fbevnts The ‘mass incarceration’ in Rome between the end of the monarchy and beginnings of the republic

La ‘carcerazione di massa’ a Roma tra fine monarchia e gli inizi della repubblica

24.04.2021

Luigi Romano

Assegnista di ricerca, Università degli Studi di Napoli Federico II

 

La ‘carcerazione di massa’ a Roma

tra fine monarchia e gli inizi della repubblica* 

                                                                                                                                                    

Sommario: 1. Il lessico. L’orecchio di Dionisio e le prigioni di pietra a Roma. 2 L’origine della ‘pena’ e la struttura produttiva. 3. Dispositivi repressivi e l’anacronistico ‘workfare’ di Tarquinio. 4. Le sezioni dei cd. ‘detenuti comuni’ e il ‘sistema contenitivo organico’.

 

English title: The ‘mass incarceration’ in Rome between the end of the monarchy and beginnings of the republic.

DOI: 10.26350/18277942_000025 

 

1. Il lessico. L’orecchio di Dionisio e le prigioni di pietra a Roma

 

Tracciare i perimetri del diritto criminale romano è un’indagine insidiosa, soprattutto quando si guardano le origini della repressione pubblica[1]. La ‘distorsione ottica’ diminuisce (almeno in parte) quando le ricerche si imbattono nelle esperienze giuridiche imperiali e tardoimperiali perché lo storico del diritto si confronta con ‘istituti’ maggiormente definiti e supportati da categorie teoriche. Invece, la ‘labirintite’ dello studioso può risultare considerevole quando si incontrano vissuti remoti e contesti sociali il più delle volte tramandati dai racconti della mitologia civile dei Romani. Disorientamento che nasce soprattutto a causa del carattere ontologico del diritto criminale antico che si afferma in primis come vissuto casistico, frutto della escogitazione (spesso mitica, appunto) e della sedimentazione di prassi punitive. Per questi motivi, alcune ricostruzioni storiografiche possono orientarsi in modo più efficace a partire dallo studio delle permanenze lessicali (a descrivere le ‘cose’ repressive), ricostruendo i contesti storici che hanno dato origine alle forme della parola[2]. Inoltre, in un campo così lacunoso, l’indagine sulle ‘strutture contenitive’ nel mondo romano non può fare a meno di recuperare le premesse storiche che hanno influito sulle scelte normative, inquadrando, piuttosto che la norma o l’istituto criminale, l’esperienza pratica dell’esercizio della punizione[3]. Sono tessuti urbani che quando estrapolati dal racconto della storiografia antica e dalla letteratura dei grammatici possono offrire molteplici indizi sull’organizzazione dei Romani. Dati testuali che dovranno essere necessariamente confrontati con i risultati delle ricerche archeologiche che hanno riguardato i luoghi di ‘detenzione’ oggetto di questo studio[4].

 

Varr. de l. L. 5.150-151. Arx ab arcendo, quod is locus munitissimus urbis, a quo facillime possit hostis prohiberi. Carcer a coercendo, quod exire prohibentur. In hoc pars sub terra Tullianum, ideo quod additum a Tullio rege. Quod Syracusis ubi delicti causa custodiuntur, vocantur latomiae, inde lautumia translatum, quod hic quoque in eo loco lapicidinae fuerunt.

 

Il grammatico del I sec. a.C., dopo aver riferito l’etimologia di arx e carcer[5], lemmi legati al campo semantico della contenzione, individua come luoghi detentivi le latomiae e il Tullianum, la costruzione sotterranea al Carcer. La descrizione e la derivazione semantica del sostantivo la ritroviamo quasi identica in Festo,

 

s.v. «Lautumias» (104 Lindsay). Lautumias ex Graeco et maxime a Syracusanis, qui latomias et appellant et habent ad instar carceris: ex quibus locis excisi sunt lapides ad extruendam urbem.

 

L’originaria funzione delle cave era esclusivamente legata alla dimensione del lavoro ‘in eo loco lapicidinae fuerunt’. In entrambi i passi emerge il riferimento all’esperienza di Siracusa – elemento conservato nell’etimo dal greco λᾶς «pietra» e τέμνω «tagliare», lo stessa di lapicida, dal latino lapis pietra, caedo, tagliare –,qui si trovava la latomia più grande che divenne successivamente qualcosa di molto simile ad un ‘campo di concentramento’. Anche Cicerone è testimone dell’impressionante Latomia citata nella ‘requisitoria’ contro Verre,

 

Verr. 2.5.68-69. Age porro, custodiri ducem praedonum nove more quam securi feriri omnium exemplo magis placuit. Quae sunt istae custodiae? Apud quos homines, quem ad modum est adservatus? Lautumias Syracusanas omnes audistis, plerique nostis Opus est ingens, magnificum, regum ac tyrannorum; totum est e saxo in mirandam altitudinem depreso et multorum operis penitus exciso; nihil tam clausum ad exitum, nihil tam saeptum undique, nihil tam tutum ad custodiam nec fieri nec cogitari potest.

 

La prigione venne costruita dai re e dai tiranni, interamente ricavata dalla pietra, ed era costituita da una cava enorme con molti cunicoli e insenature labirintiche. Il Governatore scellerato della provincia romana aveva vessato ingiustamente i provinciali e, ancor più grave, punito illegittimamente alcuni cittadini romani come Gavio, soldato irpino ingiustamente rinchiuso nelle Latomie e poi crocifisso[6]. Secondo la leggenda, quella cava era conosciuta anche come l’Orecchio di Dioniso perché il Tiranno di Siracusa rinchiudeva in quei luoghi i prigionieri e talvolta approfittando dell’amplificazione acustica dello scavo ne origliava i discorsi[7].  

 

2. L’origine della ‘pena’ e la struttura produttiva

           

Prima di cogliere la caratterizzazione criminale delle latomie romane, è necessario capire quando Roma cominciò a farne uso. A tale proposito le riflessioni di Cancellieri, di fine ’700, suscitano ancora interrogativi suggestivi: «… siccome ciò non ostante sembra incredibile che in una Città popolosissima, che era il compendio ed il centro di tutto il Mondo potesse bastare un solo Carcere così ristretto, come or lo vediamo, così può supporsi che le antiche Cave di pietre, che erano in questo contorno, furono ridotte a Carcere da Tarquinio, a guisa di quelle scavate in Siracusa da Dionigi il Tiranno…»[8]. L’immagine di una Roma popolosa e invasa da fenomeni criminali si deve necessariamente collocare nel periodo repubblicano maturo, dopo le guerre annibaliche, quando la comunità dovette affrontare nuove forme di marginalità in un sistema sociale divenuto complesso[9]. Le ‘emergenze’ provocarono la specializzazione dei mezzi repressivi che agivano in condizioni materiali eccezionali del tutto assenti in età arcaica – quando diverse ‘discipline’ contribuivano a conservare l’ordine sociale[10] –. Il numero esiguo di consociati e la pervasività delle strutture familiari gentilizie restringevano il campo d’azione della ‘repressione statale’[11]. Diversamente, quando la città cominciò ad essere attraversata da nuove tensioni sociali (testimoniate anche dalla proletarizzazione della metropoli), furono necessarie tecniche di contenimento più efficaci[12]. È per questo che il sistema giuridico partorì magistrature specifiche, come il collegio dei triumviri capitali, impegnate in attività – che con termini moderni potremmo definire – di polizia e custodia carceraria[13]. Nonostante la tendenziale (ma mai completa) specializzazione delle magistrature romane, rimanevano poco definiti le condizioni, i modi e i tempi per cui si poteva disporre la ‘carcerazione’ del soggetto[14].

