Interpretation and analogy in Roman criminal law

Interpretazione e analogia nel diritto penale romano

20.02.2022

Margherita Scognamiglio

Professoressa associata di Istituzioni di diritto romano,

Università di Salerno

 

Interpretazione e analogia nel diritto penale romano* **

 

English title:Interpretation and analogy in Roman criminal law

 

DOI: 10.26350/18277942_000068

 

Sommario:1. Interpretatio e interpretazione. 2. Interpretazione ex verbis (oggi “interpretazione letterale”). 3. Interpretazione ex sententia: l’eccezione alla legge (oggi “interpretazione restrittiva”). 4. Interpretazione ex sententia: l’estensione della legge (oggi “interpretazione estensiva”). 5. Interpretazione ex sententia: l’estensione della legge (oggi “analogia”). 6. Ratiocinatio/collectio/syllogismus: l’analogia. 7. Osservazioni conclusive.

 

1. Interpretatio e interpretazione

 

Le problematiche complesse che ruotano attorno al concetto di interpretazione giuridica toccano molteplici aspetti lessicali, teorici e storici; per tale ragione risultano essenziali alcune premesse, al fine di affrontare al meglio il tema dell’interpretazione delle leggi in materia criminale, concentrando la nostra attenzione sull’età classica, epoca nella quale il diritto criminale entrò nell’orbita speculativa della giurisprudenza, che sino ad allora aveva considerato quell’ambito di appannaggio esclusivo della retorica giudiziaria.

Interpres, in origine,è il mediatore, vale a dire colui che, nel contesto di un affare di natura commerciale, svolgeva la funzione di mettere in contatto le parti coinvolte[1]. Come testimoniato già in Plauto[2], l’evoluzione semantica di interpres determina la variazione metaforica dell’oggetto della mediazione dallo scambio commerciale al contenuto di una comunicazione[3]. È questo, dunque, il passaggio che consente di ampliare il significato del lemma al punto da modificarne radicalmente il campo di impiego. Si tratta di una mutazione registrata anche sul piano lessicale[4]: da interpres (soggetto della mediazione commerciale) a interpretatio (attività, funzione e risultato della mediazione comunicativa)[5].

Interpretatio[6], tuttavia, – è ben noto – non è semplicemente “interpretazione” in senso moderno[7]. Posto che ogni attività intellettiva atta a mediare tra un segnale (visivo, sonoro, verbale)/significante e il suo significato è ascrivibile al novero ampio dell’interpretazione[8] – la quale, dunque, può essere compiuta in qualunque campo dello scibile umano –, è interpretazione giuridica quella volta a palesare il significato di una disposizione normativa al fine di renderla applicabile[9]. Ciò non vuole affatto dire che l’indagine ermeneutica sia necessaria soltanto qualora una regola giuridica risulti ambigua o poco chiara[10], altrimenti si relegherebbe l’interpretazione alla mera fase patologica dell’applicazione della legge[11]. L’interpretazione, invece, è un processo logico conoscitivo, e talvolta creativo, che si inserisce anche nella fisiologia e non solo nella patologia dell’ordinamento giuridico. Ed è un processo che può avere una portata più o meno ampia, in relazione ai soggetti chiamati a interpretare, all’oggetto dell’interpretazione o al contesto storico-giuridico in cui tale processo è posto in essere.

L’interpretazione di un atto normativo può, pertanto, essere creativa, al punto da sconfinare nell’analogia[12]; tuttavia, il risultato al quale l’interprete perviene deve sempre restare ancorato al significante, o attingendo ad uno dei suoi significati diffusi o facendo leva sulla ratio legis, la quale costituisce il ponte che fa da tramite tra l’interpretazione e l’analogia e consente all’ordinamento giuridico di evolvere.

I margini operativi dell’interpretatio, raffrontati con quelli dell’interpretazione, sono, invece, ancora più ampi. La creatività del processo logico collegato all’interpretatio si può, difatti, estendere tanto da far pervenire l’interprete ad esiti così innovativi da prescindere finanche dalla ratio stessa della norma[13]. Giuristi e giudici, nella loro attività creativo/innovativa di interpretatio, ricorrono alle argomentazioni connesse con la contrapposizione, prima retorica e anche poi giuridica, tra verba e voluntas (o sententia) legis[14]. L’argomentazione ex voluntate consente, infatti, di sostenere l’opportunità di un’interpretazione non letterale della legge, sia essa restrittiva oppure estensiva del testo. Forzando la lettera o attribuendo alla voluntas una portata che verosimilmente non aveva nelle reali e originarie intenzioni del legislatore, si giunge a creare fattispecie e a delineare discipline del tutto nuove, con il risultato di far evolvere l’ordinamento giuridico.

Dunque, mentre l’interpretazione è un’attività logico-cognitiva volta a rendere intellegibile e applicabile una disposizione legislativa (in senso lato)[15], nell’interpretatio c’è molto di più, perché è proprio attraverso l’interpretatio che i giuristi hanno contribuito nel corso dei secoli alla creazione di regole nuove e al costante adeguamento dell’ordinamento giuridico romano alla realtà concreta[16].

Date queste premesse e focalizzando la nostra attenzione sulla sola interpretazione della legge e, più in generale, degli atti normativi[17], occorre ora soffermarsi sull’interpretazione della legge nel diritto criminale. Si tratta di un ambito particolare, nel quale, accanto ad un’attività speculativa strettamente giuridica sviluppatasi piuttosto tardi, vale a dire solo a partire dall’età imperiale, l’apporto principale proviene dalle teorie retoriche, fatte proprie e poi anche rielaborate dai giuristi.

Com’è noto, secondo il modello retorico greco risalente ad Ermagora[18] e recepito con taluni adattamenti sia nella Rhetorica ad Herennium sia nel De inventione di Cicerone[19] la controversia giuridica (genus legale) può vertere su quattro questioni interpretative del testo giuridico[20]: a) una parte sostiene un’interpretazione letterale del testo, mentre l’altra richiama la volontà del legislatore (scriptum et voluntas, scriptum et sententia[21]); b) le due parti ritengono applicabili norme tra loro contrastanti contenute o in leggi distinte oppure all’interno della stessa disposizione (antinomia, leges contrariae); c) le parti propongono una diversa interpretazione della medesima legge (ambiguitas); d) una delle parti sostiene la stretta applicazione della legge e l’altra afferma l’esistenza di lacune, che è necessario colmare con il ricorso alla ratio legis (syllogismus, ratiocinatio, collectio). È discutibile, invece, l’inserimento tra gli status legales della definitio, che compare nella Rhetorica ad Herennium[22]e nella rielaborazione della dottrina ermagorea[23] compiuta da Cicerone nel De inventione[24], e della translatio, inclusa tra gli status legales solo nella Rhetorica ad Herennium[25]. Al tempo stesso, va ricordato che le teorie romane di ispirazione aristotelico-peripatetica riducono notevolmente il novero degli status legales, fino ad arrivare a contare solo le leges contrariae e l’ambiguitas, oppure soltanto l’ambiguitas, in cui vengono fatti rientrare anche lo scriptum et voluntas e la ratiocinatio nella sua configurazione topica[26].

Sebbene le teorie retoriche dell’interpretazione della legge (e degli atti negoziali) trovassero applicazione – con regole e tecniche identiche – sia nel campo del diritto privato sia nell’ambito del diritto criminale, l’assenza, almeno fino a tutta l’età repubblicana, di un approfondimento teorico e scientifico da parte dei giuristi circa le problematiche relative al diritto criminale ha fatto sì che l’interpretazione delle leges iudiciorum publicorum e, più in generale, dei provvedimenti in materia penale, fosse oggetto di attenzione principalmente e preliminarmente da parte dei retori.

È noto che, nel corso dell’età repubblicana, l’attività volta all’interpretazione delle leggi istitutive delle quaestiones perpetuae fosse appannaggio degli oratori, i quali seguivano con precisione la topica argomentativa delineata nei manuali di retorica. Ed è anche su questo dato che fanno perno gli studi più recenti relativi al rapporto tra retorica e diritto, nei quali si ipotizza un legame osmotico tra i due ambiti del sapere[27].

Oggetto di questo studio sarà, invece, la discussione di alcuni casi di interpretazione della legge penale, documentati dai giuristi classici mediante l’impiego, più o meno esplicito, delle medesime regole ermeneutiche adottate dagli oratori a partire dall’epoca repubblicana e riconducibili, appunto, alle tecniche retoriche. Per l’età imperiale colpisce subito, infatti, un dato estremamente rilevante rispetto al rapporto tra la retorica e il diritto: molto spesso la giurisprudenza ha attinto alla retorica, tanto sul piano lessicale quanto su quello argomentativo, per esprimere le dinamiche logiche necessarie a sostenere l’interpretazione di un testo giuridico. Resta, tuttavia, ancora molto dibattuta tra gli studiosi la questione relativa alle modalità di assimilazione delle regole e del linguaggio retorico da parte dei giurisperiti, e, cioè, se e fino a quale punto nel trapasso dal sapere retorico a quello giuridico vi sia stato un adattamento che abbia consentito l’elaborazione di canoni interpretativi, i quali, seppur basati sul lessico e sulla logica retorica, avrebbero poi prodotto un’autonoma ed embrionale dottrina dell’interpretazione della legge “propriamente giuridica”[28].

A tal proposito, a partire dal celeberrimo studio di Stroux, Summum ius summa iniuria[29] (che ha aperto la strada a questo nuovo filone di indagine)[30], storici, letterati e giuristi si sono a lungo interrogati su come ed entro quali limiti la retorica antica greca e romana abbia influenzato il pensiero e le argomentazioni dei giureconsulti[31]. Stroux postulò l’esistenza di un nesso tanto profondo tra la retorica e il diritto romano da determinare il totale trapasso della dottrina retorica dell’interpretazione – basata sulla esaltazione della voluntas a discapito dello scriptum e diretta all’applicazione del criterio dell’aequitas – nel campo del diritto. Sebbene l’idea di fondo presente in tale assunto abbia costituito la scintilla per un costante approfondimento, sotto i più disparati angoli visuali, di questo tema, i limiti intrinseci dell’indagine di Stroux sono stati fin da subito posti in rilievo.

Significativa, sia rispetto alla dibattuta questione del rapporto tra retorica e diritto sia circa la discussione dello studio di Stroux, è la recensione pubblicata da E. Levy[32]. Questi, tuttavia, – pur muovendo accese critiche ai risultati cui il filologo perviene (soprattutto in relazione alla esistenza di una sola ed unitaria teoria dell’interpretazione in epoca classica sotto l’influsso di una supposta monolitica dottrina retorica già pienamente sviluppata in età repubblicana), tanto da giungere a conclusioni del tutto opposte circa metodi, tecniche e autonomia dell’interpretazione nel periodo giustinianeo rispetto a quelle di Stroux –, incorre nel medesimo “errore” metodologico, consistente nel rendere l’“interpretazione” un concetto omogeneo, senza valorizzare le varie problematiche sottese alla diversa funzione e ampiezza che l’interpretazione assume nei differenti contesti di impiego[33].

Su posizioni diametralmente opposte a quelle di Stroux è – notoriamente – anche Fritz Schulz. La perentorietà della sua teoria sulla “Isolierung’[34] del diritto romano rispetto agli altri ambiti del sapere appare, tuttavia, sin da subito mitigata proprio con riferimento ai contatti tra la cultura ellenistica e l’esperienza giuridica romana. L’insigne studioso, infatti, ammette che la filosofia e la retorica greca già nel corso dell’epoca repubblicana esercitarono un certo influsso sulla formazione dei giurisperiti e sulla elaborazione di talune dottrine giuridiche. Egli, però, resta fermo nel sostenere che, per quanto l’attività dei retori possa aver in qualche modo costituito uno spunto per i giuristi per interrogarsi circa talune specifiche problematiche, gli approcci adottati dalle due categorie di specialisti non potevano che essere totalmente differenti in virtù della diversa finalità pratica che essi perseguivano[35].

Nonostante i rilievi mossi alla tesi di Stroux, essa ha avuto l’indubbio merito di portare con forza all’attenzione degli studiosi di diritto romano il complesso tema delle interferenze tra la retorica e il diritto, che, come segnalato, risulta essenziale per la comprensione delle tecniche interpretative adottate dai giuristi romani anche nell’ambito del diritto criminale. Il dibattito che ne è risultato ha dato luogo alla pubblicazione di svariati studi con i quali è stato indagato il tema sotto i più disparati angoli visuali, mettendo in luce di volta in volta aspetti nuovi e diversi della controversa relazione tra retorica e diritto romano[36]. Così, sono state approfondite le dinamiche argomentative relative allo status di scriptum et voluntas (sino alla contaminazione con la ratiocinatio), rispetto alle quali si segnalano in particolar modo i due scritti pressoché coevi di Wesel e di Vonglis, le cui conclusioni si pongono quasi come antitetiche rispetto al “quantum” e alle modalità dell’influenza della retorica sulla giurisprudenza[37]. Sotto altro aspetto, sono state oggetto di indagine le tecniche adottate per l’interpretazione dei negozi giuridici[38]. Particolarmente interessante ai fini di questo studio è, inoltre, il saggio di Bauman, dedicato proprio all’interpretazione delle leges iudiciorum publicorum tra repubblica, principato e tardoantico, il cui impianto è fondato per l’appunto sulla contaminazione tra tecniche retoriche e tecniche giuridiche di interpretazione della legge criminale[39].

Un banco di prova delle numerose teorie sin qui elaborate e alle quali ho cursoriamente fatto cenno è proprio costituito dall’ultimo campo di indagine ricordato, relativo alle tecniche di interpretazione dei testi normativi, soprattutto per quel che concerne il diritto criminale.

I canoni retorici di interpretazione – è noto – erano incentrati prevalentemente sulla contrapposizione tra lo scriptum e la voluntas e sulla similitudo (o ratiocinatio), tanto come autonomo status, tanto in funzione topico-argomentativa dello scriptum et voluntas. I retori prima, i giuristi poi, si avvalsero del linguaggio e delle argomentazioni topiche e logiche proprie di questi status legali per ottenere risultati interpretativi analoghi a quelle che oggi comunemente sono definite interpretazione letterale, estensiva, restrittiva e analogia, sebbene – come vedremo – mi sembra forse più opportuno parlare di una “contaminazione” tra la retorica e il diritto, più o meno accentuata in ragione del contesto storico, giuridico e culturale di riferimento, invece che di un’“influenza” dell’una sull’altro.

Quella appena compiuta è chiaramente una scelta espositiva, che si basa sulla consapevolezza che di interpretazione si può parlare con riguardo sia all’oggetto dell’attività sia ai soggetti che la compiono sia, infine, al risultato della stessa. Tuttavia, mi sembra che aderisca maggiormente alle logiche romane la decisione di focalizzare l’attenzione sull’interpretazione degli atti normativi con riferimento alle modalità dell’attività ermeneutica e, dunque, anche ai risultati cui si perviene attraverso il suo impiego. Sono però necessarie ancora due precisazioni. In primo luogo, al fine di rendere più efficace l’esposizione, per ogni tipo di interpretazione (letterale, restrittiva, estensiva e analogica) si porterà un esempio tratto da un testo giurisprudenziale. In secondo luogo, per ogni testo preso in considerazione verranno sottolineati gli eventuali legami con le dottrine retoriche degli status legales.

 

2. Interpretazione ex verbis (oggi “interpretazione letterale”)

 

L’interpretazione letteraletrova posto nelle fonti retoriche sia nei frammenti dedicati alla definitio, sia in quelli aventi ad oggetto la controversia di scriptum e voluntas (nel caso in cui i verba vengano contrapposti tanto ad una voluntas estensiva, tanto ad una voluntas restrittiva del testo scritto)[40]. Il fondamento argomentativo dell’interpretazione letterale è espresso in un noto passaggio del De inventione, nel quale si afferma[41]:

 

  1. inv. 2.44.128: …nam multo propius accedere ad scriptoris voluntatem eum, qui ex ipsius eam litteris interpretetur, quam illum, qui sententiam scriptoris non ex ipsius scripto spectet, quod ille suae voluntatis quasi imaginem reliquerit, sed domesticis suspicionibus perscrutetur.

