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Illecito e sanzione: il valore precettivo del ne bis in idem oltre il diritto penale

26.12.2020

Tommaso Pietrella

Dottorando di ricerca presso l’Università “La Sapienza” di Roma

 

Illecito e sanzione: il valore precettivo del ne bis in idem oltre il diritto penale*

 

English title: The constructive value of the ne bis in idem: how the principle goes far beyond criminal law, inspiring complementary legal responses to socially offensive conduct.

DOI: 10.26350/18277942_000012

 

Sommario: 1. Dalle Corti europee un ne bis in idem come regola unitaria. – 2. La giurisprudenza nazionale definisce l’operatività del principio europeo. – 3. Problemi connessi ai pronunciamenti della Cassazione in tema di ne bis in idem. – 4. Il doppio binario sanzionatorio nella logica dell’integrale valutazione dello stesso fatto. – 5. Sanzione e finalità punitiva. – 6. Pena e processo: come distinguere il penale da altri ambiti sanzionatori. – 7. Orientamenti per nuovi equilibri nel sistema sanzionatorio. – 8. Le sentenze di legittimità tra dispositivi e obiter dicta.

 

 

  1. Dalle Corti europee un ne bis in idem come regola unitaria

 

C’era un tempo in cui accanto all’espressione ne bis in idem non si poneva il termine “diritto”, ma quello di “divieto”. C’era un tempo in cui ne bis in idem indicava, a seconda della disciplina di cui si discuteva, divieti differenti. Note le parole del Cordero: «Anche i penalisti postulano un ne bis in idem: attribuiremmo due volte lo stesso atto all’autore, se gli applicassimo norme una delle quali sia eclissata dall’altra (“concorso apparente”); la figura legale “omicidio”, ad esempio, include “lesioni” e “percossa”. Ma il divieto d’un secondo giudizio sulla eadem res ha poco da spartire, anzi niente, con queste massime penalistiche (costituenti un capitolo della logica deontica); è puro fenomeno giudiziario, descritto da famose metafore: esercitando l’azione, l’attore la consuma»[1].

Un tempo, dunque, si parlava distintamente di ne bis in idem sostanziale e processuale. Del primo, stante l’assenza di una norma che lo espliciti, si postulava l’immanenza nel diritto vigente quale risultato deduttivo di un insieme di norme[2], ovvero quale «risultato normativo dell’elaborazione dogmatica di un’istanza-guida di giustizia materiale»[3], dandone applicazione nell’ambito della disciplina del concorso di norme[4]. Si trattava, infine, di individuare l’esatto contenuto del divieto di punire due volte lo stesso fatto[5], ricercando le concrete modalità e i vari criteri, ora solo logico-astratti (di specialità), ora anche di valore (consunzione, assorbimento, sussidiarietà), con cui soddisfare tale esigenza.

Quanto al secondo, atteso che l’art. 649 del codice di rito espressamente prevede il divieto di un secondo giudizio, la dottrina e la giurisprudenza discorrevano maggiormente riguardo al significato da attribuire al termine “fatto”, interpretandolo – a seconda dell’orientamento – vuoi come pura condotta[6]; vuoi come condotta qualificata, giacché «le condotte transitive sono individuate da ciò su cui cadono»[7]; vuoi come “fattispecie giudiziale”[8]; vuoi, infine, come triade di “condotta-nesso causale-evento”[9].

C’era un tempo, dicevamo, perché l’affermazione, a livello europeo, nel novero dei diritti fondamentali di un unico principio di ne bis in idem[10], comprensivo dei due divieti, e il successivo lavorio di quel formante giurisprudenziale hanno eroso i confini frapposti tra il diritto e la procedura nazionale, costruendo una figura ibrida dal significato multiforme. Come si vedrà più avanti, il principio elaborato dalle Corti europee segue infatti, al contempo, logiche di natura diversa: non si tratta di impedire un secondo procedimento o di risolvere un concorso apparente di norme, ma più genericamente di garantire il cittadino dalla moltiplicazione di profili punitivi, produttivi di una sproporzione tra sanzione e significato antigiuridico della condotta.

La gradualità[11] con cui questa figura ha acquisito cogenza a livello europeo si spiega facilmente se si considera che il risultato attuale non è altro che la somma di diversi fattori, logicamente connessi l’uno all’altro.

Primo presupposto logico è il riconoscimento da parte della giurisprudenza EDU dell’eccessiva onerosità di talune sanzioni, che, seppure non qualificate formalmente come penali, sono tali nella sostanza. Dall’esigenza di fronteggiare il cd. Etikettenschwindel[12]ed estendere, di conseguenza, le garanzie previste per il processo penale anche a quei procedimenti eccessivamente onerosi, ai quali – per mera qualificazione formale – non si sarebbero potute applicare, nasce il concetto di “materia penale” e si sviluppa l’elaborazione dei cd. criteri Engel[13] (segnatamente: la qualificazione formale; la natura dell’illecito e della sanzione; il suo grado di severità) al fine di identificare quali procedimenti e sanzioni debbano esservi ricondotti.

Il secondo presupposto è il radicarsi di una giurisprudenza del tutto garantista in merito all’interpretazione del termine “offence”di cui all’art. 4 Prot. 7 CEDU. Con la celebre sentenza “Sergey Zolotukhin c. Russia”, la Corte EDU supera definitivamente quell’orientamento che supponeva l’esistenza di un idem legale per l’applicabilità del principio ed accoglie l’opposto criterio di idem factum[14]. La portata del ne bis in idem, si noti bene, in questa fase rispondeva ancora solamentealle logiche del divieto di duplice giudizio, tant’è che l’interpretazione della Corte Europea aveva condotto la stessa Consulta a dichiarare l’illegittimità parziale dell’art. 649 c.p.p. nella parte in cui consentiva la celebrazione di un secondo processo per il solo apprezzamento di un concorso formale[15].

