fbevnts The cognition of the fact in the administrative judicial proceeding between the Constitution, code and ideology of the judge

La cognizione del fatto nel processo amministrativo fra Costituzione, codice e ideologia del giudice

24.06.2020

Giovanni D’Angelo

Professore associato di Diritto amministrativo

Università Cattolica del Sacro Cuore

 

 

La cognizione del fatto nel processo amministrativo fra Costituzione, codice e ideologia del giudice*

English title: The cognition of the fact in the administrative judicial proceeding between the Constitution, code and ideology of the judge

DOI: 10.26350/004084_000071

 

Sommario: 1. Premessa. - 2. L’evoluzione dei mezzi istruttori nel processo amministrativo e il codice del 2010. – 3. Controllo giudiziale sui fatti e processo amministrativo. – 4. Accertamento del fatto e ideologia del giudice amministrativo. – 5. (Segue): il rapporto tra istruttoria procedimentale e istruttoria processuale. – 6. Un “modello” diverso di istruttoria processuale.

1.        Premessa

 

Nella prospettiva di un’analisi del giudizio amministrativo condotta dal basso, soprattutto attraverso l’evoluzione degli istituti processuali, va posta l’attenzione anche sull’accertamento del fatto, inteso in senso ampio, tanto come ricostruzione di un fatto storico quanto come apprezzamento tecnico di un fatto. Per questa ragione, l’indagine deve essere incentrata sull’utilizzo dei mezzi istruttori nel processo amministrativo e, in particolare, sui criteri adottati dal giudice ai fini della loro ammissione.

In generale, anche dopo la riforma dell’istruttoria ad opera del codice, la dottrina ha dimostrato un perdurante interesse rispetto al tema dei mezzi istruttori nella disciplina del processo amministrativo[1]; tuttavia, a mio parere, l’attenzione si deve concentrare non solo sulle previsioni legislative, ma anche sulle pronunce del giudice amministrativo. Infatti da esse si può ricavare un’ideologia del giudice nell’utilizzo dei mezzi istruttori che è decisiva per valutare il rilievo effettivo della riforma degli istituti processuali ad opera del codice del processo amministrativo. In particolare, è fondamentale per stabilire come il giudice amministrativo, legato in passato a ragioni di continuità con la propria giurisprudenza che per un secolo hanno determinato la “costruzione” di un processo senza un codice, si sia orientato sulla base dell’assetto nuovo maturato nel 2010.

In proposito è utile ripercorrere, seppure molto sinteticamente, alcuni passaggi chiave che sul piano normativo hanno segnato in profondità la disciplina dell’istruttoria nel processo amministrativo.

 

2.        L’evoluzione dei mezzi istruttori nel processo amministrativo e il codice del 2010

 

A seguito di un percorso iniziato con la legge 21 luglio 2000, n. 205[2] e culminato con l’emanazione del codice del 2010[3], il legislatore ha ridotto i limiti alla cognizione del fatto nella giurisdizione amministrativa di legittimità. Negli anni precedenti all’emanazione del codice, il catalogo di mezzi istruttori, molto circoscritto nel giudizio di legittimità e ritenuto, in genere, tassativo[4], era apparso inadeguato alle garanzie del giusto processo imposte dalla Costituzione, in particolare dall’art. 111 dopo la riforma del 1999[5]. La difficoltà di conciliare la disciplina processuale rispetto al principio della parità delle armi, inteso anche come uguale diritto delle parti alla prova dei fatti, era apparsa insuperabile e la dottrina aveva sollecitato, seppure con accenti diversi, una profonda revisione del regime della istruzione probatoria, che comportasse innanzi tutto l’ampliamento dei mezzi istruttori ammissibili[6].

La questione della limitatezza delle prove nel processo amministrativo è stata affrontata dal codice del 2010 attraverso due direttrici: da un lato, è stata superata la distinzione dei mezzi istruttori fondata sull’articolazione della giurisdizione amministrativa in giurisdizione di legittimità, di merito, esclusiva[7]; dall’altro, è stato ampliato il catalogo dei mezzi di prova ammissibili[8].

Certe soluzioni sono risultate subito molto discutibili; si pensi per esempio alla previsione sulla possibilità di assumere la testimonianza solo in forma scritta[9] o alla preferenza introdotta per la verificazione ai danni della consulenza tecnica[10], ma sul piano generale sembrava emergere una scelta di fondo appagante: si poteva cogliere la volontà di superare nel processo amministrativo una concezione di specialità dell’amministrazione (o di attribuzione all’amministrazione del ruolo di parte speciale) rispetto alla questione generale dell’accesso al fatto.

Ciò nonostante, un’indagine puntuale sulle pronunce della giurisprudenza porta a ritenere che nel giudizio amministrativo l’accertamento del fatto permanga tuttora un profilo critico. Il principio dell’uguaglianza nelle armi processuali rimane una questione nodale, anche se, a mio parere, in seguito al codice del 2010 il problema si è “spostato a valle”, cioè non è più rappresentato dalla ammissibilità astratta dei mezzi istruttori ma è quello della loro introduzione, in concreto, nel giudizio.

 

3.        Controllo giudiziale sui fatti e processo amministrativo

 

Per valutare appieno l’importanza di tale profilo occorre muovere dalla considerazione che anche nel processo amministrativo il controllo giudiziale deve estendersi alla sussistenza e alla valutazione dei fatti affermati dalle parti. Due notazioni sorreggono tale affermazione.

La prima è di ordine sostanziale: il fatto è pur sempre una componente essenziale della legittimità amministrativa. La non conformità dell’atto al fatto integra un vizio di legittimità dell’atto.

Il fondamento di questa affermazione risiede nel principio di legalità. Nel nostro ordinamento i fatti alla cui sussistenza è ricondotto l’esercizio del potere sono rappresentati nella norma attributiva del potere[11]. L’erronea rappresentazione dei fatti descritti dalla norma, l’erronea valutazione dei fatti descritti dalla norma, l’inesatto collegamento dei fatti con la norma che li descrive[12] costituiscono una «causa di difformità del provvedimento rispetto a uno schema di azione legittima»[13]. La difformità tra il provvedimento e i fatti materiali costitutivi l’esercizio del potere (più in generale i fatti rilevanti per il potere) costituisce pertanto di per sé un vizio di legittimità, indipendentemente da qualsiasi mediazione costituita dall’istruttoria condotta dall’amministrazione nel procedimento.

La seconda notazione è di ordine processuale. Il giudizio sul fatto è una componente necessaria anche del giudizio di legittimità[14]. Se componente della legittimità amministrativa è anche il fatto, il giudizio sul fatto non può essere considerato un elemento accessorio o secondario, passibile di sacrifici in funzione di altre esigenze processuali (si pensi alla celerità del giudizio). Tutto ciò vale a maggior ragione se nel giudizio sono presenti componenti non impugnatorie, come è oggi rispetto alle azioni che richiedano anche l’accertamento della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio. In ogni caso, «qualunque sia l’ambito della decisione, l’ambito della cognizione ha esigenze sue proprie, che devono essere soddisfatte»[15].