 

Dunque, nella redazione di un testo, il suo autore ha a monte compiuto le scelte espressive (cor)rispondenti alla propria voluntas. Di conseguenza – sostiene l’Arpinate nel descrivere la topica di chi argomenta ex scripto –, l’interpretazione letterale non soltanto è quella che ovviamente più di tutte rispecchia il significato proprio dei verba legis, ma è anche quella che aderisce maggiormente all’intenzione del redattore, il quale, utilizzando precisi termini, ha “quasi lasciato un’immagine della sua volontà”.

Sul piano lessicale, gli indici terminologici dai quali nei testi giurisprudenziali risulta il richiamo ad un’interpretazione ex verbis sono quelli che nei manuali di retorica compaiono tra i loci utilizzati per sostenere l’argomentazione di chi difende lo scriptum[42]. Così, diviene significativo – come avremo anche modo di verificare nell’esame di D. 40.9.12 Ulp. 4 de adult. – il riferimento ai verba legis, alle previsioni del legis lator[43], alle parole espressamente utilizzate nella redazione della legge.

È utile, a questo punto, procedere con l’esame di un brano riprodotto nei Digesti, al fine di verificare in quale modo il linguaggio e l’argomentazione retorica potevano essere utilizzati nell’attività di interpretazione realizzata dai giuristi classici. Il testo sul quale intendo soffermarmi è tratto dal commento ulpianeo alla lex Iulia de adulteriis:

 

D. 40.9.12 Ulp. 4 de adult.: pr. Prospexit legis lator, ne mancipia per manumissionem quaestioni subducantur, idcircoque prohibuit ea manumitti certumque diem praestituit, intra quem manumittere non liceat. 1. Ipsa igitur quae divertit omnes omnimodo servos suos manumittere vel alienare prohibetur, quia ita verba faciunt, ut ne eum quidem servum, qui extra ministerium eius mulieris fuit vel in agro vel in provincia, possit manumittere vel alienare: quod quidem perquam durum est, sed ita lex scripta est. 2. Sed et si post divortium servum mulier paravit aut alia ratione adquisiit, aeque, quod ad verba attinet, manumittere non poterit: et ita Sextus quoque Caecilius adnotat.

La lex Iulia de adulteriis coercendis, databile probabilmente tra il 18 e il 16 a.C.[44], com’è noto inserì l’adulterium, lo stuprum e il lenocinium tra gli illeciti perseguiti mediante iudicium publicum[45]. Il plebiscito, presentato da Augusto in virtù della tribunicia potestas conferitagli, introdusse nella procedura da seguire per la persecuzione di questo complesso di reati alcune regole particolari, che derogavano a quelle sancite per le altre quaestiones perpetuae. È utile ricordare alcune di queste peculiarità, perché funzionali all’interpretazione di D. 40.9.12 pr.-2 Ulp. 4 de adult.[46]. Per l’adulterio si stabilì che l’accusa potesse essere presentata in via privilegiata dal marito o, in subordine, dal padre dell’adultera (accusatio iure mariti [o viri] vel patris)[47] entro sessanta giorni dal divortium[48], e, solo decorso inutilmente tale lasso di tempo, da un quivis de populo (accusatio iure extranei)[49], nel termine di quattro mesi[50]. Oltre a questa speciale regolamentazione della legittimazione all’accusa[51], un’altra caratteristica particolare consisteva nella deroga al principio secondo il quale gli schiavi non potevano essere sottoposti a tortura per deporre contro i propri domini[52].

È proprio alla luce di queste due disposizioni, dettate specificamente per l’adulterium, che va letto il principium di Ulp. 4 de adult. D. 40.9.12. Il giurista ricorda, infatti, che il legis lator introdusse il divieto di manomettere gli schiavi, affinché non venissero sottratti alla tortura, e fu dunque fissato un termine entro il quale “manumittere non liceat”. Tale termine venne individuato dal legis lator in sessanta giorni dal divorzio[53], così come risulta dai verba legis Iuliae richiamati in C. 9.9.3 (a. 213)[54].

Colpisce subito una circostanza: l’arco temporale indicato come periodo entro cui non era lecito manomettere i servi coincideva con il periodo nel quale l’accusatio era riservata al marito e al padre dell’adultera. Dunque, per un verso i verba legis avevano derogato al principio in base al quale gli schiavi non potevano essere torturati per testimoniare contra dominos; per l’altro il legis lator aveva reso più efficace questa disposizione eccezionale, vietando l’alienazione e la manomissione dei servi, così che non potessero essere fraudolentemente sottratti alla tortura da parte della donna imputata di adulterio. Ma tale “vantaggio” istruttorio era diretto ad agevolare la sola posizione degli accusatori privilegiati, a ulteriore riprova di un atteggiamento di evidente favore verso questi ultimi[55]. Nel lungo brano ulpianeo, in effetti, con precisione e con continui richiami ai verba legis, sono indicati entro quali limiti e a quali persone fosse interdetta la manumissio dei servi, alla luce di un’attività di interpretazione della legge il più possibile aderente, nelle intenzioni del giurista, allo scriptum.

La donna divorziata[56] non poteva manomettere o alienare[57] nessuno dei suoi schiavi. I verba legis, dice Ulpiano, stabilivano un divieto assoluto, riferito anche ai servi non destinati al servizio della donna o che si trovavano in provincia o in campagna. Il commento del giureconsulto, rispetto alla rigidità e all’ampiezza del divieto, è particolarmente efficace nel richiamo alla scriptura legis[58]: “quod quidem perquam durum est, sed ita lex scripta est[59]. Nella prima parte del brano, dunque, Ulpiano, per quanto consapevole della severità dei verba legis, sosteneva che la disposizione emanata dal legis lator non fosse suscettibile di alcuna interpretazione che si discostasse da ciò che era stato espressamente sancito.

La regola era tanto inderogabile da non ammettere alcuna eccezione, al punto che – proseguiva Ulpiano, invocando pure l’autorità di Africano –, stando al tenore dei verba legis, finanche gli schiavi acquistati (o ottenuti il qualunque altro modo) dopo il divortium non avrebbero potuto ottenere la manomissione dalla mulier.

Prospexit legis lator[60], “ita verba faciunt”, “ita lex scripta est”, “quod ad verba attinet” sono tutte espressioni che richiamano il concetto retorico di interpretazione ex verbis, in adesione al testo normativo[61]. Possiamo però notare una differenza tra il primo e il secondo paragrafo. Nel primo, infatti, il tenore del testo consente di ipotizzare che Ulpiano stesse riferendo proprio le parole della legge; nel secondo, invece, ci troveremmo di fronte ad una reale attività ermeneutica dei verba legis, dalla cui interpretazione letterale il giurista non intende discostarsi. Che il caso dei servi acquisiti in un momento successivo al divorzio non fosse stato espressamente contemplato dalla lex Iulia, ma sia stato frutto di un’interpretazione del testo, è confermato dal riferimento alla conforme annotazione di Africano: se la legge avesse previsto in modo esplicito che il divieto avesse dovuto trovare applicazione anche rispetto a quegli schiavi, Ulpiano non avrebbe avuto motivo di invocare a sostegno della sua affermazione pure l’autorità di Africano, in quanto sarebbe stato sufficiente richiamare, come fatto in precedenza, i verba legis. Il giurista, invece, mediante l’impiego dell’incidentale“quod ad verba attinet” aveva reso esplicito che l’affermazione che leggiamo nel § 2 era il risultato di un’interpretazione che oggi definiremmo letterale. Verosimilmente, dunque, Ulpiano stava interpretando quell’“omnes omnimodo servos suos” presente nel principium: l’avverbio omnimodo esprimeva l’impossibilità di ammettere una qualsivoglia eccezione rispetto all’oggetto del divieto e dunque qualunque servus appartenente alla mulier, indipendentemente dal tempo e dalle modalità del suo acquisto, non sarebbe potuto essere efficacemente manomesso (o alienato).

 

3. Interpretazione ex sententia: l’eccezione alla legge (oggi “interpretazione restrittiva”)

 

D. 40.9.14 Ulp. 4 de adult.: pr. Sed si maritus intra sexagesimum diem decesserit, an manumittere vel alienare iam possit supra scriptas personas, videamus. et non puto posse, quamvis accusatore mulier deficiatur marito, cum pater accusare possit. 1. Et simpliciter quidem lex mulierem prohibuit intra sexagesimum diem divortii manumittere. 2. Sive autem divertit sive repudio dimissa sit, manumissio impedietur. 3. Sed si morte mariti solutum sit matrimonium vel aliqua poena eius, manumissio non impedietur. 4. Sed et si bona gratia finierit matrimonium, dicetur manumissionem vel alienationem non impediri.

 

Che alla mulier fosse inderogabilmente vietata la manumissio di ogni schiavo entro i sessanta giorni dal divorzio, come già osservato nel paragrafo precedente, era un precetto che trovava conferma anche in D. 40.9.14 Ulp. 4 de adult., brano posto da Lenel immediatamente dopo D. 40.9.12 Ulp. 4 de adult., nel quarto libro ad legem Iulia de adulteriis, sotto il titolo De quaestione servorum 2[62]. Il collegamento tra i due frammenti è palese. Nel fr. 14, infatti, Ulpiano continuava la discussione sulle possibili eccezioni al divieto di manomissione dei servi[63], confermando la sua propensione per un’interpretazione letterale della legge. Così, dal principium delfr. 14 apprendiamo che il giureconsulto ribadiva che la liberazione del servus restava interdetta per l’intero periodo di sessanta giorni, anche qualora il marito divorziato fosse nel frattempo deceduto; ciò accadeva perché – spiegava Ulpiano – il pater avrebbe potuto decidere ancora di presentare l’accusa, anch’essa privilegiata rispetto a quella proponibile dall’exstraneus, sebbene subordinata all’accusatio iure mariti[64]. Tanto risultava dalla legge stessa, che “simpliciter”vietava la manumissio nei sessanta giorni successivi al divorzio (§ 1).

È a questo punto, però, che il fulcro della discussione, sino ad allora incentrata sull’estensione del divieto rispetto a tutti gli schiavi o solo ad alcuni di essi, si sposta verso un altro elemento essenziale della disposizione legislativa, vale a dire l’atto giuridico dal quale scaturiva il divieto stesso. Ulpiano chiariva, infatti, che tanto il divortium quanto il repudium determinavano l’insorgere del divieto (§ 2). Un ragionamento analogo e speculare valeva anche per il caso in cui lo scioglimento del vincolo matrimoniale fosse stato determinato dalla morte del marito o dalla sua condanna ad una sanzione da cui fosse conseguito tale effetto giuridico. Il giurista affermava che in queste ipotesi la liberazione dello schiavo non era impedita (§ 3). Si trattava ancora una volta di un’interpretazione letterale delle disposizioni della lex Iulia, che imponevano appunto il divieto di manumissio alle sole donne divorziate[65].

Un’interpretazione restrittiva del provvedimento era, invece, proposta da Ulpiano nel passaggio successivo, in cui il giureconsulto circoscriveva la portata dell’impedimento ai soli divorzi presumibilmente connessi al crimen adulterii[66]. Si afferma, difatti, che, qualora il divortium fosse stato bona gratia[67], non sarebbero state vietate né la liberazione né l’alienazione degli schiavi. Ulpiano, dunque, interpretava il riferimento al divortium, contenuto del testo della lex Iulia in relazione al dies a quo da cui decorrevano i sessanta giorni di durata del divieto, come divorzio per così dire “addebitabile” alla donna e pertanto escludeva che la limitazione alla libertà dispositiva della stessa potesse essere considerata giustificata qualora il divorzio fosse stato bona gratia, vale a dire con esclusione della colpa di uno dei coniugi[68].

Il giurista, perciò, riteneva che nel caso di divortium bona gratia la lex Iulia avrebbe dovuto essere interpretata dando rilievo non ai verba legis, bensì alla sententia. Il processo logico-interpretativo alla base di questo procedimento ermeneutico è ben descritto da Quintiliano nell’Insitutio oratoria[69]:

 

Quint. inst. or. 7.6.8: Tertium cum in ipsis verbis legis reperimus aliquid per quod probemus aliud legum latorem voluisse, ut in hac controversia: “qui nocte cum ferro deprensus fuerit, alligetur: cum anulo ferreo inventum magistratus alligavit”; hic, quia est verbum in lege “deprensus”, satis etiam significatum videtur non contineri lege nisi noxium ferrum[70].

 

Il retore esponeva le possibili argomentazioni che colui il quale sosteneva l’applicazione ex voluntate di una legge poteva utilizzare contro lo scriptum, suddividendole in tre gruppi[71]. Di nostro interesse è il terzo, in cui Quintiliano prendeva in considerazione l’eventualità che dalla legge stessa risultasse un elemento che induceva l’interprete a restringerne l’applicazione in ossequio alla voluntas del legis lator. L’esempio addotto era quello della disposizione che prevedeva l’imprigionamento di chi fosse stato sorpreso di notte con un “ferro”. Un uomo venne trovato di notte con un anello di ferro e il magistrato lo imprigionò. Il retore osservava che nella legge si utilizzava “deprensus”, “sopreso”, e pertanto era abbastanza evidente che la legge facesse riferimento ad un “ferro” in grado di offendere e non a qualunque “ferro”.

A ben guardare, l’interpretazione restrittiva di Ulpiano si muove nel solco tracciato da Quintiliano: non ogni divorzio faceva scattare il divieto di manomissione, ma solo quelli per i quali era presumibile la responsabilità della donna per adulterium. Tanto si ricavava dalla legge stessa, la quale collegava il divieto di disporre dei servi alla possibilità concessa agli accusatori privilegiati di richiedere la quaestio servorum. Se non ricorrevano i presupposti per un’accusa iure mariti vel patris e per la tortura degli schiavi, poiché non vi era alcun crimen adulterii da contestare alla donna, allora era proprio in virtù della lettura complessiva della legge che poteva essere individuata la voluntas del legis lator e, conseguentemente, avallata l’eccezione alla legge.

 

4. Interpretazione ex sententia: l’estensione della legge (oggi “interpretazione estensiva”)

 

  1. 48.16.1.13 Marcian. l. sing. ad sc. Turpill.: Incidit in hoc senatus consulto et qui accusatorem summittit aut instigat, aut qui mandat alicui et instruit eum ad accusationem capitalem dando probationes, allegando accusationes: et merito: nam diffidendo crimini quod movet et eximendo se periculo calumniae vel desertionis merito calumniantis et desistentis poenae subdi debuit, nisi subornatus accusator probaverit crimen quod intendere suscepit. nec interest, per se mandavit accusationem an per alium: verum hunc, qui hoc ministerio usus est ad mandandam accusationem, non ex verbis, sed ex sententia senatus consulti puniri Papinianus respondit. summissus enim accusator similiter eodem senatus consulto plectitur, id est propter hoc solum punitur, quod ministerium alieni timoris recepit.

 

Una lex Remnia de calumniatoribus, del I sec. a.C.[72], disciplinò in maniera specifica il reato di calumnia[73], prevedendo sanzioni a carico dell’accusatore che avesse promosso un giudizio penale nei confronti di un’altra persona con la consapevolezza della sua innocenza. All’esito del processo, una volta assolto il reus ingiustamente e pretestuosamente imputato, l’accusator veniva a sua volta processato de calumnia dinanzi alla medesima quaestio[74]. Sulla lex Remnia intervennero, estendendone l’ambito applicativo, l’oratio Claudii de aetate recuperatorum et de accusatoribus coërcendis (della metà del I sec. d.C.)[75] e, soprattutto, il senatus consultum Turpillianum del 61 d.C.[76]. Il senatoconsulto, il cui testo è parzialmente ricavabile da quanto residua dei due commenti scritti da Paolo[77] e da Marciano[78], conservati nei Digesti, fu oggetto di una vivace attività interpretativa ad opera della giurisprudenza classica, di cui costituisce un interessante esempio D. 48.16.1.13 Marcian. l. sing. ad sc. Turpill.[79]. Nel testo Marciano informava del fatto che, stando ai verba senatus consulti, commetteva crimen calumniae anche chi induceva un altro a presentare un’accusa senza fondamento. Più precisamente, il senatoconsulto stabiliva che fosse perseguibile, una volta dichiarata infondata l’accusa: a) chi avesse istigato l’accusatore; b) chi avesse dato mandato a qualcuno di presentare un’accusa capitale, fornendo prove e allegando fatti; c) colui che avesse desistito dall’accusa per sfuggire all’imputazione per calumnia. Era, altresì, irrilevante – e si deve a Papiniano questa interpretazione estensiva ex sententia senatus consulti – se il mandante avesse agito personalmente o servendosi di altri per istigare qualcuno a presentare un’accusa che sapeva essere destituita di ogni fondamento.