Terzo momento decisivo nel riconoscimento del principio del ne bis in idem è la postulazione in termini sillogistici dei due fattori precedenti. Atteso, da una parte, che la nozione di “offence” è comprensiva anche di illeciti e sanzioni di natura non formalmente penale[16] e, dall’altra, che la medesimezza del fatto – ai sensi dell’art. 4 Prot. 7 CEDU – si apprezza alla luce delle sole circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio, la deduzione che ne deriva è che la garanzia del ne bis in idem impediscela celebrazione di un procedimento penale ove all’individuo sia stata già inflitta, per lo stesso fatto, una sanzione extra-penale (e viceversa). Era questa la portata “innovativa” (seppure non avesse aggiunto nulla di nuovo) della sentenza “Grande Stevens c. Italia”: applicare, in caso di doppio binario sanzionatorio, il semplice divieto di duplice giudizio, impedendo così il molteplice susseguirsi di pretese punitive da parte dello Stato. D’altronde la Corte EDU aveva fatto eco alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che – nel caso “Åklagaren c. Hans Åkerberg Fransson” – aveva precedentemente ritenuto, a monte, il doppio binario sanzionatorio penale-amministrativo incompatibile con il ne bis in idem, ad eccezione del caso in cui tale strumento repressivo fosse stato necessario per soddisfare gli interessi dell’Unione mediante l’applicazione di pene efficaci, proporzionate e dissuasive (prevedendo, così, una deroga al principio, giustificata dall’art. 52, par. 1, CDFUE).

Questo semplice sillogismo, tuttavia, subiva – prima – un’interruzione da parte della giurisprudenza EDU, la quale integrava l’accertamento in merito la violazione di ne bis in idem con diversi criteri, i quali venivano – poi – confermati e precisati dalla Corte di Giustizia UE. Nello specifico, nel caso A e B v. Norway, la Corte EDU precisa che non è più sufficiente il solo concorso di procedimenti e sanzioni “penali” per determinare violazione del principio, ma occorre accertare che la predisposizione di tale sistema sanzionatorio non abbia rispettato un terzo requisito: il sussistere di una “sufficiently close connection in substance and in space”.Parimenti, la Corte individua alcuni criteri alla stregua dei quali apprezzare l’esistenza di tale connessione temporale e sostanziale. È dunque necessario valutare: a) se i procedimenti abbiano scopi complementari e investano, anche in concreto, aspetti diversi della stessa condotta antisociale censurata; b) se la duplicità dei procedimenti sia conseguenza prevedibile dello stesso comportamento sanzionato; c) se i procedimenti siano condotti in modo tale da evitare, per quanto possibile, qualsiasi duplicazione nella collezione e nella valutazione degli elementi di prova; d) se, soprattutto, la sanzione imposta all’esito del procedimento conclusosi per primo sia stata tenuta presente nell’ambito del secondo, in modo da prevenire che sull’interessato gravi un onere eccessivo. Tale rischio, infatti, è meno suscettibile di presentarsi se esiste un meccanismo compensatorio concepito per assicurare che l’importo globale di tutte le pene pronunciate sia proporzionato. A tali criteri la Corte EDU aggiunge, inoltre, la necessità di valutare se le sanzioni extra-penali siano riconducibili o meno al “nucleo essenziale” del diritto penale, dal momento che, nel caso in cui non lo fossero, vi sarebbero meno probabilità di ritenere troppo gravoso l’onere sanzionatorio complessivo.

Quanto alla Corte di Giustizia UE, nelle sentenze relative alle cause C-524/15, “Menci”, C-537/16, “Garlsson Real Estate SA e a.”, e C-596/16 e C-597/16, “Di Puma e Zecca”, essa si attiene al nuovo orientamento espresso dalla giurisprudenza EDU, confermando il requisito della stretta connessione trai due procedimenti, e, insistendo maggiormente sul canone di proporzionalità, impone specificamente al giudice comune di valutare che l’onere risultante dal cumulo dei procedimenti e delle sanzioni non sia eccessivo rispetto alla gravità (o disvalore) della condotta tenuta.

Per far fronte al vulnus di tutela che il doppio binario sanzionatorio era suscettibile di determinare, le Corti europee hanno pertanto concepito il principio di ne bis in idem come una figura ibrida, nel senso che la valorizzazione del disvalore di una condotta ed il rapporto proporzionale con la pena corrispondente non sono più oggetto di un apprezzamento in termini di ne bis in idem sostanziale, ossia non rispondono più all’esigenza di impedire la molteplice qualificazione sostanziale di un accadimento unitario. Disvalore e proporzionalità sono ora utilizzati quali parametri per valutare l’opportunità di un secondo giudizio o, meglio, di una seconda sanzione, sicché da essi dipende la giustificazione o meno dell’esercizio del potere repressivo rispetto singole porzioni di disvalore.

 Solo in questi termini, anche a livello nazionale, il principio di ne bis in idem poteva assumere significato e dare soluzione a quella duplicazione repressiva eccessivamente onerosa, causata dal doppio binario sanzionatorio amministrativo-penale. D’altronde, non sarebbe stato possibile inquadrare il problema in termini di concorso apparente di norme, facendo conseguente applicazione dei noti criteri di specialità[17], consunzione o assorbimento, posto che la normativa – con clausole di salvaguardia – prevede espressamente il concorso di illeciti, sicché la convergenza di più norme non dà causa ad alcuna apparenza di concorso ma è risolta legislativamente a favore della plurima qualificazione. Non si sarebbe potuto applicare neppure il semplice divieto di doppio giudizio, giacché l’art. 649 c.p.p. presuppone la sottoposizione a due procedimenti formalmente penali. Inoltre, se vi si fosse ritenuto compreso anche il procedimento para-penale, si sarebbero provocate un’incertezza e una casualità nelle sanzioni applicabili tali da ledere i principi fondamentali di determinatezza e legalità della sanzione penale nonché l’art. 3 Cost[18].

