Jean Giono e l’«estrema cura» per il bene comune. Una lettura antropologico-giuridica de “L’uomo che piantava gli alberi
Christian Crocetta
Professore stabile di Diritto, IUSVE
Jean Giono e l’«estrema cura» per il bene comune.
Una lettura antropologico-giuridica de “L’uomo che piantava gli alberi”*
Jean Giono and the «extreme care» for the common good
An anthropological-juridical reading of “The Man Who Planted Trees”
Sommario - 1. “L’uomo che piantava gli alberi” e la lente giuridico-letteraria. 2. Il contesto di partenza: la solitudine dell’uomo onesto in un luogo di corruzione. 3. Le due facce della “comunità” nel racconto di Giono. 4. Elzéard Bouffier e la sua “estrema cura” per il bene comune. 5. La sollecitudine e la solidarietà intergenerazionale sullo sfondo del gesto compiuto. 6. L’epilogo: un territorio trasformato, una comunità ritrovata.
1. “L’uomo che piantava gli alberi” e la lente giuridico-letteraria.
Il testo che si intende porre all’attenzione in questo contributo, L’uomo che piantava gli alberi[1] di Jean Giono, appare come un piccolo racconto apparentemente molto distante da ogni possibile riflessione giuridica: una breve narrazione in prima persona, che inquadra paesaggi di montagna aspra, quasi disabitata, e narra di un incontro fortuito con un vecchio pastore che trascorre il suo tempo a piantare ghiande.
Tuttavia, come gli studi sulla relazione fra “Diritto e letteratura” ci hanno mostrato in particolare nel secolo scorso, la narrazione letteraria aiuta a parlare di diritto, come anche il diritto ci ha ormai abituato a usare il medium narrativo per descrivere l’evoluzione delle norme e delle convenzioni sociali e per meglio comprendere la condizione umana: come sostiene Stone Peters, laletteratura eviterebbe al diritto il rischio di un pericoloso discostamento dalla realtà[2].
Rispetto alla relazione diritto/letteratura, Bruner addirittura li considera due «facce della stessa medaglia»[3], territori confinanti, in cui «les extrèmes se touchent»[4], sottolineando come la letteratura «sfrutta l’apparenza della realtà, guarda al possibile, al figurativo» e «eccede nel fantastico», mentre «il diritto guarda all’effettivo, al letterale, alla memoria del passato» e eccede «nella banalità dell’abituale»[5].
Lo specifico approccio di Bruner, che costituisce una delle possibilità di osservazione della relazione diritto/narrazione a partire dalla prospettiva psicologico-culturale, ci consente di porre la prima precisazione sugli studi sulla relazione fra diritto e letteratura e, in senso più ampio, fra diritto e narrazione: utilizzando la tripartizione di Barricelli e Weisberg[6], la prima fondamentale distinzione da effettuare, allora, è fra le differenti ricerche che hanno approfondito la componente giuridica emergente dalla lettura del testo letterario (“diritto nella letteratura”), rispetto alle correnti interessate a verificare la dimensione del “diritto come letteratura” (ermeneutica giuridica, da un lato; semiotica o stilistica giuridica dall’altro)[7]. Si potrebbe, ancora, ripartire diversamente il contesto degli studi in questione utilizzando la classificazione di Galgano, che affianca alla distinzione fra “diritto nella letteratura” e “letteratura nel diritto” una terza dimensione, la “letteratura oltre il diritto”, indicando in questo caso esempi di giuristi e magistrati passati a incarnare i panni dei romanzieri[8].
Ad esse, tuttavia, si dovrebbe oggi aggiungere, riteniamo, una ulteriore ripartizione, trasversale alle precedenti, che si potrebbe indicare come “letteratura per il diritto”, ovvero più estesamente “letteratura per la didattica del diritto”, che considererebbe l’uso didattico della letteratura, non per forza di contenuto specificamente giuridico o giudiziario, nell’insegnamento delle discipline giuridiche[9]. Non è certamente nuova, infatti, nel panorama della didattica del diritto, la potenza simbolica o descrittiva delle humanities[10] per inquadrare concetti e categorie appartenenti al mondo giuridico: si pensi al brano della Regina di Cuori descritto in Alice nel paese delle meraviglie, in cui l’assenza di ogni regola condivisa permette alla sovrana di decidere seduta stante della vita o della morte dei partecipanti al gioco; alla descrizione dei vari incontri compiuti da Gulliver nei suoi viaggi utilizzabili per affrontare una discussione in merito alle norme e convenzioni che regolano un paese; o ancora brani tratti da Furore o La battaglia di Steinbeck per descrivere la dimensione della disuguaglianza sociale dei primi del Novecento e provare un parallelo fra la crisi del 1929 e gli effetti ancora consistenti della bolla finanziaria del 2008, rispetto al tema dei diritti sociali, dell’uguaglianza, della vulnerabilità sociale. Oppure ancora Le libere donne di Magliano di Mario Tobino oppure il più recente Mandami a dire di Pino Roveredo, per affrontare il tema dell’apertura dei manicomi e dei cambiamenti legislativi sulla fragilità mentale di fine anni ‘70, a quarant’anni dalla “legge Basaglia”. O infine, sul versante artistico, la possibilità di riferirsi, attraverso gli uomini senza volto di René Magritte o i dipinti di persone dal volto sfigurato o deformato di Francis Bacon, all’approccio del diritto alla persona come soggetto astratto e indeterminato, su cui si può richiamare certamente e di nuovo Francesco Galgano e la sua similitudine fra diritto e pittura astratta[11].
Focalizzandosi sull’ambito più circoscritto del “diritto nella letteratura”, i grandi classici insieme ad esempi del contesto letterario contemporaneo, offrono un importante contributo non solo per analizzare «il modo in cui nella narrativa vengono descritti gli avvocati, le indagini giudiziarie, le leggi, nonché il rapporto tra il singolo individuo e la ricerca della giustizia»[12], ma più in generale «per la comprensione del diritto»[13].