Il responso papinianeo a cui Marciano si riferiva è conservato in

 

D. 48.19.34.1 Pap. 16 resp.: Eos quoque poena delatoris ex sententia senatus consulti teneri respondi, qui per suppositam personam delatori causam dederunt[80].

 

Sul piano esegetico, l’aspetto più rilevante che emerge dal raffronto dei due brani sta nella sostituzione di delator, presente nel parere di Papiniano, con accusator, termine utilizzatonel commento marcianeo. Sembra, però, ormai accettata in letteratura la sostanziale sinonimia, almeno in questo contesto, dei due lemmi[81].

Il ragionamento di Marciano circa l’opportunità dell’estensione delle disposizioni del senatoconsulto Turpilliano ci risulta dalla frase conclusiva del paragrafo: “summissus enim accusator similiter eodem senatus consulto plectitur, id est propter hoc solum punitur, quod ministerium alieni timoris recepit. La scelta di agire per suppositam personam è dettata dal timor del mandante. Evidentemente, agli occhi dei due giureconsulti l’intento perseguito con il senatoconsulto – chiaro, ancorché inespresso, e pertanto da considerare come immutabile (Cic. inv. 2.42.122: “…semper ad idem spectare et idem velle…”) – era di non consentire di sfuggire alla sanzione prevista per la calumnia a chi avesse dato mandato a un intermediario di istigare l’accusator, solo perché questa specifica ipotesi non era stata prevista dal senatoconsulto. Dal punto di vista retorico, tale applicazione, che definiremmo estensiva, dello status scripti et voluntatis rientra, dunque, nel caso previsto da Quintiliano ed adattato alla causa Curiana (la cui vicenda, sotto il profilo giuridico, è difficilmente incasellabile nella categoria “interpretazione estensiva” oppure “analogia”) in cui “voluntas manifesta sit, scriptum nihil sit[82].

Non siamo neanche lontani dal meccanismo logico-interpretativo che Paolo e Ulpiano riconducono, con sfumature parzialmente diverse, alla fraus legi[83]:

 

D. 1.3.29 Paul. l. sing. ad l. Cinc.: Contra legem facit, qui id facit quod lex prohibet, in fraudem vero, qui salvis verbis legis sententiam eius circumvenit.

 

D. 1.3.30 Ulp. 4 ad ed.: Fraus enim legi fit, ubi quod fieri noluit, fieri autem non vetuit, id fit: et quod distat ῥητὸνἀπὸδιανοίας, hoc distat fraus ab eo, quod contra legem fit.

 

Se l’applicazione rigida dei verba legis consente un certo comportamento, ma è chiaro che quella condotta viola l’intento perseguito dalla legge, allora il compimento dell’atto è da considerarsi in fraudem legis[84]. Ulpiano ricollega espressamente questo concetto con quello di matrice retorica esplicitato da Quintiliano in inst. or. 7.6.9 e poco sopra richiamato[85].

 

5. Interpretazione ex sententia: l’estensione della legge (oggi “analogia”).

 

Il passaggio dall’interpretazione estensiva all’analogia è molto breve. Già i retori ne erano ampiamente consapevoli, tanto che la valenza raziocinativa dello status scripti et voluntatis era stata segnalata da Cicerone nelle sue opere più mature[86]. Lo stesso Quintiliano, nel I sec. d.C., e poi, sulla scorta dell’Institutio oratoria, anche altri maestri di retorica dell’età imperiale si erano espressi evidenziando l’accostamento tra la ratiocinatio e lo scriptum et voluntas dal punto di vista della topica argomentativa basata sull’eadem ratio e sull’aequitas[87]. Dunque, l’estensione della legge prodotta dal ricorso alla voluntas può alternativamente condurre – richiamando la terminologia e le definizioni adottate nella dogmatica moderna – al risultato di un’interpretazione estensiva o di un’applicazione analogica del provvedimento esaminato. Che il margine tra i due processi ermeneutici sia labile e diventi ancora più indefinito quando dalla definizione teorica si passa alla pratica è noto, e gli esempi che possiamo ricavare dalle fonti retoriche e giurisprudenziali romane ne sono una viva testimonianza. La stessa circostanza che al medesimo status vengano ricondotti i due risultati interpretativi ne è una prova efficace[88].

È chiaro che, date queste considerazioni preliminari, incasellare nella colonna “interpretazione estensiva’ o in quella “analogia” una fattispecie descritta in un testo giurisprudenziale attraverso il richiamo alla voluntas del legis lator è un’operazione alquanto incerta e che difficilmente può condurre a risultati incontrovertibili e inattaccabili. Tuttavia, a voler ragionare con la lente (per forza di cose deformante) del giurista moderno, un esempio di analogia, attuato attraverso l’ampliamento dell’ambito applicativo di una disposizione sanzionatoria criminale ex voluntate legis nella sua configurazione raziocinativa, potrebbe essere rappresentato da:

 

D. 48.9.3 Marcian. 14 inst.: Sed sciendum est lege Pompeia de consobrino comprehendi, sed non etiam eos pariter complecti, qui pari propioreve gradu sunt. sed et novercae et sponsae personae omissae sunt, sententia tamen legis continentur.

 

La fattispecie presa in considerazione dal giurista è la seguente. Nel 55 a.C. la lex Pompeia de parricidiis aveva ampliato il numero delle ipotesi originariamente riconducibili al parricidium[89], ricomprendendovi anche l’uccisione degli stretti congiunti. I testi giurisprudenziali ci consentono di ricostruire, con non poche incertezze, il contenuto dispositivo del provvedimento[90]. Venuleio Saturnino, commentando la legge, indicava come parricidi coloro i quali avessero ucciso “parentes cognatosve aut patronos[91]. Verosimilmente il giurista con questa espressione aveva sintetizzato il contenuto ben più analitico della lex Pompeia[92], e che invece ricaviamo da

 

D. 48.9.1 Marcian. 14 inst.: Lege Pompeia de parricidiis cavetur, ut, si quis patrem matrem, avum aviam, fratrem sororem patruelem matruelem, patruum avunculum amitam, consobrinum consobrinam, uxorem virum generum socrum, vitricum, privignum privignam, patronum patronam occiderit cuiusve dolo malo id factum erit, ut poena ea teneatur quae est legis Corneliae de sicariis. sed et mater, quae filium filiamve occiderit, eius legis poena adficitur, et avus, qui nepotem occiderit: et praeterea qui emit venenum ut patri daret, quamvis non potuerit dare.

 

e da

 

Paul. Sent. 5.24: Lege Pompeia de parricidiis tenentur qui patrem matrem avum aviam fratrem sororem patronum patronam occiderint, etsi antea insuti culleo in mare praecipitabantur, hodie tamen vivi exuruntur vel ad bestias dantur.

 

I due elenchi[93], sulla cui genuinità sono stati sollevati dei dubbi[94], individuano (con alcune lacune) la doppia linea, maschile e femminile, di soggetti ricompresi nella previsione legislativa. La logica originaria sembra ispirata alla struttura tradizionale della famiglia, tanto che era considerato parricidio l’uccisione degli ascendenti e di alcuni collaterali e non anche l’omicidio dei discendenti[95]. Fu Marciano ad integrare l’elenco, interpretandolo analogicamente, come risulta dalla parte finale di D. 48.9.1 Marcian. 14 inst. È questa la premessa argomentativa che portò, poi, il giurista, in D. 48.9.3 Marcian. 14 inst., a prendere atto dell’omissione legislativa riguardante i parenti di pari grado rispetto ai consobrini e ad osservare subito dopo che, sebbene non comparissero neanche le novercae e le sponsae, il loro inserimento sarebbe risultato comunque conforme alla sententia della lex Pompeia.

Se, da un punto di vista esegetico, non pochi dubbi solleva l’inclusione della sponsa, che potrebbe essere ascritto all’opera di compilatori giustinianei e non alla mano di Marciano[96], è invece verosimile che l’estensione della lex Pompeia alla noverca sia stata realmente elaborata da Marciano. Il giureconsulto, infatti, potrebbe aver inteso ristabilire il parallelismo perfetto nella linea maschile e femminile dei soggetti indicati dalla legge, che risultava invece spezzato laddove accanto al vitricus non compariva la noverca. Si tratta, come rilevato da Wesel[97], di un’interpretazione analogica basata sul topos del casus omissus (Quint. inst. or. 7.8.6-7[98]). I retori, pur consapevoli della sovrapponibilità degli status raziocinativoe di scriptum et voluntas nell’accezione estensivo/analogica inserirono il casus omissus nel syllogismus; al contrario i giureconsulti si servirono della nomenclatura dello scriptum et sententia. Ed è questa la ragione per la quale nel caso in esame Marciano, sebbene richiamasse la sententia legis Pompeiae, descriveva di fatto un’operazione ermeneutica riconducibile sul piano teorico alla ratiocinatio.

 

6. Ratiocinatio/collectio/syllogismus: l’analogia

 

L’ultima ipotesi che occorre prendere in considerazione è quella che le fonti retoriche di ispirazione ermagorea riconducono al processo topico della ratiocinatio (o syllogismus o ancora collectio), nella sua configurazione autonoma rispetto alla funzione argomentativa dello scriptum et voluntas[99]. Il risultato interpretativo/creativo determinato dall’adozione dei loci di questo status è assimilabile alla moderna analogia[100] e, come risulta dai testi retorici, colui il quale sostiene l’adozione del procedimento raziocinativo deve basare la sua determinazione su taluni presupposti che ancora oggi sono richiamati a sostegno dell’adozione del processo analogico. Si tratta in particolar modo della constatazione della sussistenza di due condizioni – vale a dire di una lacuna legislativa da colmare e dell’identità di ratio tra la fattispecie disciplinata e quella omessa[101] – e della individuazione di una ragione a monte, considerata quale elemento giustificativo sul piano giuridico del ricorso all’analogia, vale a dire l’aequitas[102].

Exemplum” è uno dei più diffusi termini indicativi del sillogismo, come risulta, sul versante retorico, da Quintilino[103], mentre nei testi giuridici ricorrono normalmente espressioni quali “ad exemplum legis”, “perinde… ac si[104], “quasi”, “simile”, “similiter[105]. E proprio il riferimento all’”exemplum legis[106], specificamente in relazione alla lex Aquilia, è l’indice del richiamo al ragionamento analogico prospettato da Marciano, sulla base di un rescritto di imperiale, conservato in:

 

D. 48.15.3.1 Marcian. 1 iudic. publ.: Illud non est omittendum, quod exemplo legis Aquiliae, si is, propter quem quis in Fabiam commisit, decesserit, adhuc accusatio et poena legis Fabiae superest, ut et divus Severus et Antoninus rescripserunt.

 

Il testo, estratto dai libri de iudiciis publicis di Marciano[107], è inserito dai Compilatori giustinianei nel titolo dei Digesta dedicati al crimen plagii. L’illecito[108] fu introdotto presumibilmente nel I sec. a.C.[109] da una non meglio identificata lex Fabia (forse de plagio o de plagiariis)[110]. La lex Fabia perseguiva, probabilmente con una multa[111], l’asservimento di un cittadino romano e l’abusivo esercizio della potestà dominicale su un servo non proprio[112]. Il testo di Marciano del quale dobbiamo occuparci è dedicato ad un particolare aspetto procedurale, evidentemente non previsto espressamente dalla legge Fabia, e su cui intervennero Settimio Severo e Caracalla con un rescritto di cui non abbiamo traccia, se non per le parole riportate dal nostro giurista in D. 48.15.3.1 Marcian. 1 iudic. publ.

Marciano ricorda, infatti, che Settimio Severo e Caracalla previdero con un rescritto che l’accusa ex lege Fabia potesse essere esperita – e la conseguente pena irrogata – anche nell’ipotesi in cui “is, propter quem quis in Fabiam commisit, decesserit”; e ciò era stato deciso proprio “exemplo legis Aquiliae”. Il testo marcianeo, che presenta indubbiamente alcune pecche stilistiche denuncianti un intervento successivo ad opera dei bizantini[113], contiene, tuttavia, un principio che mi pare possa essere considerato genuino, anche nella forma espressiva utilizzata.

In primo luogo, vediamo allora cosa è affermato da Marciano, per poi soffermarci sugli aspetti stilistici. Il giurista severiano ricorda che, come stabilito in un rescritto pressoché coevo alla stesura dei libri de iudiciis publicis, anche qualora il servo vittima di plagio sia nel frattempo deceduto, resta intatta la possibilità di esperire l’accusatio legis Fabiae[114], sulla base di un’estensione analogica delle regole previste dalla lex Aquilia. Dal punto di vista della scrittura, G. Longo ha segnalato l’interpolazione “quanto meno in senso completativo[115] della frase di apertura del § 1, pur ammettendo che probabilmente il testo già conteneva il riferimento al rescritto imperiale. Lo studioso ritiene, infatti, insiticia tutta la prima parte del periodo (“Illud non est omittendum, quod exemplo legis Aquiliae”). Se così fosse, ferma restando la genuinità del principio espresso dal giurista, verrebbe meno dal punto di vista espressivo il nostro “indice” del ragionamento analogico. In effetti, però, a ben vedere, mentre mi sembra che possano esserci pochi dubbi circa l’inserimento da parte dei giustinianei della proposizione introduttiva (“Illud non est omittendum”), non altrettanto vale per il riferimento all’applicazione ad exemplum della lex Aquilia. L’argomentazione di G. Longo – peraltro piuttosto scarna, in quanto marginale rispetto al tema che lo studioso stava trattando – si fonda, difatti, sulla considerazione che sarebbero interpolati i testi nei quali compaiono le due espressioni in esame[116]. Tuttavia, proprio “exemplum legis” è espressione che, oltre ad essere ricorrente nei Digesta[117], risulta comunemente impiegata dalla cancelleria imperiale al fine di esplicitare il procedimento di interpretazione/creazione del diritto attraverso il quale si può produrre una norma generale e astratta in un sistema giuridico di tipo casistico[118]. Mi sembra, in conclusione, che possa essere affermata la genuinità di quel passaggio. Conseguentemente resta confermato il riferimento alla tecnica analogica anche rispetto ai provvedimenti normativi in materia criminale.

Su questo aspetto occorre fare alcune precisazioni. In primo luogo, l’analogia, in ambito retorico, si può realizzare sia internamente al provvedimento normativo sia esternamente ad esso. Sono proprio i retori classici ad introdurre il tema e a risolverlo ipotizzando due diversi contesti applicativi[119], che trovano poi riscontro anche nei testi giuridici. Il primo è quello nel quale la lex non prevede una fattispecie concreta che l’interprete, perciò, riconduce alle previsioni normative mediante analogia rispetto alla fattispecie astratta descritta dal legislatore. Attraverso questa modalità creativa l’interprete ottiene, quindi, il risultato pratico di dilatare i confini descrittivi della disposizione normativa[120]. È questo il caso, ad esempio, del crimen maiestatis nel commento di Modestino conservato in D. 48.4.7 Mod. 12 pand.[121]. In particolare, nel § 3, leggiamo l’affermazione del giurista secondo cui il crimen maiestatis va perseguito tanto sulla base della “scriptura”della lex Iulia quanto “ad exemplum legis[122]. Pertanto, ad essere estese analogicamente sono le disposizioni della stessa lex Iulia maiestatis, che trovano applicazione, secondo Modestino anche oltre l’espressa previsione normativa, purché sulla base di un procedimento interpretativo che oggi chiameremmo “analogia”.

Il secondo spazio operativo della collectio è, poi, quello che Quintiliano riconduce ai casi in cui ad essere applicata analogicamente è una disposizione “simile” – e dunque “esterna” rispetto – a quella che contempla il caso prospettato[123], come nel passo di Marciano che abbiamo appena esaminato. Si può osservare, infatti, che Marciano – sulla base del rescritto di Severo e Caracalla – non espande il dettato della lex Fabia, bensì applica al plagium una disposizione della lex Aquilia nei limiti in cui nelle due situazioni prese in considerazione (l’una disciplinata e l’altra no) sia riconoscibile l’eadem ratio.