Rispetto alla sussistenza e valutazione dei fatti, la parità delle armi è un profilo centrale, che rimane indifferente all’oggetto del giudizio, alla posizione soggettiva fatta valere, al tipo di tutela delineata dall’ordinamento. La parità delle armi impone che nel processo si accertino direttamente i fatti rilevanti per la decisione finale, attraverso il catalogo più ampio possibile dei mezzi istruttori compatibile con i caratteri essenziali del processo, e senza la mediazione necessaria dell’amministrazione che fra l’altro normalmente è anche parte in causa.

Sul primo aspetto - l’ampiezza dei mezzi istruttori - l’intervento del codice, pur con i limiti già richiamati, risulta certamente positivo; sul secondo aspetto - la mediazione di una delle parti in causa - un ruolo decisivo è giocato dal giudice amministrativo. Occorre, dunque, condurre l’indagine sulle scelte operate dal giudice.

 

4. Accertamento del fatto e ideologia del giudice amministrativo

 

Che l’accertamento del fatto non possa maturare attraverso il rinvio ad una delle parti in causa acquista un rilievo specifico nel processo amministrativo, perché l’istruttoria procedimentale svolta dall’amministrazione ha sempre rivestito un ruolo centrale quanto alla identificazione e interpretazione del fatto nel processo amministrativo.

Prima del codice, il procedimento amministrativo è stato spesso considerato dalla giurisprudenza (anche costituzionale)[16] quale strumento in grado di garantire di per sé un rapporto equilibrato fra le parti nella raccolta dei fatti: in questa prospettiva, l’indagine sui fatti da parte del giudice avrebbe solo carattere suppletivo. La rappresentazione dell’istruttoria processuale quale strumento limitato alla revisione di quella procedimentale ha contribuito a ritenere che la cognizione del giudice fosse ragionevolmente mediata di norma dalla selezione dei fatti già operata dall’amministrazione e dalla loro ricostruzione e interpretazione attraverso il procedimento. In questa prospettiva, il procedimento non solo documenta la funzione amministrativa nel suo svolgimento concreto, ma costituisce la fonte privilegiata per l’accesso del giudice ai fatti[17]. Questa coerenza necessaria tra l’accertamento processuale del fatto e l’attività procedimentale svolta dall’amministrazione, da un lato, ha determinato una certa ambiguità per il ruolo del giudice amministrativo e della sua funzione giurisdizionale; dall’altro, ha confermato l’equivoco di un’amministrazione allo stesso tempo parte processuale e autorità chiamata a cooperare col giudice, condizionamento riflesso della convinzione di una parte meno uguale dell’altra che storicamente ha caratterizzato la giustizia amministrativa.

Dopo il codice del processo amministrativo del 2010, nonostante l’enunciazione solenne dell’art. 2 sul principio della parità delle parti[18], spesso la giurisprudenza amministrativa esprime ancora un approccio tradizionale, nel quale le limitazioni – ancorché non più fondate sulla legge - prevalgono sull’accertamento della conformità al fatto, in tutti i suoi corollari, come parametro di legittimità dell’atto. A questo approccio la giurisprudenza accompagna l’affermazione di un’ampia discrezionalità del giudice nella valutazione sulla (ammissione e) disposizione dei mezzi istruttori, anche in presenza di richieste articolate delle parti[19].

La casistica in tema di prova testimoniale o di consulenza tecnica è emblematica di tale approccio “datato” e dimostra una certa «resistente ritrosia per l’istruttoria»[20] del giudice amministrativo. Si pensi, per esempio, alle controversie in tema di riconoscimento della dipendenza della infermità da causa di servizio e all’utilizzo sporadico della consulenza tecnica d’ufficio per valutare la rilevanza dell’attività lavorativa sull’insorgenza della malattia[21], oppure all’impiego ancora più remoto della prova testimoniale sulle effettive modalità e condizioni di lavoro del dipendente[22]. L’ammissibilità del mezzo istruttorio è piegata di frequente a una logica di indispensabilità[23] o di stretta necessarietà o di extrema ratio[24].

Non mancano, fra l’altro, formulazioni ambigue nel testo stesso del codice[25], che la giurisprudenza ha utilizzato cercando di valorizzarle come chiave generale di lettura per disporre l’istruttoria[26], e disposizioni speciali, estranee al codice, che escludono in radice, per talune controversie, l’ammissibilità di alcuni mezzi istruttori[27].

Pure al netto di queste precisazioni, però, nella logica espressa ancora oggi in termini prevalenti dalla giurisprudenza amministrativa sembra trascurato il criterio della rilevanza della prova o dello strumento d’integrazione probatoria, che invece dovrebbe essere l’unico criterio (o comunque il criterio fondamentale) che dovrebbe governare in generale l’ingresso della prova nel processo, fatto salvo ovviamente il limite dei divieti imposti dalla legge[28].

In definitiva, risulta espressa, spesso in termini non argomentati, una logica distante da quella che dovrebbe privilegiare ragioni di coerenza rispetto ai principi che regolano l’istruttoria nel processo amministrativo[29]; una logica lontana persino dall’interpretazione che si coglie nelle pronunce delle Sezioni Unite[30] e nelle posizioni di buona parte della dottrina[31] rispetto a profili nodali, come quello della “indispensabilità” della prova nuova ai fini della sua ammissibilità nel giudizio d’appello civile[32]. Come è noto, criterio direttivo di questa giurisprudenza è il rispetto del valore della ricerca della verità materiale in funzione della piena tutela giurisdizionale[33].

Molto spesso la sentenza amministrativa finisce con accogliere la ricostruzione (o la valutazione) dei fatti dell’amministrazione resistente, benché contestata dalle altre parti, senza procedere ad un’istruttoria, magari perché l’atto impugnato non appare prima facie o ictu oculi o macroscopicamente o manifestamente viziato[34]. Sono tutte formule che sottintendono un sostanziale rifiuto, da parte del giudice amministrativo, del criterio della rilevanza della prova ai fini della sua ammissione: l’esito finale è rappresentato così da una sentenza erronea/ingiusta, in quanto la contestazione del fatto rilevante avrebbe dovuto porre al giudice l’esigenza della prova.

 

5.        (Segue):il rapporto tra istruttoria procedimentale e istruttoria processuale

 

Ai fini della legittimità del provvedimento, determinante non è l’affermazione dei fatti espressa nell’atto dalla pubblica amministrazione, ma la loro effettiva esistenza[35], a maggior ragione se quei fatti sono oggetto di contestazione da parte del ricorrente, sia nella loro consistenza materiale, sia nei termini di una loro diversa valutazione (come accade di frequente rispetto alle valutazioni di ordine tecnico).

Da un lato, il nostro ordinamento non prevede una presunzione di verità dei fatti enunciati nell’atto amministrativo[36]; dall’altro, la sede naturale per l’accertamento dei fatti è il processo[37].

Dunque, in sede giudiziale deve essere fisiologica, ogni qual volta si sia in presenza di contestazioni, la rivisitazione integrale della rappresentazione dei fatti già compiuta dall’amministrazione nel procedimento e deve essere possibile il riscontro puntuale dei fatti acquisiti dall’amministrazione attraverso il procedimento.