Entrando ancora più nei particolari del macrosettore “diritto nella letteratura” e riprendendo il modello di John H. Wigmore (1908)[14] attraverso la più recente rielaborazione di Weisberg e Kretschman (1977)[15], si potrebbero distinguere quattro, ulteriori sottocategorie: «a) opere letterarie in cui viene descritta estesamente una procedura giuridica; talvolta si tratta solo di un dibattimento processuale, ma spesso anche delle indagini preliminari che portano al processo; b) opere in cui, sebbene non venga descritto un procedimento giuridico formale, una delle figure centrali nell'intreccio o nella storia, anche se non sempre il protagonista, è un uomo di legge; c) opere in cui un corpus specifico di leggi - spesso una singola norma o sistema procedurale - diventa un tema centrale; d) opere il cui tema centrale è il rapporto tra l'individuo e la ricerca della giustizia»[16].
Ecco, per sostare nel racconto de L’uomo che piantava gli alberi e riflettervi inforcando l’occhiale della prospettiva “diritto nella letteratura”, il «rapporto tra il singolo individuo e la ricerca della giustizia» è certamente l’obiettivo cui il testo sembra tendere o che comunque risulta possibile far emergere da una lettura più approfondita a margine di diversi passaggi che lo caratterizzano.
Ciononostante, dall’analisi approfondita del testo emerge la necessità di utilizzare in contemporanea anche la lente di osservazione della law as narrative, in cui è possibile ritrovare, come ricorda M. Paola Mittica, la riflessione sulla «dimensione identitaria dell’uomo sociale (politico e giuridico), il quale, tramite la tensione alla narrazione, osservata come caratteristica della mente umana, costruisce il proprio progetto di vita e lo condivide nel contesto comune»[17].
Per approcciarsi a L’uomo che piantava gli alberi, quindi, sembra davvero opportuno, sulla scia delle sollecitazioni all’unitarietà di Weisberg[18], assumere una metodologia di analisi di tipo interdisciplinare[19] e inforcare un paio di occhiali dotati di lenti bifocali, le une concentrate sulla prospettiva di lungo respiro, che fa ritrovare nell’obiettivo finale del piccolo racconto un ideale di giustizia, anzi di “giustizia sociale” (in ottica di “diritto nella letteratura”); le altre che permetterebbero di far emergere, attraverso una lettura più analitica del testo e l’approccio da law as narrative richiamato da Mittica, come il protagonista costruisca un progetto di vita nel contesto che abita, agendo su di lui, trasformandolo, spinto da quello che appare uno «scopo superiore»[20], dalla capacità di pensare e intravedere il bene degli altri nel semplice e ripetuto gesto di piantare, da quell’ideale di giustizia che sta nel volersi prendere cura del bene comune.
Leopoldo Carra, curatore dell’edizione italiana, sottolinea come emergano «nello spazio di un breve racconto tutti i temi che furono cari allo scrittore: il pacifismo, nel paragone implicito fra le giovani vite mietute a Verdun e i giovani alberi seminati dal pastore Elzéard Bouffier; l’attaccamento alla vita e il ritorno alla natura; la ricerca della felicità, anche collettiva e comunitaria (lo si vede nella rinascita morale, oltre che ambientale e topografica, del villaggio di Vergons); l’apprezzamento per un lavoro onesto, silenzioso e solitario, per una fatica generosa e libera, per uno sforzo tenace che lascia traccia, e che l’inquadramento in qualsiasi ufficialità rischierebbe di vanificare»[21].
L’analisi “bifocale” che ci proponiamo, però, può permettere di ritrovare nel testo ulteriori dimensioni di carattere antropologico-giuridico: la cura del bene comune, che contrasta con quella della corruzione morale dei boscaioli del villaggio di Vergons, di cui già annota alcuni aspetti lo stesso Carra, che è corruzione di costumi e di atteggiamenti, che inducono poi alla corruzione dei luoghi e all’affievolimento, fino alla sparizione, della dimensione comunitaria; il tema della comunità, quindi, apparentemente assente nel gesto solitario compiuto da Bouffier, che emerge nell’intenzionalità delle scelte di quell’uomo, nella sua presa di coscienza e nel suo impegno, nella “estrema cura” che accompagna la decisione di ripetere la semina di quegli alberi, ogni giorno, per trent’anni; nella necessità che vi sia una speranza per qualcosa di più grande, una spinta di ricerca e di realizzazione di un bene superiore. E ancora, attraverso la lettura di queste pagine, si può infine arrivare a cogliere la prospettiva di sollecitudine per l’altro, per un altro-da-sé che non è fisicamente prossimo, ma è presente nel gesto di solidarietà e responsabilità intergenerazionale del protagonista, che sfocia in un esito che riequilibra e riporta la giustizia in quel territorio, in quella comunità[22].
2. Il contesto di partenza: la solitudine dell’uomo onesto in un luogo di corruzione.
Il racconto de L’uomo che piantava gli alberi è narrato in prima persona: forse è l’autore stesso che cammina nelle montagne delle Alpi Marittime francesi, che penetrano fino in Provenza. Il paesaggio è desertico, lande nude e monotone a più di mille metri di altitudine in cui la vegetazione è scarna, per lo più di lavanda selvatica: un territorio pressoché disabitato, tranne qualche eccezione in un villaggio vicino.
Il narratore si accampa all’inizio accanto “allo scheletro di un villaggio abbandonato” (p. 15), è senza acqua, ha camminato molto, è in una giornata molto soleggiata di giugno, non c’è riparo e il vento soffia con quella “brutalità insopportabile” (p. 17) che sa percorrere le vette di montagna e che permette di spazzare via le nuvole e tenere il cielo sereno. Una condizione che affatica il camminatore, però, perché riempie le orecchie fino a frastornarle, fa socchiudere lo sguardo per le raffiche di vento e per l’acutezza dei raggi di sole. Ogni movimento è reso più faticoso, in particolare per chi non ha avuto la previdente intuizione di riempire lo zaino di provviste d’acqua sufficienti.
