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La confisca fra passato e futuro

28.10.2017

 

Roberto Isotton

Professore associato di Storia del diritto medievale e moderno, Università Cattolica del Sacro Cuore  - Sede di Piacenza

 

La confisca fra passato e futuro

 

Sommario: 1. Le scelte del legislatore attuale: un ritorno al passato? - 2. La confisca nel sistema dello ius commune definizioni e scopi. - 3. Un’irresistibile espansione. -  4. I difficili esordi del principio di personalità della pena. - 5. Dall’illuminismo ai codici. - 6. L’araba fenice.

 

 

  1. Le scelte del legislatore italiano: un ritorno al passato?*

 Negli ultimi decenni, l’esigenza di attuare sempre più efficaci forme di contrasto ai fenomeni di criminalità organizzata ha indotto il legislatore italiano a privilegiare l’introduzione di misure repressive e preventive di carattere patrimoniale, tese in principal modo a smantellare «quella vastissimarete di beni e rapporti economici destinati alla conservazione e all’esercizio dei poteri criminali»[1]

Tale approccio ha quindi realizzato, come è stato di recente osservato, «un modello di contrasto alla criminalità organizzata eccezionale – in quanto derogatorio alle ordinarie regole di garanzia – trasversale rispetto al sistema normativo del diritto penale, processuale, penitenziario e del tutto peculiare, in quanto caratterizzato dall’intento di incidere non solo sulla sfera personale, ma anche sulla sfera economica e patrimoniale del soggetto responsabile o indiziato di un reato di criminalità organizzata»[2].

Non v’è alcun dubbio che un ruolo fondamentale nella delineazione di questo nuovo paradigma sia stato svolto da un più intenso ricorso alla misura della confisca, in forme talvolta profondamente mutate rispetto al tradizionale modello di confisca ‘speciale’ delineato nell’art. 240 c.p.

Un esempio eloquente dell’allontanamento dalla disciplina codicistica è senza dubbio rappresentato dalla c.d. confisca ‘allargata’ o ‘per sproporzione’. Introdotta col d.l. 399/1994, che ha aggiunto l’art. 12-sexies al d.l. 306/1992, la misura prevedeva originariamente, nei confronti di soggetti condannati per reati di criminalità organizzata, la confisca obbligatoria di tutti i cespiti patrimoniali, nella loro titolarità o disponibilità, che risultassero di valore sproporzionato rispetto al reddito da questi dichiarato o all’attività economica da essi svolta, ogniqualvolta tali soggetti non fossero stati in grado di provarne la legittima provenienza. In prosieguo di tempo, la comprovata efficacia di tale misura ha indotto il legislatore – con diversi interventi protrattisi fino ad oggi[3] – ad estenderne l’applicazione a fattispecie talora ben distanti dai ‘reati-presupposto’ di criminalità organizzata che ne avevano costituito la primigenia ragion d’essere.

Se esula dal compito scientifico dello storico del diritto manifestare una personale presa di posizione rispetto all’attuale, ampio e vivacissimo campo di opinioni sorte a seguito dell’introduzione di una misura siffatta (e di altre del medesimo tenore[4]), non si può negare che egli – a ciò spinto soprattutto dalla tendenza di una parte consistente della dottrina ad annoverare questa nuova peculiare misura patrimoniale non più fra le misure di sicurezza o di prevenzione[5] ma fra le pene in senso stretto[6], nonché dalla constatazione dell’assenza di un diretto vincolo di pertinenzialità tra il reato commesso e i beni oggetto dell’ablazione patrimoniale – ravvisi nelle recenti scelte del legislatore l’ennesima tappa di un lungo percorso storico nel quale, fin dall’età antica, la confiscatio bonorum[7] aveva conosciuto momenti di crisi ed aveva subìto drastici interventi di ridimensionamento, alternati ad altri in cui, specie in età medievale e moderna, avrebbe manifestato una sorprendente tendenza espansiva, tanto da tornare a occupare un ruolo centrale nell’ambito dei sistemi punitivi continentali.

Al fine di fornire qualche ulteriore elemento di conoscenza che possa arricchire con una comparazione di tipo ‘verticale’ l’attuale dibattito dottrinale, appare dunque non del tutto inopportuno seguire, sia pure per sommi capi, le vicende storiche che hanno caratterizzato l’impiego di tale sanzione.

 

2. La confisca nel sistema dello ius commune: definizioni e scopi.

La prospettiva storica che si è deciso di inquadrare in questa sede è, in particolare quella del diritto moderno. Pur senza disconoscere l’importanza, anche in quest’ambito, dell’elaborazione giuridica medievale[8] (che d’altra parte si avrà modo di richiamare ove necessario), Il punto di partenzacronologico di questa breve ricognizione delle fonti dello ius commune si colloca, in particolare, nell’ambito delle practicae e della trattatistica penale cinque-seicentesca. Fra tali opere, ormai pacificamente ritenute gli antecedenti storici della moderna sistemazione tecnica del diritto punitivo[9], spicca il Tractatus de confiscatione bonorum, pubblicato per la prima volta nel 1611 dal giurista umbro Sebastiano Guazzini, che costituisce il primo tentativo compiuto di sistemazione ‘monografica’ della materia. Di esso faremo quindi il punto di partenza della ricostruzione, ovviamente non cercando di tracciare una (qui impossibile) compiuta disciplina dell’istituto, ma limitandoci, in particolare alla ricostruzione degli scopi e dei limiti applicativi di tale sanzione[10].

 

Appoggiandosi alla criminalistica a lui di poco precedente, Guazzini fornisce anzitutto la definizione della confisca quale «auctio universalis [o anche ad fiscum applicatio] omnium bonorum, vel alicuius quotae»[11], e quella, correlativa, del fiscus come bursa publica in qua pecunia publica reponitur[12].

Emerge con chiarezza, fin dalla definizione, l’effetto proprio della confisca: il definitivo svuotamento, parziale o totale, del patrimonio del reo a tutto vantaggio dell’erario.

Il fatto che all’irrogazione di tale pena faccia riscontro la prospettiva di un incremento economico a beneficio del soggetto chiamato ad applicarla appare strettamente connesso al rischio di un impiego immoderato della stessa. Di ciò pare rendersi conto lo stesso Guazzini, che, accanto alla nozione di fisco sopra ricordata, riporta verbatim quella che uno dei suoi autori di riferimento, il borgognone Barthélemy de Chasseneuz, chiama «germana diffinitio» del procuratore fiscale deputato all’incameramento dei beni oggetto di confisca, descritto come «vir parum placidus, omnibus invisus, Deo odiosus, parum aut nihil aequitatis in se habens»[13].

 Tale pregiudizio negativo nei confronti del fisco aveva, in realtà, origini ben più remote. Lungo è infatti il catalogo delle contumelie con cui, fin dall’età medievale, il pubblico erario era stato preso di mira.