 

  1. La giurisprudenza nazionale definisce l’operatività del principio europeo

 

Questo, in definitiva, lo stato dell’arte cui le diverse Sezioni – civili e penali – della Cassazione si sono dovute riferire per dar voce al ne bis in idem e trasporre, sul piano applicativo, la soluzione individuata dalla giurisprudenza europea. Un compito non facile. Infatti, sebbene le Corti europee avessero esplicitato che il ne bis in idem risponde all’esigenza di tutelare il cittadino da un’eccessiva risposta sanzionatoria e che, pertanto, si impone al giudice comune la valutazione della corrispondenza proporzionata tra condotta e sanzione complessiva, rimaneva di competenza della Suprema Corte non solo individuare i termini di questo apprezzamento, ma, cosa ancor più difficile, lo strumento giuridico che consentisse al giudice comune di risolvere la sproporzione in caso di violazione del ne bis in idem. In sintesi: in base a quali parametri si valuta l’eccessiva onerosità della risposta sanzionatoria? Che cosa fare nel caso in cui tale sproporzione appaia evidente?

Tali, dunque, i problemi che la Cassazione ha risolto, individuando una regola iuris, che ora illustreremo, innovativa. Avrebbe forse dovuto intervenire il legislatore? Sì, lo vedremo, ma il Parlamento continua a latitare[19], sottraendosi al suo compito e delegando, silentemente, la magistratura.

Tra le diverse pronunce di legittimità che si sono rapidamente succedute[20], Cassazione penale n. 49869 del 2018 assume un particolare rilievo paradigmatico: non solo riepiloga l’intero sviluppo giurisprudenziale (nazionale e sovranazionale) in tema di ne bis in idem, avendo riguardo, soprattutto, ai recenti arresti delle Corti europee; ma, altresì, inerisce al caso più frequente ove a divenire definitivo per primo è il provvedimento amministrativo. In tale pronunciamento la Corte di Cassazione illustra chiaramente al giudice comune la valutazione che il principio elaborato dalle Corti sovranazionali gli impone, il suo riferimento normativo e, cosa più importante, il potere che gli si riconosce.

Ecco, dunque, che cosa si richiede. In primis, occorre che il giudice valuti se sul binario opposto a quello penale corrano anche un illecito, un procedimento e una sanzione formalmente amministrativi (o civili, disciplinari e così via) ma nella sostanza “penali”, adoperando in tal modo i noti “criteri Engel”. Dopodiché, dovrà considerare se entrambi gli illeciti siano riferibili alle medesime circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio, inerendo cioè ad un medesimo fatto storico[21].

Se, pertanto, il giudice comune dovesse ravvisare una sovrapposizione, sull’idem factum, di due sanzioni “penali” (l’una formalmente, l’altra solo sostanzialmente tale), dovrà poi procedere a valutare quegli ulteriori elementi, indici di una stretta connessione sostanziale e temporale, che legittimano il sistema binario[22].

Il criterio prevalente tra quelli decritti «per verificare la presenza della stretta connessione è pacificamente individuato da tutte le pronunzie in quello della “proporzionalità” tra il cumulo di sanzioni irrogate (di cui quella amministrativa pecuniaria è ormai considerata di natura penale) e la gravità dell’illecito»[23]. Secondo la Corte di legittimità, questo apprezzamento rientra nell’ambito applicativo dell’art. 133 c.p. e soggiace, pertanto, alle valutazioni ed ai parametri ivi indicati. Ne comporta ovviamente un allargamento: l’operazione deve, infatti, estendersi sino a comprendere la sanzione amministrativa già applicata, imponendo al giudice di considerare se l’interesse generale sotteso alla disciplina dell’illecito penale sia stato già, in parte o totalmente, soddisfatto da quella sanzione. Individuerà così la misura della pena applicanda sul residuo non coperto dalla precedente sanzione.

Ebbene, alla luce di questo canone, la disciplina degli abusi di mercato – sulla quale verteva l’esame della Corte – manifesta senza dubbio (non solo in astratto, ma anche in concreto) un elevato grado di severità: oltre al concorso delle sanzioni principali (reclusione da uno a sei anni e multa da euro ventimila a euro tre milioni, nonché sanzione amministrativa da ventimila euro a cinque milioni di euro), simile normativa consente infatti, in entrambi i procedimenti, l’aumento della multa/sanzione «fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il prodotto o il profitto conseguito», nonché pene accessorie e confisca obbligatoria[24] del profitto e del prodotto[25] dei reati o degli illeciti amministrativi. Difficile, dunque, che il giudice nazionale – autorizzato a valutare la proporzione tra fatto e sanzione – non pervenga a ravvisare in tali pene draconiane un eccesso di repressione, una dismisura rispetto alla lesività di un bene giuridico dalla determinatezza, fra l’altro, discutibile[26]

Ritenuta sussistente la violazione del ne bis in idem per effetto di una sproporzione tra la risposta sanzionatoria complessiva e il disvalore espresso dalla condotta, la Cassazione – dovendo porre rimedio a tale violazione – riconosce infine la possibilità di disapplicare, in tutto[27] o solo in parte, la normativa penale, derogando in bonam partem ai minimi edittali. In tal modo, il giudice dovrà rapportare il quantum di pena all’effettivo disvalore del fatto, nella misura non coperta dalla precedente sanzione[28]. Obbligo, questo, normativamente imposto dalla diretta applicabilità che si riconosce al principio del ne bis in idem consacrato nell’art. 50 CDFUE[29] e dalla conseguente necessità di disapplicare la normativa interna con esso confliggente.

 

  1. Problemi connessi ai pronunciamenti della Cassazione in tema di ne bis in idem

 

Il nuovo orientamento della giurisprudenza di legittimità, in accoglimento dei più recenti pronunciamenti delle Corti europee, consente finalmente di attenuare un rigido e quanto mai severo regime sanzionatorio e di dare concreta applicazione a un principio che, sinora, non aveva avuto significative estrinsecazioni. Non può nascondersi, tuttavia, una nota di rammarico. La conclusione cui è pervenuta la Cassazione e che sta già trovando riscontri nella giurisprudenza di merito può rappresentare soltanto una soluzione temporanea, capace di arginare violazioni del ne bis in idem, ma non di prevenirle.