La solitudine in mezzo a un territorio così inospitale fa crescere la paura, via via, di non riuscire a trovare un luogo di riparo e una fonte d’acqua cui ci si possa dissetare: l’esperienza di frequentatori di sentieri di montagna o di lunghi cammini testimonia quanto la sete cominci a dare allucinazioni, porti in confusione la mente, annebbi la facoltà di riflessione, di discernimento, di scelta, faccia perdere di lucidità (“Mi parve di scorgere in lontananza una piccola sagoma nera, in piedi. La presi per il tronco d’un albero solitario”, p. 17).
Rimanere senza acqua, lungo un cammino di ore, può significare una sicura insolazione, o anche, all’estremo, morte. “Mi fece bere dalla sua borraccia” (p. 17) è un gesto che può significare “mi salvò la vita”. Il villaggio più vicino all’ovile in cui quel pastore abitava, in effetti, distava un giorno e mezzo di cammino: quell’ovile era unico riparo, unico possibile rifugio. Un giorno e mezzo di cammino, infatti, significa due notti senza un tetto, acqua sufficiente e pasto possibile.
Una borraccia condivisa, però, segna l’inizio dell’incontro e rende presente l’ospitalità: “e, poco più tardi, mi portò nel suo ovile” (p. 17) inizia a tratteggiare questa figura di pastore di pecore, che vive nella condizione umile del “figliol prodigo”, ma ha atteggiamenti da “Buon Samaritano”. È figura semplice, ma integra, sola non perché rifiuta l’incontro con gli altri ma perché decide di evitare la socialità corrotta degli abitanti dei luoghi limitrofi. Piuttosto che corrompersi, cerca l’isolamento, l’eremitaggio, si eleva sopra la folla, sale più in alto sulla collina.
Il narratore, a questo punto, si sofferma su un tratto di quei luoghi che non è meramente paesaggistico:
“E, oltretutto, conoscevo perfettamente il carattere dei rari villaggi di quella regione. […] Sono posti dove si vive male. Le famiglie, serrate l’una contro l’altra in quel clima di rudezza eccessiva, d’estate come d’inverno, esasperano il proprio egoismo sotto vuoto. […] Le più solide qualità scricchiolano sotto quella perpetua doccia scozzese. Le donne covano rancori. C’è concorrenza su tutto, […] per le virtù che lottano tra di loro, per i vizi che lottano tra di loro e per il miscuglio generali dei vizi e delle virtù, senza posa. […] Il vento altrettanto senza posa irrita i nervi. Ci sono epidemie di suicidi e numerosi casi di follia, quasi sempre assassina (p. 19).
Ci sono due solitudini, quindi, in questo racconto: quella degli abitanti del villaggio vicino, che vivono quei luoghi in modo rozzo, competitivo, centrato sui propri bisogni, predatorio; e quella di Bouffier, integra, virtuosa, scelta per evitare la tentazione di corrompere il suo sistema di valori, la sua identità, a contatto con una comunità corrotta nell’anima.
In questo paesaggio in cui la follia assassina e suicida sembra regnare, il pastore rifiuta di contaminarsi con quel clima di competizione e di rozzezza, con quell’“egoismo sotto vuoto” (p. 19), con quella prossimità rancorosa e priva di qualità morali (“un miscuglio di vizi e virtù, senza posa”, p. 19) elevandosi sopra la corruzione e scegliendo di realizzare dei piccoli gesti apparentemente insignificanti, eppure generativi, ricchi di fecondità e sollecitudine.
3. Le due facce della “comunità” nel racconto di Giono
La vita comunitaria che per Tönnies era quella connotata da «convivenza confidenziale, intima, esclusiva»[23], «durevole e genuina»[24], un «organismo vivente»[25], nel quale «una persona si trova dalla nascita, legata ad essi [ai suoi] nel bene e nel male»[26], ne L’uomo che piantava gli alberi è presente ma in negativo. Non è certamente, almeno non nel contesto iniziale, quella comunità che Tönnies considerava caratterizzata dalla «perfetta unità delle volontà umane»[27], da una unità che rimane anche se chi compone la comunità si trova, fisicamente e geograficamente, separato dagli altri cui è legato[28].
Recuperando le categorie tönnesiane, in un contesto così piccolo si può immaginare l’esistenza di una comunità di sangue, un legame parentale fra le famiglie, che vengono tuttavia tratteggiate come contrapposte le une alle altre, gli interessi degli uni in conflitto con quelli degli altri. Si crea certamente anche una comunità di luogo (il vicinato, la dimensione di prossimità), che però è tale solo in senso fisico: il luogo prevale sulla comunità che ospita e forse si dovrebbe parlare, più correttamente, di “luogo comunitario”. Le dimensioni di rivalsa, di competizione, di autodistruzione sociale si impongono, in effetti, e mettono di fronte colui che non condivide questa forma di vita all’unica alternativa di starsene decisamente lontano. Per la terza tipologia di comunità tönnesiana, la comunità di spirito (l’amicizia), che è la «forma propriamente umana e più elevata di comunità»[29], non vi può essere, evidentemente, spazio nelle pagine di Giono, in un contesto in cui l’ombra della corruzione interiore e sociale rabbuia l’intero territorio e si estende a rendere arida tutta la zona circostante. Potrà forse arrivare in seguito, nel momento in cui si realizza quell’opera trasformativa, fecondante, generativa che agisce in ottica di bene comune e rinnova (fuori e, come un’eco, anche interiormente) quelle terre e i suoi abitanti.