Ciò significa che la cognizione del fatto non debba limitarsi alla verifica della veridicità dei fatti presi in considerazione dall’amministrazione a sostegno del provvedimento adottato. Se la parte ricorrente contesta una carenza dell’istruttoria procedimentale (e ciò rappresenta un motivo di annullamento dell’atto), le soluzioni che si propongono al giudice possono essere diverse. In alcuni casi può essere sufficiente verificare la coerenza dell’istruttoria procedimentale, magari in relazione ad altri fatti che l’amministrazione ha acquisito ma non ha preso in considerazione nel provvedimento finale: se tale verifica dà un esito negativo, le implicazioni in termini di illegittimità dell’atto impugnato sono evidenti. Tuttavia, questa è solo una soluzione particolare: al giudice amministrativo, nei limiti imposti dal principio della domanda e dal canone di non contestazione, è demandata anche una verifica più intensa sulla appropriatezza dell’istruttoria procedimentale in considerazione dei fatti, anche quelli non acquisiti.

In questo senso, dunque, l’istruttoria processuale non può essere “mediata” da quella procedimentale.

La concezione che richiedeva una mediazione necessaria dell’istruttoria procedimentale rispetto al processo è stata il riflesso di un modo superato d’intendere l’oggetto del giudizio. Questa mediazione è stata assunta in termini di consequenzialità rispetto all’interpretazione cassatoria del processo amministrativo come mera rivisitazione del procedimento, cioè rispetto alla convinzione che il giudizio amministrativo richiede un accertamento processuale non dei fatti presupposti all’esercizio del potere ma solamente delle modalità con le quali è stato effettuato l’accertamento di questi fatti nell’istruttoria del procedimento amministrativo ed è stato manifestato il potere[38].

È noto che questa concezione dell’oggetto del giudizio non si concili, oltre che con i principi costituzionali sul processo, neppure con il pieno riconoscimento dell’interesse legittimo come posizione di diritto sostanziale, che ha trovato la sua più ampia affermazione nella legge generale sul procedimento amministrativo del 1990.

Eppure, l’istruttoria procedimentale come oggetto e perimetro esclusivo di quella processuale non appare un fenomeno del tutto superato. Da questo punto di vista, la preferenza che il giudice amministrativo continua a manifestare nell’utilizzo della verificazione – a volte di per sé assoggettato, peraltro, alla logica della indispensabilità del mezzo istruttorio[39] - piuttosto che della consulenza tecnica, non è solo la conseguenza di un’interpretazione molto letterale della disposizione del codice, ma a volte sottende ancora la logica di privilegiare l’accertamento dei fatti sulla base della documentazione procedimentale acquisita nel processo, senza procedere a una loro autonoma valutazione[40].

Oggi, dopo il codice del 2010, la mediazione dell’istruttoria procedimentale appare quasi come un “riflesso incondizionato” del passato, del tutto disallineata dalle affermazioni, di frequente rivendicate anche dalla giurisprudenza amministrativa, sulla pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale della posizione soggettiva di interesse legittimo, garantite anche dalla pluralità delle azioni ammesse nel processo amministrativo dopo il codice.

Inoltre, questo “modello” di istruttoria - o in altri termini questo modo di intendere l’istruttoria da parte del giudice - determina una conseguenza che incide sulla posizione di parità delle parti nel processo amministrativo anche da un altro punto di vista: essa, infatti, finisce con l’essere un’istruttoria delimitata, quanto al campo di indagine, da una delle due parti in causa, cioè l’amministrazione che ha svolto il procedimento, e può condizionare anche l’esito del giudizio.

 

6.        Un “modello” diverso di istruttoria processuale

 

Quanto evidenziato fin qui sollecita alcune considerazioni conclusive.

Nel processo un confronto fra soggetti pari deve potersi estendere a ogni tema della controversia, non può incontrare limiti circa la ricostruzione o la valutazione del fatto. Oggi, nel processo amministrativo questi limiti sono riconducibili in buona parte non più alla legge, ma all’interpretazione del giudice[41], che di fatto ritiene ancora decisiva la presenza della pubblica amministrazione come parte in causa[42] e interpreta spesso le disposizioni del codice sui mezzi istruttori in tendenziale continuità rispetto alle soluzioni adottate in passato. Rispetto a questi limiti, in definitiva, la logica della continuità della tradizione e della prassi giurisprudenziale sembra giocare ancora un ruolo significativo, nonostante la riforma, anche quella costituzionale del giusto processo.

Se l’accesso al fatto nel processo amministrativo incontra tuttora questi limiti le implicazioni negative sono almeno due.

In primo luogo, è compromessa la stessa “credibilità” del sindacato giurisdizionale, anche in termini di equidistanza del giudice amministrativo dalle rappresentazioni delle parti[43], come accade per esempio nel caso del sindacato sulle valutazioni tecniche senza l’ausilio di un consulente.

In secondo luogo, si finisce col riconoscere una posizione di privilegio alla amministrazione che è incompatibile con l’art. 111 Cost.[44]. Nella prospettiva più ampia di una nuova eguaglianza, anche sul piano sostanziale, tra amministrazione e cittadino, l’esigenza che il processo amministrativo assicuri sempre un accesso al fatto in modo pieno e diretto assume un rilievo specifico.

In un quadro processuale l’eguaglianza delle parti è una condizione irrinunciabile, che non può essere incisa dal riflesso di una sovraordinazione, sul piano del diritto sostanziale, della pubblicazione amministrazione: in questo senso, «l’autorità non entra e non può entrare nel giudizio»[45]. La giustificazione per le disposizioni che conferiscono all’amministrazione una sovraordinazione giuridica rispetto al soggetto privato[46] deve rimanere rigorosamente confinata al piano sostanziale.

Il processo deve essere la sede per un confronto fra soggetti pari, lo strumento di una “giustizia non amministrativa”[47], altrimenti diventa una giustizia dimidiata. Ritenere giustificabile, in definitiva accettabile, una giustizia dimidiata, magari nella logica che essa rappresenti qualcosa di meglio rispetto alla mancanza di qualsiasi tutela giurisdizionale, significa oggi porre il processo amministrativo al di fuori delle garanzie sancite dalla Costituzione, e segnatamente dal canone del giusto processo.

Per questa ragione, vanno segnalate con grande attenzione alcune decisioni del giudice amministrativo che, di recente, hanno respinto il criterio della “indispensabilità” del mezzo istruttorio ai fini della sua ammissibilità in giudizio e hanno assunto come fisiologica l’istruttoria processuale sui fatti: mi riferisco, in particolare, ad alcune ordinanze del Consiglio di Stato, che hanno disposto con ampiezza la consulenza tecnica[48] o la verificazione[49] rispetto alle valutazioni tecniche compiute dall’amministrazione, talvolta anche in settori cruciali. E va considerata con favore la circostanza che talune ordinanze, nel disporre verificazioni, hanno imposto che si svolgessero con modalità atte a garantire il “contraddittorio tecnico”[50].