Anche se le attività di contenimento dell’ordine pubblico si svilupparono successivamente, possiamo datare l’esistenza storica delle lautumiae già nel VI sec. a.C.[15]: le antiche cave erano posizionate tra il Palatino e il Quirinale, in un enorme scavo che risaliva gradualmente il crinale del Campidoglio fino all’antico carcere[16]. In particolare, questa latomia, forse la più antica, non fu l’unico scavo che permise la crescita urbanistica di Roma, perché dopo la sconfitta di Veio l’estrazione di materiali edili si intensificò grazie anche all’attività nella cd. ‘Grotta scura’ (cava più grande sottratta al controllo dei nemici[17]). Le intuizioni di Cancellieri tornano utili perché, già al principio dell’età moderna, mettevano in discussione la capacità di assorbimento della sola struttura del Tulliano in relazione alla crescente conflittualità della città. Comunque, lo studioso si interrogò sugli aspetti di ‘procedura criminale’ senza fornire riferimenti cronologici, ponendosi – astrattamente – una questione sistematica di organizzazione degli spazi. Inoltre, l’Antichista attribuì al regno di Tarquinio la nascita della pena detentiva nelle cave di pietra, raccogliendo una tradizione storiografica evidente in Isidoro di Siviglia, in cui si elencano i supplizi del Tiranno: Etym. 5.27.23. Est et latomia supplicii genus ad verberandum aptum, inventum a Tarquinio Superbo ad poenam sceleratorum. Iste enim prior latomias, tormenta, fustes, metalla atque exilia adinvenit, et ipse prior regibus exilium meruit. Tuttavia, il riferimento letterario di Isidoro in questa circostanza era con molta probabilità La città di Dio di Agostino, al cui interno, prendendo come fonte Cicerone, si presenta un’elencazione pressoché simile, Cic. apud August. De civ. Dei 21.11. […] octo genera poenarum in legibus esse scribit Tullius damnum, vincula, verbera, talionem, exilium, mortem servitutem. Secondo parte della storiografia moderna[18] Agostino recepì un passo dal De oratore di Cicerone (non possiamo sapere se attraverso un suo commentatore) – de orat. 1.194. Sive quem ista praepotens et gloriosa philosophia delectat, dicam audacius hosce habet fontis omnium disputationum suarum, qui iure civili et legibus continentur: ex his enim et dignitatem maxime expetendam videmus, cum vera virtus atque honestus labor honoribus, praemiis, splendore decoratur, vitia autem hominum atque fraudes damnis, ignominiis, vinclis, verberibus, exsiliis, morte multantur; et docemur non infinitis concertationumque plenis disputationibus, sed auctoritate nutuque legum domitas habere libidines, coercere omnis cupiditates, nostra tueri, ab alienis mentis, oculos, manus abstinere –, in cui elenca gli onori e le pene disciplinati nelle fonti del diritto (iure civili et legibus…).

In ogni caso, l’elencazione di Isidoro, come di Agostino, è molto approssimativa, sappiamo che alcune di queste pene furono ‘codificate’ solo nel principato, come i lavori in miniera – metalla[19]–, nel corso di una successiva elaborazione giuridica. La ‘compressione cronologica’ e l’errore interpretativo sono causati dai motivi ideologici che si celano dietro le ri-costruzioni della storiografia antica che con il tempo avevano assorbito quell’ideologia che esaltava i valori repubblicani, tramandati soprattutto dagli storici latini di età del principato – Livio primo tra tutti[20] –. Ad ogni modo, l’elemento da non sottovalutare riguarda la datazione delle prime latomie alla fine dei regni etruschi, cronologia possibile se confrontiamo il racconto delle fonti con recenti studi archeologici[21] riguardo ai blocchi di tufo presenti nelle costruzioni risalenti al VI sec. a.C. L’estrazione di materiale costruttivo rappresentava una ‘linea di investimento’ nevralgica per l’economia antica, sempre in affanno rispetto alla disponibilità delle risorse. Tra i mezzi necessari alla sopravvivenza vi era sicuramente il materiale per costruire le città che si emancipavano dalla dimensione del villaggio rurale, avviando la realizzazione delle prime infrastrutture in pietra[22].

La latomia a cui ci riferiamo, posta tra l’Arx e il Palatino, non era l’unica cava di Roma, infatti ulteriori scavi fatti alla fine dell’’800 nella zona dell’odierna p.zza Vittorio Emanuele II, hanno portato alla luce alcune cave di pozzolana (collante molto ricercato per le attività di costruzione) che risalgono al periodo tra fine VI e inizi V sec.[23]. Un particolare da sottolineare riguarda la struttura del sito descritta in modo preciso dall’ing. Canevari, responsabile della costruzione del Ministero delle Finanze inaugurato nel 1876: «Niuna cura aveva preceduto il tracciamento delle numerosissime gallerie in questo tratto incontrate. Aprivansi in tutte le direzioni, incrociavansi in mille modi tanto da formare un intricatissimo labirinto»[24]. Da questo breve indizio, possiamo intendere con maggiore concretezza l’intuizione di Francesco Cancellieri secondo cui lo storico carcere romano sarebbe stato collegato alle latomie attraverso fitti cunicoli[25]. Idea ripresa anche dalla storiografia moderna, in particolare da Cascione[26], il quale immaginava uno spazio detentivo più grande, composto da più ‘fabbriche’ collegate al Tullianum da gallerie o sottopassi.

           

3. Dispositivi repressivi e l’anacronistico ‘workfare’ di Tarquinio

 

La datazione degli scavi è confermata anche da alcune fonti latine che raccontano dell’intenso investimento edilizio voluto da Tarquinio il Superbo.

 

Cass. Hem. apud Serv. ad Aen. 12.603. Cassius autem Hemina ait ‘Tarquinium Superbum, cum cloacas populum facere coegisse, et ob hanc iniuriam multi se suspendio necarent, iussisse corpora eorum cruci affigi[27].