Un’ulteriore precisazione va fatta rispetto al rapporto tra il rescritto e il testo di Marciano. Posto che non ci è stato conservato il testo della costituzione[124], è verosimile dal tenore di D. 48.15.3.1 Marcian. 1 iudic. publ. che già la cancelleria avesse utilizzato il riferimento all’exemplum legis Aquiliae per motivare la sua decisione, esplicitando il ricorso al ragionamento sillogistico. Quindi, osserviamo come l’analogia potesse operare in ambito sia giurisprudenziale sia “legislativo”, acquisendo un’efficacia tanto interpretativa del diritto quanto creativa e finanche normativa[125].

 

7. Osservazioni conclusive

 

È ora il momento di sviluppare alcune brevi osservazioni conclusive, ricapitolando i risultati sin qui emersi.

Rispetto al problema di carattere preliminare relativo al discusso rapporto tra la retorica e il diritto romano, e più in particolare il diritto criminale, circa le tecniche di interpretazione della legge, dall’esame dei testi appena svolto è possibile avanzare qualche ipotesi, pur con la premessa che, come è stato diffusamente sottolineato dagli studiosi che si sono occupati di questo tema a partire dalla seconda metà del secolo scorso, non è possibile né dare una risposta definitiva all’annoso quesito, né tantomeno individuare una soluzione valida per ogni epoca storica e per tutti i giuristi[126]. Proprio il banco di prova dell’interpretazione della legge penale dimostrerebbe, però, che non si può escludere né contenere in margini angusti l’apporto quantomeno culturale della retorica alla formazione dei giuristi classici, apporto più o meno marcato in funzione del periodo storico e del contesto geografico di riferimento e della personalità di ciascun giurista[127]. Più che di influenza della retorica sul diritto, tuttavia, potrebbe forse essere preferibile parlare di interferenza della retorica rispetto al diritto. Nel loro percorso di formazione i giureconsulti studiavano la retorica e le tecniche sviluppate dai retori per l’interpretazione della legge e degli atti negoziali. Di certo i iuris periti assimilarono il linguaggio proprio dell’oratoria, e ve n’è ampia testimonianza nei frammenti conservati nei Digesta. Tuttavia, essi – ognuno di essi – ha fatto proprie, rielaborandole, le regole enunciate nei manuali di retorica e così il trapasso da un sapere all’altro non si è compiuto pienamente, al punto che si può parlare dell’elaborazione di regole propriamente giuridiche – e non più soltanto retoriche – di interpretazione della legge. Ciò non toglie che la forza espressiva del linguaggio retorico abbia contribuito a riempire di contenuto le affermazioni dei giuristi e che il modo di pensare e di ragionare dei giureconsulti – e verosimilmente anche della cancelleria imperiale di cui molti di essi facevano parte – sia stato ispirato alle argomentazioni esposte nei manuali di retorica.

Da questo punto di vista, è significativa la lettura del titolo 3 del primo libro dei Digesta, “de legibus senatusque consultis et longa consuetudine”, in cui i compilatori bizantini hanno raccolto quelle che sono poi divenute le massime giustinianee dell’interpretazione degli atti normativi. Pur estrapolate dal loro contesto originario, si tratta comunque di principi che, per quanto dettati spesso con riferimento a questioni del tutto peculiari, per molti versi consentono di ricostruire una latente teoria generale dell’interpretazione giuridica[128].

C’è poi un ulteriore aspetto del tutto particolare relativo all’interpretazione della legge penale nel diritto romano che agli occhi del giurista moderno può stridere. Si tratta della possibilità di ricorrere all’analogia per colmare le lacune presenti nelle disposizioni dettate in materia criminale. Possibilità esclusa dalla maggior parte dei moderni ordinamenti giuridici, in ossequio ad una delle applicazioni pratiche del principio espresso dalla massima di matrice illuministica nullum crimen sine lege[129], e invece ammessa – con margini operativi più o meno ampi a seconda del contesto storico-politico-costituzionale – per tutto l’arco dell’esperienza giuridica romana[130].

Per quanto attiene all’epoca repubblicana, il confronto interpretativo tra gli oratores nello svolgimento dei processi incardinati dinanzi alle quaestiones perpetuae ci è ampiamente testimoniato dalle opere di Cicerone. I topoi argomentativi degli status di scriptum et voluntas e della ratiocinatio erano gli strumenti a disposizione dell’accusa e della difesa per riuscire a persuadere le corti giudicanti della colpevolezza o dell’innocenza dell’imputato[131]. L’esito del processo produceva, sul piano giuridico, un duplice effetto: processuale e sostanziale. Sotto l’aspetto processuale il convincimento della giuria in un senso o nell’altro determinava in capo al reus l’emanazione della sentenza di condanna o di assoluzione. Ma per noi ben più rilevanti sono le ripercussioni sul diritto sostanziale. L’accoglimento da parte dei giurati di una proposta interpretativa a discapito dell’altra, seppur indotta da argomentazioni prevalentemente retoriche, consentiva di rideterminare i caratteri definitori delle fattispecie criminali, molto spesso estendendo la portata delle disposizioni normative a casi non previsti e ad esse riconducibili tramite analogia[132], oppure di applicare per analogia regole processuali previste per alcuni illeciti (pubblici o privati) a ipotesi criminose per le quali nulla al riguardo era stato stabilito.

Ma è proprio il passaggio all’epoca classica a determinare il momento di svolta più rilevante sul piano giuridico. Infatti, solo in questo periodo i giuristi cominciarono ad interessarsi al diritto criminale e ad appropriarsi, anche rispetto ad esso, delle tecniche interpretative che fino ad allora erano state appannaggio quasi esclusivo degli oratori che dibattevano al cospetto delle giurie delle quaestiones. Il mutamento di prospettiva ebbe ripercussioni anche sulle fonti di produzione del diritto criminale. Ferma restando la produzione del diritto attraverso l’emanazione di leges, plebiscita e senatusconsulta[133], nell’ultimo scorcio dell’età repubblicana l’interpretazione creativa tramite sillogismo delle leggi di diritto criminale avveniva ad opera degli oratori nel corso dei processi, e da lì, attraverso una costante prassi forense, si stabilizzava e poteva continuare ad essere applicata alla stregua di “precedente”. Inoltre, quell’interpretazione oramai costante poteva essere recepita, a livello normativo, da un nuovo provvedimento[134]. Nel corso del principato, invece, l’interpretatio legis (e iuris) giurisprudenziale venne esercitata anche nel campo del diritto criminale e non più solo rispetto al diritto privato, con la conseguenza che la produzione di nuovo diritto, attraverso l’analogia, espressa con il richiamo alla voluntas legis o all’exemplum legis, non necessitò più dell’irrinunciabile intermediazione di una stabile prassi forense e si sviluppò, come per il diritto privato, per mezzo dell’attività giurisprudenziale a cavallo tra l’ermeneutica e la nomopoiesi[135].

 

Abstract: The topic of the interpretation of law and the use of analogy in Roman law, and in particular in Roman criminal law, is necessarily entwined with the – complex and debated – subject of the relationship between rhetoric and law. Through the examination of some jurisprudential texts on matters of criminal law, an attempt was made to highlight the use, by classical jurists, of the terminology and techniques of rhetoric, with particular regard to the status of scriptum et voluntas and ratiocinatio. This would confirm the close link between rhetoric and law, so that we can hypothesize a sort of contamination between rhetorical techniques and juridical techniques of legal interpretation.

 

Keywords: interpretation, analogy, Roman criminal law, scriptum et voluntas, ratiocinatio

* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

**Questo contributo è frutto degli incontri dei Seminari romanistici organizzati a Bressanone da L. Garofalo e P. Lambrini e comparirà pertanto anche nel volume a loro cura (dal titolo Principi e vitalità del diritto penale romano Parte generale).

[1] Il vocabolo interpres ricorre spesso in Plauto, ove rende appunto il senso dell’intermediazione concreta. Si vedano, ad esempio, Plaut. Mil. glor. 3.1.798 (in cui interpres è tradotto nelle maggior parte dei commenti con “ruffiano”), 3.3.910, 4.1.952; Cur. 3.1.434; Pseud. 1.1.42. Qualche osservazione in più merita Plaut. Poen. 1.3.444, poiché qui sembra che al lemma sia attribuito un significato astratto, ben più simile a quello odierno di interprete, sebbene comunque legato alla funzione di mediazione: “Mil.: Si nequeo facere ut abeas, egomet abiero. Nam isti quidem hercle orationi Oedipo opust coniectore, qui Sphingi interpres fuit”. Per un ragguaglio pressoché completo delle fonti, v. M. Fuhrmann, Interpretatio. Notizen zur Wortgeschichte, in Sympotica Franz Wieacker, hrsg. D. Liebs, Göttingen, 1970, pp. 80 ss. L’etimologia di interpres è discussa, ma potrebbe derivare dalla congiunzione di inter con praes (con un collegamento alla funzione di garanzia di questa figura)oppure con pres/pretium (proprio a voler significare l’attività connessa con gli scambi commerciali). Al riguardo v. L. Lantella, Dall’interpretatio iuris all’interpretazione della legge, in AA.VV., Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo, vol. III, Napoli, 1997, pp. 561 ss.; M. Brutti, Interpretare i contratti. La tradizione, le regole, Torino, 2017, p. 2 e nt. 3, il quale preferisce la seconda etimologia indicata, argomentando dalla scena descritta in Plaut. Cur. 3.1.433-436.

[2] Plaut. Poen. 1.3.444, su cui vedi sopra, in nota.

[3] Cfr. L. Lantella, Dall’interpretatio iuris, cit., p. 563.

[4] Cfr. L. Lantella, ibid.

[5] Rimando alle osservazioni formulate al riguardo da E. Stolfi, Gliattrezzi del giurista. Introduzione alle pratiche discorsive del diritto, Torino, 2018, pp. 127 ss., in particolare pp. 130 ss., pp. 132 ss.

[6] Va, altresì, ricordato – in adesione all’impostazione proposta da G.G. Archi, Interpretatio iuris, interpretatio legis, interpretatio legum, in ZRG, (1970), pp. 1 ss. – che l’attività di interpretatio assume valore e contenuto diverso in ragione dell’epoca storica considerata e delle modalità di produzione ed evoluzione del diritto, tanto che “interpretatio” andrebbe opportunamente completata dal genitivo “iuris”, “legis” o “legum”, al fine di intendersi sull’oggetto, sulla finalità e sull’ampiezza di questa attività. Si vedano, inoltre, le puntuali osservazioni di F. Serrao, s.v. Interpretazione della legge (diritto romano), in Enc. dir., vol. XXII, Milano, 1972, pp. 239 ss.

[7] Questa considerazione va messa in connessione con il concetto di diritto giurisprudenziale e conseguentemente con il diverso ruolo che la giurisprudenza assume rispetto all’evoluzione e allo sviluppo dell’ordinamento giuridico, con la trasformazione della “giurisprudenza” (intesa come complesso del pensiero dei iuris periti) in “dottrina”. Sul diritto giurisprudenziale è imprescindibile la lettura quantomeno di L. Lombardi, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1967; F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, trad. it, Firenze, 1968; M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, 2a ed., Napoli, 1985; L. Vacca, Diritto giurisprudenziale romano e scienza giuridica europea, a cura di G. Rossetti, Torino, 2017.

[8] Si vedano, ad esempio, le osservazioni di M. Brutti, Interpretare i contratti, cit., pp. 2 s.

[9] Su questo aspetto diviene rilevante oltre alla distinzione, già segnalata ed efficacemente posta in luce da G.G. Archi, Interpretatio iuris, cit., pp. 1 ss., tra interpretatio iuris, interpretatio legis e interpretatio legum, anche quella tra “interpretazione nel diritto”, “interpretazione del diritto” e “interpretazione della legge”, su cui si sofferma L. Lantella, Dall’interpretatio iuris, cit., pp. 568 ss.

[10] Sull’adagio “in claris non fit interpretatio” v. S. Masuelli, In claris non fit interpretatio: alle origini del brocardo, in RDR(ledonline.it/rivistadidirittoromano), (2002), pp. 401 ss., e più di recente E. Stolfi, Gliattrezzi, cit., pp. 127 s., il quale propone del brocardo una lettura diversa da quella per così dire classica, tesa a riempire di contenuto questa massima, che altrimenti apparirebbe appiattita su una definizione di interpretazione estremamente riduttiva.

[11] Impiego qui il termine “legge” in un’accezione ampia, facendo leva sulla polisemia del lemma. Su questo si veda la sintesi offerta da L. Lantella, Dall’interpretatio iuris, cit., pp. 569 s., nt. 14.

[12] Sul rapporto intercorrente tra analogia e interpretazione, e più precisamente interpretazione estensiva, con riferimento all’esperienza giuridica romana e al diritto criminale, mi permetto di rinviare a M. Scognamiglio, Nullum crimen sine lege. Origini storiche del divieto di analogia in materia criminale, Salerno, 2009. Sul piano della teoria generale del diritto, la contrapposizione tra gli studiosi è tra chi ritiene che l’analogia sia un procedimento qualitativamente distinto dall’interpretazione estensiva, poiché nell’analogia l’estensione di una disciplina ad una fattispecie non espressamente prevista si basa sul criterio giustificativo dell’eadem ratio (tra gli altri, v. G. Carcaterra, s.v. Analogia (teoria generale), in Enc. Giur., vol. I, Roma, 1988, pp. 16 ss.), e coloro i quali invece ammettono che tra i due procedimenti logici vi sia una distinzione quantitativa e non qualitativa, giacché «l’interpretazione è un’analogia ‘facile’…; l’analogia è un’estensione che richiede una giustificazione» (così, L. Gianformaggio, s.v. Analogia, in Dig. disc. priv., Sez. civ., vol. I, Torino, 1987, pp. 320 ss., e precisamente p. 327), tesi, quest’ultima, che a mio parere trova riscontro, come avremo modo di verificare, anche nelle fonti retoriche e nella loro recezione da parte della giurisprudenza romana.

[13] Cfr. E. Stolfi, Gliattrezzi, cit., pp. 134 ss.

[14] Per gli aspetti retorici di questa contrapposizione è essenziale L. Calboli Montefusco, La dottrina degli status nella retorica greca e romana, Hildesheim-Zürich-New York, 1986, in particolare pp. 153 ss. Gli aspetti giuridici sono esaminati, pervenendo a diversi risultati, da U. Wesel, Rhetorische Statuslehre und Gesetzeauslegung der römischen Juristen, Köln-Berlin-Bonn-München, 1967, e da B. Vonglis, La lettre et l’esprit de la loi dans la jurisprudence classique et la rhétorique, Paris, 1968.

[15] Si è a lungo discusso dell’opportunità di impiegare il termine “norma” per indicare sia l’oggetto sia il risultato dell’interpretazione. Mi pare, tuttavia, preferibile utilizzare “norma” per indicare soltanto il risultato del processo ermeneutico e non anche la disposizione stessa. In letteratura, per tutti, rimando a R. Guastini, Interpretare e argomentare, in Trattato di diritto civile e commerciale, già dir. A. Cicu - F. Messineo - L. Mengoni e cont. P. Schlesinger, Milano, 2011, pp. 63 ss.

[16] Già E. Betti, Forma e sostanza della interpretatio prudentium, in Atti del congresso internazionale di diritto romano e storia del diritto (Verona 27-28-29/IX/1948), a cura di G. Moschetti, vol. II, Milano, 1951, pp. 101 ss., ora in Diritto Metodo Ermeneutica. Scritti scelti, a cura di G. Crifò, Milano, 1991, pp. 367 ss., argomenta a favore di una funzione dell’interpretatio prudentium di tipo normativo e di etero-integrazione dello ius civile. Tale teoria viene poi completata e raffinata nella Teoria generale dell’interpretazione, Milano, 1955, edizione corretta e ampliata a cura di G. Crifò, Milano, 1990, ove egli accoglie un concetto oggettivo di interpretazione che cede alla discrezionalità del giurista interprete solo nella fase successiva alla pre-valutazione di tipo assiologico operata a monte dall’ordine giuridico. Sulle teorie bettiane v. recentemente M. Brutti, Interpretare i contratti, cit., pp. 3 ss., pp. 190 ss.; Id., La ‘dissoluzione dell’Europa’: ideologia e ricerca teorica in Betti (1943-1955), in Dall’esegesi giuridica alla teoria dell’interpretazione: Emilio Betti (1890-1968), a cura di A. Banfi - M. Brutti - E. Stolfi, Roma, 2020, pp. 43 ss.

[17] L’interpretazione del diritto, sulla cui accezione vedi sopra in nota, sarà trattata solo nei limiti in cui le problematiche affrontate siano sovrapponibili a quelle relative all’interpretazione della legge.