La storia di Giono racconta quindi che, in una condizione sociale dove non c’è apparente bisogno di diritto regolatore, dove la comunità è collettività negativa da tenere distante, accade qualcosa che parla di sollecitudine verso l’altro, di altruismo connaturato e costitutivo dell’essere umano. Se Greco ricorda (parafrasando Durkheim) che l’altruismo è la base fondamentale della vita sociale[30] e che senza non potremmo farne a meno, perché «gli uomini non possono vivere insieme senza capirsi e, di conseguenza, senza sacrificarsi l’uno per l’altro, senza vincolarsi reciprocamente in modo efficace e duraturo»[31], qui Elzéard Bouffier è l’emblema di come, in assenza della possibilità di altruismo e di sacrificio per coloro che convivono sullo stesso territorio e appartengono (o meglio apparterrebbero) alla stessa comunità di luogo, un uomo può trovare la spinta alla generosità verso l’altro, addirittura un altro che non conosce, un altro che verrà, e se vogliamo, nel contempo, un altro che è il Creato, la natura, ciò che permette alla vita dell’uomo di sostanziarsi.
Se, come ricordava ancora Tönnies, ciò che tiene insieme la comunità è la comprensione, che si basa su un «modo di sentire comune e reciproco, associativo, che costituisce la volontà propria di una comunità [e] rappresenta la particolare forza e simpatia sociale che tiene insieme gli uomini come membri di un tutto»[32] e l’esito di questa comprensione agita è la concordia fra chi è parte di quella comunità “restaurata”, ritrovata, queste due dimensioni, invece, mancano per buona parte del racconto di Giono. Ci sono solo come aspirazione, come speranza, come desiderio, come finalità che muovono il protagonista nelle sue azioni, nelle sue scelte, e le ritroviamo alla fine, negli effetti che le sue azioni determinano, gettando le basi di una nuova comunità, perché concordia e comprensione «crescono e fioriscono da germi dati, quando le loro condizioni sono favorevoli»[33] e questo avviene solo quando «un’intima conoscenza reciproca»[34], «una partecipazione immediata di un essere alla vita dell’altro»[35] tornano ad abitare quei luoghi.
4. Elzéard Bouffier e la sua “estrema cura” per il bene comune
Uno dei passaggi più significativi del racconto rimane certamente quello della cernita delle ghiande da piantare: qui si deve tornare al gesto del protagonista con la stessa lentezza con cui indugerebbe con l’inquadratura il regista che volesse far cogliere all’osservatore la stessa poesia che sta abitando il suo sguardo.
È poetica, infatti, l’attenta cura con cui Elzéard, il pastore solitario e apparentemente isolato e schivo, si mette a esaminare le ghiande che poi seminerà, distinguendo e separando le buone dalle guaste. Colpisce che il narratore si proponga di aiutarlo ma il pastore rifiuti il suo supporto: il discernimento e la cura nello scegliere sono “affar suo”, come se non volesse contaminare quel gesto preciso.
Le divise in mucchietti da dieci. Così facendo, eliminò ancora i frutti piccoli o quelli leggermente screpolati, poiché li esaminava molto da vicino. Quando infine ebbe davanti a sé cento ghiande perfette, si fermò e andammo a dormire.
Il passaggio sembra una genesi: il piglio è quello del Creatore, che dopo aver compiuto quanto ritenne giusto per creare il mondo e i suoi abitanti, si riposò.
La cura attenta del pastore nel selezionare tende alla perfezione, separando i frutti anche solo minimamente ammaccati o leggermente screpolati e mettendo da parte anche quelli di dimensioni tali da non sembrare in grado di farcela a crescere. Un gesto compiuto lentamente per dare alla futura semina qualche chance in più di sopravvivenza.
Eppure, come si leggerà nelle pagine successive, nemmeno queste ghiande dalla parvenza perfetta poi produrranno un frutto senza difetto, alcune nemmeno lo daranno, altre renderanno un’opera incapace di sopravvivere alle avversità del clima. Ed è consolante rammentarsi, anche attraverso le gesta di Bouffier, come la vita sia fatta comunque e sempre di limitate possibilità, di naturali spazi di incapacità, di costitutiva fragilità, anche se quando le fattezze esterne appaiano prive di imperfezioni.
Il modo di atteggiarsi del pastore, la sua cura per i particolari, la sua attenzione per quanto sta realizzando, è talmente anomala in quel contesto così arido nei terreni e nelle relazioni che tutto ciò che va compiendo ha un ulteriore effetto: pacifica lo sguardo di chi lo stava osservando. “La società di quell’uomo dava pace” (p. 23), racconta Giono, la società solitaria di quel pastore (una condizione esistenzialmente impensabile e ossimorica quella di una società eremitica, solitaria, priva di contatti) spandeva pace intorno.
Quelle ghiande, scelte e contate meticolosamente, escono sottobraccio del pastore, in un secchio pieno d’acqua, mentre l’altra mano è impegnata a portare un’asta di un metro e mezzo. Il bastone del pastore viene sostituito da un’asta per piantumare le ghiande:
Arrivato dove desiderava, cominciò a piantare la sua asta di ferro in terra. Faceva così un buco nel quale depositava una ghianda, dopo di che turava di nuovo il buco. Piantava querce (p. 24).
Questo secchio pieno di ghiande e questa minuzie nella piantumazione rammenta un altro gesto dalla medesima portata generativa, che viene ricordato dai quadri di Jean-François Millet (Il seminatore, 1850) e di Van Gogh (Il seminatore al tramonto, 1888): il seminatore usciva con la bisaccia a tracolla, doveva avere andatura cadenzata, equilibrato pescare dalla sacca e meticoloso gesto del gettare i semi a destra e sinistra, a mano aperta, con generosa spinta e silenziosa preghiera che nascesse da quello slancio il maggior numero possibile di piante.
Piantò così le cento ghiande con estrema cura (p. 24).