 

Liv. 1.59.9. Addita superbia ipsius regis miseriaeque et labores plebis in fossas cloacasque exhauriendas demersae; Romanos homines, victores omnium circa populorum, opifices ac lapicidas pro bellatoribus factos[28].

 

Il brano di Cassio Emina, riportato da Servio, e quello di Livio raccontano le disposizioni del Tiranno, intento a ultimare le costruzioni del primo re etrusco[29]. L’urbanistica di quei regni raffigurò una svolta importante per la storia di Roma, perché segnò la trasformazione da una comunità rurale in una – parziale – città di pietra[30]. Con il tempio di Giove, le rifiniture del Circo Massimo, le fognature, Roma, che aveva conquistato molti territori nel Lazio, doveva rispecchiare nei propri edifici la dimensione del potere. Dopo aver conseguito alcuni successi militari, come la conquista di Gabi, e concluso accordi internazionali con gli Equi e gli Etruschi, Tarquinio decise di completare alcune opere architettoniche e per questo furono impiegati artigiani dall’Etruria, ma molta della manodopera, secondo il Patavino, era costituita dai plebei. Molti di quei lavoratori preferirono la morte dopo aver subito l’onta di essere stati costretti a lavorare nelle cave, ricorda Cassio Emina[31]. È Dionigi di Alicarnasso[32], però, a fornire le motivazioni specifiche di questo innovativo ‘dispositivo di controllo’ della popolazione: il Tiranno doveva diminuire la disoccupazione evitando che i soggetti senza lavoro e non impegnati sui fronti di guerra diventassero un problema per l’ordine pubblico. Per questo l’impiego nelle latomie fungeva da meccanismo di ‘workfare’. Il racconto pecca di anacronismo[33]  perché è difficile immaginare l’esistenza di questo problema già in età monarchica. Nella Roma etrusca non si avevano queste esigenze di gestione del territorio urbano, ciò nonostante, è assolutamente plausibile che un numero di persone, escluse dall’entourage del comando e dai reticoli clientelari dalle gentes più influenti, sia stato costretto dal Tiranno a ultimare i ‘lavori pubblici’[34]. Escludendo l’ipotesi dogmatica che vorrebbe collegare queste decisioni con un eventuale intervento riformatore delle sanzioni criminali, si ritiene che tali disposizioni rappresentassero un’antica forma di lavoro subordinato/coatto, un modello molto vicino alle corvée che si definirono soltanto nel tardoantico[35]. Sarebbe, infatti, un tentativo intellettuale effimero, quello di riscontrare già in età monarchica un’organizzazione del lavoro che cominciò a definirsi con il dominato, in un mondo completamente diverso[36]. Tuttavia, quel tipo di ‘subordinazione’

sembra essere in parte anticipato da alcune forme di lavoro già esistenti durante la monarchia etrusca.

Alla luce di quanto riscontrato nelle fonti, si può forse costruire una relazione tra ‘struttura produttiva’ e prassi contenitive. Difatti, ponendo in rapporto la collocazione cronologica delle latomie romane nel VI sec. a.C. e l’importanza nevralgica del materiale edile, si può ipotizzare che quel tipo di ‘pena’ (da intendere in senso ‘atecnico’) – immaginata dagli storici antichi come dispositivo repressivo voluto dal Tiranno[37] – si strutturò a partire dalle necessità di costruzione della ‘grande Roma dei Tarquini’[38].

 

 

 

4. Le sezioni dei cd. ‘detenuti comuni’ e il ‘sistema contenitivo organico’

 

Fino ad ora abbiamo incentrato il focus sullo sfruttamento originario delle latomie, ora dovremmo rivolgere l’attenzione sulla caratterizzazione giuridico-criminale di quei luoghi. A tale proposito, occorre sottolineare la relazione tra ‘struttura produttiva’ e prassi contenitive emergenti, connessione che evidenzia il ri-uso dello stesso spazio urbano come campi di prigionia. Infatti, Livio riporta alcuni elementi utili per cogliere questa funzione;

 

Liv. 36.26.16-17. In timore civitatis fuit obsides captivosque Poenorum ea moliri. 17. Itaque et Romae vigiliae per vicos servantae iussique circumire eas minores magistratus et triumviri carceris lautumiarum intentiorem custodiam habere iussi.

 

Liv. 37.3.8. Per eodem dies principes Aetolorum tres et quadraginta, inter quos Damocritus et frater eius erant, ab duobus cohortibus missis a M. Acilio Romam deduci et Lautumias coniecti sunt [...].

 

Nel primo brano, lo storico riporta i fatti accaduti nel 198 a.C., la seconda guerra punica era terminata da qualche anno e arrivarono a Roma molti prigionieri di guerra tenuti in catena e ristretti nelle cave di pietra. Il secondo episodio, invece, riguarda la guerra etolica vinta da Roma, che comportò la prigionia del comandante Democrito e dei suoi fedelissimi, anche loro rinchiusi nella latomia nel 190 a.C.[39]. Dai racconti è chiara l’evoluzione strutturale delle lautumiae che, come accadde per quelle cave siciliane, divennero ‘bagni penali’. Erano, prigioni di massa, strutture con una capacità di contenimento maggiore rispetto a quella del Carcer e del Tullianum[40]. Altro dato che dovrebbe farci riflettere riguarda la prossimità fisica e funzionale di questi edifici con le latomie, perché insistevano sulla stessa area, quella tra il Campidoglio, il Palatino e il Quirinale. Nei pressi della zona identificata si collocava anche il ‘patibolo’ della Rupe Tarpea, tra i luoghi di esecuzione della condanna capitale[41]. Se si guarda il piano urbanistico della città antica, è evidente la vicinanza degli spazi, adiacenti al Comizio e ai luoghi della giurisdizione romana. Non si deve sottovalutare anche la prossimità delle scalae Gemoniae[42], la vetrina da cui venivano mostrati i cadaveri suppliziati, infatti, secondo la ricostruzione di Coarelli, «il saxum Tarpeium è l’elemento costituente di un sistema funzionale organico del quale fanno parte, oltre ad esso, il Carcer, il Tullianum, le Lautumiae e le scalae Gemoniae. La posizione di questo ‘complesso edilizio’, tra l’Arx e il lato settentrionale del Comizio, dove si concentravano le sedi del pretore, dei triumviri capitales e dei tribuni si spiega di nuovo, con gli stretti rapporti funzionali tra queste istanze e i luoghi deputati alla repressione»[43]. Tra l’altro questa connessione urbana si manifesta anche – sotto il profilo giuridico – dall’impiego della medesima magistratura addetta alla sorveglianza carceraria e al controllo dell’esecuzione delle condanne a morte, ossia quella dei tresviri capitales.