[18] Per la ricostruzione del pensiero di Ermagora, basato su frammenti escerpiti dagli autori antichi, non si può prescindere dall’opera di D. Matthes, Hermagorae Temnitae Testimonia et fragmenta, adiunctis et Hermagorae cuiusdam discipuli Theodori Gadarei et Hermagorae Minoris fragmentis, Lipsiae, 1962.

[19] Le divergenze tra le varie elaborazioni sono collegate alla diffusione a Roma oltre che della dottrina ermagorea, ispirata alla filosofia stoica, anche dell’insegnamento aristotelico. Secondo tale teoria, ogni discussione retorica poteva essere collocata in un uno dei tre generi: quello giudiziario, quello deliberativo e quello dimostrativo. La trattazione di ciascun genere seguiva, poi, le regole di uno status riconducibili alla coniuectura, alla definitio e alla qualitas. La teoria accademico-peripatetica postulava, inoltre, l’applicazione degli status a tutti i generi e non solo a quello giudiziario (Quint. inst. or. 3.6.1; va ricordato che Quintiliano, nell’Institutio oratoria, afferma di seguire la dottrina aristotelica, ma nell’elencazione degli status si attiene, invece, alla teoria ermagorea). V., su queste tematiche, L. Calboli Montefusco, La dottrina, cit., pp. 29 ss.

[20] Ermagora aveva distinto i discorsi in due generi in base all’oggetto: le quaestiones infinitae, o tesi, di carattere generale, e le quaestione finitae, o ipotesi, con un oggetto specifico. Sono queste ultime ad essere divise in due generi, tant’è che Ermagora, accanto al genus legale, pose il genus rationale, a sua volta composto da coniectura, definitio, qualitas e translatio. L. Calboli Montefusco, La dottrina, cit., pp. 33 ss.

[21] Sententia e voluntas sostanzialmente si equivalgono: Quint. inst. or. 3.6.46. La sovrapposizione dei due termini sembra accolta dalla maggior parte degli studiosi, sulla base soprattutto di J. Stroux, Römische Rechtswissenschaft und Rhetorik, Potsdam, 1949, p. 27 nt. 31 (Id., Summum ius summa iniuria. Ein Kapitel aus Geschichte der interpretatio iuris, in AA.VV., Festschrift Paul Speiser-Sarasin zum 80. Geburtstag, Leipzig, 1926, che citerò dalla Versione dal tedesco di G. Funaioli, con Prefazione di S. Riccobono, Summum ius summa iniuria. Un capitolo concernente la storia della interpretatio iuris,in ASGP, (1929), pp. 639 ss., pp. 647 ss.; la nota corrispondente a quella in Römische Rechtswissenschaft und Rhetorik è a p. 661, nt. 30 della versione italiana).

[22] Rhet. ad Heren. 1.12.21, 2.12.17.

[23] Nel De inventione, tuttavia, come osserva L. Calboli Montefusco, La dottrina, cit., p. 38, la dottrina ermagorea è estesa a tutti i generi e non soltanto al genere giudiziale, con ciò palesando una contaminazione tra le due contrapposte teorie.

[24] In effetti, però, la definitio che Cicerone inserisce tra gli status legales è quella che ha ad oggetto il chiarimento del significato di un termine giuridico (inv. 1.13.17, 2.51.153 s.). L’Arpinate colloca, invece, tra le constitutiones del genere razionale una diversa definitio, incentrata sulla definizione di un fatto (inv. 1.8.11, 2.17.52 ss.). Su tale aspetto, si veda L. Calboli Montefusco, La dottrina, cit., p. 80. Questa seconda concezione della definitio è quella che verosimilmente prende maggiormente piede nel corso dell’età imperiale, come attestato da Quint. inst. or. 7.3 (specialmente 7.3.8-10, dove la definitio connessa alla valutazione del fatto viene ripartita in tre specie: “an hoc sit”, “hoc an hoc” e “an et hoc et hoc eodem modo sit appellandum”, su cui ancora L. Calboli Montefusco, ivi, p. 84).

[25] Si tratta della controversia che sorgeva qualora il reus avesse contestato l’actio intentata nei suoi confronti e che è descritta in rhet. ad Heren. 1.12.22; 2.12.18.

[26] Cic. de orat. 2.26.110.

[27] Per la discussione di alcuni esempi di interpretazione retorica delle leges iudiciorum publicorum nel corso dell’età repubblicana, mi permetto di rinviare a M. Scognamiglio, Tra retorica e diritto. Alcuni esempi di interpretazione delle leges iudiciorum publicorum nelle orazioni di Cicerone, in La repressione criminale nella Roma repubblicana tra norma e persuasione, a cura di B. Santalucia, Pavia, 2009, pp. 265 ss.

[28] Sul versante dell’“interpretatio” si registra il graduale passaggio dall’interpretatio iuris all’interpretatio legis, che mostra caratteristiche operative meno distanti dalla moderna interpretazione della legge, rispetto all’interpretatio iuris: F. Serrao, s.v. Interpretazione della legge, cit., pp. 248 s.

[29] J. Stroux, Summum ius, cit., pp. 639 ss., pp. 647 ss.

[30] Rileva, tuttavia, F. Serrao, s.v. Interpretazione della legge, cit., pp. 245 s., che la prima vera disamina del rapporto tra l’oratoria e la giurisprudenza è stata condotta da Vico, il quale ha individuato nell’emersione ed esaltazione del principio dell’aequitas il punto di svolta della complessa relazione tra diritto e retorica (cfr. G. Vico, De nostri temporis studiorum ratione, Napoli, 1708, che cito da G. Vico, De nostri temporis studiorum ratione. Edizione elettronica a cura di L. Pica Ciamarra, in Laboratorio dell’ISPF (www.ispf-lab.cnr.it/), 1/2 (2012), pp. 6 ss.

[31] Le divergenti teorie, i cui estremi possono essere efficacemente rintracciati – come vedremo oltre, nel testo – nelle tesi sostenute da Stroux, a favore di una totale convergenza tra i due ambiti, e da Schulz, che trova fondamento nell’idea di una “Isolierung” del diritto dalla retorica (e da ogni altro ramo del sapere), possono forse dirsi oggi ormai superate a favore di ipotesi ricostruttive meno estreme, in cui l’influsso della retorica sulla giurisprudenza è di volta in volta modulato ed analizzato con riferimento ai vari contesti storici e giuridici esaminati. La bibliografia è sterminata e pertanto richiamo in via esemplificativa e non esaustiva gli studi di: J. Stroux, Summum ius, cit.; E. Levy, Recht und Gerechtigkeit, Besprechung J. Stroux, Summum ius summa iniuria, in ZRG, (1928), pp. 668 ss., ora in Gesammelte Schriften, vol. I, Köln-Graz, 1963, pp. 23 ss. (da cui cito); E. Albertario, La [cosiddetta] crisi del metodo interpolazionistico, in AA.VV., Studi in onore di Pietro Bonfante nel XL anno d’insegnamento, vol. I, Milano, 1930, pp. 611 ss. (ora in Id., Studi di diritto romano, vol. V, Milano, 1937, pp. 67 ss.); F. Schulz, Prinzipien des römischen Rechts, Berlin, 1934, trad. it. I principi del diritto romano, Firenze, 1946 (da cui cito); Id., Storia, cit.,(da cui cito); F. Lanfranchi, Il diritto nei retori romani, Milano, 1938; A. Steinwenter, Rhetorik und römischer Zivilproseß, in ZRG, (1947), pp. 69 ss.; E. Meyer, Der Einfluß der rhetorischen Theorie der Status auf die römische Jurisprudenz, in besondere auf die Auslegung der Gesetz und Rechtsgeschäfte, in ZRG, (1958), pp. 91 ss.; U. Wesel, Rhetorische Statuslehre, cit.; B. Vonglis, La lettre, cit.; G.G. Archi, Interpretatio iuris, cit.; A. Schiavone, Retorica e giurisprudenza, in Labeo, (1970), pp. 240 ss.; F. Serrao, s.v. Interpretazione della legge, cit., pp. 243 ss.; F. Wieacker, Zur Rolle des Arguments in der römischen Jurisprudenz, in Festschrift Max Kaser zum 70. Geburtstag, hrsg. D. Medicus - H.H. Seiler, München, 1976, pp. 3 ss.; R.A. Bauman, The Leges iudiciorum publicorum and their Interpretation in the Republic, Principate and Later Empire, in ANRW, vol. II.13, Berlin-New York, 1980, pp. 103 ss.; M. Bretone, Tecniche e ideologie, cit.; L. Calboli Montefusco, Logica, retorica e giurisprudenza nella dottrina degli status, in Per la storia del pensiero giuridico romano. Dall’età dei pontefici alla scuola di Servio. Atti del seminario di S. Marino 7-9 gennaio 1993, a cura di D. Mantovani, Torino, 1996, pp. 209 ss.; G. Sposito, Il luogo dell’oratore. Argomentazione topica e retorica forense in Cicerone, Napoli, 2001; R. Martini, Antica retorica giudiziaria (Gli status causae), in Studi senesi, (2004), pp. 30 ss.; La repressione criminale nella Roma repubblicana fra norma e persuasione, a cura di B. Santalucia, Pavia, 2009; M. Scognamiglio, Nullum crimen, cit.; Tra retorica e diritto. Linguaggi e forme argomentative nella tradizione giuridica. Incontro di studio (Trani, 22-23 maggio 2009). Atti, a cura di A. Lovato, Bari, 2011; G. Cossa, I giuristi e la retorica, in Dogmengeschichte und historische Individualität der römischen Juristen - Storia dei dogmi e individualità storica dei giuristi romani. Atti del seminario internazionale (Montepulciano 14-17 giugno 2011), a cura di C. Baldus - M. Miglietta - G. Santucci - E. Stolfi, Trento, 2012, pp. 299 ss.; M. Brutti, Interpretare i contratti, cit.; M.L. Biccari, Dalla pretesa giudiziale alla narratio retorica (e viceversa). Spunti di riflessione sulla formazione dell’avvocato romano e la sua azione, Torino, 2017. Un aspetto da sottolineare è che nella manualistica di diritto penale romano più risalente, e perciò precedente al dibattito su “retorica e diritto romano”, per quanto ispirata sul piano espositivo alla dogmatica moderna (che ampio peso attribuisce alle problematiche concernenti l’interpretazione della legge criminale), sono rari gli approfondimenti relativi a questo argomento e, più in generale, al tema delle tecniche di interpretazione della legge (si veda, per esempio, Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, Leipzig, 1899 – in cui, tuttavia, nel capitolo dedicato alla legislazione penale romana, si precisa rapidamente che l’interpretazione basata sull’intenzione del legislatore e realizzata attraverso il richiamo all’exemplum legis è una comune tecnica legislativa in epoca imperiale [127 e nt. 1] –, e C. Ferrini, Esposizione storica e dottrinale del diritto penale romano, in Enciclopedia del diritto penale italiano. Raccolta di Monografie, Milano, 1906). Tra i volumi in cui invece il tema viene esaminato si possono annoverare W. Rein, Das Criminalrecht der Römer von Romolus bis auf Justinianus, Leipzig, 1844, pp. 223 ss., e il trattato di G.F. Falchi, Diritto penale romano, vol. I, Dottrine generali, 2a ed., Padova, 1937, pp. 12 ss., nel quale si esaminano sinteticamente le principali regole relative all’interpretazione della legge penale, attraverso l’individuazione di numerosi esempi tratti delle fonti giurisprudenziali (si tratta, però, di un testo redatto proprio negli anni in cui il dibattito sul rapporto tra la retorica e il diritto romano era appena stato innescato dallo studio di Stroux).

[32] Recht, cit., pp. 23 ss.

[33] A notarlo in modo particolarmente efficace è G.G. Archi, Interpretatio iuris, cit., pp. 2 ss., nt. 3.

[34] Cfr. F. Schulz, I principi, cit., pp. 16 ss.

[35] Cfr. F. Schulz, ivi, pp. 113. Schulz si è anche opposto all’idea professata da Stroux, secondo la quale i retori preferissero l’interpretazione ex voluntate a quella ex scripto. Significative, al riguardo, talune sue affermazioni: «I retori non insegnavano affatto che possibilmente si debba dare la preferenza alla volontà piuttosto che alle parole […] Che nel singolo caso l’oratore parli per il rispetto alla parola o per il riguardo alla volontà, dipende dalle istruzioni che abbia ricevute dal giurista che ha consultato, o semplicemente dall’interesse del suo difeso. Il retore, infatti, non mira alla verità ed all’equità, ma alla vittoria del suo cliente, anche se la causa è cattiva (Gellio, 1, 6: «turpe est rhetori, si quid in mala causa (!) destitutum atque impropugnatum relinquat»); e può anche mentire, purché abbia successo (Gellio, l.c.; Quintil., Inst. orat. 2, 17. 18. 21. 23. 26 sgg.): insomma egli non è, come il giureconsulto, un sanctus vir gravitate ac fide praeditus»: F. Schulz, ivi, p. 113, nt. 114. V. anche l’evoluzione del pensiero di Schulz nella Storia, cit., pp. 119 ss., pp. 137 s., in cui l’influenza della retorica è del tutto svalutata per l’epoca repubblicana (ma non per quella classica e tardoantica, seppur entro ben precisi limiti), in considerazione del diverso ruolo svolto da retori e giuristi; mentre, al contempo, viene individuata una certa connessione dell’attività dei giureconsulti con le tecniche della dialettica.

[36] Un’interessante e precisa analisi della letteratura sull’argomento è proposta da G. Cossa, I giuristi, cit., pp. 299 ss. Va rilevato, altresì, che i più recenti orientamenti sono volti non tanto alla ricerca di una risposta alla domanda se la retorica abbia influenzato la giurisprudenza romana, quanto piuttosto all’analisi di specifici campi di indagine – figure giuridiche, personalità di giuristi, rami del diritto – rispetto ai quali investigare modalità e incidenza della contaminazione tra retorica e diritto.

[37] Influenza considerata ben più forte da B. Vonglis, La lettre, cit., e meno incisiva da U. Wesel, Rhetorische Statuslehre, cit.

[38] Per tutti, M. Brutti, Interpretare i contratti, cit. Ma particolarmente sviluppato è soprattutto il filone di studi dedicati alla causa Curiana, su cui la letteratura è sterminata e pertanto mi limito a citare solo F. Wieacker, La causa Curiana e gli orientamenti della giurisprudenza coeva, in Antologia giuridica romanistica e antiquaria, vol. I, Milano, 1968, pp. 109 ss., e G.L. Falchi, Interpretazione “tipica” della causa Curiana, in SDHI, (1980), pp. 383 ss.

[39] Cfr. R.A. Bauman, The Leges iudiciorum publicorum, cit.

[40] La sovrapposizione tra gli status definitivus e scripti et voluntatis, ben nota in dottrina (L. Calboli Montefusco, La dottrina, cit., pp. 80 ss.), rimonta alla peculiare enunciazione di Cicerone, il quale, nel De inventione (come osservato sopra, nt. 24) postula l’esistenza non soltanto di una constitutio rationalis,ma anche di uno status legalis riconducibile alla definitio. L’esempio proposto dall’Arpinate circa la definitio legalis è, infatti, del tutto simile a quello che si può leggere in rhet. ad Heren. 1.10.18. È interessante anche notare che in Albino 9 (Rhet. Lat. Min. 528.17 ss. Halm) la medesima fattispecie è ricondotta semplicemente ad una questione ex scripto.

[41] A sottolinearlo è B. Vonglis, La lettre, cit.,pp. 31 s., il quale collega questo assunto retorico all’affermazione di Paolo, contenuta in Vat. 303 a commento della lex Cincia, secondo cui: «Sed in hac adfines qui sunt tempore donationis excipiuntur, idemque etiam divus Pius rescripsit; leges enim quae voluissent etiam eos excipere qui fuissent, nominatim id cavisse». In questo brano, in ambito giurisprudenziale, sembra infatti espresso lo stesso principio. Sul testo dei Fragmenta Vaticana si veda per tutti F.Casavola, Lex Cincia. Contributo alla storia delle origini della donazione romana, Napoli, 1960, pp. 64 ss. Il testo del De inventione sembra esprimere anche l’attuale relazione tra interpretazione letterale e dichiarativa.