Le aperture più marcate, a favore di un’istruttoria “indipendente”, che proprio negli ultimi tempi la giurisprudenza amministrativa ha manifestato in alcune controversie (soprattutto quelle contro gli atti delle autorità amministrative indipendenti[51]), sono il segno importante che un “modello” diverso di istruttoria processuale è possibile, anche nel processo amministrativo, senza la necessità di correttivi legislativi al codice del 2010. È auspicabile che queste aperture rappresentino un cambio di rotta reale e si traducano nei prossimi anni in un nuovo modello di esercizio della giurisdizione, da parte del giudice amministrativo, rispetto ai fatti.

 

Abstract: The paper evidences the need for an "independent" investigation by the administrative judge, as also required by the constitutional principles on judicial protection. Just in recent times the administrative jurisprudence has manifested a new approach in some disputes (especially those against the acts of the independent administrative authorities); it's the important sign that a different "model" of procedural investigation is possible, even in the administrative judicial proceeding, without the need for corrections legislative measures to the 2010 code. The author's opinion is that real change of direction and a new model of exercise of jurisdiction by the administrative judge with respect to the facts is desirable.

Keywords: independent investigation; administrative judge; evidence and investigative activities; constitutional principles on judicial protection.


* Il testo, sottoposto a double blind peer review, riproduce con modifiche e aggiornamenti l’intervento al convegno «L’oggetto del giudizio amministrativo visto dal basso: gli istituti processuali in evoluzione», Firenze, Università degli Studi, 31 maggio 2019.

[1] Tra i contributi più recenti, cfr. in particolare R. Briani, L’istruzione probatoria nel processo amministrativo. Una lettura alla luce dell’art. 111 della Costituzione, Milano 2013; L. Perfetti, Mezzi di prova e attività istruttoria, in G. Morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano 2015, p. 657 ss.; S. Lucattini, Fatti e processo amministrativo, in Diritto processuale amministrativo, 2015, p. 203 ss.; P. Lombardi, Riflessioni in tema di istruttoria nel processo amministrativo: poteri del giudice e giurisdizione soggettiva “temperata”, in Diritto processuale amministrativo, 2016, p. 85 ss.

[2] «Disposizioni in materia di giustizia amministrativa». L’art. 16 l. n. 205/2000 aveva modificato l’art. 44 r.d. 26 giugno 1924 (testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato) e introdotto la consulenza tecnica anche nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità. L’art. 35, comma 3, d.lgs. n. 80/1998 (per effetto della sostituzione ad opera dell’art. 7 l. n. 205/2000), aveva introdotto la consulenza tecnica per tutte le controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; nell’ambito della giurisdizione di merito, l’art. 27 r.d. 17 agosto 1907, n. 642 (regolamento di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato) già ne prevedeva l’ammissibilità (seppur con la diversa dicitura di perizia). Si può affermare, dunque, che in quegli anni l’istituto della consulenza tecnica era divenuto strumento probatorio a disposizione del giudice amministrativo in tutte le controversie devolute alla sua giurisdizione. sia essa di legittimità, sia essa di merito, sia essa esclusiva (sulla consulenza tecnica nel processo amministrativo prima del codice del 2010 cfr. M.A. Sandulli, La consulenza tecnica d’ufficio, in Foro amministrativo-Tar, 2008, p. 3533 ss.).

[3] Cfr. l’art. 63 d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104.

[4] La circostanza che l’elencazione dei mezzi di prova prevista dal legislatore avesse natura tassativa era stata risolta rapidamente in senso affermativo, talvolta in modo implicito, dalla giurisprudenza. In dottrina il principio della tipicità dei mezzi di prova, in genere, era stato accolto senza contestazioni o era stato assunto come scontato, tant’è vero che sulla base di questo principio era stata ricostruita la disciplina specifica dell’istruttoria nelle diverse ipotesi di giurisdizione amministrativa (di legittimità, di merito, esclusiva). In termini critici si era posta, invece, una parte della dottrina, che aveva affrontato il problema in modo puntuale, concludendo in alcuni casi a favore di un’adesione più meditata e parziale al principio di tipicità (cfr. E. Cannada Bartoli, Processo amministrativo (considerazioni introduttive) (voce), in Novissimo Digesto italiano, vol. XIII, 1966, p. 1086) e in altri casi giungendo a sostenere la tesi della non tassatività dei mezzi di prova nel processo amministrativo (cfr. E. Picozza, Processo amministrativo - normativa (voce), in Enciclopedia del diritto, vol. XXXVI, Milano 1987, pp. 493-494; C.E. Gallo, La prova nel processo amministrativo, Milano 1994, p. 131 ss.; Id., L’istruzione, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo speciale, V, II ed., Milano 2003, pp. 4416-4417), pur attraverso argomenti non sempre convincenti (per questi profili sia consentito rinviare a G. D’Angelo, Le prove atipiche nel processo amministrativo, Napoli 2008, pp. 19-33). Il tema della tipicità delle prove nel processo amministrativo era però preliminare rispetto ad ogni altro profilo; infatti, la tesi della tipicità dei mezzi istruttori nel processo amministrativo comportava che il dubbio circa la legittimità della loro limitatezza (cfr. art. 44 T.U. Cons. Stato) fosse diventato ancora più stringente.

[5] La linea prudente di attuazione dei principi costituzionali che in passato è prevalsa rispetto al processo amministrativo non può valere dopo la riforma dell’art. 111 Cost.; i principi del giusto processo si impongono con carattere di assolutezza anche – forse soprattutto – con riferimento alle giurisdizioni speciali, compresa quella amministrativa (sul punto, cfr. A. Travi, Giusto processo e procedimenti amministrativi speciali, in AA.VV., Il giusto processo. Atti dei Convegni dei Lincei - Roma 28-29 marzo 2002, Roma, 2003, pp. 68-69). Sul fatto che l’espressa consacrazione dei principi del giusto processo fa sì che essi acquistino una base e vengano «protetti da una intangibilità di cui fino ad ora erano sforniti», v. G. Corso, Il nuovo art. 111 cost. e il processo amministrativo. Profili generali, in AA.VV., Il giusto processo. Atti dei Convegni dei Lincei, cit., p. 52.

A distanza di anni dalla riforma del 1999, in chiave critica sulla specialità del processo amministrativo come «singolare capacità di resistenza rispetto alle istanze del giusto processo», cfr. M. Ramajoli, Giusto processo e giudizio amministrativo, in Diritto processuale amministrativo, 2013, p. 100 ss. (la citazione è tratta da p. 144).

[6] Sul punto sia consentito rinviare a G. D’Angelo, Le prove atipiche nel processo amministrativo, cit., in particolare pp. 195- 238.

[7] Prima del codice del 2010, v. l’art. 44 t.u. Cons. Stato (per la giurisdizione di legittimità), l’art. 27 r.d. n. 642/1907 (per la giurisdizione di merito), l’art. 35, comma 3, d.lgs. n. 80/1998 (per la giurisdizione esclusiva).