L’antico complesso, formatosi gradualmente (come accadeva nella sfera giuridico-normativa) per accumulo carsico delle strutture giudiziarie e contenitive, necessitava di ampi spazi reclusivi. Le fonti consentono di ricostruire in modo più analitico il tipo di detenzione perché entrambi i casi discussi si riferiscono alla reclusione – in massa – di prigionieri di guerra[44]. Tuttavia, nelle cave di pietra potevano essere rinchiusi anche ‘detenuti comuni’ ovvero soggetti coinvolti in azioni di ricognizione straordinarie di ‘polizia’ sul territorio[45].

 

Abstract: The paper focuses on the use of lautumiae in Ancient Rome. These sites were stone quarries from which the building materials for the construction of the city were extracted, and the oldest among them date back to the end of the Etruscan monarchy. In Varro's definition these places are described as prisons. The research connects the extractive use of the lautumiae with the needs of containment of the Romans. In fact, some caves when the mining material was exhausted, were reused as mass imprisonment camps.

 

Keywords: roman criminal law; lautumiae; prison; punishment; carcer. 



* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] Di recente, M. Miceli, Studio storico e diritto criminale: utilità e validità della riflessione storica anche nel settore penalistico, in P. Cerami – M. Miceli, Storicità del diritto. Strutture costituzionali, fonti, codici,Torino 2018, pp. 347 ss. Interessanti le premesse metodologiche di L. Garofalo, Concetti e vitalità del diritto romano, in Iuris vincula. Studi in Onore di M. Talamanca, vol. IV, Napoli 2001, pp. 73 ss. [= in Id., Crimina e delicta. Applicazioni normative e costruzioni dottrinali, Napoli 2019, pp. 1 ss.]; F. Bellini, Delicta e crimina nel sistema quiritario,Padova 2012, pp. 1 ss.; nonché le considerazioni di U. Brasiello,  Diritto penale (diritto romano) (voce), in Novissimo Digesto Italiano, vol. V, Torino 1968, pp. 960 ss., sul diritto criminale romano, riguardo alle linee che definiscono la materia nelle differenti epoche dell’esperienza giuridica e sociale romana durata circa tredici secoli.

[2] Sul punto v. C. Masi Doria, Modelli giuridici, prassi e medium linguistico. Un itinerario dell’espansionismo romano, Napoli 2012, pp. 73 ss.; Ead., Introduzione a una ricerca interdisciplinare, in C. Cascione – C. Masi Doria – G.D. Merola (a cura di), Modelli di un multiculturalismo giuridico. Il bilinguismo nel mondo antico. Diritto, prassi, insegnamento,vol. I, Napoli 2013, pp. xii s.; da una diversa prospettiva, F. Cordero, Gli osservanti. Fenomenologia delle norme, Milano 1967, pp. 127 ss.

[3] V. A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, 5a ed., Napoli 1990, p. 399.

[4] La recente sistematizzazione curata da Carandini e Carafa rappresenta un’ottima bussola per orientarsi sui recenti scavi che riguardano l’antica Roma, v. A. Carandini – P. Carafa (a cura di), Atlante di Roma antica. Testi e immagini, vol. I, Milano 2012, passim.

[5] Rispetto all’etimo si v. Ae. Forcellini et Al., Lexicon Totius Latinitas, Carcer (voce), vol. I, rist. Bononiae 1965, p. 534; A. Ernout, A. Meillet, Dictionnaire Étymologique de la langue latine, carcer (voce), Paris 1967, 5a ed., p. 99; A. Di Porto, Lessico giuridico. Principio di un dizionario etimologico. Da radici semitiche, Roma 1966, pp. 79 ss. 

[6] Si v. S. Castagnetti, Le «leges libitinariae» flegree: edizione e commento, Napoli 2012, pp. 79 s.

[7] V. J.-P. Houël, Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Lipare et de Malte, vol. III, Paris 1784, pp. 40 ss.; T. Fazzello, Della Storia di Sicilia, vol. II, Palermo 1817, pp. 245 s. La leggenda trova degli appigli storici nei racconti di Eliano (Var. hist. 12.44), sulla vicenda del poeta Filosseno rinchiuso da Dionisio. Anche nella VII lettera pseudoplatonica ci sono dei riferimenti all’uso che il Tiranno faceva della latomia siracusana, v. G. Pasquali, Le lettere di Platone,vol.II, Firenze 1967, pp. 42 ss. La visita di Platone e il contenuto della lettera sono l’oggetto del romanzo di V. Horia, La settima lettera,Milano 2000, passim.

[8] Si v. F.G. Cancellieri, Notizie del carcere Tulliano detto poi Mamertino alle radici del Campidoglio ove fu rinchiuso S. Pietro e delle catene con cui fu avvinto prima del suo martirio, Roma 1815, pp. 30 ss. 

[9] In ambito criminale si v. le tesi di W. Kunkel, Untersuchungen. Zur Entwicklung des Röemischen Kriminalverfahrens In Vorsullanischer Zeit, München 1962, pp.72 ss. In relazione alle più ampie trasformazioni sociali v. A. Toynbee, L’eredità di Annibale. Le conseguenze della guerra annibalica nella vita romana. Roma e il Mediterraneo dopo Annibale, vol. II, Torino 1983, pp. 454 ss.; G. Forni, Riflessioni sulla presenza di Annibale nell’Italia meridionale e sulle conseguenze,in G. Uggeri (a cura di), L’età annibalica. Atti del II Convegno di studi sulla Puglia romana (Mesagne 24-26 marzo 1988),Mesagne 1992, pp. 11 ss.;E. Gabba - G. Bandelli - F. Grelle, Hannibal’s Legacy trent’anni dopo,in E. Lo Cascio - A. Storchi Marino (a cura di), Modalità insediative e strutture agrarie nell’Italia meridionale in età romana, Bari 2001, pp. 13 ss.

[10] Oltre alle forme di riparazione privata del danno conseguente a fatto illecito, vi era l’esigenza ‘normativa’ di conservazione della pax deorum e con essa degli equilibri tra gruppi sociali, attuata attraverso un disciplinamento collettivo interno (self-help) ai gruppi familiari. Cfr. B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, Milano 1998 ed 2a, pp. 5 s.; in particolare sulle società antiche capaci di realizzare un controllo capillare autonomo dagli ‘apparati di pubblica sicurezza’, si v. W. Nippel, Public Order in Ancient Rome, Cambridge 1995, pp. 23 ss.; R.A. Bauman, Crime and Punishment in Ancient Rome, London 1996, pp. 9 ss.; N. Rampazzo, Ordine pubblico, ‘coercitio’ e lotta politica nella Roma repubblicana, in Index, (1997), pp. 491 ss.; C. Cascione, Polizia, giurisdizione, corruzione: prospettive (e un caso) dalla Roma repubblicana, in A. Palma (a cura di), Civitas et civilitas. Studi in onore di F. Guizzi,vol.I, Torino 2013, pp. 187 ss.