[42] Rhet. ad Heren. 2.9.13-10.14; Cic. inv. 2.44.127-46.137; part. or. 133-137; Quint. inst. or. 7.6; Iul. Vict. 14 (Rhet. Lat. Min. 384.7 ss. Halm).; Sulp. Vict. 61 (Rhet. Lat. Min. 351.16 ss. Halm); Fortun. 2.10 (116.7 ss. Calb.).

[43] Sulla possibile identificazione di legis lator con lo scriptor si veda G. Valditara, Gai. 3,128 - I. 4.3.15 e l’evoluzione del concetto di legislator, in AA.VV., Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo, vol. II, Napoli, 1997, pp. 481 ss. Sebbene l’impiego di legis lator sia stato considerato di matrice postclassica da alcuni autori, il fatto che più giuristi adoperino questa espressione quando occorra risolvere una questione interpretativa di un testo giuridico ha indotto, a mio parere correttamente, a considerare questo sintagma genuino (cfr., in particolare U. Wesel, Rhetorische Statuslehre, cit., pp. 79 ss., il quale, richiamando Gai. 3.56, 3.75, 3.76; 3.218; D. 1.3.32.1 Iul. 84 dig.; D. 24.2.11 pr. Ulp. 3 ad l. Iul. et Pap.;D. 40.9.12 pr. Ulp. 4 de adult.; D. 48.5.24.2 Ulp. 1 de adult.; D. 48.5.30(29).6 Ulp. 4 de adult., discute in particolare di ipotesi nelle quali il dettato normativo era considerato ambiguo). Sull’impiego di “legislator”e la sua equivalenza con “scriptor” si vedano anche le osservazioni di B. Vonglis, La lettre, cit., pp. 24 ss. Si veda inoltre B. Albanese, Legis lator in D. 1.3.32.1, in ASPG, (2002), pp. 115 ss., il quale ritiene genuino il riferimento al legis lator, da identificare, nel testo giulianeo, con l’assemblea popolare legislativa.

[44] La data del plebiscito augusteo non è certa. Recentemente, su questo aspetto e con puntuali riferimenti alla precedente letteratura, cfr. P. Buongiorno, Storia di un dialogo. La data della lex Iulia de adulteriis, in Fontes iuris. Atti del VI Jarestreffen Junger Romanistinnen und Romanisten. Lecce, 30-31 marzo 2012, a cura di P. Buongiorno - S. Lohsse, Napoli, 2013, pp. 273 ss., il quale, mettendo a frutto il prezioso dialogo con T. Spagnuolo Vigorita (che si era occupato specificamente di questo argomento nello studio La data della lex Iulia de adulteriis, in AA.VV., Iuris vincula. Studi in onore di M. Talamanca, vol. VIII, Napoli, 2001, pp. 81 ss.), ha proposto in maniera convincente una datazione a cavallo tra il mese di giugno e il mese di luglio del 17 a.C.

[45] B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, 2a ed., Milano, 1998, pp. 201 ss. Oggetto di discussione tra gli studiosi è la perseguibilità dell’incesto come reato autonomo e non soltanto in concorso con adulterio e stuprum sulla base delle disposizioni della lex Iulia. Per le due contrapposte opinioni v. S. Puliatti, Incesti crimina. Regime giuridico da Augusto a Giustiniano, Milano, 2001, eG.Rizzelli, Adulterium. Immagini, etica, diritto, in RDR (ledonline.it/rivistadirittoromano), (2008), pp. 1 ss., in particolare pp. 89 ss.

[46] Pal., vol. II, col. 938, n. 1963.

[47] La bibliografia è molto vasta, pertanto rimando in via meramente esemplificativa a: A. Esmein, Le délit d’adultère à Rome et la lex Iulia de adulteriis, in AA.VV., Mélanges d’histoire du droit et de critique. Droit romain, Paris, 1886, pp. 71 ss.; E. Volterra, Per la storia dell’accusatio iure mariti vel patris, in Studi Cagliari, (1928), pp. 3 ss., ora in Id., Scritti giuridici, vol. I, Famiglia e successioni, Napoli, 1991, pp. 219 ss. (da cui cito); Id., In tema di accusatio adulterii, in AA.VV., Studi in onore di P. Bonfante nel XL anno di insegnamento, vol. II, Milano, 1930, pp. 109 ss., ora in Id., Scritti, vol. I, cit., pp. 313 ss. (da cui cito); J.A.C. Thomas, Accusatio adulterii, in Iura, (1961), pp. 65 ss.; H. Ankum, La captiva adultera: problèmes concernant l’accusatio adulterii en droit romain classique, in RIDA, (1985), pp. 153 ss.; G. Rizzelli, Alcuni aspetti dell’accusa privilegiata in materia di adulterio, in BIDR, (1986), pp. 411 ss.; Id., Lex Iulia de adulteriis. Studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, Lecce, 1997, pp. 35 ss.; C. Venturini, Accusatio adulterii e politica costantiniana (Per un riesame di CTh. 9.7.2), in SDHI, (1988), pp. 66 ss., ora in Id., Studi di diritto delle persone e di vita sociale in Roma antica. Raccolta di scritti, a cura di A. Palma, Napoli, 2014, pp. 27 ss. (da cui cito), in particolare pp. 45 ss.;C. Fayer, La familia romana, vol.III, Concubinato Divorzio Adulterio, Roma, 2005, pp. 270 ss.; M.V. Sanna, Matrimonium iniustum, accusatio iure viri et patris e ius occidendi, in ASGP, (2010-2011), pp. 201 ss.

[48] D. 40.9.14.1 Ulp. 4 de adult.; D. 48.5.15(14).2 Scaev. 4 reg.; D. 48.5.30(29).5 Ulp. 4 de adult.; D. 48.5.31(30).1 Paul. 1 de adult.

[49] Il rapporto tra i due gradi di accusa è particolarmente discusso tra gli studiosi. Per un verso si dibatte della natura di “accusa pubblica” rispetto all’accusatio iure extranei, che efficacemente Paolo, in D. 48.5.41(40) pr. Paul. 19 resp., denomina appunto accusa “iure publico”, proprio in contrapposizione con l’accusa “iure mariti”. Su questo profilo, v. F. Botta, Legittimazione, interesse ed incapacità all’accusa nei iudicia publica, Cagliari, 1996, pp. 201 ss., e in particolare p. 223, ove si ritiene che sia l’accusa privilegiata sia quella iure exstranei siano finalizzate a perseguire un interesse pubblico. Sotto altra prospettiva, gli studiosi si sono interrogati circa la connessione e il valore della successione tra i due criteri di legittimazione. La questione verte principalmente sul se le due accuse, pur nella profonda diversità tra le prerogative dei rispettivi legittimati, siano l’una derivata dall’altra (cfr. E. Volterra, Per la storia, cit., pp. 219 s.), oppure del tutto distinte (cfr. H. Ankum, La captiva adultera, cit., p. 166) oppure ancora tra loro sussidiarie (cfr. C. Venturini, Accusatio adulterii, cit., p. 30). Per una discussione delle tesi prospettate v. C. Fayer, La familia, vol. III, cit., pp. 271 s.

[50] D. 48.5.2.9 Ulp. 8 disp.; D. 48.5.4.1 Ulp. 8 disp.

[51] V. F. Botta, Legittimazione, cit., pp. 201 ss.

[52] D. 48.5.28(27).6 Ulp. 3 de adult.; D. 48.18.17 pr. Ulp. 2 de adult. V. E. Volterra, Per la storia, cit., pp. 233 ss.;O. Robinson, Slaves and the criminal Law, in ZRG, (1981), pp. 234 ss., in particolare pp. 236 ss.; L. Schumacher, Servus index. Sklavenverhör und Sklavenanzeige im republikanischen und kaiserzeitlichen Rom, Weisbaden, 1982, pp. 117 ss.; W. Formigoni Candini, In margine al divieto di torturare gli schiavi in caput domini, in AUFG, (1988), pp. 61 ss.; C. Venturini, Divorzio informale e crimen adulterii (Per una riconsiderazione di D. 48.5.44[45]), in Iura, (1990), pp. 25 ss., ora in Id., Studi, cit., pp. 119 ss. (da cui cito), in particolare p. 133; S. Puliatti, Incesti crimina, cit., pp. 83 ss.; B. Santalucia, Diritto, cit., pp. 203 s.; C. Fayer, La familia, vol. III, cit., pp. 287 ss. La deroga in materia istruttoria, in origine prevista, verosimilmente, per la sola ipotesi di accusatio iure mariti vel patris, fu estesa da Marco Aurelio anche all’accusatio iure extranei, come documentato in D. 48.18.17 pr. Pap. 16 resp. (cfr. per tutti, sul punto, G. Rizzelli, Lex Iulia de adulteriis, cit., p. 41 nt. 127).

[53] Non importa da chi fosse stata attivata la procedura per il divorzio, così: C. Venturini, Divorzio, cit., p. 133. Secondo E. Volterra, Per la storia, cit., p. 235, invece, il divieto era connesso con il solo divortium unilaterale.

[54] «Verba legis Iuliae de adulteriis coercendis, sed etiam sententia per quaestionem quoque servorum sive ancillarum crimen admissum probari volentis ad earum tantum personarum servos ei rei exhibendos pertinet, de quibus specialiter comprehendit, id est mulieris et patris eius, non naturalis, sed iusti dumtaxat, quos intra sexagesimum diem ex dissolutione matrimonii numerandum manumitti vel distrahi prohibet et quorum dominis caveri praecipit, si defuncti fuerint in quaestione vel facti deteriores, secuta absolutione».

[55] Per tutti, cfr. E. Volterra, Per la storia, cit., p. 235.

[56] Rispetto all’iniziativa del divorzio, nel testo si fa riferimento a “ipsa quae divertit”, lasciando intendere che la donna potesse aver avuto un ruolo attivo nella procedura. Nei frammenti successivi, invece, si richiama semplicemente il divortium. Sulla scorta di queste osservazioni, C. Venturini, Divorzio, cit., pp. 133 s., ha ritenuto che ai fini del divieto di manumissio fosse irrilevante se il divorzio fosse stato chiesto dal marito, dalla moglie o da entrambi.

[57] Discute della possibilità che “alienare”sia un’aggiunta dei bizantini R. Yaron, Alienation and Manumission, in RIDA,(1955), pp. 381 ss., il quale, tuttavia, ritiene che, sebbene non vi sia concordanza tra le fonti, che riferiscono in modo variabile di un divieto di manumittere o di manumittere ed alienare, ciò sia frutto sì di un’interpolazione, ma non necessariamente giustinianea (argomentando dal confronto con C. 9.9.35 pr., del 532, ove manca il riferimento alla vendita degli schiavi).

[58] E ha poi avuto una sua storia autonoma, poiché da esso è stato tratto il notissimo brocardo “dura lex, sed lex”.

[59] Come appena segnalato, è questo il testo da cui ha preso origine l’adagio “dura lex, sed lex”. Sull’evoluzione dal testo ulpianeo al noto brocardo, tramite il passaggio intermedio dei Basilici (Bas. 48.7.12, Heimb., vol. IV, pp. 716 s.), si veda E. Quadrato, Legislator: dal legem ferre al leges condere, Bari, 2014, pp. 87 ss., pp. 120 ss. Si veda, tuttavia, il contrasto con il principio espresso in D. 1.3.25 Mod. 8 resp.: «Nulla iuris ratio aut aequitatis benignitas patitur, ut quae salubriter pro utilitate hominum introducuntur, ea nos duriore interpretatione contra ipsorum commodum producamus ad severitatem». Sul brano di Modestino si veda A. Palma, Benignior interpretatio. Benignitas nella giurisprudenza e nella normazione da Adriano ai Severi, Torino, 1997, pp. 143 ss.

[60] Sulla relazione tra legis lator e scriptor in D. 40.9.12 Ulp. 4 de adult., v.  G. Valditara, Gai. 3,218, cit., pp. 493 s.

[61] Rhet. ad Heren. 2.9.13; Cic. inv. 2.43.125-46.136. Le argomentazioni topiche sono discusse da L. Calboli Montefusco, La dottrina, cit., pp. 153 ss.

[62] Pal., vol. II, col. 938, nn. 1965 s.

[63] Il fr. 12 continua con l’individuazione degli altri soggetti sottoposti al divieto, nei cui confronti, però Ulpiano sembra dimostrare meno severità nell’applicazione del divieto: D. 40.9.12 Ulp. 4 de adult.: «3. Pater vero in cuius potestate filia fuerit, ea tantum mancipia prohibetur manumittere alienareve, quae in usu filiae fuerunt tributa. 4. Matrem quoque prohibuit manumittere alienareve ea mancipia, quae in ministerium filiae concesserat. 5. Sed et avum et aviam prohibuit manumittere, cum horum quoque mancipia quaestione postulari posse lex voluerit. 6. Sextus Caecilius recte ait angustissimum tempus legem praestitisse alienandis manumittendisve servis. finge, inquit, ream adulterii intra sexagesimum diem postulatam: quae cognitio tam facile expediri potuit adulterii, ut intra sexagesimum diem finiatur? et tamen licere mulieri quamvis postulatae adulterii servum suspectum in adulterio vel quaestioni necessarium, quod ad verba legis attinet, manumittere. sane in hunc casum subveniendum est, ut destinati servi quasi conscii vel quasi nocentes non debeant manumitti ante finitam cognitionem. 7. Pater mulieris vel mater, si intra sexagesimum diem decedant, ex his servis, quos in ministerium filiae dederint, neque manumittere neque alienare poterunt».

[64] Nel principium, dunque, Ulpiano mette in relazione l’accusatio iure patris con il divortium quale causa di scioglimento del matrimonio della propria figlia. Deceduto il marito dopo il divorzio, il termine di sessanta giorni previsto dalla lex Iulia dev’essere comunque rispettato poiché il padre avrà il diritto di richiedere la quaestio servorum. Al contrario, se il marito muore prima del divorzio, il padre non potrà più accusare in via privilegiata, in quanto – come osservato da A. Esmein, Le délit, cit., p. 131 – l’accusatio iure patris costituiva un privilegio “accessorio” rispetto all’accusatio iure viri. Conseguentemente il padre non potrà più ottenere l’interrogatorio sotto tortura degli schiavi e il divieto di manomissione e alienazione previsto dalla legislazione augustea non ha più ragione di essere applicato. Nello stesso senso anche G. Rizzelli, Lex Iulia de adulteriis, cit., p. 53. Di diverso avviso, invece, E. Volterra, Per la storia, cit., pp. 258 ss., il quale reputa che il collegamento tra la possibilità per il padre di esperire l’accusa privilegiata e il diritto di richiedere la quaestio servorum non sussista, o almeno non nei termini ipotizzati da Esmein. Egli, infatti, ritiene che l’accusatio iure patris non sia un mero accessorio di quella esercitabile dal marito. Essa è esperibile autonomamente dal padre, il quale, tuttavia, qualora anche il marito intenda accusare la donna, dovrà “cedere il passo” al coniuge tradito. Si tratterebbe, dunque, di una mera preferenza tra i due accusatori, comunque privilegiati. Del resto, argomenta ancora Volterra, “l’accusatio iure patris […] nasce contemporaneamente all’altra e per agire con essa non v’è bisogno che venga meno il privilegio maritale” (ivi,pp. 258 s.). Che, invece, l’accusa paterna sia subordinata al divorzio, deriva da un principio di carattere generale nel diritto romano classico, in base al quale nessuno può accusare una donna constante matrimonio, poiché è dallo scioglimento del vincolo che sorgono le azioni (ivi, p. 259). Pertanto, il venir meno del divieto di manomettere o alienare gli schiavi non preclude l’esperibilità dell’azione speciale da parte del padre. Il diritto a richiedere la quaestio de servis fu poi esteso anche all’ipotesi dell’accusatio iure extranei, pur restando fermo il termine di sessanta giorni per la vigenza del divieto di manumittere e alienare. Tanto risulta da Coll. 4.11.1 e da D. 48.18.17 pr. Pap. 16 resp. Il dubbio tra gli studiosi circa l’estensione anche agli estranei del diritto di richiedere la quaestio servorum attiene al momento a partire dal quale tale concessione venne introdotta. Secondo C. Venturini, Accusatio adulterii, cit., p. 46, l’innovazione si deve a Marco Aurelio. Di opinione diversa, sulla scorta di G. Gualandi, Legislazione imperiale e giurisprudenza, vol. II, Milano, 1963, p. 123, C. Fayer, La familia, vol. III, cit., pp. 292 ss., nt. 325, la quale ritiene che Marco Aurelio e Settimio Severo, con le loro decisioni, non abbiano fatto altro che accogliere un principio ormai invalso già tra i giuristi, come si ricaverebbe da D. 48.18.17 pr. Pap. 16 resp.: «…quod divus Marcus ac postea maximus princeps iudicantes secuti sunt».