La costruzione del ne bis in idem quale figura ibrida, nei termini sopra specificati, seppure ricomprenda il divieto di doppio giudizio, ne produceuna sostanziale restrizione[30], inteso che ad esser precluso non è più l’intero procedimento, ma la punibilità di “frazioni” di disvalore già coperte da precedenti sanzioni. Tuttavia, la stessa Corte di Cassazione ricorda che il divieto di perseguire la stessa persona per lo stesso fatto, sancito dall’art. 50 CDFUE, «è logicamente anteriore al divieto di sanzionare»[31], per cui basterebbe l’inizio di un secondo procedimento onde considerare violato il ne bis in idem. Per evitare che la garanzia osti all’applicazione di sanzioni «efficaci e dissuasive», si è deciso, diversamente, di contemperare il dato normativo, facendo leva sulla proporzionalità complessiva della pena. In questo modo si perde, però, la ratio del divieto di giudicare due volte una persona per lo stesso fatto, quella medesima ratio di cui la dottrina italiana ha discusso lungamente con riguardo all’articolo 649 c.p.p., ovvero: l’incontestabilità del risultato di un processo e la certezza del diritto. Una “certezza” da intendersi in un duplice significato[32]: in senso soggettivo come “sicurezza dei diritti”, con il corollario che si vieterebbe l’esposizione dell’assolto o condannato a un’illimitata possibilità di reiterazione dei procedimenti per lo stesso fatto[33]; in senso oggettivo, a garanzia dell’unità di giurisdizione ed ispirato da ragioni di economia processuale, come “coerenza logico-formale”, con l’effetto di impedire conflitti pratici tra decisioni definitive.

Pertanto, il ne bis in idem, nella sua veste processuale, soddisfa una diversa e ulteriore esigenza, «non circoscritta unicamente ad evitare il pericolo di una duplice sottoposizione alla pena, ma costruita inoltre sul presupposto che il costo sul piano umano di un nuovo processo penale [o sostanzialmente tale] non trova comprensione adeguata nell’interesse sociale alla ricerca incessante di una presunta verità materiale»[34].

Si perde, in tal senso, un aspetto fondamentale del ne bis in idem e si finisce per confondere tale principio con un’altra esigenza, espressa dall’art. 49 CDFUE, §3: «Le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato». Ma il ne bis in idem non è solo proporzionalità della risposta sanzionatoria. È molto più: esso impone al legislatore di non pregiudicare il cittadino sulla scorta di pretestuose moltiplicazioni qualificatorie e per vicende di vita che necessitano di essere ricondotte entro un unico quadro; impone di dare coerenza all’intero ordinamento, evitando vane duplicazioni. Si rivolge, ancora, al giudice, affinché sussuma la condotta entro le fattispecie astratte espressive del significato antigiuridico così come inteso dal legislatore ed eviti che la macchina della giustizia torni a valutare accadimenti sui quali si sia già espressa.

Il solo riferimento alla proporzionalità delle pene, necessariamente, si sottopone poi a valutazioni critiche, nella misura in cui la giurisprudenza, europea e nazionale, non specifica criteri oggettivi e univoci[35] per poter apprezzare il rapporto proporzionale tra gravità del fatto e pena corrispondente. La proporzionalità, infatti, non è una caratteristica auto-evidente, ma uno «schema che si presta ad essere fondato e sviluppato in modi diversi»[36], secondo quei parametri e criteri che di volta in volta si utilizzino; è l’idea centrale, da sempre, di ogni teoria sulla pena e sulla sanzione[37], per cui il concetto di proporzionalità dipende – inevitabilmente – dagli scopi che si intendano raggiugere e/o dai valori che si vogliano tutelare. In sostanza: «domina il campo il totale relativismo delle opzioni»[38].

L’effetto, dunque, è quello di lasciare il giudice di merito sprovvisto di strumenti idonei a valutare la proporzionalità, di lasciarlo solo, con riguardo a valutazioni che – dall’una o dall’altra parte del processo – potranno non essere condivise ed essere eventualmente censurate dal giudice dell’impugnazione, portatore – a sua volta – di un diverso ideale di proporzionalità[39].

Inoltre, l’aver rapportato la proporzionalità delle sanzioni alla sola gravità del fatto rischia di alimentare una visione puramente retributiva[40] della pena e del diritto penale, sulla base di quell’assunto, fortemente criticato in dottrina, che esista e possa essere individuata una pena la quale, negativo per negativo, compensi il male commesso nel reato[41]. Il che, oltre ad essere immotivato sul piano morale e su quello preventivo, sarebbe per di più impossibile. Chi può dire quale pena sia davvero proporzionata a un abuso di mercato? Dovremmo essere capaci di misurare l’offesa ai valori e ai beni giuridici tutelati dalle norme, «entità prive di base epistemologica di raffronto»[42], e di bilanciarli con il sacrificio della libertà personale o patrimoniale del reo. Ma non solo: dovremmo anche essere in grado di misurare la colpevolezza interiore, quale indicatore concreto per determinare la pena giudiziale[43].

Il rischio, dunque, è che la pena dipenda «dal modo attraverso il quale in un dato contesto storico si richieda (emotivamente) di esprimere, nei confronti del soggetto responsabile, la gravità attribuita a un certo fatto antigiuridico»[44].

Sempre in tema di proporzionalità, preme osservare che, secondo la Corte[45], uno dei parametri per valutare il disvalore del fatto, dal quale desumere poi la corretta corrispondenza della pena, è l’apprezzamento degli «aspetti propri di entrambi gli illeciti e, in particolare, degli interessi generali sottesi alla disciplina degli abusi di mercato». Si presume, infatti, che i due procedimenti e le sanzioni «riguardino, in vista della realizzazione di un obiettivo di interesse generale, scopi complementari vertenti, eventualmente, su aspetti differenti della medesima condotta di reato interessata».