[11] Per alcuni chiarimenti in relazione al ‘misunderstending’ tra fattispecie considerate penali nel senso moderno e altri tipi di condotte che turbavano ad ogni modo l’ordine pubblico, ma considerate illeciti privati, si v. A. Riggsby, Public and Private Criminal Law, in P. Du Plessis – C. Ando – K. Tuori (ed.), The Oxford Handbook of Roman Law and Society, Oxford 2016, pp. 310 ss.; C. Cascione, Roman delicts and criminal law: theory and practice, in A.J. McGinn (ed.), Obligations in Roman law: past, present and future, Ann Arbor 2015, 3a ed., pp. 267 ss.; M. Balzarini, Il furto manifesto tra pena pubblica e privata, in F. Milazzo (a cura di), Illecito e pena privata in età repubblicana. Atti Copanello 1990, Napoli 1992, pp. 60 ss.

[12] Riguardo alle nuove tensioni che si svilupparono nel corso del periodo cd. repubblicano v. W. Will, Der römische Mob. Soziale Konflikte in der späten Republik, Darmstadt 1991, pp. 56 ss.; N. Rampazzo, Ordine pubblico, cit.,  pp. 496 ss. Sugli esiti prodotti sulla ‘costituzione repubblicana’ v., per tutti L. Labruna, ‘Iuri maxime… adversaria’. La violenza tra repressione provata e persecuzione pubblica nei conflitti politici della tarda repubblica, in Illecito e pena privata in età repubblicana Atti del convegno internazionale di diritto romano Copanello 4-7 giugno 1990, Napoli 1992, pp. 253 ss. [= Id., Civitas quae est constitutio populi e altri studi di storia costituzionale romana,Napoli 1999, pp. 117 ss.]; Id., Nemici non più cittadini, 2a ed., Napoli 1995, pp. 1 ss. [= Civitas quae est constitutio populi cit. 145 ss.]

[13] Sul tema, si v. C. Cascione, Tresviri capitales. Storia di una magistratura minore, Napoli 1999, pp. 161 ss.

[14] I Romani non avevano un ‘principio regolatore’ come quello della legalità definito dalle esperienze giuridiche moderne per contenere l’esercizio del potere punitivo, v. M. Scognamiglio, Principio di legalità e divieto di analogia: note sull’origine del principio nullum crimen sine lege, in L. Solidoro Maruotti (a cura di), Regole e garanzie nel processo criminale romano, Torino 2016, pp. 137 ss. Sugli interventi repressivi dei tresviri, si v. C. Cascione, Tresviri capitales,cit., pp. 23 ss.; Id., Sul nome (e il numero) dei tresviri capitales. A ritroso da Borges a Insus, cavaliere trionfante, in Index, (2010), pp. 21 ss. [= Id., Studi di diritto pubblico romano, Napoli 2010, pp. 85 s.]; M. Falcon, ‘Paricidas esto’. Alle origini della persecuzione dell’omicidio, in L. Garofalo (a cura di), Sacertà e repressione criminale in Roma arcaica,Napoli 2013,pp.191 ss. In particolare riguardo all’esigenze sociali e giuridiche alla base dell’emersione di questi profili istituzionali in contesti non romani, si v. L. Romano, Ordinamenti oschi e diritto pubblico romano: «tresviri capitales» nella tavola bantina?, in Index, (2016), pp. 91 ss.

[15] Cfr. L. Richardson jr., A New Topographical Dictionary,Baltimora-London 1992, p. 234. Riguardo all’evoluzione storica del quartiere, si v. da ultimo D. Palombi, I Fori prima dei Fori: storia urbana dei quartieri di Roma antica cancellati dai Fori imperiali, Monte Compatri 2016, pp. 29 ss.

[16] Si v. G.P. Sartorio, s.v. «Lautumiae», in E.M. Steinby (dir.), Lexicon Topographicum Urbis Romae, vol. III, Roma 1993, pp. 186 s.; T.J. Cadoux, The Roman Carcer and its Adjuncts, in Greece and Rome, 2 (2008), pp. 202 ss.

[17] Cfr. R. Volpe, Dalle cave di via tiberina alle mura repubblicane di Roma, in J. Bonetto - S. Camporeale - A. Pizzo (coord.), Arqueología de la construcción. Las canteras en el mundo antiguo: sistemas de producción y procesos productivos. Actas del congreso de Pavoda, 22-24 de noviembre de 2012, vol. IV, Mérida 2014, pp. 59 ss. Per un ragguaglio schematico delle cave utilizzate a Roma tra età monarchica e repubblicana, si v. R. Lanciani, Rovine e scavi di Roma antica, Roma 1985, pp. 43 ss.

[18] V. M.H. Crawford, Roman Statutes vol.II, London 1996, p. 574. Il passo è raccolto nei ‘frammenti incerti’ della palingenesi delle XII tavole curata da Riccobono, v. FIRA. Leges, 2a ed., vol. I, Firenze 1968, p. 75. L’eventuale collocazione della fonte ciceroniana è ancora al centro di un fervido dibattito scientifico, v. D. Di Ottavio, Octo genera poenarum (a margine di August., civ. Dei 21.11 e Isid., etym. 5.27.1 ss.), in AUPA, (2014), pp. 321 ss.

[19] V. F. Salerno, «Ad metalla». Aspetti giuridici del lavoro in miniera, Napoli 2003, pp. 9 ss. Di recente v. A. McClintock, Servi della pena. Condannati a morte nella Roma imperiale, Napoli 2010, pp. 39 ss.; A. Cherchi, Riflessioni sulla condizione giuridica delle metallariae nel tardo impero. A proposito di C. 11.7(6).7, in AUPA, (2016), pp. 211 ss.; Ead., De metallis et metallaris. Ricerche sulla legislazione mineriaria tardoantica, Cagliari 2017, passim.

[20] Cfr. T. Camous, Tarquinio il Superbo. La leggenda nera del re etrusco di Roma, maledetto e superbo,Salerno 2017, p. 169; F. Russo, L’odium regni a Roma tra realtà politica e finzione storiografica, Pisa 2015, 67 ss. Rispetto all’attività normativa di Tarquinio in ambito criminale, così chiarisce Cantarella: «Come la civitas non nacque dal nulla, ma riunì e unificò tradizioni diverse sottoponendole alla sua sovranità, così i supplizi capitali non furono imposti come supplizi di Stato dalla fantasia dei suoi re (tra i quali, come è noto, la tradizione caratterizza come particolarmente crudele Tarquinio il Superbo)», v. E. Cantarella, I supplizi capitali, 2a ed., Milano 2011, p. 144.