Già Luca da Penne, ad esempio, nel suo commento ai tres libri del Codex, oltre a definire il fisco come «stomachus rei publicae», secondo una metafora di stampo organicistico che sarebbe stata ripresa da Baldo degli Ubaldi[14], aveva avvertito che tale «saccus publicus», dalle fonti giustinianee definito «sanctissimus»[15], era ormai divenuto «sceleratissimus»[16]. E lo stesso Baldo avrebbe definito il fisco con gli appellativi di «imaginaria persona (...) durae cervicis et semper rigorosus, numquam vel raro aequus»[17].

Il passaggio all’età moderna non avrebbe certo ammorbidito l’atteggiamento dei giuristi. All’inizio del XVI secolo, il provenzale Guillaume Benoît avrebbe eloquentemente affermato che «est enim fiscus quidam saccus sine conscientia (...) a suis ergo manibus defendat nos Dominus»[18].

Non solo. Il pregiudizio negativo nei confronti del fisco si sarebbe inevitabilmente comunicato anche alla publicatio bonorum: se Deo odiosus è quello, anche questa non si sarebbe potuta definire se non «ex sua natura odiosa»[19]. Da ciò non sarebbe tuttavia derivato alcun dubbio in ordine alla legittimità di tale sanzione, ma solo qualche sporadico tentativo di frenarne l’inevitabile espansione, ad esempio attraverso il ricorso alla strettissima interpretazione delle disposizioni che ne prevedono l’applicazione fuori dei casi stabiliti dallo ius commune[20].

Con un atteggiamento inconsueto anche per la maggior parte dei criminalisti della prima età moderna, nella sua pur sintetica conclusio Guazzini rivolge poi l’attenzione al piano della politica criminale, collazionando tutte le indicazioni intorno agli scopi della confisca fornite dagli autori da lui presi in esame.

Egli connette la funzione di tale pena, ancora una volta, agli indubitabili vantaggi economici per il fisco: la publicatio bonorum sarebbe stata concepita pro supportandis expensis in fabricatione processus contra delinquentes[21], secondo un luogo comune fra i giuristi d’età moderna[22]. Al conseguimento di un vantaggio parimenti economico per lo Stato sono poi riconducibili alcune ulteriori rationes che il giurista umbro trae – pur senza esplicitarle[23] – dall’opera del francese Pierre Rebuffi. Quest’ultimo aveva infatti osservato, a partire dal contenuto di una costituzione del re di Francia Carlo VII: «Ecce igitur quare inventum sit, ut bona applicarentur fisco (...) secundo pro administratione, ut negotia Regni fiant, et administarentur pecunia confiscationis (...) tertio ut oneribus sublevetur populus»[24],aggiungendo poi, immediatamente dopo:«Ecce bonam constitutionem, ut pecunis, vel bona quae ex confiscationibus proveniunt (...), statuit ut sint addicta reparationibus publicis, et praecipue ad reparationes castrorum in limitibus Regni constitutorum»[25].

Tuttavia – ed è questa la finalità dell’istituto che risulta, in prospettiva storica, più convincente – la confisca sarebbe stata introdotta «ut homines remissus se habeant in committendis delictis, cum propter divitias audaciores et potentiores reddantur»[26], secondo un’opinione già a suo tempo espressa, tra gli altri, dal giurista spagnolo Antonio Gomez nel suo commento alle Leyes de Toro del 1505[27]: il suo fine ultimo sarebbe insomma preventivo, «ob publicam utilitatem ne unus alteri insidietur, et quies publica disturbetur»[28].

D’altra parte, anche questa funzione preventiva era strettamente riconnessa a fattori di ordine economico. Come è stato opportunamente messo in luce, «as it dramatically affected the criminal’s family, confiscation was an awful and terrifying penalty in a society such as the ancien régime’s, which was structured in social orders, bodies and, not least, in families (...). During Modern Ages, family honour, prestige and even political power were identified with family estate. That is why the family’s patrimony had to be preserved intact from generation to generation and was to be protected at all costs»[29].

 L’idea che questa sia, in ultima analisi, la principale finalità di tale pena resterà immutata per tutto il tempo dell’esperienza storica del diritto comune. Ne è un esempio emblematico l’opinione del criminalista francese del Settecento Daniel Jousse, che mette a confronto tutte le possibili finalità della confisca per giungere ad una conclusione inequivoca: «Cette peine paroît avoir été introduite comme une seconde punition, outre celle du corps, afin de détourner d’autant plus les hommes de l’envie de commettre les crimes (...). Quelques Auteurs prétendent aussi qu’elle a été introduite pour dédommager le fisc des frais des procès criminels (...). mais l’autre motif paroît plus naturel»[30].

 

3. Un’irresistibile espansione

Nell’economia complessiva della sua trattazione, l’aspetto in relazione al quale Guazzini offre gli spunti più interessanti è rappresentato, senza alcun dubbio, dalla descrizione dei profili applicativi della confisca, dai quale emerge un uso pervasivo di essa nell’ambito delle legislazioni penali d’età moderna antecedenti le codificazioni.

La publicatio bonorum, secondo le disposizioni della compilazione giustinianea, si sarebbe dovuta infatti applicare esclusivamente al crimen laesae maiestatis[31], come effettivamente si applicava de communi ac generali totius orbis observantia[32]. Il che già di per sé le avrebbe garantito vasto campo d’azione, considerata la peculiare elasticità di tale figura criminosa e la sua attitudine a tradursi in un numeroso insieme di fattispecie punibili[33].

Guazzini precisa però che la confisca imponitur in multis casibus, segnalando, de iure communi, diverse centinaia di ipotesi criminose colpite con tale sanzione[34], non interessate dalle limitazioni imposte da Giustiniano (le quali, secondo la communis opinio doctorum, riguardavano esclusivamente i casi in cui essa fosse stata stabilita in consequentiam alterius poenae e non anche quelli in cui fosse stata expresse imposita[35]). In realtà, secondo la realistica constatazione di Giulio Claro, quidiquid sit de iure, communiter totus mundus servat, quod bona non confiscantur in aliquo casu, excepto crimine haeresis, et laesae maiestatis, nisi ex dispositione statuti, vel consuetudinis aliter caveatur[36].

La reviviscenza della publicatio bonorum nel corso dell’età intermedia è dunque dipesa soprattutto dall’incidenza dello ius proprium, che ne ha esteso l’operatività ben oltre i confini dei delitti maiestatici. Valgano, in questo senso, alcuni esempi emblematici. Nel Ducato di Milano, gli statuti criminali prevedono la confisca dei beni per tutti i reati colpiti con la pena del bando (fra cui l'omicidio, l'incendio, la sodomia, la rapina, il furto qualificato etc.[37]); E, su un piano più generale, nell’ambito del droit coutumier d’oltralpe, sull'esempio della coutume di Parigi, si è affermata la regola qui confisque le corps confisque les biens[38], con cui si è tornato a confiscare il patrimonio dei condannati alla pena capitale[39].