Emerge nondimeno, sul punto, un’antinomia. L’apprezzamento della finalità del procedimento/sanzione, infatti, è imposto a monte, al fine di accertare – secondo i “criteri Engel”[46] - se la sanzione amministrativa sia sostanzialmente “penale”. Ora, se per escludere la violazione del ne bis in idem occorre innanzitutto accertare la complementarietà di scopi, in caso di doppio binario sanzionatorio si dovrebbero poter ravvisare nella sanzione amministrativa uno scopo e un interesse diversi dal “punire”, essendo questo il fine precipuo dell’ambito penale. Se si escludesse la finalità punitiva, tuttavia, la sanzione amministrativa perderebbe quella qualifica di “sostanzialmente penale” che tale finalità le aveva fatto assumere, di guisa che il principio di ne bis in idem, sin dall’inizio, non troverebbe applicazione: esso, infatti, opera solo al concorrere di due sanzioni “penali” (formalmente o sostanzialmente tali), non estendendosi le garanzie penali anche ai procedimenti di diversa tipologia.

Rimane, dunque, incomprensibile come possa la giurisprudenza nazionale riconoscere allo stesso tempo la natura penale della sanzione amministrativa (in quanto persegue il medesimo fine di quella penale) e la complementarietà degli scopi che giustifica il doppio binario sanzionatorio.

Nella disciplina degli abusi di mercato, ciò che maggiormente determina la violazione del ne bis in idem è, difatti, la duplicazione della finalità punitiva, insita sia nella sanzione penale, sia in quella amministrativa[47]. Nei suoi pronunciamenti, invece, la Cassazione non fonda la violazione del ne bis in idem sulla riproduzione del medesimo fine (quello punitivo), ma unicamente sulla sproporzione tra l’entità finale della sanzione e la violazione degli interessi tutelati. La complementarietà degli scopi, che pure è menzionata, deriverebbe, a suo dire, dalla diversità degli interessi tutelati dalla normativa penale ed amministrativa[48].

Scelta discutibile. Una cosa è la finalità della sanzione, altra l’interesse generale che l’illecito tutela. Potranno pure ricavarsi interessi diversi da illeciti che sanciscono il medesimo precetto[49], ma non si può certo negare che la piena sovrapponibilità – in termini di onerosità – delle sanzioni deponga a favore dell’identità dei loro fini.

Pertanto, sarebbe stato preferibile che si fosse rapportato il canone di proporzionalità direttamente agli scopi stessi delle sanzioni e non alla realizzazione o meno dell’interesse sotteso alla normativa. Dello stesso parere, d’altronde, è la Corte costituzionale, che in tema di confisca obbligatoria del prodotto degli illeciti amministrativi previsti dalla disciplina del TUF, ha ravvisato proprio nella duplicazione della finalità punitiva l’elemento di sproporzione tra sistema sanzionatorio e fatto concreto[50]

 

  1. Il doppio binario sanzionatorio nella logica dell’integrale valutazione dello stesso fatto

 

Ad ogni modo, la regola iuris individuata dalla Corte di Cassazione – valutazione della proporzionalità dell’intera risposta sanzionatoria rispetto al disvalore della condotta secondo i parametri dell’art. 133 c.p. e conseguente deroga ai minimi edittali qualora parte del disvalore sia già coperto dalla sanzione amministrativa – permette di arginare gli eccessi punitivi cui, sinora, la giurisprudenza non aveva potuto rimediare.

Siamo, tuttavia, ben lontani dall’affermare che la disciplina degli abusi di mercato (e non solo) sia conforme al ne bis in idem. Perché ciò avvenga, occorre che i due procedimenti/sanzioni concorrenti siano intesi effettivamente come complementari tra di loro e non più come pienamente sovrapponibili nei fini.

A tal proposito, è chiaro come l’unica via percorribile sia quella de lege ferenda. Sel’intenzione è quella di apprestare una tutela dalla pretestuosa duplicazione repressiva, ex ante riconoscibile – posto che è dalla loro configurazione astratta che è possibile apprezzare la finalità dell’illecito e della sanzione – solo l’intervento del legislatore è idoneo a ricostruire due illeciti complementari negli scopi, adattando – in tal modo – la politica criminale al principio del ne bis in idem.

Prima di esaminare in che modo, a nostro parere, il potere politico potrebbe adeguare la normativa vigente al ne bis in idem, preme però fare un piccolo passo indietro e inquadrare la questione in termini precisi.

Ciò che origina i due procedimenti di diversa natura è la duplice qualificazione giuridica – in termini identici – del medesimo fatto storico, nel segno di un’azione repressiva tanto più severa[51].  Ragionando secondo i canoni dogmatici “tradizionali”, il divieto di essere puniti più volte per lo stesso fatto – ne bis in idem sostanziale – precede logicamente quello – processuale – di subire più giudizi: il primo sarebbe violato anche se la sanzione amministrativa (ma sostanzialmente penale) e quella penale fossero emesse all’esito del medesimo procedimento.

Nelle logiche del ne bis in idem sostanziale, la molteplice qualificazione giuridica del medesimo fatto nasce, in realtà, dall’apparenza del concorso: le norme “penali” nella loro semantica appaiono contemporaneamente applicabili, ma solo una è quella realmente riferibile al caso concreto, perché speciale e pertanto derogatoria a quella generale. Differentemente, quando si tratta della convergenza di norme aventi diversa natura, il concorso è sempre effettivo[52]. Non occorre stabilire se vi sia unità o pluralità di fatti giuridici (come in caso di concorso di norme penali), ma piuttosto stabilire, dato un unico fatto giuridico, in quante direzioni sia rilevante e quanti effetti di differente natura produca[53].

Qualora un medesimo fatto sia considerato da più norme, che vi ricollegano effetti di natura diversa, ciò significa che tale fatto viene contemplato dall’ordinamento sotto molteplici profili[54]. «Alla valutazione giuridica del fatto, perciò, concorrono varie norme, le quali soltanto nel loro insieme ne esauriscono in ogni direzione, in tutta la sua estensione, la rilevanza giuridica»[55]. Dunque, il principio sovraordinato che dovrebbe indirizzare l’interprete è quello di una “integrale valutazione giuridica del fatto” in tutti i suoi aspetti giuridici rilevanti.