[21] V. gli studi di G. Cifani, La documentazione archeologica delle mura arcaiche a Roma, in MDAIR(R), (1998), pp. 359 ss.; Id., Architettura romana arcaica. Edilizia e società tra monarchia e Repubblica,Roma 2008, pp. 255 ss.; Id., Problemi e prospettive di ricerca sull’architettura romana tra il VI e V secolo a.C., in Annali della Fondazione per il Museo ‘Claudio Faina’,(2009), pp. 383 ss. 

[22] V. G. Cifani, Le mura serviane, in Atlante di Roma I, cit., pp. 81 ss.

[23] Sulle valutazioni degli scavi, si v. M. Serlorenzi, Cave di pozzolana in ‘Urbe’, in J. Bonetto - S. Camporeale, A. Pizzo (coord.), Arqueología de la construcción,vol. IV,cit., pp. 88 ss.

[24] R. Canevari, Notizie sulle fondazioni dell’edificio pel Ministero delle Finanze di Roma. Sunto in memoria dell’ing. Raffaele Canevari letto nella sessione del 14 febbraio 1875,in Atti della R. Accademia dei Lincei, 2 (1874-1875), pp. 417-435.

[25] Si v. F. Cancellieri, Notizie del carcere Tulliano detto poi Mamertino alle radici del Campidoglio ove fu rinchiuso S. Pietro e delle catene con cui fu avvinto prima del suo martirio, Roma 1815, spec. 31: «Mi è anche venuto sospetto, che per mezzo di queste Latomie, o vie sotterranee, potesse essersi aperta posteriormente una comunicazione fra Carcere Tulliano [corsivo dell’a.], e ’l Claudiano, osservandosi anche al presente Mamertino una Forma nella cui estensione, come abbiamo detto, si incontrano parecchi vani murati, che potevano introdurre ad altre vie, che dirigessero verso quella parte. Ma trattandosi di cosa assai incerta, ed oscura, nulla si può decidere». Da non sottovalutare lo schema analitico di G. Lugli, Roma antica. Il centro monumentale2, Roma 1968, p. 107 e 111, sulle strutture detentive di età repubblicana, che pone su un piano identitario il Tullianum e Lautumiae.

[26] Cfr. C. Cascione, Tresviri capitales, cit., p. 162.

[27] Per un inquadramento critico del testo v. J. Briscoe, L. Cassius Hemina, in T.J. Cornell, J.W. Rich – C.J. Smith (ed.), The Fragments of the Roman Historians, vol. III, Oxford 2013, p. 19, p. 170.

[28] Alcuni rilievi di tipo giuridico-antropologico sono offerti da Y. Grisé, Le suicide dans la Rome antique, Paris 1982, pp. 107 ss., 128 ss.

[29] Di recente si v. M. Giagnorio, Cittadini e sistemi fognari nell’esperienza giuridica romana, Bari 2020, pp. 26 ss.

[30] P. Carafa, La «grande Roma dei Tarquini» e la città romulea-numana, in Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma, (1996), pp. 7 ss. Si rimanda necessariamente allo studio di G. Pasquali, La grande Roma dei Tarquinii, in Nuova Antologia, (1936), pp. 405 ss. [= in Id., Terze pagine stravaganti,Firenze 1942, pp. 1 ss. = in Pagine stravaganti vol. II, Firenze 1968, pp. 3 ss.]. Si v. anche le intuizioni critiche in E. Gabba, La Roma dei Tarquini, in Athenaeum, (1998), pp. 5 ss. [= Id., Roma arcaica. Storia e storiografia, Roma 2000, pp. 235 ss.].

[31] Sul passo v. i rilievi critici di G. Brescia - M. Lentano, Suicidi infamanti e divieto di sepoltura, in A. McClintock (a cura di), Storia Mitica del diritto romano, Bologna 2020, pp. 99 s.  Il racconto è simile anche in Plin. Nat. Hist. 36.107. Cum id Taqruinius Priscus plebis manibus feceret, essetque labor incertum maior an longior, passim conscita nece Quiritibus taedium fugientibus, novum, inexcogitatum ante posteaque remedium invenit ille rex, ut omnium ita defunctorum corpora figeret cruci spectanda civibus simul et feri volucribusque laceranda.

[32] Dion. Hal. 4.44. Κα οκ πέχρη τατα μόνον ες τος δημοτικος ατ παρανομεν, λλ᾿πιλέξας κ το πλήθους σον ν πιστν αυτ κα ες τς πολεμικς χρείας πιτήδειον, τ λοιπν νάγκασεν ργάζεσθαι τς κατ πόλιν ργασίας, μέγιστον οόμενος εναι κίνδυνον τος μονάρχοις ταν ο πονηρότατοι τν πολιτν καπορώτατοι σχολν γωσι, καμα προθυμίαν χων π τς δίας ρχς τ καταλειφθέντα μίεργα π το πάππου τελεισαι κα τς μν ξαγωγίμους τν δάτων τάφρους, ς κενος ρύττειν ρξατο, μέχρι το ποταμο καταγαγεν, τν δ᾿μφιθέατρον ππόδρομον οδν ξω τν κρηπίδων χοντα παστάσιν ποστέγοις περιλαβεν. τατα δ πάντες ο πένητες εργάζοντο στα παρ᾿ ατο μέτρια λαμβάνοντες· ο μν λατομοντες, ο δ᾿λοτομοντες, ο δ τς κομιζούσας ταθ᾿μάξας γοντες, ο δ᾿π τν μων ατο τχθη φέροντες· μεταλλεύοντές τε τς πονόμους σήραγγας τεροι κα πλάττοντες τς ν ατας καμάρας κα τς παστάδας γείροντες, κα τος τατα πράττουσι χειροτέχναις πηρετοντες χαλκοτύποι τε κα τέκτονες κα λιθουργο τν διωτικν ργων φεσττες π τας δημοσίαις κατείχοντο χρείαις. περ τατα δ τργα τριβόμενος λες οδεμίαν νάπαυσιν λάμβανεν· σθ᾿ ο πατρίκιοι τ τούτων κακ κα τς λατρείας ρντες χαιρόν τ᾿ν μέρει κα τν δίων πελανθάνοντο λγεινν· κωλύειν μν γρ οδέτεροι τ γινόμενα πεχείρουν. La costruzione storiografica di Dionigi della Tirannide passa attraverso tre momenti distinti: (Dion. Hal. 4.41) l’abolizione del sistema di leggi precedenti e l’istaurazione di una guardia privata – sintomo della ‘privatizzazione’ del potere regale –; (Dion. Hal. 4.42) la politica antisenatoria con l’eliminazione fisica della ‘vecchia guardia’ aristocratica e la sostituzione con sodali del Re; (Dion. Hal. 4.43); terza fase quella antiplebea, con la revoca di tutti provvedimenti a favore della plebe che entrarono in vigore con Servio Tullio, il divieto di riunioni in pubblico e l’arruolamento di spie che potessero monitorare eventuali sedizioni. Differente è la ricostruzione liviana (Liv. 1.49) che sembra concentrarsi maggiormente sull’illegittimità del potere di Tarquinio il Superbo. Infatti, non c’è una scansione di fasi così precisa come in Dionigi e, inoltre, il riferimento ai lavori forzati (Liv. 1.59.7-8) è riportato con minore precisione nella parte in cui lo storico ricorda gli interventi edilizi del Tiranno. Sul punto v. O. Tommasini, Per l’individuazione di fonti storiografiche anonime latine in Dionisio d’Alicarnasso,in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia di Trieste, 1 (1964-65), pp. 153 ss.; R. Olgilive, A Commentary on Livy,vol.I, Oxford 1965, pp. 197 ss.; T.J. Luce, Livy. The Composition of his History, Princenton 1977, pp. 9 ss.; F. Mora, Il pensiero storico-religioso antico. Autori greci e Roma: Dionigi di Alicarnasso, vol. I, Roma 1995, pp. 315 ss.

