l'istruzione religiosa nelle scuole e approvare le scuole miste aconfessionistiche di Svizzera e d'America, lasciare che al di là delle Alpi si tratti in ogni occorrenza con gli eretici e condannare in Roma come favoreggiatori dell'eresia i tipografi che stampassero biglietti di invito per le adunanze evangeliche»; cfr. F. Ruffini, La codificazione del diritto ecclesiastico, in AAVV, Studi di diritto in onore di V. Scialoja, Milano 1905, II, ripubbl. in Scritti giuridici minori, Milano 1936, I, pp. 93-95.

[10] Il Codice del 1983, nella sua versione latina, come pure il Codice dei Canoni delle Chiese orientali non utilizzano mai il verbo “dissimulare” o il corrispondente sostantivo ma nella versione francese del codice latino esso compare ben due volte: al can. 63 § 1 traduce il vocabolo l

Caprara Leonardo



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