Ma v’è di più. In età moderna, emerge prepotentemente, in quest’ambito, la legislazione statuale[40], nuovo e preminente elemento costitutivo dello ius patrium[41]. Anche Guazzini, in tal senso, riconosce che potest Princeps pro aliquo particulari delicto mandaret bona publicari, cum Princeps sit lex animata in terris[42].

Significativa è, ancora, in tal senso, l'esperienza del Ducato di Milano, ove diverse ipotesi di reato colpite da confisca, oltre che dalle Nuove Costituzioni promulgate da Carlo V nel 1541[43], sono previste anche da una più dispersa ed alluvionale produzione legislativa[44].

Anche in Francia la legislazione sovrana ha ribadito le prerogative regie in quest’ambito[45]. Nell’area germanica, poi, solo la Constitutio Criminalis Carolina aveva soppresso tutte le forme di confisca ad eccezione di quelle previste per il crimine di lesa maestà[46], determinando una sostanziale eclissi di tale sanzione[47]. Nei territori sottoposti all’autorità della corona asburgica, alle limitazioni previste dal Codex austriacus[48] aveva fatto riscontro un più deciso ricorso alla publicatio bonorum, anche per fattispecie diverse dal crimen maiestatis, in seno alla Constitutio Criminalis Theresiana[49].

Ultima ma non meno significativa possibilità prevista dal sistema del maturo ius commune resta quella di applicare la confisca extraordinarie (ossia praeter legem)[50]. Questa prerogativa, solitamente propria del sovrano[51], può essere esercitata anche dai giudici dei grandi tribunali,[52] in base all’arbitrium che caratterizza il loro operato[53]: è quindi facilmente immaginabile che l’estensione della publicatio bonorum possa in tal modo assumere contorni pressoché indefiniti.

 

4. I difficili esordi del principio di personalità della pena.

Nell’ambito dei sistemi penali d’età moderna la confisca viene dunque ad assumere un sempre più vasto rilievo, senza peraltro (come si osservava più sopra) che la sua legittimità sia messa in discussione dalla scienza criminalistica di diritto comune.

Non valgono a contestare il ricorso a tale pena neppure le prime sporadiche constatazioni del rapporto di contraddizione fra essa e il principio di personalità della pena.

Il criminalista olandese Joos Damhouder rileva infatti che la bonorum publicatio «in detrimentum et perniciem eorum vergat, qui innocentes sunt et culpa vacant»[54], ma ciò non lo spinge oltre l’affermazione, già sopra ricordata, della natura odiosa della sanzione[55].

Allo stesso modo, sul versante della scienza politica, anche Jean Bodin si limita a definire la circostanza che «tous les biens des condamnéz sont acquis au fisque, sans avoir égard à la femme, ny aux enfants, ny aux créanciers» una «chose très cruelle et barbare»[56].

D’altra parte, l’idea secondo cui la pena non potesse estendersi oltre la persona del colpevole era presente già nella compilazione giustinianea[57] ed era ben conosciuta anche in seno alla scienza giuridica medievale.

I Glossatori ne avevano tenuto conto ed avevano individuato, all’interno del corpus iuris, numerose altre manifestazioni di essa, così come è chiaramente attestato dalla Glossa accursiana[58]. Tuttavia, secondo la nota tendenza all’armonica composizione dei contraria propria di quella scuola[59], essi non avevano riscontrato,  nella pena della confisca, una contraddizione rispetto a tale principio generale: vi avevano piuttosto ravvisato una fallentia, o più precisamente uno ius speciale derogatorio rispetto alla regula della responsabilità individuale[60].

Ma v’è di più. A partire dalla fine del secolo XIII, i giuristi avrebbero provato a giustificare la presenza di tale fallentia all’interno del sistema. Dino del Mugello, ad esempio, avrebbe preso spunto da una delle regulae iuris forse da lui stesso composte e collocate in appendice al Liber Sextus[61], secondo la quale «sine culpa, nisi subsit causa, non est aliquis puniendus»[62], per individuare la causa dell’estensione della pena all’incolpevole in una sorta di presunta continuatio paterni criminis[63]. E ancora più lontano si sarebbe spinto il più celebre allievo di Dino, Cino da Pistoia, nell’ipotizzare addirittura una inevitabile ed irredimibile infectio sanguinis[64], secondo un’argomentazione destinata a conoscere un inalterato favore anche a secoli di distanza[65].

Anche sul versante canonistico, il principio della personalità della pena, che a metà Duecento sarebbe stato scultoreamente enunciato da Enrico da Susa  – «peccata suos debent tenere authores»[66] –, in realtà già dai tempi del Decretum grazianeo aveva conosciuto delle fallentiae in relazione al reato di simonia, correlato al crimen maiestatis divinae[67], e, col recepimento della legislazione antiereticale nelle collezioni canoniche successive, avrebbe conosciuto, con l’applicazione della confiscatio bonorum a danno dell’eretico e dei suoi familiari, un’ulteriore smentita[68], confermata (se non addirittura rafforzata) dalla prassi inquisitoriale dell’età moderna[69].

Il passaggio all’età moderna, con l’eccezione delle prime, timide critiche sopra richiamate, avrebbe poi mostrato un panorama dottrinale, sul punto, sostanzialmente immutato.

Risulta significativa, in particolare, la circostanza che anche in seno alle correnti giusrazionalistiche, impegnate a rifondare su basi logico-deduttive il sistema giuridico (e in particolare quello penale)[70] a partire da un nucleo di generalia tra cui appare anche il principio della responsabilità personale del reo, si riesca ad eludere il problema della presenza della confisca all’interno degli apparati repressivi.

Il caso più emblematico in tal senso è probabilmente quello di Ugo Grozio, fondatore del moderno giusnaturalismo[71], il quale afferma scultoreamente «dicemus neminem delicti immunem ob delictum alienum puniri posse»[72], ma poi chiarisce che il pregiudizio subito dagli eredi del condannato alla publicatio bonorum non può essere considerato propriamente una pena, «quia bona illa illorum futura non erant nisi a parentibus ad ultimum spiritum essent conservata»[73]: non si tratterebbe, quindi, di una sanzione consistente nella perdita dei diritti ereditari, bensì di un incommodum derivante dall’incapienza del patrimonio paterno al momento dell’apertura della successione[74]. E, ancora oltre un secolo più tardi, Christian Wolff ribadirà che «haeredes nullus habent jus in bonis ejus, qui punitur, quamdiu vivit, sed tantummodo succedunt in bona, quae defunctus relinquit», e preciserà che «quando bona confiscantur, eo vivo adimuntur et fisco attribuuntur»[75], giocando sulla circostanza – invero non pacificamente ammessa in seno alla tradizione bartolistica – secondo la quale, in caso di crimen maiestiatis, la perdita del patrimonio opererebbe ipso iure, al momento della commissione del delitto[76].