[8] L’art. 63 c.p.a. prevede ora anche la possibilità di ammettere la testimonianza (cfr. nota successiva) e di disporre l’ispezione. Rimane da capire, peraltro, di quali altri mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile - secondo la previsione dell’art. 63, comma 5, c.p.a. - possa disporre il giudice amministrativo, esclusi l’interrogatorio formale e il giuramento. La disposizione potrebbe essere letta nel senso di ammettere nel processo amministrativo, tra l’altro, anche la dichiarazione confessoria come prova liberamente valutabile dal giudice e l’interrogatorio libero, che in effetti è stato disposto, per esempio, da Tar Lombardia, Brescia, sez. II, ord., 3 luglio 2014, n. 452 e da Tar Lombardia, sez. II, ord., 8 maggio 2013, n. 1174, e ritenuto certamente compatibile con la struttura e la funzione del processo amministrativo, anche in ragione del rinvio esterno al codice di procedura civile, ai sensi dell’art. 39 c.p.a., da Cons. Stato, sez. III, 23 febbraio 2012, n. 1069 (tutte in https://www.giustizia-amministrativa.it).

[9] Nel processo civile (art. 257-bis c.p.c. e 103 disp. att. introdotti rispettivamente dagli art. 46 e 52 l. 18 giugno 2009, n. 69), la testimonianza scritta è una modalità di assunzione che può sostituire quella in forma orale ricorrendo due condizioni (o presupposti): l’accordo delle parti e il fatto che il giudice abbia tenuto «conto della natura della causa e di ogni altra circostanza». In mancanza dell’accordo oppure, intervenuto l’accordo, se l’apprezzamento in ordine alla natura della causa e ad ogni altra circostanza sia di segno negativo, il giudice procede con l’acquisizione tradizionale. Nel processo civile, dunque, da un lato, vige l’alternativa tra la testimonianza orale e quella scritta, dall’altro prevale l’oralità della prova, come accade, per esempio, quando vi sia l’esigenza del difensore di ascoltare il testimone in udienza e di richiedere, tramite il giudice, chiarimenti in ordine alla deposizione, oppure vi sia timore di una mancanza di genuinità della testimonianza. Invece, nel processo amministrativo, da un lato, la testimonianza scritta non ha alternativa, anche quando la testimonianza sia decisiva per l’accertamento del fatto storico controverso, dall’altro viene esclusa una garanzia fondamentale per la serietà e la credibilità della prova testimoniale: la valutazione del giudice sull’opportunità dell’esame diretto del teste. Da questo punto di vista, non è affatto chiara nemmeno la portata del rinvio al codice di procedura civile contenuto nell’art. 63, comma 3, del codice del 2010: da un lato, la prova testimoniale può essere ammessa dal giudice su istanza di parte (è l’unica prova che non può essere disposta d’ufficio dal giudice amministrativo), dall’altro, sulla richiesta di procedere all’acquisizione della testimonianza scritta potrebbe abbattersi il «rifiuto» dell’altra parte ai sensi dell’art. 257-bis c.p.c. con la conseguenza che sarebbe inevitabile il rigetto dell’istanza istruttoria (cfr. Tar Sicilia, sez. I, 13 ottobre 2017, n. 2389, in https://www.giustizia-amministrativa.it, che non prende posizione specifica circa l’ammissibilità dell’istanza nel caso specifico). In questo modo, la prova testimoniale verrebbe rimessa al consenso della controparte e ciò comporterebbe una violazione evidente dell’art. 111 Cost. (il che giustifica un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione che comporti la possibilità di prescindere dall’accordo delle parti).

[10] Per «l’accertamento di fatti o l’acquisizione di valutazioni che richiedono particolari competenze tecniche, il giudice può ordinare l’esecuzione di una verificazione ovvero, se indispensabile, può disporre una consulenza tecnica» (art. 63, comma 4, c.p.a.). Superato così l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale la verificazione riguardi solo l’accertamento dei fatti e non la loro valutazione, il codice sembra subordinare la disposizione della consulenza tecnica ad un giudizio preventivo circa la non adeguatezza della verificazione rispetto al caso concreto (cfr. anche l’art. 19 c.p.a.). Sul giudizio di indispensabilità o stretta necessarietà della consulenza tecnica e del mezzo istruttorio in generale nel processo amministrativo si tornerà più avanti nel testo.

[11] Cfr. G. Corso, Prova - diritto amministrativo (voce), in Enciclopedia giuridica, vol. XXV, Roma 1999, p. 2.

[12] Che da tempo la dottrina colloca nella violazione di legge, cfr. F.G. Scoca, Profili sostanziali del merito amministrativo, in Nuova rassegna, 1981, p. 1381. Per l’affermazione che l’errore nella valutazione della fattispecie reale costituisca sempre un vizio di legittimità v. F. Benvenuti, Disegno dell’amministrazione italiana. Linee positive e prospettive,Padova 1996, pp. 206-207, perché in questi casi il «risultato è che l’atto non raggiunge quei ritorni che dovrebbe dare secondo la previsione della fattispecie astratta e cioè secondo le ragioni per cui all’Amministrazione è dato di esercitare quel potere».

[13] G. De Giorgi Cezzi, La ricostruzione del fatto nel processo amministrativo, Napoli 2003, p. 283.

[14] Cfr. in particolare F.G. Scoca, Tribunali amministrativi regionali, in G. Guarino (a cura di), Dizionario amministrativo, Milano 1985, vol. II, p. 1561 e M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna 1983, p. 286, che ravvisava che nell’accesso al fatto l’atto amministrativo costituisse un limite assai problematico e che, comunque, il giudice potesse accertare la materiale esistenza del fatto che è il presupposto dell’emanazione dell’atto. Più di recente, De Giorgi Cezzi, La ricostruzione del fatto nel processo amministrativo, cit., p. 11 e passim, ha individuato nella collocazione del travisamento del fatto nell’ambito dell’eccesso di potere la ragione di una «costruzione “mutilante” del giudizio di fatto operato dal giudice amministrativo». Da ciò deriva necessariamente che il ricorrente deve disporre di mezzi di prova adeguati rispetto ai fatti rilevanti nel giudizio (cfr. N. Paolatonio, Il sindacato di legittimità sul provvedimento amministrativo, Padova 2000, p. 401: «introdurre un limite alla conoscenza del fatto mediante l’istruttoria processuale, negando che il giudice possa procedere alla ricostruzione della fattispecie complessiva, equivale a negare, nella sostanza, l’esplicazione della stessa funzione giudiziaria»).

[15] F.P. Luiso, Il principio del contraddittorio e l’istruttoria nel processo amministrativo e tributario, in Diritto processuale amministrativo,2000, p. 342.

[16] Cfr. infra nota n. 38.

[17] Cfr. A. Travi, Giusto processo e procedimenti amministrativi speciali, cit., p. 69. Come osservato da S. Capozzi, Giusto processo e istruttoria nel processo amministrativo, in B. Capponi - V. Verde(a cura di), Il nuovo art. 111 cost., Napoli 2002, 99, per la giurisprudenza «il parametro di valutazione è costituito non già dalla realtà oggettiva ma da quella riportata nell’atto».