Orbene, ogni qual volta l’illecito amministrativo che concorra con quello penale è qualificabile come “sostanzialmente” penale, ciò che si realizza è una sorta di sopravvalutazione dello stesso fatto. Dal medesimo precetto non scaturiscono effetti giuridici differenti, non c’è una profilazione del fatto tale da coprire differenti direzioni, bensì la riproduzione della medesima valutazione di quel fatto.

Si comprende, allora, che la molteplice qualificazione giuridica non comporta, di per sé, la violazione del ne bis in idem sostanziale. Solamente quando la norma “non penale” – non necessariamente amministrativa, valendo anche per l’ambito civile, disciplinare, etc. – assume i medesimi contenuti e le medesime finalità della norma penale, tale da potersi qualificare come “sostanzialmente” penale (rivestendo, pertanto, caratteristiche tali da uscire per sostanza dai confini della categoria giuridica cui formalmente appartiene), l’una esaurisce il giudizio di illiceità del fatto proposto anche dall’altra.

Ciò che occorre, dunque, in una prospettiva de lege ferenda, non è l’eliminazione a priori del sistema a doppio binario, ma la sua ristrutturazione secondo le direttive appena indicate, ossia facendo in modo di associare ad un medesimo precetto sanzioni di sostanza, scopi ed effetti differenti[56].

Del resto, rinunciare tout court al procedimento amministrativo vorrebbe dire rinunciare all’effettività della risposta sanzionatoria in un settore particolare, come quello economico, ove il funzionamento del mercato e il rispetto della concorrenza richiedono un’indiscutibile celerità e tecnicismo. Pacifico, infatti, che «la tutela extrapenale e amministrativa può offrire, in determinate situazioni, garanzie di maggior tempestività e certezza d’attuazione e, quindi, dimostrarsi più idonea sotto il profilo della prevenzione generale»[57].

Dall’altra, se si rifiutasse la presenza del diritto penale in questo settore, «in quanto elemento di disturbo, per le sue connotazioni di rigidità, rispetto ad un sistema tutto sommato in grado di autoregolarsi o di ricorrere ad altri più adeguati e consoni strumenti di controllo»[58], si minerebbe, dal punto di vista processuale, il rispetto di quei fondamentali diritti e garanzie che corredano il processo penale. Dal punto di vista sostanziale, invece, si demanderebbe alla Pubblica Amministrazione il giudizio di illiceità di fatti che, in alcuni casi, sono carichi di un disvalore oggettivo e soggettivo ben più pregnante dei reati comuni.

Sott’accusa, in definitiva, non è solamente il doppio binario sanzionatorio, amministrativo e penale, ma la dislocazione in più fattispecie, tra loro concorrenti, di effetti tutti considerati penali: un universo sconfinato e quanto mai eterogeno, «astrattamente incline ad abbracciare le più diverse costellazioni tipologiche di norme, illeciti e sanzioni»[59].

Misure di prevenzione, confische, sanzioni disciplinari, interdizioni ed incapacitazioni, e da ultimo persino i cd. punitive damages[60], assolvono a funzioni non altrimenti realizzabili, capaci di risultati che la sola pena principale non sarebbe in grado di garantire. Tuttavia, in certi casi, questi strumenti possono assurgere ad un tale grado di onerosità da riprodurre identicamente quell’effetto che l’ordinamento giuridico appresta con la previsione di fattispecie penali. E così, se la finalità di una misura extrapenale equivale a quella delle norme penali (perché non altrimenti spiegabile), il concorso tra più di esse comporta una duplicazione, triplicazione, quadruplicazione (e così via) del medesimo giudizio di illiceità sullo stesso fatto.

Diversamente, se lo scopo e l’effetto di tali misure è realmente differente, la loro convergenza su di un medesimo accadimento consente di considerarle sostanzialmente connesse le une alle altre, ossia come diversi tasselli di un’unica risposta sanzionatoria integrata. Solo un coordinamento tra le diverse sanzioni permette di sfuggire a censure di ne bis in idem sostanziale, così come solo una stretta connessione – nel rispetto della più recente giurisprudenza europea – tra i diversi procedimenti consente di evitare bis in idem processuali.

Si veda bene che in questo modo, all’interno di quella che abbiamo definito essere una “figura ibrida” – il ne bis in idem europeo –, la veste sostanziale non fagocita più quella processuale, ed entrambi i divieti, di doppia pena e processo, trovano piena cogenza.

 

  1. Sanzione e finalità punitiva

 

Evitare che il sistema sanzionatorio a due binari trasmodi nella doppia punizione di una stessa condotta[61], con la riproduzione di effetti giuridici identici a fronte di un medesimo fatto: questo il significato che deve attribuirsi a quel requisito, la complementarietà di scopi, imposto dalle Corti europee.

Accade, tuttavia, che nel distinguere gli effetti penali da quelli amministrativi si provi un certo imbarazzo. Potrebbe sembrare compito facile, eppure, se si cerca di selezionare i fini esclusivi che la pena in senso stretto persegue, ci si accorge ben presto di essere a corto di idee. Forse che anche l’illecito amministrativo non abbia, in sé stesso, una componente punitiva?

Stando all’interpretazione delle Corti europee, la sanzione amministrativa può dirsi “sostanzialmente” penale allorquando essa abbia una connotazione afflittiva pari a quella che generalmente caratterizza quella “formalmente” penale e sia inflitta perseguendo una finalità non già meramente risarcitoria, ma preventiva (dissuadere i futuri trasgressori dal commettere le condotte illecite) e repressiva (sanzionare coloro che hanno commesso questo tipo di fatti ed evitare la loro recidiva)[62].

La ricostruzione volta a riconoscere l’ontologismo del penale nell’afflizione, tuttavia, non convince. Sostenere che le sanzioni amministrative siano sostanzialmente penali in quanto attingono a una sofferenza, legalmente inflitta[63], in chiave di deterrenza e neutralizzazione, superando la sola compensazione riparatoria e/o satisfattiva[64], farebbe nascere, infatti, un equivoco: la pena si identificherebbe, tout court, nell’inflizione di una sofferenza in chiave di deterrenza e neutralizzazione. Il che significherebbe riferirsi, ancora una volta, a una concezione puramente retributiva della pena, in base all’assioma per il quale «la giustizia consisterebbe nel rispondere al negativo individuato nell’altro con la reciprocità del negativo che gli venga inflitto»[65], perdendo di vista – tra l’altro – il finalismo rieducativo della pena, «verso cui obbligatoriamente [essa] deve tendere»[66].