[65] Su questo aspetto, G. Rizzelli, Lex Iulia de adulteriis, cit., pp. 53 ss., in particolare p. 55, e pp. 117 ss.

[66] G. Rizzelli, Lex Iulia de adulteriis, cit., p. 55, parla al riguardo di “interpretazione logica”, che, tuttavia, con linguaggio retorico, altro non è che una delle forme applicative dell’interpretazione ex sententia.

[67] Molto discusso è il significato da attribuire alla locuzione “bona gratia”. Oltre all’opinione di chi ritiene che si tratti di un concetto non classico, bensì giustinianeo (S. Solazzi, Divortium bona gratia, in RIL, (1938), pp. 511 ss., ora in Id., Scritti di diritto romano, vol. IV, Napoli, 1963, pp. 23 ss.), per intendere il divorzio non unilaterale, appare oggi condivisa l’idea secondo la quale l’espressione sia genuina. Tuttavia, non vi è concordanza di opinioni tra coloro che ritengono divortium bona gratia come divorzio non addebitabile a colpa dell’altro coniuge e coloro i quali ipotizzano che si tratti di espressione sostanzialmente sinonimica di divorzio communi consensu, in cui rientra anche il divorzio “senza addebito”. Si veda, in particolare, per una discussione delle opposte teorie, G. Rizzelli, Lex Iulia de adulteriis, cit., p. 55 e nt. 172; C. Fayer, La familia, vol. III, cit., p. 162, nt. 383. Tra le varie ipotesi interpretative formulate in merito, mi pare maggiormente condivisibile quella di P. Bonfante, Corso di diritto romano, vol. I, Diritto di famiglia, Roma, 1925, p. 358, il quale, per un verso ha sostenuto che l’espressione “divortium bona gratia”in età classica significasse “semplicemente” matrimonio sciolto amichevolmente (concetto che si incastrerebbe perfettamente nella successione logica del testo in esame), mentre acquistò solo in seguito il significato tecnico di divorzio unilaterale non addebitabile all’altro coniuge.

[68] G. Rizzelli, Lex Iulia de adulteriis, cit., p. 55, pp. 119 s.

[69] L. Calboli Montefusco, La dottrina, cit., pp. 162 s., nota che è ripreso anche da Fort. 116.1 ss. (Calb. Mont.) e Iul. Vict. 18.4 ss. (Giom.-Celent.)

[70] Come osservato da L. Calboli Montefusco, La dottrina, cit., p. 159, la testimonianza che si trae da Quint. inst. or. 3.6.61 circa la denominazione di questo status in Ermagora rende appieno l’idea del procedimento logico ad esso sotteso: «Legales autem quaestiones has fecit: scripti et voluntatis (quam ipse vocat κατὰῥητὸνκαὶὑπεξαίρεσιν, id est dictum et exceptionem: quorum prius ei cum omnibus commune est, exceptionis nomen minus usitatum)…». Sul testo quintilianeo si veda, nello stesso senso, U. Wesel, Rhetorische Statuslehre, cit., pp. 35 s.

[71] Quint. inst. or. 7.6: «5. Sed contra scriptum tribus generibus occurritur. Vnum est in quo ipso patet semper id servari non posse: “liberi parentis alant aut vinciantur”: non enim alligabitur infans. Hinc erit ad alia transitus et divisio: “num quisquis non aluerit? num hic”? 6. Propter hoc quidam tale genus controversiarum in quo nullum argumentum est quod ex lege ipsa peti possit, sed de eo tantum de quo lis est quaerendum est. “Peregrinus si murum escenderit capite puniatur. cum hostes murum escendissent, peregrinus eos depulit: petitur ad supplicium”. 7. Non erunt hic separatae quaestiones: “an quisquis, an hic”, quia nullum potest adferri argumentum contra scriptum vehementius eo quod in lite est, sed hoc tantum, an ne servandae quidem civitatis causa. Ergo aequitate et voluntate pugnandum. Fieri tamen potest ut ex aliis legibus exempla ducamus, per quae appareat semper stari scripto non posse, ut Cicero pro Caecina fecit».

[72] La data della lex Remnia è incerta. Tuttavia, essendo richiamata in Cic. Rosc. Amer. 19.55 e 20.57, è certamente anteriore all’80 a.C. (ragguagli in B. Santalucia, Diritto, cit., p. 180, nt. 253) e successiva al 149 a.C., in quanto la legge va di sicuro ad inserirsi nel sistema processuale delle quaestiones. Difficile datare più precisamente il provvedimento, per il quale, comunque, D.A. Centola, Il crimen calumniae, Napoli, 1999, p. 22, ha proposto come verosimile anno di promulgazione l’81 a.C., in connessione con l’intero complesso della legislazione sillana in materia criminale.

[73] D. 48.16.1.1 Marcian. l. sing. ad sc. Turpill.: “calumniari est falsa crimina intendere”. Sulla calumnia, per un primo ragguaglio bibliografico, rimando almeno a M. Lauria, Calumnia, in AA.VV., Studi in memoria di U. Ratti, Milano, 1933, pp. 97 ss., ora in Id., Studii e ricordi, Napoli, 1983, pp. 245 ss.; E. Levy, Von den römischen Anklägervergehen, in ZRG, (1933), pp. 151 ss., ora in Id., Gesammelte Schriften, vol. II, Köln-Graz, 1963, pp. 379 ss.; G. Purpura, Il papiro BGU 611 e la genesi del Sc. Turpilliano, in ASGP, (1976), pp. 219 ss.; L. Fanizza, Delatori e accusatori. L’iniziativa nei processi di età imperiale, Roma, 1988; J.G. Camiñas, Le crimen calumniae dans lex Remnia de calumniatoribus, in RIDA, (1990), pp. 117 ss.; B. Santalucia, Diritto, cit., p. 180 e nt. 253; D.A. Centola, Il crimen calumniae, cit.; M. Giomaro, Per lo studio della calumnia. Aspetti di deontologia processuale in Roma antica, Torino, 2003.

[74] Vi è incertezza sulle pene, principali e accessorie, cui soggiaceva il calunniatore: poena reciproci, marchiatura sulla fronte della lettera K, infamia, limiti alla capacità di testimoniare e di accusare. V. in merito E. Levy, Von den römischen Anklägervergehen, cit., pp. 159 ss.; J.G. Camiñas, Le crimen calumniae, cit., pp. 130 ss.; B. Santalucia, Diritto, cit., p. 180, nt. 253;D.A. Centola, Il crimen calumniae, cit., pp. 41 ss., pp. 78 ss.

[75] La datazione oscilla tra il 42 e il 47 d.C., sotto il principato di Claudio: G. Purpura, Il papiro BGU 611, cit., p. 234. Il testo dell’oratio ci è tramandato dal papiro BGU 611(FIRA, vol. I, 2a ed., n. 44, pp. 285 ss.), su cui rinvio in particolare a G. Purpura, Il papiro BGU 611, cit., pp. 230 ss.

[76] D. 48.16. V. L. Fanizza, Delatori, cit., pp. 41 ss.; J.G. Camiñas, Le crimen calumniae, cit, pp. 132 s.; D.A. Centola, Il crimen calumniae, cit., pp. 69 ss. Il senatoconsulto previde altresì l’estensione delle pene stabilite per la calumnia anche alla praevaricatio e alla tergiversatio: Tac. Ann. 14.41.

[77] Pal., vol. I, col. 1296, nn. 1910 ss.

[78] Pal., vol. I, col. 688 ss., n. 287.

[79] Particolarmente significativa, rispetto al tema di nostro interesse, è la lettura di F. Botta, Opere giurisprudenziali de publicis iudiciis e cognitio extra ordinem criminale, in AA.VV., Studi in onore di Remo Martini, vol. I, Milano, 2008, p. 284 e nt. 9, circa il liber singularis ad Senatusconsultum Turpillianum di Marciano. Lo studioso, difatti, sottolinea l’evidente influsso della retorica classica sull’elaborazione del testo marcianeo, soprattutto riguardo alla metalepsis e alla translatio.

[80] Pal., vol. I, col. 944, n. 737.

[81] V. T. Spagnuolo Vigorita, Execranda pernices. Delatori e fisco nell’età di Costantino, Napoli, 1984, pp. 22 ss.; L. Fanizza, Delatori, cit., pp. 15 ss.; G. Zanon, Le strutture accusatorie della cognitio extra ordinem nel principato, Padova, 1998, pp. 51 s. e ntt. 17 ss.; B. Santalucia, Diritto, cit., p. 242, nt. 193.

[82] Quint. inst. or. 7.6.9.

[83] Sul processo di accostamento della fraus legis alla interpretazione ex sententia v. soprattutto B. Vonglis, La lettre, cit., pp. 153 ss. Nello stesso senso v. L. Fascione, Fraus legi. Indagine sulla concezione della frode alla legge nella lotta politica e nell’esperienza giuridica romana, Milano, 1983, pp. 190 ss.; D.A. Centola, Contra constitutiones iudicare. Alle origini di una dialettica nell’età dei Severi, Napoli, 2017, pp. 151 ss. Sul procedimento logico che collega la fraus legis all’interpretazione ex verbis v. anche le osservazioni di A. Burdese, s.v. Interpretazione nel diritto romano, in Dig. disc. priv., Sez. civ., vol. X, Torino, 1993, p. 8.

[84] Questo tipo di argomentazione consente a R.A. Bauman, The Leges iudiciorum publicorum, cit., pp. 120 s. e ntt. 88 e 89, di raffrontare il rapporto di carattere giuridico tra un provvedimento che sanzioni un fatto in ragione del riscontro di una voluntas criminale (dando, perciò, risalto alla causa) e quello che persegua il cd. factum perfectum, prescindendo dalla causa, con il rapporto tutto retorico tra la sententia e lo scriptum.

[85] Chi, come U. Wesel, Rhetorische Statuslehre, cit., pp. 36 ss., ritiene che lo scriptum et voluntas abbia nelle fonti retoriche romane solo una valenza restrittiva, sottolinea l’impiego dell’espressione greca da parte di Ulpiano al posto del corrispondente latino proprio per suffragare la teoria secondo la quale l’influenza della retorica romana fu alquanto tenue sui metodi adottati dalla giurisprudenza classica. La tesi di Wesel muove dall’assunto – che per la verità non ha trovato seguito in letteratura – che la contrapposizione retorica tra scriptum et voluntas non corrisponda alla giustapposizione giuridica tra verba et voluntas.

[86] Cic. de orat. 1.56.239-240.

[87] Quint. inst. or. 7.10.3. V. poi le fonti citate in L. Calboli Montefusco, La dottrina, cit., p. 157, nt. 11.

[88] Si basa sulla topica del casus omissus l’accostamento che R.A. Bauman, The Leges iudiciorum publicorum, cit., pp. 134 ss., ipotizza tra interpretazione estensiva e analogia, per quanto i due procedimenti risultino, a detta dello studioso, comunque tra di loro distinti (ivi, p.135). L’argomentazione di Bauman si fonda sulla lettura delle fonti fornita da B. Vonglis, La lettre, cit., pp. 126 ss., proprio riguardo l’aspetto estensivo della voluntas, che può condurre sia all’interpretazione estensiva sia all’analogia, con una certa confusione con il syllogismus. Vonglis, tuttavia, mi sembra essere meno categorico di Bauman nel delineare la linea di demarcazione tra analogia e interpretazione estensiva nello scriptum et voluntas. Tanto che egli (ivi, p.133) si rifà proprio alla linea ricostruttiva, disegnata appunto in questi termini, di A. Steinwenter, Prolegomena zu einer Geschichte der Analogie, vol. I, Analoge Rechtsanwendung im römischen Recht, in AA.VV., Studi in memoria di Emilio Albertario, vol. II, Milano, 1953, p. 114. È al riguardo peculiare la posizione di U. Wesel, Rhetorische Statuslehre, cit., pp. 45 ss., il quale, nella sua indagine, come segnalato sopra in nota, ipotizza che vi sia una distanza netta tra scriptum et sententia e verba et voluntas, con tutte le conseguenze che da tale tesi discendono circa la non sovrapponibilità dei risultati dell’interpretazione giuridica con quelli dell’interpretazione retorica.

[89] Sul regime antecedente v. Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., pp. 612 ss.; B. Santalucia, Diritto, cit., pp. 148 s., ntt. 138 s., e soprattutto J.D. Cloud, Parricidium: from the lex Numae to the lex Pompeia de parricidiis, in ZRG, (1971), pp. 1 ss.

[90] Su cui v. Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., pp. 643 ss.

[91] D. 48.2.12 Ven. Sat. 2 iud. publ.: «pr. Hos accusare non licet: legatum imperatoris, id est praesidem provinciae, ex sententia Lentuli dicta Sulla et Trione consulibus: item legatum provincialem eius dumtaxat criminis, quod ante commiserit, quam in legationem venerit: item magistratum populi Romani eumve, qui rei publicae causa afuerit, dum non detractandae legis causa abest. 1. Hoc beneficio etiam in reos recepti uti possunt, si abolitione interveniente repeti se non debere contendant, secundum epistulam divi Hadriani ad Glabrionem consulem scriptam. 2. Lege Iulia iudiciorum publicorum cavetur, ne eodem tempore de duobus reis quis quereretur nisi suarum iniuriarum causa. 3. Si servus reus postulabitur, eadem observanda sunt, quae si liber esset, ex senatus consulto cotta et messala consulibus. 4. Omnibus autem legibus servi rei fiunt excepta lege iulia de vi privata, quia ea lege damnati partis tertiae bonorum publicatione puniuntur, quae poena in servum non cadit. idemque dicendum est in ceteris legibus, quibus pecuniaria poena irrogatur vel etiam capitis, quae servorum poenis non convenit, sicuti relegatio. item nec lex Pompeia parricidii, quoniam caput primum eos adprehendit, qui parentes cognatosve aut patronos occiderint: quae in servos, quantum ad verba pertinet, non cadunt: sed cum natura communis est, similiter et in eos animadvertetur. item Cornelia iniuriarum servum non debere recipi reum Cornelius Sulla auctor fuit: sed durior ei poena extra ordinem imminebit».J.D. Cloud, Parricidium, cit., p. 52.

[92] Cfr. L. Fanizza, Il parricidio nel sistema della lex Pompeia, in Labeo, (1979), pp. 268 s. Sul contenuto dei due frammenti v. J.D. Cloud, Parricidium, cit., pp. 50 ss.  

[93] L. Fanizza, Il parricidio, cit., p. 273, osserva che Paolo è più sintetico, ma probabilmente si tratta di una sintesi dell’autore delle sententiae in età dioclezianea.

[94] V. E. Volterra, Ricerche intorno agli sponsali, in BIDR, (1932), pp. 128 ss., ora in Id., Scritti giuridici, vol. I, cit., pp. 380 ss. (da cui cito).

[95] Cfr. L. Fanizza, Il parricidio, cit., p. 271.

[96] Manca, infatti, il corrispondente “sponsus. Per le ipotesi interpolazionistiche v., ad esempio, E. Volterra, Ricerche, cit., pp. 380 ss.; B. Vonglis, La lettre, cit., pp. 159 s., nt. 4; L. Fanizza, Il parricidio, cit., p. 273.

[97] Rhetorische Statuslehre, cit., pp. 95 s., ma cfr. contra B. Vonglis, La lettre, cit., pp. 159 s., nt. 4, perché considera il brano integralmente interpolato e, dunque, non probante del ragionamento sillogistico. Nello stesso senso R.A. Bauman, The Leges iudiciorum publicorum, cit., p. 140, il quale, come Wesel, ritiene genuino il testo sulla scorta di Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., p. 127, nt. 1.

[98] L’esempio addotto da Quintiliano è particolarmente calzante, perché verte proprio in tema di parricidio: Quint. inst. or. 7.8.6: «Maioris pugnae est ex scripto ducere quod scriptum non est: an quia hoc, et hoc? “Qui patrem occiderit, culleo insuatur: matrem occidit…».