Il permanere di tale atteggiamento ‘giustificazionistico’ condurrà infine ad un singolare ribaltamento di prospettiva, in virtù del quale proprio nella minaccia delle conseguenze negative a carico degli incolpevoli eredi del reo si individuerà la principale forza deterrente di tale sanzione. Sarà infatti Daniel Jousse a sostenere esplicitamente che il malintenzionato potrà essere più facilmente distolto dal proposito criminoso «en voyant cette peine passer jusques la personne de leurs enfants, ou héritiers, par la privation des biens qui devoient naturellement leur appartenir»[77].

 

5. Dall’illuminismo ai codici.

Da quanto si è sin qui detto, non stupisce che, anche nell’ambito del pensiero illuministico, una radicale critica alla confisca irrompa del tutto inopinatamente: «Se alcuni hanno sostenuto che le confische sieno state un freno alle vendette ed alle prepotenze private, non riflettono che, quantunque le pene producano un bene, non però sono sempre giuste, perché per esser tali debbono esser necessarie, ed un'utile ingiustizia non può esser tollerata da quel legislatore che vuol chiudere tutte le porte alla vigilante tirannia, che lusinga col bene momentaneo e colla felicità di alcuni illustri, sprezzando l'esterminio futuro e le lacrime d'infiniti oscuri. Le confische mettono un prezzo sulle teste dei deboli, fanno soffrire all'innocente la pena del reo e pongono gl'innocenti medesimi nella disperata necessità di commettere i delitti. Qual piú tristo spettacolo che una famiglia strascinata all'infamia ed alla miseria dai delitti di un capo, alla quale la sommissione ordinata dalle leggi impedirebbe il prevenirgli, quand'anche vi fossero i mezzi per farlo!»[78].

La pagina sopra riprodotta – una delle più celebri del beccariano Dei delitti e delle pene – segna, tra l’altro, il più clamoroso distacco dal robusto ancoraggio utilitaristico che caratterizza in modo eminente il pensiero dell’illuminista milanese, a tutto vantaggio di una concezione umanitaria del diritto penale[79]. Per quello che più direttamente ci riguarda, essa rappresenta la più esplicita messa in questione della presenza della confisca negli ordinamenti punitivi.

In precedenza, infatti, Montesquieu aveva criticato gli inconvenienti dell’applicazione di tale pena, ma si era limitato a proporre di limitarne l’impiego a « certains crimes », suggerendo inoltre, sulla base di una suggestione tratta dall’opera di Jean Bodin, che essa coinvolgesse i beni mobili e gli acquisti effettuati dal reo[80].

Per effetto delle lapidarie affermazioni beccariane, la pena della confisca subirà un progressivo fenomeno di delegittimazione, divenendo infine incompatibile con i principi del moderno diritto penale codificato.

A ben vedere, tuttavia, nemmeno il severo giudizio pronunciato da Beccaria pare suscitare, unanimi consensi fra gli esponenti dei Lumi.

 A parte le feroci manifestazioni di disapprovazione suscitate da tale libriccino negli ambienti più retrivi della cultura europea – basti qui ricordare le critiche di Ferdinando Facchinei, che lo accuserà di aver trattato l’argomento «tutto fuori di luogo e senza scrivere nondimeno niente, o di nuovo, o di buono»[81], o l’appassionata difesa dell’amissio bonorum contenuta nella Réfutation di Pierre-François Muyart de Vouglans, il quale revocherà pesantemente in dubbio l’innocenza stessa dei familiari del reo, sulla base di argomentazioni a noi ben note circa la comunicazione della culpa agli eredi[82] –, l’unico autore che manifesta inequivocabilmente il suo consenso nei confronti delle opinioni del giurista milanese è Voltaire, le cui opere contribuiranno in maniera decisiva ad imprimere alla publicatio bonorum un indelebile stigma[83].

Di ben diverso segno è invece il pensiero di Gaetano Filangieri, il quale, pur mettendo in guardia dagli abusi che potrebbero derivare dal ricorso alla confisca, ne difende vigorosamente la legittimità e l’utilità, riprendendo e sviluppando gli stessi argomenti già messi in rilievo in ambito giusnaturalistico: «Che la perdita di un diritto debba essere preceduta dalla violazione di un patto, è un principio che io stesso ho stabilito; ma qual è il diritto che perdono i figli con la confiscazione dei beni del padre delinquente? Il diritto di succedere non dipende forse dal diritto di disporre? Se la legge priva il padre del diritto di disporre dov’è più il diritto di succedere ne’ figli? […] Ecco il principio sul quale è fondata la giustizia della confiscazione. Per quello poi che riguarda la sua opportunità, questa dipende dall'ostacolo che il paterno amore può mettere ad attentati così funesti. La certezza, o il timore di lasciare i figli nell'indigenza può in alcuni casi aver più forza, che il rischio istesso della propria esistenza. La speranza dell'impunità che potrebbe incoraggiare la sua mano parricida, l'abbandona subito, allorché rivolge i suoi sguardi sopra i suoi figli. Se egli potrà garantirsi dalla pena colla fuga, non potrà con questa liberare i suoi figli dall'indigenza »[84].

Ancora una volta possiamo assistere a quel ribaltamento di prospettiva, in virtù del quale i motivi che dovrebbero imporre il superamento della publicatio bonorum sono invocati per giustificarne la sopravvivenza.

Se si analizza poi il pensiero dei criminalisti del tardo diritto comune, si possono osservare ancora atteggiamenti ondivaghi rispetto alla prospettiva del superamento di tale sanzione pecuniaria.

Fra i penalisti italiani 'post-beccariani’[85], ad esempio, Filippo Maria Renazzi, rispetto alla aequissima decisione giustinianea di limitare al crimen maiestatis l'impiego della confisca, lamenta la scelta di molte legislazioni di estendere anche a numerosi altri delitti tale misura, pur concludendo che essa è semper irroganda a judicibus, quos non scrutari, sed exequi leges oportet[86]. Al contrario, Luigi Cremani mostra di condividere appieno le critiche beccariane ed elogia senza riserve la lungimiranza di Pietro Leopoldo (nel frattempo assurto al trono imperiale), che in Toscana, con la celeberrima Riforma del 1786[87], omnium bonorum publicationem e censu legitimarum poenarum prorsus delevit[88]. Anche Tommaso Nani, nel suo commento alla Leopoldina, difende le scelte del legislatore toscano e sottopone ad ulteriore ed argomentata critica la posizione filangeriana[89]. Giovanni Carmignani, infine, giudica la confisca una pena affetta da un vitium aberrationis e paragona le leggi che la contemplano ad un saccum [...] sine conscientia[90].

Per quanto riguarda i criminalisti francesi impegnati ad immaginare una riforma complessiva della legislazione penale, la situazione appare addirittura ancor più variegata. Anche se in tutte le opere qui analizzate, pubblicate nell'ultimo scorcio del Settecento, la giustificazione della confisca è divenuta ormai problematica (non bisogna dimenticare che pochi anni prima vi era stato chi, in seno alla criminalistica tradizionale, non aveva esitato a definirla, più che una pena, il semplice effetto ulteriore della condanna alla morte naturale o civile[91]), non si può dire, infatti, che la proposta beccariana, nel suo intransigente abolizionismo, sia stata generalmente accolta.