Il gesto di quel seminatore, come qui quello del piantatore Elzéard, esigeva cura. La cura di colui che intende seminare un bulbo generativo di un cambiamento. La vallata si trasformerà proprio a partire e grazie a quel meticoloso gesto di solidarietà e giustizia intergenerazionale[36], preparato e realizzato con “estrema cura”. Meticolosamente scelte, meticolosamente contate, meticolosamente piantate, in un gesto quasi ritmico di un corpo non più giovane che pianta l’asta di ferro, la solleva, si abbassa a depositare la ghianda e poi richiude il buco.
Colpisce la descrizione della scelta accurata anche del luogo in cui piantumare: un posto individuato non a caso, conosciuto, deciso.
Eppure un aspetto qui rischia di passare sottotraccia: il disinteresse per la proprietà di quel luogo in cui il pastore sceglie di seminare. Ovvero, l’ignoranza per chi ne sia il proprietario. Anzi, l’unica certezza che la proprietà non sia sua, di compiere un gesto di speranza per qualcun altro al-di-là-di-sé. In ogni caso, che sia bene pubblico o proprietà privata, si tratta di terreno abbandonato, incolto, bisognoso di essere curato.
Gli domanda se quella terra gli apparteneva. Mi rispose di no. Sapeva di chi era? Non lo sapeva. Supponeva che fosse una terra comunale, o forse proprietà di gente che non se ne curava? Non gli interessava conoscere i proprietari (p. 24).
Al pastore Elzéard Bouffier non interessa conoscere il proprietario di quella terra arida e senza germi di vita. Gli importa compiere quell’atto silenziosamente rivoluzionario di renderlo nuovamente abitato. Fa qualcosa su una terra non sua non per guadagno personale, non per far fruttare il valore di un bene proprio, ma realizzando gesti che aumenteranno il valore di un terreno altrui: è il valore del Creato che così aumenta.
Proprio perché il territorio in cui vive Bouffier non si sa a chi appartenga e si è perduta l’indicazione di chi ne sia proprietario, questo potrebbe spingere a concepire quei luoghi come “beni comuni”, «beni cioè che appartengono a tutti, e precisamente, secondo i punti di vista, all'umanità, al populus o alle città (Municipia o Coloniae), cioè a soggetti plurimi, o, se si preferisce, a comunità di uomini, se non di uomini ed animali, come afferma qualche giurista romano»[37]. Beni che, per le loro caratteristiche, «supererebbero il paradigma della proprietà […] pubblica o privata che sia, dando corpo ad una sorta di proprietà (o dominio) eminente collettiva, basata sul rapporto diretto tra beni, persona e diritti fondamentali»[38]. Una sorta di «superproprietà collettiva»[39], come la definisce Salvatore Settis.
È difficile cogliere il rapporto diretto fra terreno incolto, persone assenti e una qualche sorta di diritto fondamentale in quel terreno arido: forse di più un dovere umano di attenzione all’ambiente circostante che in questo periodo le giovani generazioni del “Friday for future” stanno sollecitando e su cui si era già pronunciato anche Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’, rammentando la necessità di prendere finalmente sul serio e «ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri»[40].
Seppure quei terreni non fossero tecnicamente beni comuni, possiamo dire che diventano grazie a Bouffier un “bene comune”. È per uno scopo superiore che quel gesto viene compiuto, «uno scopo che tutti gli uomini dovrebbero perseguire»[41].
5. La sollecitudine e la solidarietà intergenerazionale sullo sfondo del gesto compiuto
A chi appartenesse tecnicamente il territorio in cui piantumava, a Bouffier questo non interessava: da tre anni questo silenzioso seminatore di nuova speranza piantava alberi in solitudine. Un gesto silenzioso, rivoluzionario e solitario. A chi avrebbe potuto chiedere di condividere quell’utopia? A chi quel sogno di vedere quel luogo arido trasformato? E perché interessarsi così tanto di portare vita dove vita non c’è? Perché e per chi? In quel luogo, l’aveva detto, chi abitava puntava al guadagno, piantava egoismo competitivo, raccoglieva corruzione di valori. La risposta si trova forse più avanti, nel racconto:
Aveva perso il figlio unico, poi la moglie. S’era ritirato nella solitudine dove provava piacere a vivere lentamente […]. Aveva pensato che quel paese sarebbe morto per mancanza di alberi. Aggiunse che, non avendo altre occupazioni più importanti, s’era risolto a rimediare a quello stato di cose (p. 27).
Lo stile di vita di Bouffier rispecchia il suo operato: vive semplicemente, lentamente, senza affanni di arrivismo e, avendo perso gli affetti più cari, sposta il suo baricentro di senso verso l’esterno, verso gli altri, verso i più prossimi che ha, che non sono gli abitanti del villaggio a qualche chilometro di distanza (non è prossimità di spazio), ma quelli che verranno: la solidarietà di Elzéard Bouffier è intergenerazionale, pensa a chi quel luogo forse lo abiterà se quei territori cambieranno volto, si trasformeranno e diverranno fertili. Lo fa per i compagni di suo figlio morto prematuramente, per i nipoti di altri nonni, per una generazione futura che non ha volto e non emerge espressamente nelle sue parole, ma traspare in filigrana nella tensione di senso che accompagna ogni suo gesto.
Dissi che, nel giro di trent’anni, quelle diecimila querce sarebbero state magnifiche. Mi rispose con gran semplicità che, se Dio gli avesse prestato vita, nel giro di trent’anni ne avrebbe piantate tante altre che quelle diecimila sarebbero state come una goccia nel mare (p. 28).
Contrasta con la postura esistenziale di Bouffier quella del giovane narratore: il vecchio Elzéard è homo donans, il giovane camminatore, al contrario, è totalmente centrato su di sé: il suo avvenire è la sua felicità personale. Da una parte il dono solidale in chiave intergenerazionale del vecchio pastore/piantatore, dall’altra la felicità individuale del camminatore/narratore, egocentrica, preoccupata del proprio presente e del proprio avvenire. Da una parte l’uomo che ha trovato il baricentro di senso della sua esistenza, dall’altra l’uomo che va alla ricerca ancora di dare un senso al proprio andare.