[99] Le implicazioni retoriche dell’analogia e le sue ripercussioni sul pensiero giurisprudenziale sono state oggetto di un’attenta e complessiva rivisitazione da parte di A. Mantello, L’analogia nei giuristi tardo repubblicani e augustei. Implicazioni dialettico-retoriche e impieghi tecnici, in AA.VV., Studi in onore di Remo Martini, vol. II, Milano, 2009, pp. 605 ss., ora in Id., Variae, vol. I, Lecce, 2012, pp. 8009 ss.

[100] Si tratta – com’è evidente – di un adattamento retorico del ragionamento sillogistico di origine filosofica. Si vedano al riguardo le osservazioni di L. Calboli Montefusco, La dottrina, cit., pp. 187 ss., la quale individua nella derivazione filosofica di questo status la ragione per la quale, verosimilmente, la similitudo è riconosciuta come autonoma nelle dottrine di ispirazione ermagorea e non anche in quelle elaborate in ambienti peripatetico-accademici, in cui il ragionamento raziocinativo era ricondotto all’argomentazione dello scriptum et voluntas. La distanza tra i due status, per quanto poco netta, è tracciata almeno in via teorica (ben più complesso, è, infatti, il passaggio dall’affermazione teorica alla effettiva applicazione pratica della regola enunciata) da Quint. inst. or. 7.8.1: «Syllogismus habet aliquid simile scripto et voluntati, quia semper pars in eo altera scripto nititur; sed hoc interest, quod illic dicitur contra scriptum, hic supra scriptum: illic qui verba defendit hoc agit ut fiat utique quod scriptum est, hic ne aliud quam scriptum est…».

[101] Rhet. ad Heren. 1.13.23, 2.12.18; Cic. inv. 2.50.148 ss., specialmente 2.50.150-151; Quint. inst. or. 7.8. Particolarmente articolata è la teoria proposta da Quintiliano. Il retore, infatti, distingue diversi scenari nei quali il sillogismo può trovare applicazione utile. Il primo caso è quello in cui dal testo della legge si desume qualcosa che è incerto (Quint. inst. or. 7.8.3-4: «… an quod semel ius est, idem et saepius? … An quod uno, et in pluribus? … An quod ante, et postea? … An quod in toto, idem in parte? … An quod in parte, idem in toto?...»). La seconda eventualità è quella in cui dal testo deve dedursi ciò che non è scritto, facendo ricorso laddove possibile alla legge simile, e sempre che l’equità lo consenta (Quint. inst. or. 7.8.7: «In hoc genere haec quaeruntur: an, quotiens propria lex non est, simili sit utendum, an id de quo agitur ei de quo scriptum est simile sit. Simile autem et maius est et par et minus. In illo priore, an satis lege cautum sit, an, etsi parum cautum est, et hoc sit utendum. In utroque de voluntate legum latoris. Sed de aequo tractatus potentissimi»). Ulteriori ragguagli in L. Calboli Montefusco, La dottrina, cit., pp. 190 s.

[102] Quint. inst. or. 7.8.7.

[103] Quint. inst. or. 5.2.1, 5.11.11. V. al riguardo R.A. Bauman, The Leges iudiciorum publicorum, cit., p. 137.

[104]Perinde (o proinde) … ac (o atque) si” è l’espressione generalmente utilizzata nelle fonti classiche (sia nei testi giurisprudenziali sia nelle costituzioni imperiali) per indicare il meccanismo logico-giuridico corrispondente alla fictio iuris, per molti versi assimilabile, quanto a effetto “creativo”, all’analogia. Si veda, in particolare, oltre a G. Gualandi, Legislazione, vol. II, cit., pp. 152 ss., J.-P. Coriat, Le prince législateur. La technique légisative des Sévères et les methodes de création du droit impérial à la fin du Principat, Roma, 1997, pp. 547 ss., e la bibliografia citata in nt. 204.

[105] Sul punto, per il diritto criminale, mi si consenta il rinvio a M. Scognamiglio, Nullum crimen, cit., pp. 136 ss.

[106] J.-P. Coriat, Le prince, cit., pp. 546 ss., si sofferma proprio sulla tecnica normativa basata sull’exemplum per affrontare il tema della produzione legislativa tramite interpretazione creativa/analogia.

[107] Sulla cui struttura v. F. Botta, Opere, cit., pp. 314 ss.

[108] È oggetto di dibattito in letteratura l’inserimento del crimen ex lege Fabia tra i iudicia publica. B. Santalucia, Diritto, cit., p. 130, esclude che la lex Fabia abbia istituito una quaestio perpetua, ma la dottrina non è unanime sul punto. Una discussione delle diverse opinioni è offerta recentemente da F. Botta, Per lo studio del diritto penale bizantino. Aspetti del regime repressivo del plagium fra tradizione romana e innovazione orientale, in Introduzione al diritto bizantino. Da Giustiniano ai Basilici, a cura di J.H.A. Lokin - B.H. Stolte, Pavia, 2011, pp. 624 ss.

[109] Comunque sicuramente prima del 63 a.C., anno nel quale è pronunciata da Cicerone la pro Rabirio perduellionis reo, in cui è fatta menzione della legge (Cic. Rab. perd. 3.8).

[110] Oltre a Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., pp. 780 ss., e B. Santalucia, Diritto, cit., pp. 130 s., v. quantomeno M. Molé, Ricerche in tema di plagio, in AG, 170- (1966), pp. 116 ss.;G. Longo, Crimen plagii, in AFGG, (1974), pp. 379 ss.; R. Lambertini, Plagium, Milano, 1980; F. Lucrezi, L’asservimento abusivo in diritto ebraico e romano. Studi sulla Collatio, vol. V, Torino, 2010; F. Botta, Per lo studio, cit., pp. 617 ss.; P.O. Cuneo, Sequestro di persona, riduzione in schiavitù e traffico di esseri umani. Studi sul crimen plagii dall’età di dioclezianea al V secolo d.C., Milano, 2018.

[111] Sanzione poi modificata nel corso dei secoli.

[112] Le condotte riconducibili al crimen plagii o ex lege Fabia, oppure in seguito all’attività interpretativa della giurisprudenza e integrativa degli imperatori, sono state efficacemente individuate e discusse da R. Lambertini, Plagium, cit., cui rinvio per maggiori approfondimenti.

[113]Illud non est omittendum” è verosimilmente indice di un’interpolazione dei compilatori giustinianei (cfr. in questo senso G. Longo, Crimen plagii, cit., p. 416).

[114] Come osserva R. Lambertini, Plagium, cit., p. 41, nt. 102, il testo sembra limitare l’applicazione della regola al caso del plagium su servi altrui, ed escludere, invece, l’ipotesi del plagio sull’uomo libero. Resta, tuttavia, aperto il problema della legittimazione ad agire rispetto alla fattispecie presa in esame da Marciano. Il dubbio sorge riguardo alla possibilità di riservare il diritto ad agire esclusivamente al dominus oppure anche ai terzi. In questo senso, l’unico riferimento di cui disponiamo è il testo dei Basilici, a commento del brano in esame. Si tratta di Bas. 60.48.1, Heimb., vol. V, pp. 825 s., dove si afferma che, analogamente a quanto previsto per la lex Aquilia, secondo cui l’azione compete nei confronti di colui che abbia ferito il servo non soltanto quando lo schiavo è ancora vivo, ma pure qualora lo schiavo fosse morto, rispetto alla lex Fabia tanto il dominus quanto chiunque altro potrà accusare il plagiarius sia vivo servo e sia mortuo servo. Dunque, i bizantini non avevano perplessità circa l’stensione del diritto di accusa anche ai terzi. Tuttavia, l’interpretazione dei Basilici non può essere del tutto probante per un’epoca tanto lontana nel tempo e perciò il problema – almeno rispetto al contenuto del brano di Marciano e del rescritto severiano – resta senza soluzione.

[115] G. Longo, Crimen plagii, cit., p. 416.

[116] La tesi è risalente e rimonta al periodo della critica interpolazionistica. Proprio rispetto all’espressione “indice” di nostro interesse, vale a dire l’impiego della formula exemplo legis ed altre analoghe, si era espresso così Solazzi, nel commentare il frammento di Modestino dedicato al crimen maiestatis, nel quale è postulata l’applicazione analogica della lex Iulia maiestatis anche ad exemplum legis: S. Solazzi, D. 48.4.7.3 e l’analogia nel diritto penale, in AA.VV., Scritti giuridici in memoria di Eduardo Massari, Napoli, 1938, pp. 407 ss.

[117] S.v. Exemplum, in VIR, vol. II, coll. 678 ss.

[118] Essenziale su questo aspetto lo studio di J.-P. Coriat, Le prince, cit., pp. 546 ss., in particolare p. 547.

[119] Si veda sopra, nt. 101.

[120] È il procedimento che Quintiliano descrive in inst. or. 7.8.3 s. In questo senso sono significative le parole di Tacito, il quale, nel prendere atto della concreta dilatazione dei confini del crimen maiestatis in via interpretativa, afferma: Ann. 2.50: “Adolescebat interea lex maiestatis…”.

[121] “pr. Famosi, qui ius accusandi non habent, sine ulla dubitatione admittuntur ad hanc accusationem. 1. Sed et milites, qui causas alias defendere non possunt: nam qui pro pace excubant, magis magisque ad hanc accusationem admittendi sunt. 2. Servi quoque deferentes audiuntur et quidem dominos suos: et liberti patronos. 3. Hoc tamen crimen iudicibus non in occasione ob principalis maiestatis venerationem habendum est, sed in veritate: nam et personam spectandam esse, an potuerit facere, et an ante quid fecerit et an cogitaverit et an sanae mentis fuerit. nec lubricum linguae ad poenam facile trahendum est: quamquam enim temerarii digni poena sint, tamen ut insanis illis parcendum est, si non tale sit delictum, quod vel ex scriptura legis descendit vel ad exemplum legis vindicandum est. 4. Crimen maiestatis facto vel violatis statuis vel imaginibus maxime exacerbatur in milites”. Sul testo e sulle problematiche teoriche ad esso sottese circa l’impiego dell’analogia in materia criminale, mi permetto di rinviare a M. Scognamiglio, Nullum crimen, cit., pp. 115 ss., ove è richiamata la bibliografia principale.

[122] Per la genuinità del testo e la classicità del riferimento al procedimento interpretativo basato sull’exemplum legis, per tutti Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., p. 127 e nt. 1.

[123] Quint. inst. or. 7.8.7.

[124] Questo dato mi fa propendere anche per la genuinità del riferimento al suo contenuto, perché, se il richiamo al rescritto fosse stato di matrice giustinianea, verosimilmente la costituzione ci sarebbe stata conservata nel codice.

[125] La funzione per così dire normativa dell’analogia è evidente sia nelle tecniche di redazione delle costituzioni imperiali (su cui si veda ampiamente J.-P. Coriat, Le prince, cit., passim, e specialmente pp. 546 ss.) sia nelle modalità di stesura dei senatoconsulti estensivi della prima età imperiale, per i quali, in riferimento al diritto criminale, rinvio a B. Santalucia, Diritto, cit., pp. 205 ss., ove è richiamata e discussa la principale bibliografia.

[126] Per tutti v. F. Serrao, s.v. Interpretazione della legge, cit., p. 239.

[127] È questa, per esempio, l’impostazione accolta nei più recenti studi e incontri seminariali, di cui costituisce un significativo esempio il volume collettaneo Dogmengeschichte und historische Individualität, cit. Tra i giuristi che maggiormente mettono a frutto gli insegnamenti retorici un ruolo di primo piano è quello di Celso, su cui si veda A. Mantello, La retorica di Celso figlio: a proposito d’una quaestio de bono et aequo, in AA.VV., Studi per Giovanni Nicosia, vol. V, Milano, 2007, pp. 121 ss., ora in Id., Variae, vol. I, cit., pp. 633 ss.

[128] Le varie regulae interpretative contenute in D. 1.3 sono studiatissime in letteratura e non è questa la sede per approfondire le svariate problematiche che ogni frammento solleva, tanto rispetto all’originalità formale e sostanziale del contenuto quanto in relazione all’individuazione del contesto dal quale ogni brano è stato estrapolato, individuazione essenziale al fine di attribuire alle parole del giurista il significato più appropriato. È comunque opportuno richiamare brevemente alcuni dei principi generali che possono trarsi dai vari testi: gli iura devono avere efficacia generale e non speciale (D. 1.3.8 Ulp. 3 ad Sab.); considerata la fisiologica impossibilità di ricomprendere in una disposizione tutti i casi che possono verificarsi, è necessario il ricorso all’interpretazione e all’analogia per integrare la disciplina esistente (D. 1.3.10 Iul. 59 dig., D. 1.3.11 Iul. 90 dig., D. 1.3.12 Iul. 15 dig., D. 1.3.13 Ulp. 1 ad ed. cur.); le leggi devono essere comprese non per le parole, ma per la loro forza e potestà (D.1.3.17 Cels. 26 dig.: «Scire leges non hoc est verba earum tenere, sed vim ac potestatem»); per rispettare la voluntas legis occorre adottare un’interpretazione benevola (D. 1.3.18 Cels. 29 dig.); nel caso di ambiguità, bisogna accogliere il significato meno insidioso, oppure si deve fare ricorso alla consuetudine o ai giudicati precedenti (D. 1.3.19 Cels. 33 dig., D. 1.3.38 Call. 1 quaest.); per ragioni di equità, non bisogna preferire un’interpretazione troppo rigida della legge (D. 1.3.25 Mod. 8 resp.); la legge anteriore integra la posteriore e viceversa (D. 1.3.26 Paul. 4 quaest., D. 1.3.27 Tert. 1 quaest., D. 1.3.28 Paul. 5 ad l. Iul. et Pap.); l’interpretazione ex voluntate consente di evitareatti compiuti in frode alla legge (D. 1.3.29 Paul. l. sing. ad l. Cinc., D. 1.3.30 Ulp. 4 ad ed.);la consuetudine ha forza di legge ed è parametro di riferimento per l’interpretazione degli atti normativi (D. 1.3.31 Ulp. 13 ad l. Iul. et Pap., D. 1.3.32 Iul. 84 dig., D. 1.3.33 Ulp. 1 off. proc., D. 1.3.34 Ulp. 4 off. proc., D. 1.3.35 Herm. 1 epist., D. 1.3.36 Paul. 7 ad Sab., D. 1.3.37 Paul. 1 quaest., D. 1.3.38 Call. 1 quaest.).

[129] La massima in lingua latina costituisce la composizione in un’unica formula di tre principi elaborati da P.J.A. Feuerbach, Lehrbuch des gemeinen in Deutschland gültigen peinlichen Rechts, Giessen, 1847, p. 41: nulla poena sine lege, nulla poena sine crimine, nullum crimen sine poena legali. Sul principio di legalità nella moderna giuspenalistica v. recentemente D. Perrone, Nullum crimen sine iure. Il diritto penale giurisprudenziale tra dinamiche interpretative in malam partem e nuove istanze di garanzia, Torino, 2019, ove ampia discussione della letteratura. Per i profili storici, con specifico riferimento al diritto romano, mi permetto di rinviare a M. Scognamiglio, Nullum crimen, cit.

[130] Rinvio a quanto ho già esposto in M. Scognamiglio, Nullum crimen, cit., pp. 47 ss., pp. 99 ss., pp. 143 ss.  

[131] Oltre a M. Scognamiglio, Nullum crimen, cit., pp. 64 ss., v. anche Ead., Tra retorica, cit., pp. 265 ss.

[132] Cfr. al riguardo le osservazioni di C. Venturini in tema di corruzione e concussione, esposte nel corso degli anni nei contributi oggi raccolti in C. Venturini, Scritti di diritto penale romano, vol. I, a cura di F. Procchi - C. Terreni, Padova, 2015, pp. 467 ss.

[133] A loro volta, tuttavia, aventi un contenuto estensivo di fattispecie esistenti: si veda sopra nt. 125.

[134] Esemplare di questo processo di “normazione” oltre al crimen repetundarum (su cui si veda sopra, nt. 132), anche il crimen maiestatis, per il quale rinvio a L. Solidoro Maruotti, La disciplina della ‘lesa maestà’ tra tardoantico e medioevo, in Ead. Profili storici del delitto politico, Napoli, 2002, pp. 1 ss.

[135] Sul complesso processo di formazione del diritto nell’esperienza giuridica romana, sebbene con una prospettiva rivolta al ruolo del processo civile, v. A. Palma, Il luogo delle regole. Riflessioni sul processo civile romano, Torino, 2016.

Scognamiglio Margherita



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