Anche da un punto di vista semplicemente pratico, è evidente che, in alcuni casi, è proprio la sanzione amministrativa, e non quella penale, a esser considerata più “afflittiva” e idonea a produrre l’effetto “dissuasivo-repressivo” che, in teoria, dovrebbe riconoscersi esclusivamente al penale (per timore dell’inflizione di una sofferenza). Si rammenti, in proposito, la normativa sugli abusi di mercato, in rapporto alla severità delle sanzioni amministrative in essa previste, e si consideri che, al contrario di queste ultime, la pena può essere condizionalmente sospesa e presuppone, con riguardo a un delitto, l’accertamento del dolo[67].

Se afflizione e sofferenza non debbono considerarsi le traduzioni teleologiche della pena in senso stretto, deve forse esserlo la rieducazione del condannato? Certamente. Tuttavia, il finalismo rieducativo, secondo l’assioma dell’art. 27 Cost., non può ritenersi depositum esclusivo della sanzione penale: sostenerlo significherebbe negare, infatti, che anche attraverso la sanzione amministrativa l’autore dell’illecito risulti sollecitato a comprendere il disvalore della propria condotta e a rispettare, per il futuro, la norma violata[68]. Anche la sanzione amministrativa, dunque, mostra una componente rieducativa, che la rende simile – sotto questo aspetto – alla pena in senso stretto.

Ecco l’incertezza cui ci riferivamo. Messe a confronto, sanzione penale e amministrativa sembrano di fatto perseguire gli stessi scopi[69].

Ma allora, facendo applicazione di uno dei “criteri Engel”, quello dello “scopo della sanzione”, gli illeciti amministrativi sono quasi sempre “sostanzialmente penali”: rimarrebbero esclusi soltanto quelli che prevedono sanzioni meramente risarcitorie[70], ovvero aventi finalità immediate di prevenzione e dunque tali da non presentare quei caratteri suscettibili di farle attrarre nell’alveo delle sanzioni “sostanzialmente” penali. Lo scopo delle prime, infatti, è solamente quello di compensare[71] i danni provocati dalla condotta, in modo da ripristinare la situazione antecedente; mentre le seconde risponderebbero esclusivamente a esigenze di neutralizzazione della pericolosità.

Se, dunque, la sanzione amministrativa e la pena perseguono, per lo più, i medesimi effetti, sicché la prima è qualificabile come sostanzialmente penale, in che modo potrebbe strutturarsi un doppio binario sanzionatorio evitando che l’illecito extrapenale sia incorporato in quel cerchio[72] entro il quale debbono applicarsi le garanzie sostanziali e processuali tradizionali (tra cui il ne bis in idem, sostanziale e processuale)?

  1. Pena e processo: come distinguere il penale da altri ambiti sanzionatori

 

La sanzione, che sia penale o che sia amministrativa, palesa sempre un intento punitivo. Dal punto di vista degli obiettivi finali, illecito amministrativo e penale rappresentano strumenti sovrapponibili: entrambi possono minacciare oneri gravosi e provocare deterrenza, neutralizzazione, rieducazione. Occorre, dunque, cambiare prospettiva, per non rimanere affossati in una secca sterile.

Sulle orme della giurisprudenza europea, che ci ha insegnato a desumere dai caratteri della sanzione la sua appartenenza alla cd. “materia penale”, si è cercato sinora di definire l’aggettivo “penale” movendo dalle caratteristiche della “pena”. Se invece, invertendo il processo, individuiamo la funzione della pena partendo dal compito che dovrebbe riconoscersi al diritto penale, riusciamo a stabile con precisione gli effetti che le due componenti binarie del sistema sanzionatorio dovrebbero perseguire e che potrebbero realizzare.

Mutando l’oggetto dell’analisi dallo scopo della sanzione al ruolo del diritto, possiamo prendere le mosse da un dato tanto basilare, quanto ineludibile: il procedimento penale nel suo complesso, al di là della pena che può comportare (potendo essere anche meno onerosa di quella amministrativa), implica un coinvolgimento personale ben più consistente rispetto al procedimento amministrativo.

Infatti, da una parte, la soggezione a un processo penale, per i rischi che ne derivano nonché per gli oneri e i costi personali che ne conseguono, genera nella percezione soggettiva dell’imputato (e della collettività) l’idea di trovarsi sottoposto a una procedura dalla rilevanza qualitativamente superiore, nel cui ambito, a prescindere dai profili sanzionatori, si discute di imputazioni sostanzialmente più gravi. Dall’altra, l’incisività degli strumenti processuali nella vita privata, la pubblicità del processo, la possibilità di tener conto dei paradigmi di cui all’art. 133, co. 2, c.p., la possibile partecipazione dei soggetti offesi dal reato[73], sono tutti fattori che favoriscono una migliore valutazione complessiva del fatto antisociale.

L’esistenza di queste due componenti, l’una “soggettiva” (l’autore dell’illecito percepisce che se è in gioco l’ambito penale allora il fatto è “serio”), l’altra “oggettiva” (la presenza di elementi che possono favorire una comprensione più approfondita dell’intero significato antigiuridico della condotta posta in essere), permettono di demandare alla sanzione penale una funzione potenzialmente estranea alla sanzione amministrativa: l’effettiva reintegrazione del soggetto agente nell’ambito di relazioni giuridico-sociali corrette.

Il concetto di “reintegrazione”, del resto, ha una portata decisamente più ampia del termine “rieducazione”. La “reintegrazione” implica il ripristino di quei rapporti interpersonali e sociali che con la sua condotta il reo ha reciso. Implica, ancora, che l’autore della violazione normativa comprenda il male provocato con il suo agire e che sia portato (meglio, forse, accompagnato) a riconoscere il valore della norma violata. È la riconquista del consenso personale ai valori delle norme il guadagno della reintegrazione[74].