[33] In particolare, v. A. Storchi Marino, Schiavitù e forme di dipendenza in Roma arcaica, in M. Moggi – G. Cordiano, Schiavi e dipendenti nell’ambito dell’«oikos» e della «familia», Pisa 1997, pp. 183 ss. Riportiamo per maggiore chiarezza le parole di Storchi: «Sono chiaramente riflessioni teoriche che implicano la proposizione di modelli… su queste elaborazioni hanno influito certamente anche alcuni dati che per essere riportati con costanza nella tradizione rinviavano probabilmente a realtà di età arcaica, in primis quello dei fabbri fatti venire dall’Etruria sotto Tarquinio e sotto cui la plebe romana è tenuta a prestare opere; ma sembrano i soli stranieri che precisamente sono artigiani, rispetto ai cittadini dei collegia opificum numaici, ai fabbri delle centurie e agli artigiani di cui si ha notizia per rituali religiosi arcaici» p. 191; sul punto si v. anche Ead., Artigiani e rituali religiosi nella Roma arcaica, in Rend. Acc. Arch. Lettere e Belle arti di Napoli, (1979), pp. 333 ss.

[34] Con molta probabilità tali eventi costituirono il sostrato storico per le considerazioni ‘giuridiche’ (forse imprecise) tramandate da Cicerone (o dai suoi commentatori) e giunte poi tra le mani di Agostino e Isidoro, secondo cui Tarquinio introdusse le latomie come supplizio. Idea rappresentata in alcune ricostruzioni dogmatiche, su tutti v. C. Ferrini, Esposizione storica e dottrinale del diritto penale romano,rist. Roma 1976, p. 152 nt. 5.

[35] Potremmo immaginare queste prime forme di costrizione come primordiali ‘corvées’ che le gentes patrizie imponevano alle famiglie economicamente deboli (clientes), difatti, il modo di produzione gentilizio si strutturava in particolare sulla ‘subordinazione clientelare’, v. F.M. De Robertis, I rapporti di lavoro nel diritto romano, Milano 1946, pp. 4 ss.; riguardo alle necessità produttive alla fine della monarchia v. Id., La organizzazione e la tecnica produttiva. Le forze di lavoro e i salari nel mondo romano, Napoli 1946, pp. 23 ss. Sul punto v. G. Bodei Giglioni, Lavori pubblici e occupazione nell’Antichità Classica,Bologna 1974, spec. p. 65, l’a. nello specifico ha studiato l’organizzazione di queste attività interpretandole come forme di ‘lavoro coatto’. Della stessa opinione è F. Mora, Il pensiero storico-religioso antico, cit., p. 315. Alcuni meccanismi di subordinazione (del cliente in favore del patrono) sono, inoltre, affrontati nelle ultime pagine di F. De Martino, Clienti e condizioni materiali in Roma arcaica, in Φιλίας χάριν. Miscellanea in onore di E. Manni, vol. II, Roma 1979, pp. 700 ss. [= in Id., Diritto economia e società nel mondo romano, vol.III, Napoli 1997, pp. 80 ss.]. Sui rapporti tra gentes e clienti v. C.J. Smith, The Roman Clan. The Gens from Ancient Ideology to Modern Anthropology,Cambridge 2006, pp. 168 ss.

[36] Su alcuni passaggi storici importanti che portarono alla genesi delle corvée, si v. B. Andreolli, La corvée precarolingia, in B. Andreoli (a cura di), Le prestazioni d’opera nelle campagne italiane del Medioevo. IX Convegno storico di Bagni di Lucca (1-2 giugno 1984), Bologna 1987, pp. 18 ss.; L. Capogrossi Colognesi, Max Weber e i limiti della società antica, in Mélanges P. Lévêque. Anthropologie et société, vol. III, Besançon 1989, pp. 55 s. Sulla struttura giuridica e sociale delle servitù e delle corvée v. S. Carocci, Angararii e franci. Il villanaggio meridionale, in E. Cuozzo – J.-M. Martin, Studi in margine all’edizione della platea di Luca arcivescovo di Cosenza (1203-1227), Avellino 2009, pp. 205 ss. V. l’opinione di A. Lizier, L’economia rurale dell’età prenormanna nell’Italia meridionale, Palermo 1907, pp. 61 ss., riguardo alle diverse forme di subordinazione nell’indagine storica, un’analisi storico-comparativa sul rapporto tra sistema schiavistico e servitù della gleba è svolta da F. De Martino, Economia schiavistica ed alto medioevo, in Index, (1987), pp. 235 ss. [= in Id., Diritto, economia e società vol.III cit. pp. 175 ss.].

[37] Le considerazioni sulla ‘disoccupazione pericolosa’ prodotte dalla storiografia del principato rappresentano un anacronismo quando si inquadrano le condizioni economiche delle ‘classi’ romane alla fine della monarchia, v. F. De Martino (a cura di), Riforme del IV secolo a.C., in BIDR, 78 (1975), pp. 39 ss. [= in Id., Diritto economia e società, vol. II, cit., pp. 213 ss.]; si tengano presenti le prime pagine di Id., L’economia,in G. Pugliese Carratelli (a cura di), Princeps Urbium, cultura e vita sociale nell’Italia romana, Milano 1991, pp. 255 ss. [= in Id., Diritto, economia e società, vol. III, cit., pp. 393 ss.]. Alcuni passaggi significativi della lotta sociale degli strati più poveri della plebe sono contenuti in A. Momigliano, L’ascesa della plebe nella storia arcaica di Roma, in Rivista Storica Italiana,(1967), pp. 297 ss. [= Id., Quarto contributo alla storia degli studi classici, Roma 1969, pp. 437 ss. = in Id., Roma arcaica, Firenze 1989, pp. 225 ss].