La mia giovane età […] mi portava a immaginare l’avvenire in funzione di me stesso e di qual certa ricerca di felicità. […] Ci separammo il giorno dopo. L’anno seguente, ci fu la guerra del ’14, che mi impegnò per cinque anni. Un soldato di fanteria non poteva pensare agli alberi. A dir la verità, la cosa non mi era nemmeno rimasta impressa (p. 28).
A distanza di anni, l’aver vissuto quell’incontro centrato totalmente su di sé sembra far dimenticare al giovane narratore l’incontro con l’ammirato Bouffier: ma anche nella sua vita, non solo in quel paesaggio, una ghianda è stata piantata. Nemmeno la guerra ha diserbato il gesto follemente generoso di Elzéard Bouffier, che imperturbabile ha continuato a compiere il suo atto di speranza nella sua solitudine, incurante della battaglia che gli avveniva intorno. Querce, faggi, betulle…
Se si teneva a mente che era tutto scaturito dalle mani e dall’anima di quell’uomo, senza mezzi tecnici, si comprendeva come gli uomini potrebbero essere altrettanto efficaci di Dio in altri campi oltre alla distruzione (p. 31).
Dalle mani d’uomo, protese verso un bene superiore, possono nascere gesti creatori di bene, non solo di distruzione, dice la voce narrante, contagiosi di Bene, generativi e trasformativi di un luogo e di chi lo abita o lo abiterà, proprio a partire dalla vita seminata da un passo iniziale, ripetuto, cadenzato, ritmato, quotidiano: “Perseguiva ostinatamente il suo compito, molto semplice” (p. 33).
È un compito silenzioso, quello di Bouffier, sconosciuto e non appariscente: nessuno sa chi ha piantato quegli alberi, tranne quel giovane testimone.
Era la più straordinaria forma di reazione che abbia mai avuto modo di vedere. […] Ma la trasformazione avveniva così lentamente che entrava nell’abitudine senza provocare stupore. […] Perciò nessuno disturbava l’opera di quell’uomo. Se l’avessero sospettato, l’avrebbero ostacolato. Era insospettabile. Chi avrebbe potuto immaginare, nei villaggi e nelle amministrazioni, una tale ostinazione nella più magnifica generosità? (p. 32)
6. L’epilogo: un territorio trasformato, una comunità ritrovata
Elzéard Bouffier non pretendeva di cambiare nessuno, eppure il suo comportamento silenzioso modifica la skyline di una vallata, rende nuovo un luogo arido, riporta attraverso la sua scelta la vitalità dentro a ciò che era morente.
Quella generatività, quella fecondità trasformativa ha trasfigurato uomini e luoghi: è cambiata la geografia del territorio, è stata modificata la biografia dei suoi abitanti. Secche e brutali erano le bufere, ma anche le anime di chi abitava le valli e le colline ora verdeggianti, luogo in cui ormai “si aveva voglia di abitare” (p. 39), in cui “la speranza era dunque tornata” (p. 39):
Nel 1913 quella frazione di una dozzina di case contava tre abitanti. Erano dei selvaggi, si odiavano, vivevano di caccia con le trappole; più o meno erano nello stato fisico e morale degli uomini preistorici. Le ortiche divoravano attorno a loro le case abbandonate. La loro condizione era senza speranza. Non avevano altro da fare che attendere la morte: situazione che non dispone alla virtù. Ora tutto era cambiato. L’aria stessa. Invece delle bufere secche e brutali che mi avevano accolto un tempo, soffiava una brezza docile carica di odori. […] Vidi che avevano costruito una fontana; l’acqua vi era abbondante e, ciò che soprattutto mi commosse, vidi che vicino a essa avevano piantato un tiglio di forse quattro anni, già rigoglioso, simbolo incontestabile di una resurrezione. In generale, Vergons portava i segni di un lavoro per la cui impresa era necessaria la speranza. La speranza era dunque tornata. […] Era ormai un posto dove si aveva voglia di abitare. […] Se si conta la vecchia popolazione, irriconoscibile da quando vive nell’armonia, e i nuovi venuti, più di diecimila persone devono la loro felicità a Elzéard Bouffier (pp. 37-38).
Attraverso l’agire di Bouffier per il bene comune, Giono sembra voler rammentare, quindi, che realizzare il proprio progetto di vita non significa solamente vivere bene per se stessi. Perché, come ricorda Francesco Viola, sostanziare «una vita ben realizzata, che al contempo sia d’aiuto a che gli altri realizzino la propria, è senza dubbio una vita migliore della precedente, è una vita ancor più buona»[42]. Anzi, come sottolinea ancora Viola, «è essa in senso stretto la vera e propria vita buona»[43].
Attraverso il suo protagonista, quindi, Giono dice alla mente soggettivista che la propria vita non sarà pienamente realizzata se il bene degli altri non apparterrà al proprio orizzonte esistenziale e che, nell’interpretare il proprio bene personale, dovrà necessariamente tener conto degli altri e contribuire a creare quel «legame tra il bene degli individui»[44] che potremmo con Viola appellare “comunanza”, «mutua correlazione tra i progetti personali di vita»[45], spinta a «volere la realizzazione della giustizia sociale come parte essenziale del proprio progetto personale di vita buona»[46]. Poiché, come ricordava Pietro Barcellona[47], «l’alterità fa parte della mia identità» e «se io distruggo l’altro, distruggo una parte di me»[48].
Abstract: After reviewing some aspects of the relationship between law and literature, a fundamental tool for the reflection of legal knowledge, in research and also in teaching methodology, this contribution outlines an analysis in anthropological-juridical perspective of Jean Giono’s story “The Man Who Planted Trees”, bringing out the underlying dimensions of community, of solidarity, of care for the common good, also in an intergenerational perspective, of the need to recover the social ties in the present individualism and social atomism.