[18] Su questo principio nel processo amministrativo, dopo il codice del 2010, si veda amplius S. Spuntarelli, La parità delle parti nel giusto processo amministrativo, Roma 2012.

[19] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 5 marzo 2019, n. 1538, in https://www.giustizia-amministrativa.it.

[20] S. Lucattini, Il giudice amministrativo alla prova dei fatti, in Judicium, 13 ottobre 2016, p. 3 ss. Con specifico riferimento alla consulenza tecnica d’ufficio, la ritrosia del giudice amministrativo si era manifestata sin dalla sua introduzione, anche nella giurisdizione di legittimità, ad opera dell’art. 16 l. n. 205/2000 ed è perdurata fino ad oggi, anche se si registrano significative aperture rispetto all’utilizzo di questo mezzo istruttorio, soprattutto nell’ultimo periodo.

[21] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 8 marzo 2017, n. 1106, in Foro amministrativo, 2017, p. 588, che ribadisce l’orientamento tradizionale della giurisprudenza sui limiti del sindacato giurisdizionale rispetto alle valutazioni del comitato di verifica per le cause di servizio. Su questo tema, nonché sulle gravi perplessità sollevate da questo orientamento anche in confronto alle posizioni espresse dal giudice civile in controversie analoghe, sia consentito rinviare a G. D’Angelo, Giudice amministrativo e riconoscimento della dipendenza della malattia da causa di servizio, in Rivista italiana di medicina legale, 2012, p. 1403 ss.

[22] Cfr. Tar Piemonte, sez. I, 2 maggio 2015, n. 697, in https://www.giustizia-amministrativa.it.

[23] Cfr., per esempio, Tar Lazio, sez. II-quater, 27 agosto 2019, n. 10616; Tar Lombardia, sez. II, 22 maggio 2019, n. 1147; Trga Trento, 9 aprile 2019, n. 62; Tar Lazio, sez. I-ter, 26 febbraio 2015, n. 3393 (tutte in https://www.giustizia-amministrativa.it) e infra nota n. 26.

[24] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 6 ottobre 2018, n. 5744, in https://www.giustizia-amministrativa.it.

Anche una parte della dottrina ha espresso argomenti simili: per esempio, in tema di sindacato sugli atti delle autorità amministrative indipendenti, è stato affermato che i mezzi istruttori «vanno utilizzati quando necessario» o che lo strumento della consulenza tecnica d’ufficio è utile «in casi del tutto speciali» (F. Cintioli, Giusto processo, sindacato sulle decisioni antitrust e accertamento dei fatti (dopo l’effetto vincolante dell’art. 7 d.lg. 19 gennaio 2019, n. 3), in Diritto processuale amministrativo, 2018, p. 1237).

[25] Con riferimento alla consulenza tecnica d’ufficio cfr. l’art. 63, comma 4, c.p.a. (v. retro nota n. 10). Secondo S. Lucattini, Fatti e processo amministrativo, cit., p. 209, tale disposizione non genera comunque «una irragionevole limitazione istruttoria; da un lato, perché il requisito della indispensabilità appare facilmente superabile, al punto da risultare, in pratica, inidoneo ad impedire al giudice di disporre la consulenza tecnica “ogni qual volta lo ritenga necessario ai fini di giustizia”; dall’altro, perché la verificazione pare, comunque, strumento potenzialmente in grado di consentire l’imparziale accertamento di fatti complessi».

[26] Cfr. Tar Campania, sez. V, ord. 5 maggio 2011, n. 2541 (in Giornale di diritto amministrativo, 2011, p. 1317, con commento di E. Giardino, La prova testimoniale nel processo amministrativo: presupposti e limiti), che ha ritenuto la stretta indispensabilità una «direttrice assiologico-operativa testualmente riferita dall'art. 63, comma 4, c.p.a. alla sola prova consulenziale d’ufficio, ma in realtà da intendere come predicato comune all’intero, rinnovato strumentario istruttorio del giudice amministrativo» (nel caso di specie, alla prova testimoniale).

[27] Cfr. l’art. 95 d.lgs. 16 novembre 2015, n. 180, che dispone che nelle controversie contro le misure di gestione della crisi degli enti creditizi adottate dalla Banca d’Italia e dal Ministero dell’economia e delle finanze, devolute alla giurisdizione esclusiva e di merito del giudice amministrativo, non si applicano gli artt. 19 e 63, comma 4, c.p.a. In questi giudizi, dunque, non sono ammesse la verificazione e la consulenza tecnica d’ufficio per l’accertamento di fatti o per l’acquisizione di valutazioni che richiedono competenze tecniche. Attraverso questo divieto il legislatore ha inteso recepire l’art. 85.3 della direttiva 2014/59/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014 (sulla istituzione di un quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento), che dispone che in queste vertenze i tribunali nazionali ricorrano alle valutazioni economiche complesse dei fatti effettuate dall’autorità di risoluzione quale base per la propria valutazione. L’art. 95 d.lgs. n. 180/2015 sembra andare oltre il significato e la portata della disposizione della direttiva europea. Infatti, in disparte il dubbio in radice che soluzioni di ordine processuale possano essere imposte con assolutezza dal legislatore comunitario, il decreto legislativo di recepimento introduce in queste controversie limiti stringenti all’istruzione probatoria non desumibili (almeno non desumibili necessariamente) dal testo della direttiva europea.

[28] Già negli anni Settanta del secolo scorso, la dottrina aveva concepito il diritto alla prova come una manifestazione essenziale del principio del contraddittorio: la partecipazione degli interessati al procedimento sarebbe priva di rilevanza se non fosse accompagnata dalla possibilità di influire sulla fissazione del fatto (cfr. V. Colesanti, Principio del contraddittorio e procedimenti speciali, in Rivista di diritto processuale, 1975, p. 608; cfr. anche M. Cappelletti - V. Vigoriti, I diritti costituzionali delle parti nel processo civile italiano, in Rivista di diritto processuale, 1971, pp. 637-638; V. Denti, Perizie, nullità processuali e contraddittorio, in Rivista di diritto processuale, 1967, p. 395 ss.; N. Trocker, Processo civile e costituzione. Problemi di diritto tedesco e italiano, Milano 1974, p. 509 ss.; V. Vigoriti, Garanzie costituzionali del processo civile, Milano 1970, 92 ss. Prima di questi contributi, con precipuo riferimento al diritto di azione e di difesa, cfr. L.P. Comoglio, L’art. 24 della Costituzione e gli oneri fiscali nel processo, in Rivista di diritto processuale, 1965, p. 446; V. Vigoriti, Garanzie costituzionali della difesa nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 1965, p. 523; V. Denti, La natura giuridica delle norme sulla prova nel processo civile, in AA.VV., I processi arbitrali. L’arbitrato commerciale internazionale. La natura giuridica delle norme sulla prova nel processo civile e penale. Atti del VIII convegno nazionale dell’Associazione fra gli studiosi del processo civile - Pavia 23/26 maggio 1968, Milano 1971, p. 175 ss.). La valorizzazione dell’art. 24 Cost. anche con riferimento all’istruttoria ha poi comportato affermazioni più nette da parte della dottrina e cioè che la parte abbia il diritto «di impiegare tutte le prove di cui dispone al fine di dimostrare la verità dei fatti che fondano la sua pretesa», tutte le prove (anche quelle atipiche) «che appaiono ipoteticamente idonee ad apportare, direttamente o indirettamente, elementi di conoscenza intorno ai fatti che debbono essere provati», con il solo limite, oltre a quello dei divieti imposti dalla legge, dato dalla rilevanza della prova nel processo (M. Taruffo, Il diritto alla prova nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 1984, p. 78 e ivi nota n. 12). Peraltro, un richiamo puntuale all’art. 24 Cost. rispetto al «momento della prova, nel duplice aspetto di garanzia del diritto alla prova, e di garanzia del metodo di acquisizione della prova», era chiaro già in V. Colesanti, Principio del contraddittorio e procedimenti speciali, cit., p. 608).