[38] V. G. Pasquali, La grande Roma dei Tarquinii, cit., pp. 405 ss.; P. Virgili, L’area sacra di S. Omobono. Scavo stratigrafico (1974-75), in La parola del passato, (1977), pp. 30 ss., la cui tesi è stata recuperata da F. Coarelli, Il Foro romano. Periodo arcaico, vol. I, Roma 1983, pp. 78 ss. Tali studi sostengono che i blocchi di tufo rinvenuti per la costruzione dei templi – opere votive al culto della Mater Matuta e della dea Fortuna (cd. culti serviani) – di età arcaica risalgono al VI sec. a.C. Di recente v. G. Adornato, L’area sacra di S. Omobono. Per una revisione della documentazione archeologica, in MEFRA, 2 (2003), pp. 809 ss., il quale ha contestualizzato con maggiore precisione i ritrovamenti dell’area sacra, datandoli agli ultimi anni della monarchia. Un’interpretazione già sostenuta in storiografia da G. Lugli, Roma antica. Il centro monumentale, cit., pp. 11 s., in particolare quando l’a. ha esaminato le fortificazioni di età monarchica ritenendo che «… gli avanzi rinvenuti in più punti, di mura fatte di piccoli blocchi di tufo granulare, provano in ogni modo che quando i Tarquini innalzarono il grande santuario di Giove Ottimo Massimo tutto il colle era già saldamente fortificato …» p. 11, attestando implicitamente l’intensa attività di scavo e recupero di materiale edile durante la monarchia del Superbo.

[39] Sui brani di Livio si tengano presenti le considerazioni di C. Cascione, Tresviri capitales, cit., pp. 122 s.; J. Briscoe, A Commentary on Livy. Books XXXI–XXXIII, Oxford 1973, pp. 218 s.

[40] L’analisi dei luoghi detentivi è stata già affrontata in storiografia da solide ricerche multidisciplinari, che hanno evidenziato le connessioni funzionali tra le diverse strutture addette alla ‘detenzione’ e all’esecuzione delle condanne capitali, si v. F. Coarelli, Il Foro romano, vol. II, cit., p. 74.

[41] Si v. B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, cit., p. 57; E. Tavilla, La pena di morte nella cultura penale di diritto romano: fondamenti ed eredità, inBeccaria. Revue d’histoire du droit de punir, (2015), pp. 52 ss. Sulla struttura morfologica della Rupe Tarpea, v. D. De Rita - M. Fabbri, The Rupe Tarpea: the role of the geology in one of the most important monuments of Rome,in Mem. Descr. Carta Geol. d’It., (2009), pp. 53 ss.; E. Cantarella, I supplizi capitali, 11a ed., cit., pp. 246 ss. Invece, per un inquadramento topografrico del Saxum v. D. Filippi, Regione VIII. Forum Romanum Magnum,in Atlante di Roma, vol. I, cit., p. 152: l’a. sostiene che il luogo potrebbe individuarsi nella zona dinanzi all’auguraculum. Nella letteratura più risalente v. G. Lugli, Roma antica. Il centro monumentale, cit., pp. 18 s.; O.F. Robinson, Ancient Rome. City Planning and Administration,London-New York, 1992, pp. 194 ss.

[42] Per una ricostruzione topografica, si v. G. Cifaldi - I. Romualdi, La repressione penale a Roma tra delitti e pene, in G. Cifaldi (a cura di), Lo sguardo recluso. La realtà carceraria: un’indagine empirica, Lanciano 2016, pp. 45 ss.

[43] Si v. F. Coarelli, Il Foro romano, vol. II, cit., spec. 86 s. Inoltre, quest’ordine spaziale era sintomatico di una disposizione dei poteri che si rifletteva nell’organizzazione del disegno urbano. Su questa fortissima relazione v. G. Purpura, Luoghi del diritto, luoghi del potere, in AUPA, (2005), pp. 247 ss.; Y. Rivière, Le cachot et las fers. Détention et coercition à Rome, Paris 2004, pp. 59 s.

[44] Si v. S. Barbati, Sul regime proprietario del bottino di guerra mobiliare, in L. Garofalo (a cura di), I beni di interesse pubblico nell’esperienza giuridica romana,Napoli 2016, pp. 505 ss.; Id. Il magistrato repubblicano e il bottino di guerra, in BIDR, 2015, pp. 279 ss.; R. Ortu, Praeda bellica: la guerra tra economia e diritto nell’antica Roma, in Diritto@Storia, (2005), da  http://www.dirittoestoria.it/4/Memorie/Ortu-Praeda-bellica.htm#b (ultimo accesso: 8 aprile 2021); F. Bona, Preda di guerra e occupazione privata di “res hostium”, in SDHI, (1959), pp. 342 ss. [= Id., Lectio sua. Studi editi e inediti di diritto romano, vol. I, Padova 2003, pp. 71 ss.]; Id., Preda bellica (storia) (voce), in Enciclopedia del diritto, vol. XXXIV, Milano 1985, pp. 913 ss. [= Id., Lectio sua, vol.I, cit., pp. 279 ss.].

[45] Cfr. C. Cascione, Tresviri capitales, cit., pp. 127 ss. In particolare, sulla carcerazione intesa come pena si tengano presente gli studi critici nei confronti delle tesi tradizionali, per tutti v. Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, rist. Darmstadt 1990, pp. 897 ss., di M. Balzarini, La pena de encarcelamiento hasta Ulpiano, in Seminarios complutenses de derecho romano, (1989), pp. 221 ss.; Id., Il problema della pena detentiva nella tarda repubblica: alcune aporie, in O. Diliberto (a cura di), Il problema della pena tra filosofia greca e diritto romano. Atti del deuxième colloque de philosophie pénale (Cagliari, 20–22 aprile 1989),Napoli 1993, pp. 371 ss.; B. Santalucia, La carcerazione di Nevio, in C. Bertrand-Dangebach - A. Chauvot - M. Matter - J.-M. Salamito (dir.), Carcer. Prison et privation de libertè dans l’antiquité classique. Actes du Colloque de Strasbourg (5-6 décembre 1997),Paris 1999, pp. 27 ss. [= in AA.VV., Au-delà des frontières. Melanges de droit romain offerts à W. Wolodkiewicz, vol. II, Varsovie 2000, pp. 825 ss., ora in Id., Altri studi di diritto penale romano, Padova 2009, pp. 371 ss.].   

Romano Luigi



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