Keywords: Law and literature; Jean Giono; The Man Who Planted Trees; Community; Solidarity; Common good; Social atomism; Intergenerational responsibility.
* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
[1] Nelle citazioni si farà riferimento alla seguente edizione: J. Giono, L’uomo che piantava gli alberi, Milano, 2000.
[2] J. Stone Peters,Law, Literature, and the Vanishing Real: On the Future of an Interdisciplinary Illusion, in PMLA, 120.2 (2005), p. 444.
[3] J. Bruner, La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita, Roma-Bari 2002, pp. 67-68.
[4] ibid.
[5] ivi, p. 67.
[6] J.P. Barricelli – R.H. Weisberg, Literature and the law, New York 1982.
[7] Cfr. C. Faralli, La filosofia del diritto contemporanea, Roma-Bari 2010, pp. 59-61; F. Galgano, Il diritto e le altre arti. Una sfida alla divisione fra le culture, Bologna 2009; C. Faralli – M.P. Mittica (a cura di), Diritto e letteratura. Prospettive di ricerca, Roma 2010; A. Amato Mangiameli – G. Saraceni (a cura di), Il diritto nella letteratura. Una antologia, Roma 2012; G. Forti – C. Mazzuccato – A. Visconti, Giustizia e letteratura, vol. I, Milano 2012; G. Forti – C. Mazzuccato – A. Visconti, Giustizia e letteratura, vol. II, Milano 2014; G. Forti – C. Mazzuccato – A. Visconti, Giustizia e letteratura, vol. III, Milano 2016.
[8] Cfr. F. Galgano, Il diritto e le altre arti, cit., pp. 25-34.
[9] Ex multis, G. Bacceli, Didattica del diritto, Milano 2002; V. Marzocco – S. Zullo – T. Casadei, La didattica del diritto. Metodi, strumenti e prospettive, Pisa 2019.
[10] Come ricorda Mittica, nelle Law and Humanities «si inscrivono, accanto a Diritto e letteratura, anche Diritto e cinema, Diritto e musica, Diritto e arte (pittura, scultura, fotografia, video arte, ecc.), con l’invito a esplorare i nessi tra il diritto e le varie humanities, tenendo sullo sfondo anche l’istanza che la formazione giuridica, ma più propriamente un’autentica formazione liberal indirizzata ai comuni cittadini (tra i quali i giuristi che giocano un ruolo sociale tra i più significativi), non può prescindere da un’attenzione per la “cultura” che deve declinarsi consapevolmente come sensibilità verso la complessità della vita in comune per creare le condizione di un accostamento “simpatetico” all’Altro», in M.P. Mittica, Cosa accade di là dell’oceano? Diritto e letterature in Europa, in Anamorphosis, 1 (2015), pp. 5-6.
[11] Affermava Galgano: «Come nella pittura astratta, è cancellata ogni “matrice semantica”: il diritto ricrea, a proprio uso e consumo, un mondo nel quale il senso dell’umano è cancellato», in F. Galgano, Le insidie del linguaggio giuridico. Saggio sulle metafore nel diritto, Bologna 2010, p. 34.
[12] R.H. Weisberg, Diritto e letteratura (voce), in Enciclopedia delle scienze sociali, 1993, in http://www.treccani.it/enciclopedia/diritto-e-letteratura_%28Enciclopedia-delle-scienze-sociali%29(consultato il 02/10/2019). Già nel 1924, tuttavia, Pietro Calamandrei scriveva che «dalla lettura di certe pagine di romanzi, nelle quali si descrivono con linguaggio profano i congegni della giustizia in azione, è assai spesso possibile trarre un’idea precisa, meglio che da una critica fatta in gergo tecnico e in stile cattedratico, del modo in cui la realtà reagisce sulle leggi e della loro inadeguatezza a raggiungere nella vita pratica gli scopi per i quali il legislatore crede di averle create», in P. Calamandrei, Le lettere e il processo civile, in Rivista di diritto processuale civile, I (1924), p. 204.
[13] C. Faralli, La filosofia del diritto contemporanea, cit., p. 59
[14] J. Wigmore, A List of Legal Novels, in Illinois Law Review, 2 (1908), pp. 574-593.
[15] Weisberg e Kretschman, infatti, estendendo il modello di Wigmore sia da un punto di vista letterario (accanto alla narrativa, valutano anche opere teatrali e epiche), sia da un punto di vista territoriale (ricomprendendo anche opere della letteratura europea e asiatica, non solo quella angloamericana), individuano e ripartiscono i contributi interni alla macrocategoria del “diritto nella letteratura” nelle quattro tipologie indicate. Cfr. R.H. Weisberg – K. Kretschman, Wigmore's «legal novels» expanded: a collaborative effort, in Maryland law forum, VII (1977), pp. 94 ss.
[16] R. H. Weisberg, Diritto e letteratura (voce), cit.
[17] M.P. Mittica, Cosa accade di là dell’oceano? Diritto e letterature in Europa, cit., p. 6.
[18] Weisberg solleciterebbe di ad andare oltre le ripartizioni classificatorie, tendendo a una certa unificazione dei tre approcci con cui ancora si distingue fra diritto nella letteratura, letteratura nel diritto e diritto come letteratura. Cfr. R.H. Weisberg, Poetics and other strategies of law and literature, New York 1992.
[19] «Qui si tratta, in altre parole, di mettere in opera un lavoro interdisciplinare. Molto semplice a dirsi nella sua formulazione verbale, ma estremamente complesso da gestire nella pratica, quando appunto entrano in gioco gli specialismi e bisogna incontrarsi in un terreno di “traduzione” e “mediazione”. Le stesse indicazioni possono essere prestate in via generale a tutte le direttrici di ricerca che andiamo a riassumere qui di seguito, sebbene quando l’approccio metodologico è del Diritto come letteratura, il lavoro interdisciplinare si presta a sfociare in una ancor più preziosa transdisciplinarietà», in M.P. Mittica, Cosa accade di là dell’oceano? Diritto e letterature in Europa, cit., p. 28.