[29] I limiti all’ammissione del mezzo istruttorio, cioè, dovrebbero trovare fondamento nel c.d. principio di prova (nel caso dei poteri officiosi del giudice) e nell’onere dell’allegazione dei fatti principali e secondari nel processo, oltre che nel principio di non contestazione (od onere di contestazione), introdotto nel processo amministrativo dall’art. 64, comma 2, che riproduce testualmente l’art. 115 c.p.c., come modificato dall’art. 45 l 18 giugno 2009, n. 69 (su questo tema cfr., in particolare, F. Gaffuri, Il principio di non contestazione nel processo amministrativo, Milano 2018; R. Vincenzi, Sul principio di non contestazione nel processo amministrativo, in Rivista di diritto processuale, 2017, p. 1492 ss.; G. Tropea, Considerazioni sul principio di non contestazione nel processo amministrativo, anche alla luce delle sue prime applicazioni giurisprudenziali, in Diritto processuale amministrativo, 2012, p. 1142 ss.; F. Follieri, Il principio di non contestazione nel processo amministrativo, in Diritto processuale amministrativo, 2012, p. 1012 ss.).

[30] Cass., sez. un., 4 maggio 2017, n. 10790, in Corriere giuridico, 2017, p. 1396, con nota di C. Consolo – F. Godio, Un ambo delle sezioni unite sull'art. 345 (2° e 3° comma) - Le prove nuove ammissibili perché indispensabili (per la doverosa ricerca della verità materiale) e le eccezioni (già svolte) rilevabili d’ufficio, e in Rivista di diritto processuale, 2019, p. 553 con nota di E. Merlin, Indispensabilità delle prove e giudizio di appello.

[31] La dottrina che ha ritenuto che la prova indispensabile «ai fini della decisione della causa» possa trovare ingresso nel giudizio d’appello, senza la limitazione determinata dalla decadenza maturata in primo grado e alla sua imputabilità, si è spesa anche sul significato da attribuire a questa espressione. Sulla prova indispensabile come quella diretta a provare un fatto la cui esistenza o inesistenza sia stata dichiarata in primo grado (e possa essere dichiarata dal giudice d’appello) non sulla base del meccanismo probatorio, ma sulla base della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, cfr. A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, V ed., Napoli 2012, pp. 491-492 (che peraltro evidenzia l’impossibilità di spiegare cosa debba intendersi per indispensabilità «in termini di logica formale o di analisi del linguaggio»). Sulla prova indispensabile come prova “cruciale”, che verta «su fatti “decisivi”», cioè «quelli che, da soli, appiano idonei a portare alla definizione della controversia», senza necessità del concorso con altri fatti già valutati in primo grado, cfr. C. Consolo, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, III ed., Padova 2012, pp. 214-215.

[32] L’art. 345, comma 3, c.p.c., nel testo vigente a partire dall’entrata in vigore della riforma del 1990 (cfr. l’art. 52 l. 26 novembre 1990, n. 353) e fino a quella del 2012 (cfr. l’art. 54, comma 1 lett. 0b), d.l. 22 giugno 2012, n. 83 conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134), subordinava l’ammissibilità di nuovi mezzi di prova nel giudizio di appello alla valutazione «che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa». Sull’abolizione, nel 2012, dell’ammissibilità in appello delle nuove prove indispensabili cfr. B. Cavallone, Istruzione probatoria e preclusioni, in Rivista di diritto processuale, 2014, p. 1041, che ritiene che la nuova formulazione dell’art. 345, comma 3, c.p.c. «sia tutto sommato ragionevole […] dato che la nozione di indispensabilità, per quanti sforzi si siano fatti e si possano fare per darle un significato autonomo e plausibile, finisce inevitabilmente per identificarsi […] con la nozione di rilevanza». Com’è noto, nel processo amministrativo, invece, l’art. 104, comma 2, c.p.a. ha mantenuto il requisito della indispensabilità ai fini della deroga al divieto di nuovi mezzi di prova in appello (su questo profilo cfr. P. Lombardi, Riflessioni in tema di istruttoria nel processo amministrativo: poteri del giudice e giurisdizione soggettiva “temperata”, cit., pp. 97-106).

[33] Secondo le Sezioni unite «la prova nuova indispensabile di cui all’art. 345, comma 3, c.p.c., […] è quella di per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto indimostrato o non sufficientemente provato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado». La Corte si è posta in sostanziale continuità con l’orientamento - espresso già qualche anno prima (v. la nota pronuncia del 20 aprile 2005 n. 8203, in Foro italiano, 2005, I, col. 1690, sull’applicabilità della disciplina di cui all’art. 345, comma 3, c.p.c. non solo alle prove c.d. costituende ma anche a quelle c.d. precostituite, come i documenti) - favorevole al «concetto di indispensabilità come influenza causale più incisiva della rilevanza» e ha così respinto l’interpretazione della indispensabilità c.d. ristretta secondo cui, invece, non devono essere ammesse le prove che, pur indispensabili, si sarebbero potute produrre in primo grado o di cui la decisione impugnata avrebbe potuto tenere conto se la parte fosse stata diligente nel chiederne l’assunzione tempestivamente. Rispetto a questa conclusione, appunto, l’argomento incentrato sul valore della ricerca della verità materiale in funzione della piena tutela giurisdizionale assume un ruolo centrale.

[34] Per esempio, è quello che accade assai di frequente nel caso di contestazione della congruità di un’offerta tecnico-economica nella procedura di scelta del contraente: cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. III, 9 ottobre 2018, n. 5798, in Repertorio del Foro italiano, 2019; Cons. Stato, sez. III, 22 gennaio 2016, n. 211, Repertorio del Foro italiano, 2016; Cons. Stato, ad. plen., 3 febbraio 2014, n. 8, in Foro italiano, 2014, III, col. 481, con nota di A. Travi e in Urbanistica e appalti, 2014, p. 527 con nota di M. Giovannelli, La plenaria sulla conservazione dei plichi e sindacato sull’anomalia delle offerte.