Così, accanto a chi tiene a ribadire la piena legittimità di tale sanzione, pur raccomandando che sia concessa agli eredi del reo, da parte della nazione, « une portion quelconque des biens du condamné, que sa générosité arbitrera selon les circonstances »[92], vi sono autori che, pur non condividendo le opinioni di chi (Filangieri in primis) aveva negato che la pubblicatio bonorum ledesse i diritti degli incolpevoli familiari del reo, ritengono tuttavia che essa possa colpire in misura parziale il patrimonio di quest'ultimo ed essere destinata a scopi umanitari[93], al risarcimento dei danni provocati dal reato[94] o al ristoro delle vittime degli errori giudiziari[95]. Infine il futuro autorevolissimo esponente della Rivoluzione Jacques-Pierre Brissot de Warville, che pure giudica il principio «qui confisque le corps confisque les biens», «atroce» e frutto dei «siècles d’anarchie féodale, où mille petits seigneurs vivoient du revenu qu’ils tiroient des crimes»[96], ritiene tuttavia opportuno mantenere la confisca per i reati di concussione e di alto tradimento[97].

 

Proprio in Francia, però, sarà il legislatore rivoluzionario a spazzar via con un tratto di penna tutte le esitanze che la cultura illuministica non era riuscita a dissipare. L'Assemblea nazionale, il 21 gennaio 1790, dopo una brevissima discussione del progetto presentato dal deputato Guillotin per una riforma in senso garantistico delle leggi criminali, approverà infatti un decreto il quale, all'articolo 3, dispone che « la confiscation des biens des condamnés ne pourra jamais être prononcée dans aucun cas »[98].

Allineandosi alla già ricordata soluzione precedentemente accolta nella Leopoldina, il legislatore rivoluzionario decide quindi di procedere alla completa soppressione di tale plurisecolare sanzione, con ciò facilitando il compito dei codificatori che, l'anno successivo, saranno chiamati ad approvare un progetto di codice penale giudicato come il più ravvicinato tentativo di conferire forma legislativa alle idee beccariane[99], nel quale la confisca dei beni non troverà alcun accoglimento[100].

La conquista raggiunta dall’Assemblea nazionale è, tuttavia, destinata ad avere vita breve. Dopo appena due anni, il drammatico incalzare degli eventi rivoluzionari obbligherà il legislatore a tornare sui suoi passi: la confisca sarà infatti reintrodotta (peraltro solo come misura amministrativa) già nel settembre 1792, nell’ambito di un provvedimento vòlto al recupero dei beni degli émigrés[101] ; successivamente, nel marzo 1793, su proposta del futuro arcicancelliere Cambacérès, essa tornerà nell’ordinamento penale, come pena accessoria delle condanne a morte comminate per crimini ‘controrivoluzionari’[102].

La situazione non muterà neppure con il code pénal del 1810. Fedele all’impronta repressiva che caratterizzerà l’intervento napoleonico sulla legislazione penale[103], Target[104], nel presentare il progetto preliminare del codice, pur dichiarandosi esitante a pronuciare « ce mot terrible [confiscation : n.d.r.] »[105], nondimeno ribadirà la necessità di tale sanzione, cosicché, dopo un brevissimo dibattito, essa (sia pure in relazione a pochi, gravi reati e corredata da disposizioni a parziale tutela degli stretti familiari del reo[106]) tornerà a pieno titolo a far parte dell’ordinario apparato repressivo dello Stato. Forse proprio a causa della memoria delle traumatiche contingenze rivoluzionarie e postrivoluzionarie, poi, con le Chartes octroyées della Restaurazione (peraltro seguite, in ciò, dalla Costituzione del 1848) si affermerà finalmente il principio secondo cui « la pieine de la confiscation est abolie et ne pourra pas être rétablie »[107].

Anche nell’impero asburgico, nell’ambito dell’altra manifestazione ‘archetipica’ della codificazione penale, la soppressione della publicatio bonorum sarà il frutto di un lungo e sofferto percorso di maturazione normativa.

Il codice penale giuseppino del 1787[108], infatti, pur accogliendo espressamente il principio della personalità della pena («La pena non può colpire se non che l’autore del delitto, e quelli, i quali (...) si saranno resi complici. Onde né l’aver meritato castigo, né il supplizio medesimo subito dal malfattore dovrà recare pregiudizio alla di lui moglie, figli, parenti, eredi, o a qualunque terzo, il quale non abbia contratto complicità alcuna nel reato»)[109], farà rientrare la confisca fra le pene correlate al crimine di lesa maestà[110]: un passo avanti rispetto alla Theresiana, ma un passo indietro rispetto al testo legislativo che il futuro imperatore Leopoldo II aveva fatto promulgare in Toscana pressoché in contemporanea col codice.

Sarà infine Francesco II, con la promulgazione del codice penale universale del 1803[111], superando almeno in ciò la « vischiosità culturale » che aveva caratterizzato il riformismo asburgico[112], a dichiarare – sul presupposto che « le conseguenze della pena s’hanno a diffondere meno che sia possibile ai non colpevoli di lui attenenti » – « abolita totalmente la confiscazione de’ beni »[113].

 

6. L’araba fenice.

Le vicende del diritto penale codificato sembrano dunque aver segnato il destino della publicatio omnium bonorum, definitivamente relegata fra gli strumenti di un passato ormai superato. Se tuttavia si getta lo sguardo oltre le apparenze, emergono alcuni segnali che inducono a ritenere che essa sia tornata ciclicamente alla luce, sia pure, talora, sotto forme e denominazioni parzialmente mutate.

Cercheremo qui di seguire rapidamente talune di queste tracce, con specifico riferimento all'esperienza italiana.

Se è noto che la confisca non è stata accolta né nelle codificazioni preunitarie[114] né tantomeno nei codici penali dell'Italia unita, assai meno noto è che nel Lombardo-Veneto, nell'età della Restaurazione, essa sia ricomparsa per effetto di leggi speciali concepite contro gli oppositori politici che la prevedevano o che, addirittura, rimettevano in vigore la decrepita legislazione teresiana[115]. O che abbia rifatto capolino, nel corso del primo conflitto mondiale, come pena accessoria inflitta ai colpevoli del reato di diserzione[116].

Più conosciute sono le vicende relative al periodo fascista nel quale, dalle ‘leggi fascistissime’[117] alla legislazione della R.S.I.[118], passando per le leggi razziali[119], la confiscatio bonorum – a dispetto della zona di indennità lasciata intorno al codice del 1930 – ha fatto più volte la sua comparsa in quello che è stato definito «un clima di aberrazione normativa»[120].