[20]In Charles Taylor ritroviamo la definizione di “scopo superiore” come di «uno scopo da cui non ci si può distanziare semplicemente esprimendo una schietta mancanza di interesse, in quanto riconoscere qualcosa come uno scopo superiore equivale a riconoscerlo come uno scopo che tutti gli uomini dovrebbero perseguire» (Ch. Taylor, Etica e umanità, Milano 2004, p. 239).
[21] L. Carra, Nota sull’autore, in J. Giono, L’uomo che piantava gli alberi, cit., p. 51.
[22] In questo senso, allora, anche “L’uomo che piantava gli alberi” potrebbe diventare, come Mittica ricorda in merito ai lavori e alle riflessioni di Martha C. Nussbaum sulla letteratura, «lo strumento e il luogo dell’apprendimento dei sentimenti di immedesimazione, compassione, dignità che conducono alla “simpatia”, come capacità di pensare il bene degli Altri, componente integrante di una concezione politica basata sulla qualità della vita» (M.P. Mittica, Cosa accade di là dell’oceano? Diritto e letterature in Europa, cit., p. 8).
[23] F. Tönnies, Comunità e società, Milano 1963, p. 47. Per un approfondimento sulla nozione di comunità in Tönnies, v. G. Bombelli, La bipolarità Gemeinschaft Gesellschaft tra paradigma occidentale e orientale: Tönnies, Weber, Wittvogel, in A. Catania – L. Lombardi Vallauri (a cura di), Concezioni del diritto e diritti umani. Confronti Oriente-Occidente. Atti del XXI Congresso nazionale della Società italiana di filosofia giuridica e politica – Salerno-Ravello, 7-10 ottobre 1998, Napoli 2000, pp. 271-358.
[24] ibid.
[25] ibid.
[26] ibid.
[27] ivi, p. 51
[28] ivi, p. 51 e p. 83.
[29] ivi, p. 57.
[30] T. Greco, Diritto e legame sociale, Torino 2012, p. 98. Per un ulteriore approfondimento sulla categoria di “comunità”: a) in prospettiva filosofica e sociologica: v. R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Torino 2006; J.-L. Nancy, La comunità inoperosa, Napoli 2002; J.-L. Nancy, La comunità sconfessata, Milano-Udine 2016; Z. Bauman, Voglia di comunità, Roma-Bari 2011; b) in prospettiva storico-giuridica: v. P. Grossi, Le comunità intermedie tra moderno e pos-moderno, Genova 2015; c) in prospettiva filosofico-giuridica, l’articolata riflessione di Giovanni Bombelli in G. Bombelli, Occidente e “figure” comunitarie. Volume introduttivo. “Comunitarismo” e “Comunità”. Un percorso critico-esplorativo tra filosofia e diritto, Napoli 2010; G. Bombelli, Occidente e “figure” comunitarie. I. Un ordine inquieto: KoinΩnia e comunità “radicata”. Profili filosofico-giuridici, Napoli 2013.
[31] F. Tönnies, Comunità e società, cit., p. 57.
[32] ivi, p. 62.
[33] F. Tönnies, Comunità e società, cit., p. 65.
[34] ibid.
[35] ibid.
[36] F. G. Menga, Lo scandalo del futuro. Per una giustizia intergenerazionale, Roma 2016; F. Ciaramelli - F.G. Menga (a cura di), Responsabilità verso le generazioni future. Una sfida al diritto, all'etica e alla politica, Napoli 2017. Mentre, nelle riflessioni diritto-letteratura, sul rapporto identità/responsabilità, v. A. Vigliani, La ‘dissoluzione’ dell’Io e il problema della responsabilità in Robert Musil, in G. Forti – C. Mazzuccato – A. Visconti, Giustizia e letteratura, vol. I, cit., pp. 168-196; E. Raponi, La ‘dissoluzione’ dell'Io e il problema della responsabilità in Hugo von Hofmannsthal, in G. Forti – C. Mazzuccato – A. Visconti, Giustizia e letteratura, vol. I, cit., pp. 196-212.
[37] P. Maddalena, I beni comuni nel codice civile, nella tradizione romanistica e nella Costituzione della Repubblica italiana, in Giurisprudenza costituzionale, 3 (2011), pp. 2613 ss.
[38] S. Bellomia, Territorio e beni comuni (a proposito di un recente volume di Paolo Maddalena), in Rivista Giuridica dell’Edilizia, 3 (2014), p. 109.
[39] S. Settis, Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Torino 2014, p. 138.
[40] Papa Francesco, Laudato si’,
http://www.vatican.va/content/dam/francesco/pdf/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si_it.pdf, n. 49. (consultato il 02/10/2019)
[41] Ch. Taylor, Etica e umanità, cit., p. 239.
[42] F. Viola, Identità e comunità. Il senso morale della politica, Milano 1999, p. 54.
[43] ibid.
[44] ivi, p. 55.
[45] ibid.
[46] ivi, p. 56.
[47] Barcellona affronta questi temi nelle significative pagine del denso saggio “L’individuo sociale” - che insieme ad altri due saggi (“Individuo e comunità” e Il ritorno del legame sociale”) costituisce una triade di fondamentali riflessioni sulla relazione individuo/comunità e sul posto che, rispetto a questo binomio, occupano diritto e solidarietà. Cfr. P. Barcellona, L’individuo sociale, Genova 1993; P. Barcellona, L’individuo e la comunità, Roma 2000; P. Barcellona, Il ritorno del legame sociale, Milano 1991, in part. pp. 114-141.
[48] P. Barcellona, L’individuo sociale, cit., p. 42.
Crocetta Christian
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