[35] Elemento già evidenziato dalla dottrina prima della riforma del 2010; cfr. G. Abbamonte - R. Laschena, Giustizia amministrativa, in G. Santaniello(a cura di), Trattato di diritto amministrativo, vol. XX, Padova 2001, p. 56, che hanno sostenuto l’esigenza dell’ingresso del fatto nel processo amministrativo «per quello che esso è, non costretto dallo schermo dell’atto». In generale su questo aspetto cfr. G. De Giorgi Cezzi, Giudizio prova verità. Appunti sul regime delle prove nel processo amministrativo, in Diritto processuale amministrativo, 2002, p. 907.

[36] In questo senso, con particolare riferimento ai provvedimenti delle Autorità amministrative indipendenti, v. A. Travi, Il problema generale del sindacato giurisdizionale degli atti delle Autorità indipendenti; il riparto di giurisdizione e il controllo della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato, in https://www.giustizia-amministrativa.it, che ricorda anche la posizione espressa di recente da Cass., sez. I, 30 maggio 2018, n. 13679, in Banche dati de Il Foro italiano, in tema di risultanze delle verifiche ispettive della Banca d’Italia (su questa pronuncia cfr. G. Fauceglia, Osservazioni sul valore processuale dei verbali ispettivi della Banca d’Italia, in Giurisprudenza commerciale, 2018, II, p. 808; F. Garofalo, Il valore probatorio degli accertamenti ispettivi della Banca d’Italia nei giudizi di responsabilità, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2019, p. 186). È opportuno riportare un passaggio particolarmente significativo della motivazione della sentenza (§ 4.1): nell’ambito dell’attività di vigilanza sul sistema bancario, «le valutazioni e le ipotesi conclusive contenute nelle relazioni ispettive della Banca d’Italia costituiscono elementi di convincimento con i quali il giudice deve confrontarsi criticamente, e tuttavia, sebbene provengano da una fonte autorevole, non possono essere recepite in modo aprioristico e possono essere contraddette con strumenti istruttori adeguati, quale è, ad esempio, la c.t.u. svolta nel contraddittorio delle parti».

[37] Sul processo come sede naturale per l’accertamento dei fatti (il processo inteso come giudizio di fatto) cfr. già Corte cost., 22 dicembre 1961, n. 70, in Giurisprudenza costituzionale, 1961, p. 1282, con nota di M. Cappelletti, Diritto di azione e di difesa e funzione concretizzatrice della giurisprudenza costituzionale (Art. 24 Costituzione e “due process of law clause”). In quell’occasione la Corte dichiarò l’illegittimità costituzionale, in riferimento all’art. 24 Cost., dell’art. 10, n. 1, l. 23 maggio 1950, n. 253, nella parte in cui demandava al Genio civile l’accertamento delle condizioni tecniche e della necessità dello sgombero dell’immobile, e dell’art. 10, n. 2, della stessa legge in quanto l’accertamento della indispensabilità dello sgombero e della possibilità di uno sloggio temporaneo senza allontanamento dell’inquilino era demandato al Genio civile. La sentenza è stata ricordata dalla dottrina come una delle prime affermazioni, da parte della giurisprudenza costituzionale, del diritto alla prova, quale espressione fondamentale del diritto di azione e di difesa: cfr. in particolare cfr. L.P. Comoglio, Rapporti civili (Art. 24-26), in G. Branca(a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma 1981, pp. 63-64; N. Trocker, Processo civile e costituzione. Problemi di diritto tedesco e italiano, cit., pp. 513-514.

[38] Per questa concezione cfr. Corte cost. 18 maggio 1989, n. 251, in Foro italiano, 1989, I, col. 2700. Per i rilievi critici a questa pronuncia v. M. Renna, Giusto processo ed effettività della tutela in un cinquantennio di giurisprudenza costituzionale sulla giustizia amministrativa: la disciplina del processo tra autonomia e “civilizzazione”, in G. Della Cananea - M. Dugato (a cura di), Diritto amministrativo e Corte costituzionale, Collana Cinquanta anni della Corte costituzionale della Repubblica italiana, Napoli 2006, p. 573 ss., che rileva in particolare come «la concezione autoritativa di pubblica amministrazione sottesa alla sentenza n. 251/1989 e, con essa, la concezione di giudizio di legittimità di cui la Corte ha inteso proteggere l’autonomia» sono «ormai – per fortuna – ampiamente superate nel nostro ordinamento; lo sono indubbiamente oggi, ma in buona parte, in base alle norme della Costituzione, lo erano o lo dovevano essere già all’epoca di questa pronuncia, sebbene vada riconosciuto che la legge n. 241/1990, successiva alla stessa sia pur di poco, abbia recato un contributo decisivo a detto superamento, dando avvio a una stagione di riforme senza precedenti del diritto amministrativo tanto sostanziale quanto processuale» (p. 575).

[39] Dunque, in questi casi, l’indispensabilità non governa solo il rapporto che sembra essere delineato dal legislatore tra consulenza tecnica e verificazione, ma diventa anche requisito di ammissibilità della verificazione stessa, esattamente nella logica illustrata nel testo e riferita in generale ai mezzi istruttori.

[40] Cfr. Tar Lombardia n. 1147/2019 cit. L’art. 63, comma 4, invece, nella parte in cui fa riferimento, anche rispetto alla verificazione, all’«accertamento di fatti o l’acquisizione di valutazioni che richiedono particolari competenze tecniche» ha superato proprio l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale la verificazione può riguardare solo l’accertamento dei fatti e non la loro valutazione, in passato già criticato da una parte della dottrina, secondo la quale consulenza e verificazioni avrebbero la stessa ampiezza di contenuti (cfr. A. Travi, Valutazioni tecniche e istruttoria del giudice amministrativo, in Urbanistica e appalti, 1997, p. 1262 ss.).

[41] A cui si accompagna, indubbiamente, una certa approssimazione del legislatore nel disciplinare l’istruttoria nel processo amministrativo. Oltre a quanto già evidenziato a proposito della testimonianza (solo) in forma scritta e alla consulenza tecnica solo se indispensabile, basti pensare ai termini e alle modalità di assunzione delle prove, che non sono regolati, ma lasciati all’ampia discrezionalità del giudice (il codice richiama in larga parte il testo dell’art. 29 del regolamento di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato del 1907, confermando l’applicazione delle disposizioni del codice di procedura civile «in quanto compatibili», in precedenza «per quanto è possibile»).

[42] E quindi come una parte “qualificata”, cioè portatrice dell’interesse pubblico anche nel processo.

[43] Del resto, l’idea di giudice, e di giurisdizione, si fonda sulla equidistanza rispetto alle parti. In modo del tutto condivisibile, M. Ramajoli, Giusto processo e giudizio amministrativo, cit., 2013, p. 145, osserva che l’accertamento giudiziale «presuppone un’autonomia e un’indifferenza del giudice rispetto al fatto per le quali nel processo amministrativo mancano le condizioni strutturali minime».

[44] Sulla mancanza di un accertamento giurisdizionale autonomo dei fatti di causa come ostacolo alla piena realizzazione del giusto processo amministrativo cfr. F. Saitta, Vicinanza alla prova e codice del processo amministrativo: l’esperienza del primo lustro, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile

D'Angelo Giovanni



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