A far da contraltare alla legislazione fascista si sono poi collocate le diverse misure normative che, dopo la caduta del regime, hanno previsto l'applicazione della medesima sanzione agli esponenti più compromessi di questo[121]. Fra di esse, spiccano il d.l.lgt. del 27 luglio 1944, n. 159 e il d.l.lgt. del 26 marzo 1946, n. 134. Il primo di questi prevedeva, in particolare, all’art. 9, la confisca dei «beni dei cittadini i quali hanno tradito la patria ponendosi spontaneamente ed attivamente al servizio degli invasori tedeschi». Il successivo, all’art. 1, estendeva la misura ablativa ai soggetti responsabili di alcuni reati contemplati nello stesso d.l.lgt. 159[122].

Si fa riferimento a tali provvedimenti poiché l’applicazione di essi ha dato origine ad un altro vivace dibattito dottrinale incentrato sull’individuazione della natura della sanzione, da alcuni qualificata come pena in senso proprio[123], da altri come peculiare sanzione civile[124], da altri infine come misura di sicurezza[125].

Anche la Corte Costituzionale sarebbe intervenuta, agli inizi degli anni ‘60, a ribadire la legittimità delle confische disposte a carico degli esponenti del cessato regime, stante la «natura non penale» – e la conseguente non censurabilità costituzionale – delle stesse, singolarmente dedotta anche attraverso un ragionamento, si potrebbe dire, dal sapore antico: la Consulta ha infatti ribadito che «per ciò che riguarda gli eredi, non si può non ammettere che su di essi inevitabilmente incida l'onere delle misure patrimoniali disposte a carico del de cuius, ma ciò soltanto come conseguenza indiretta della diminuzione sofferta dal patrimonio»[126]. A ben vedere, siamo di fronte alla riproposizione di una a noi ben nota argomentazione giusnaturalistica, che sembra aver attraversato indenne più di quattro secoli di storia giuridica.

Nemmeno la costituzionalizzazione del principio di personalità della responsabilità penale (e dei suoi principii-corollario di colpevolezza e di proporzionalità) è dunque valsa ad espungere definitivamente la publicatio bonorum dall’ordinamento.

Se a ciò si aggiunge il fatto che al contrario, negli ultimi decenni, il ricorso sempre più frequente a forme allargate di confisca, di cui si è dato conto all’esordio del presente saggio, ha fatto emergere la centralità di essa come rilevante ed efficace alternativa alle pene detentive, è giocoforza concludere che ci si trova di fronte ad un istituto dall’indubbia vitalità, un’autentica araba fenice che manifesta la tendenza a risorgere ciclicamente dalle proprie ceneri.

La plurisecolare esperienza applicativa qui sommariamente descritta induce tuttavia a segnalare il rischio che tale vitalità induca lo smantellamento, in nome dell’efficienza repressiva, di un principio di civiltà giuridica mai del tutto acquisito qual è quello dell’impunità dell’innocente. 

* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] L. Fornari, Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie. Confisca e sanzioni pecuniarie nel diritto penale moderno, Padova, 1997, p. 10.

[2] P. Corvi, La confisca nei reati di criminalità organizzata, in M. Montagna (a cura di), Sequestro e confisca, Torino, 2017, p. 432.

[3] Un dettagliato elenco di tali interventi ivi, p. 438, n. 24, a cui si deve aggiungere, da ultimo, quanto stabilito dall’art. 31 della l. 17 ottobre 2017, n. 161, che prevede l’ulteriore allargamento dell’ambito di operatività della sanzione a tutti i reati contemplati dall’art. 51, co. 3-bis c.p.p.

[4] Ancora più eloquente potrebbe ad esempio presentarsi il caso, per molti aspetti strettamente connesso all’ipotesi di cui ci stiamo occupando, della c.d. confisca ‘di prevenzione’, da ultimo disciplinata dall’art. 24 d. lgs. 159/2011, di cui tuttavia, per evidenti ragioni di economia espositiva, non potremo dar conto in questa sede.

[5]  La giurisprudenza tende tuttora a qualificare la confisca allargata come misura di sicurezza patrimoniale atipica in funzione deterrente: v. Cass. SS.UU., 19 gennaio 2004, n. 920, in Cassazione penale,  44 (2004), p. 1182; conf., in dottrina, F. Vergine, Il “contrasto” all’illegalità economica. Confisca e sequestro per equivalente, Padova, 2012, p. 175.

[6] Qualificano pacificamente la confisca come sanzione penale in senso proprio, ad es., L. Fornari, Criminalità del profitto, cit., p. 68; A.M. Maugeri, Le moderne sanzioni patrimoniali tra funzionalità e garantismo, Milano, 2001, p. 524. F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2009, p. 850; S. Vinciguerra, Diritto penale italiano, Padova, 2009, I, 322, n. 126; M. Nunziata, La confisca nel codice penale italiano. Un’analisi critica per la riforma, Napoli, 2010, p. 27, propendono per la qualificazione della misura ablativa quale pena accessoria. Il carattere di sanzione polifunzionale (poena mixta) è sostenuto da A. Cisterna, Strumenti e tecniche di accertamento della confisca per sproporzione e edella confisca per valore equivalente, in Giurisprudenza italiana, 161 (2009), p. 2085; E. Nicosia, La confisca e le confische. Funzioni politico-criminali, natura giuridica e problemi ricostruttivo-applicativi, Torino, 2012, pp. 15, 159. F. Sgubbi, L’art. 12 quinquies della legge n. 356 del 1992 come ipotesi tipica di anticipazione: dalla Corte costituzionale all’art, 12 sexies, in Atti del IV congresso nazionale di diritto penale. Diritto penale, diritto di prevenzione e processo penale nella disciplina del mercato finanziario, Torino, 1996, p. 30, qualifica infine la confisca come pena sui generis.

[7] Per una maggiore aderenza al dato storico, si è qui preferito impiegare il termine confisca dei beni (o c. patrimoniale) in luogo di quello di confisca generale abitualmente impiegato dai cultori del diritto penale odierno. La c.d. confisca speciale non sarà oggetto della presente trattazione.

[8] Una sintetica ma attenta ricostruzione dei profili giuridici della confisca in età medievale in A. M. Monti, Illegitimate appropriation or just punishment?The confiscation of property in ancien régime criminal law and doctrine, in Property rights and their violation. Expropriations and confiscations, 16th-20th Centuries / La propriété violée. Expropriations et confiscations, XVIe-XXe siècles, Bern, 2012, p. 18 s.

[9] Sul rilievo assunto dalle Practicae criminales, v. M. Sbriccoli, Giustizia criminale (2002), in Id., Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti (1972-2007), Milano, 2009, p. 13 s. ; E. Dezza, Lezioni di storia del processo penale, Pavia. 2013, p. 31 s.; L. Garlati, Per un storia del processo penale: le Pratiche criminali, in Rivista di Storia del diritto italiano, 89 (2016), spec. pp. 73 ss.

[10] Ovvie ragioni di economia espositiva impongono, in questa sede, una disamina oltremodo sommaria e parziale anche di tali aspetti. Per un’analisi più dettagliata della materia, si rinvia ad un saggio monografico attualmente in via di elaborazione.

[11] S. Guazzini, Tractatus de confiscatione bonorum, Venetiis 1611, c. 1, nn. 1-2, p. 1.

[12] Ivi, n. 2. Tutte le definizioni fornite dal giurista umbro sono tratte dall’opera del giurista francese Barthélemy de Chasseneuz, Consuetudines ducatus Burgundiae [cum] Commentariis […] (1517), Francofurti ad Moenum, 1574, Des confiscations, Rubr. 2, nn. 1-2, col. 340, il quale le aveva tratte argomentando, a sua volta, dalle fonti giustininee e dalla glossa accursiana (v. ad es. gl. quasi vindicaverit, Dig. 36.1.6.3, ad Senatusconsultum Trebellianum, l. Recusare, § Si fisco, Infortiatum seu Pandectarum iuris civilis tomus secundus [...] Commentariis Accursii [...] illustratus, Lugduni, 1627, col. 1658  ; gl. fiscali, C. 12.50(49).1, De numerariis [...], l. In provinciis, Volumen Legum [...] cum Commentariis Accursii ..., tomus quintus, Lugduni, 1627, col. 313 s).

[13]S. Guazzini, Tractatus de confiscatione..., cit., c. I, n. 3, p. 2. Cfr. B. de Chasseneuz, Consuetudines ducatus Burgundiae…, cit., Des confiscations, Rubr. 2, n. 4, col. 341.

[14] Cfr. Baldo degli Ubaldi, In feudorum usus Commentaria…, Venetiis, 1580, tit. De feudo Marchiae, § 1, n. 2, f. 26r. sul punto, v. C. Danusso, Ricerche sulla “Lectura Feudorum” di Baldo degli Ubaldi, Milano, 1991, p. 74, n. 15 e ult. bibliogr. ivi citata.

[15] Più precisamente, «sacratissimus» (cfr. C. 7.37.2).

[16] Luca da Penne, Super tres libros Codicis…, Parrhisiis, 1509, tit. De iure fisci, rubr., in fi., f. 2v.

                  [17] Baldo degli Ubaldi, Commentaria super septimo, octavo et nono Codicis..., Lugduni 1585, l. Executorem, De executione rei iudicatae (C. 7.3.8), n. 41, f. 89r. 


[18] Guillaume Benoît, Repetitio in cap. Raynuntius, Extra de testamentis, P. II, Lugduni 1550, sect. Mortuo itaque testatore, I,  (X, 3.26.16), n. 143, f. 90v.

[19]J. Damhouder, Praxis rerum criminalium, Antverpiae, 1554, c. 66, n. 2, p. 204.

[20]Si v., ad es., l’opinione di Guazzini, il quale raccomanda che le disposizioni in quest'ambito «strictissime sint intelligenda et minus quam fieri possint derogent iuri communi» (S. Guazzini, Tractatus de confiscatione..., cit., c. 12, n. 11, p. 13). In precedenza, nello stesso senso, Alberico da Rosciate, Commentariorum de statutis libri IIII, in Tractatus universi iuris, t. II, Venetiis, 1584, lib. I, q. 151, n. 9, f. 24v; P. Farinacci, Praxis et theorica criminalis, P. I, t. I, Lugduni, 1613, qu. 25, n. 21, p. 331 (ove ulteriori riferimenti). Sugli ambiti applicativi al di fuori della prospettiva giustinianea, v. infra, § 3.

[21] S. Guazzini, Tractatus de confiscatione..., cit., c. 3, n. 1, p. 2.

[22] Il giurista umbro la ricava da B. de Chasseneuz, Consuetudines ducatus Burgundiae…, cit., Des confiscations, Rubr. 2, n. 31, col. 376, dal commentatore delle Novae Consitutiones milanesi Orazio Carpani, In quatuor insigniores novarum Mediolani constitutionum [...] doctissimi Commentarii, Mediolani 1609, c. Omnium, n. 478, p. 177, e dalle annotazioni di Giovanni Battista Baiardi alla Practica criminalis di Giulio Claro (v. G. Claro, Opera omnia sive practica civilis atque criminalis (1568), Genevae, 1666, l. V, ad qu. 78, n. 2, p. 814). Pertinenti osservazioni circa le ragioni economiche alla base dell’impiego della confisca in A. M. Monti, Illegitimate appropriation…, cit., p. 16.

[23] Guazzini, Tractatus, concl. III, p. 3.

[24] P. Rebuffi, In constitutiones regias commentarius (1554), Amstelodami 1668, Tractatus ut beneficia ante vacationem (...), art. II, gl. V, p. 406.

[25] Ivi, gl. VI, p. 407.

[26] S. Guazzini, Tractatus de confiscatione..., cit., c. 3, n. 1, p. 2.

[27] A. Gomez, Ad leges Tauri commentarius (1555), Antverpiae, 1624, ad L. 40, n.91, p. 263.

[28] S. Guazzini, Tractatus de confiscatione..., cit., c. 3, n. 1, p. 3.

[29]A. M. Monti, Illegitimate appropriation…, cit., p. 16.

[30] D. Jousse, Traité de la justce criminelle de France, t. I-IV, Paris, 1771, I, P. I, tit. 3, n. 176, p. 99.

[31] Originariamente concepita come strumento di repressione dei reati di natura politica, la confisca nel diritto romano classico aveva conosciuto una notevole fortuna applicativa, fino a divenire sanzione applicabile in via accessoria a tutti i reati punibili con pene capitali (v. Dig. 48.20.1.pr.: «Damnatione bona publicantur, cum aut vita adimitur aut civitas, aut servilis condicio irrogatur».
Anche in tal caso, tuttavia, si prevedeva che una porzione dei beni fosse riservata ai figli del condannato, purché nati da iustae nuptiae e comunque concepiti anteriormente alla condanna: cfr. Dig. 48.20.1.2-3 e Dig. 48.20.7). In epoca postclassica, poi, si erano ulteriormente ridimensionati gli effetti della confisca, con lo stabilire che, fatta eccezione per le ipotesi di lesa maestà, la metà dei beni del condannato dovesse essere devoluta agli eredi secondo le regole della successione legittima (in questo senso, ad es., la Costituzione di Teodosio II e Valentiniano III del 426 [C. 9.49.10 = C. Th. 9.42.24]: «Quando quis quolibet crimine damnatus capitalem poenam vel deportationem sustineat, si quidem sine liberis mortuus sit, bona eius ad fiscum perveniant: si vero filii vel nepotes ex defunctis filiis relicti erunt, dimidia parte aerario vindicata alia eis reservetur. Idem est et si postumos dereliquerit»). La Novella 134 di Giustiniano aveva infine generalizzato tale tendenza: se per il crimen maiestatis restavano impregiudicate le regole stabilite dallo ius vetus, in tutti gli altri casi, in presenza di familiari, al condannato sarebbe stato semplicemente precluso il ricorso agli strumenti della successione volontaria ed i suoi beni sarebbero stati ripartiti fra i discendenti e gli ascendenti fino al terzo grado (Nov. 134, cap. fin. [Auth. post C. 9.49.10]: Bona damnatorum seu proscriptorum non fieri lucrum iudicibus aut eorum officiis, sed neque secundum veteres leges fisco eas applicari, sed ascendentibus et descendentibus, et ex latere usque ad tertium gradum, si supersint. Uxores vero dotem et ante nuptias donationem accipiant. Si vero sine dote sint, de substantia mariti accipiant partem legibus definitam: sive filios habeant, sive non. Sed si neminem praedictorum habeant qui deliquerunt, eorum bona fisco sociantur. In majestatis vero crimine condemnatis veteres leges servari iubemus»). Sulla confisca nel diritto romano, si indicano, senza alcuna pretesa di esaustività, Pertile A. Pertile, Storia del diritto italiano, V. Storia del diritto penale, Torino, 1895, p.228 s.; C. Civoli, s.v. Confisca (diritto penale), in Il Digesto Italiano, VIII, Torino, 1896, p.893 s.; C. Ferrini, Esposizione storica e dottrinale del diritto penale romano, in E. Pessina (a cura di), Enciclopedia del diritto penale italiano, I, Milano 1905, p.160 s. Sulle origini dell’istituto, più recentemente, F. Salerno, Dalla « Consecratio » alla « Publicatio bonorum ». Forme giuridiche e uso politico dalle origini a Cesare, Napoli, 1990.

[32] Ciò è attestato ad esempio, sulla base della citazione di numerosi doctores, da P. Farinacci, Praxis et theorica criminalis, Pars I, Tomus I, 1613, qu. 25, n. 11-12, p. 330.

[33] Sul crimen laesae maiestatis si fa, naturalmente, riferimento al definitivo saggio di Sbriccoli 1974. Per un’idea di massima sulla dimensione di tale crimine, si v. D. Jousse, Traité de la justice criminelle..., cit., III, P. IV, tit. 27, n. 1-3, p. 673 ; tit. 28, n. 1-21, p. 674 s. In più, per questo reato, la confisca opera ipso iure dal tempus commissi delicti (v. S. Guazzini, Tractatus de confiscatione..., cit., c. 13, n. 5, p. 18), in modo che essa si applichi nonostante la poenitentia del reo (questo è un principio che vale, in particolare, per il crimen laesae maiestatis divinae : segnala però l’esistenza di uno ius controversum su questo punto, propendendo per una soluzione non rigorosa, Prospero Farinacci, Praxis et theorica criminalis..., cit., p. I, t. 1, qu. 25, n. 16, p. 331). Illustra la prassi milanese, al riguardo, G. P. Massetto, I reati nell’opera di Giulio Claro (1979), in Id., Saggi di Storia del diritto penale lombardo (secc. XVI-XVIII), Milano, 1994, p. 184 s.

[34] L’autore che è riuscito ad elencare il maggior numero di ipotesi criminose – ben 418 – è il catalano Jaume Callis, Margarita fisci (1424), Barchinonae, 1556, p. 32 s., ricordato da Giulio Claro (Opera omnia sive practica...., cit., l. V, qu. 78, n. 3, vers. Multa autem, p. 810) e, con qualche imprecisione, dallo stesso S. Guazzini, Tractatus de confiscatione..., cit., c. 13, n. 1 in fi., p. 19.

[35] Per tutti, G. Claro, Opera omnia sive practica...., cit., l. V, qu. 78, n. 1, vers. Scias etiam p. 810 ; S. Guazzini, Tractatus de confiscatione..., cit., c. 13, n. 6, p. 18 ; v. però B. Carpzov, Practica nova [...] rerum criminalium (1635), Wittembergae, 1670, qu. 135, n. 29, p. 289.

[36] G. Claro, Opera omnia sive practica …, cit., l. V, qu. 78, n. 1, vers. Sed certe, p. 810 ; S. Guazzini, Tractatus de confiscatione..., cit., c. 13, n. 7, p. 18.

[37] Statuta criminalia mediolani e tenebris in luce edita, Mediolani, 1619, c. 176, p. 52 ; per un’elencazione dei reati colpiti dal bannum, v. c. 106, p. 30. Sul punto si rimanda a S. Salvi, La confisca nella prassi lombarda del tardo antico regime, in Rivista di storia del diritto italiano, 83 (2010), passim (spec. p. 201 e n. 16).

[38] L. Charoudas Le Caron, Coustume de la ville, prevosté et vicomté de Paris, Paris, 1605, art. 183, , f. 115r.

[39] Per la descrizione della portata e dei limiti di tale principio, quasi completamente inoperante nei pays de droit écrit, v. D. Jousse, Traité de la justice criminelle..., cit., I, P. I, tit. 3, n. 175 s., p. 99 s.

[40] Per S. Guazzini, Tractatus de confiscatione..., cit., c. 12, n. 9, p. 12 la confisca può essere infatti inducta a Principe, vel a Statuto seu Consuetudine.

[41] V. I. Birocchi, A. Mattone (a cura di), Il diritto patrio tra diritto comune e codificazione (secoli XVI-XIX), Roma, 2006.

[42] S. Guazzini, Tractatus de confiscatione..., cit., c. 12, n. 17, p. 13 (che si riferisce tuttavia qui alla confiscatio extraordinaria, su cui infra).

[43] Sulla prassi milanese basata sulle Novae Constitutiones, v. Ae. Bossi, Practica et tractatus varii [...], Basileae, 1580, tit. de confiscatione bonorum, p. 438 s. ; Orazio Carpani, In quatuor insigniores..., cit., c. Omnium, n. 478 s., p. 176 s. ; in letteratura, ampiamente, v. G. P. Massetto, La prassi penalistica lombarda nell’opera di Giulio Claro (1525-1575) (1979), in Id., Saggi di Storia del diritto penale..., cit.; M.G. di Renzo Villata, Egidio Bossi. Un grande criminalista milanese quasi dimenticato, in Ius Mediolani. Studi di storia del diritto milanese offerti dagli allievi a Giulio Vismara, Milano, 1996,.

[44] Sul punto si rinvia a S. Salvi, La confisca nella prassi lombarda…, cit., p. 201 s ; A. M. Monti, Illegitimate appropriation…, cit., p. 37 s.

[45] Su punto v. D. Jousse, Traité de la justice criminelle..., cit., III, P. IV, tit. 28, n. 31 s., p. 686 s. ; P.-F. Muyart de Vouglans, Les lois criminelles de la France dans leur ordre nautrel, Neuchatel, 1781, I, l. II, tit. 4, c. 6, § 1, n. 5 s., p. 74.

[46] Constitutio Criminalis Carolina (1532), Heidelbergae, 1837, § 218, p. 233 s.

[47] Nullum hodie dari casum, ubi in Imperio Romano-Germanico confiscatio, quae proprie talis est [...] locum habeat : B. Carpzov, Practica nova..., cit., qu. 135, n. 28, p. 289.

[48] F. Guarient, Codex austiacus […], Wien, 1704, art. 55, § 1, p. 685.

[49]

Isotton Roberto



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