Perché la risposta a un illecito possa assumere valore reintegrante, deve, quindi, potersi offrire all’autore dell’illecito «l’opportunità di una riflessione sul fatto criminoso commesso, sulle motivazioni e sulle conseguenze prodotte, in particolare per la vittima, nonché sulle possibili azioni di riparazione»[75]. Ecco, dunque, il compito da riconoscere al diritto penale: «fare verità – inteso non esclusivamente come indagine storica sui fatti offensivi e sulle condotte ad essi correlate, bensì anche come ricostruzione dei percorsi personali e dei contesti in cui quei fatti vanno inquadrati», in modo da rendere disponibili «argomenti idonei a motivare il commiato delle scelte comportamentali che abbiano prodotto danno o sofferenza»[76].

Questo sapere, è evidente, risulta acquisibile in sede penale. Il coinvolgimento personale, soggettivamente e oggettivamente prodotto (per i motivi suindicati), stimola e richiama l’autore della violazione a prendere parte al gioco. Consente, sulla conoscenza ottenuta, di progettare una condotta reintegratrice idonea a ristabilire giustizia, parametrata alle concrete esigenze del reo, della vittima, delle istituzioni, potenzialmente soggetti attivi nel percorso prestabilito.

Di contro, l’ambito extra-penale si presenta sprovvisto di quei caratteri e strumenti idonei a provocare tale risultato. L’asettico coinvolgimento in una procedura amministrativa potrebbe tradursi, con riguardo alla sanzione, nel mero adempimento di un dovere, carente di una effettiva adesione alla sua ratio. Non per questo il procedimento amministrativo e la sua sanzione non sono in grado di rieducare l’autore di illeciti. Ma l’effetto reintegratorio, nei termini sopra accennati, rappresenta un risultato decisamente più ampio, ove il perseguimento di un’adesione personale (al progetto individualizzato, ai suoi fini, al valore della norma violata) dà sostanza e significato al procedimento ed alla sanzione.

Su questa base la sanzione penale pare assumere un carattere distintivo: interverrebbe nei casi in cui, a seguito di una violazione normativa, sia necessario fare appello alla persona e conseguire un risultato che non consiste tanto in un’obbligazione da adempiere, quanto in una modifica dell’atteggiamento personale[77]. Ciò dovrebbe avvenire, lo si ripete, sempre nell’ottica di una extrema ratio. Ci sono settori dell’agire illegale, infatti, in cui le esigenze preventive e sanzionatorie sono pienamente soddisfatte dalla sola previsione di norme non penali: rispetto le quali, in altre parole, l’ordinamento giuridico ritiene che gli effetti delle violazioni normative possano trovare riparazione senza la necessità di un appello a un mutamento degli atteggiamenti personali. 

 

  1. Orientamenti per nuovi equilibri nel sistema sanzionatorio

 

Se la distinzione tra pena in senso stretto e altre tipologie di sanzione è ricostruita in questi termini, si guadagna una logica più chiara delle scelte sanzionatorie: la sanzione amministrativa dovrebbe essere fissata in modo proporzionale al danno o al pericolo prodotto, calibrandone l’entità sul quantum necessario alla restituzione, alla neutralizzazione delle conseguenze dannose e dei profitti, al risarcimento (quanto, dunque, inerisce strettamente ai beni giuridici lesi), rimanendo con ciò certamente onerosa, ma senza trasmodare nel “punitivo”[78]. All’ambito penale sarebbe, invece, demandata la valutazione di una diversa esigenza, ossia di una previsione sanzionatoria programmata a reintegrare, qualora, ovviamente, il fatto illecito richieda una modifica comportamentale da parte del soggetto agente (il che attiene, pertanto, a una modifica del suo modo di atteggiarsi sul piano sociale). La sanzione penale e quella amministrativa (in tal senso non qualificabile come sostanzialmente penale) concorrerebbero in questo modo a esprimere esigenze diverse, seppure correlate al medesimo fatto giuridico, dando vita a un sistema integrato e privo di duplicazioni.

Beninteso: il riconoscimento della peculiarità reintegratrice al diritto penale non conduce ad una negazione della possibilità, da  parte del legislatore, di prevedere soli illeciti amministrativi rispetto a condotte offensive, antidoverose e in ogni caso colpevoli[79] (evitando, tuttavia, di costruire un sistema sanzionatorio simile a quello di uno “Stato di polizia”, il quale, come un nuovo Leviatano[80], faccia ricorso a illeciti sostanzialmente penali onde garantire efficienza alla repressione e privare in modo sistematico l’individuo, nel loro nucleo duro, delle garanzie processuali penali). Anzi, è possibile e auspicabile, che – in date circostanze – un reato in senso sostanziale sia gestito senza un reato in senso formale[81]: anche sanzioni amministrative, civili, disciplinari, assolvono, talvolta in maniera più efficace, a una funzione risocializzante dell’autore di un illecito.

Il doppio binario sanzionatorio, così come lo abbiamo pensato, dovrebbe interessare, di conseguenza, solo settori circoscritti. Del resto, la differenziazione della risposta sanzionatoria in base all’ambito in cui si realizza il fatto risulta essenziale[82]. Un meccanismo finalizzato in primis alla riparazione, alle restituzioni, al risarcimento del danno e, solo su tale base, al contrasto, se necessario, di una aggiuntiva illiceità penale, potrebbe avere senso in rami come il diritto finanziario o il diritto ambientale. In tali settori, infatti, la celerità dell’agire amministrativo risponde adeguatamente al fine di ristabilire, in modo tempestivo, l’ordine violato con la condotta illegale mediante il ripristino, nella misura del possibile, dello status quo ante. La duplicazione delle sanzioni, invece, sarebbe priva di senso laddove non si avvertisse la necessità di una così pronta azione ripristinatoria.

Rimane poi da precisare che la sanzione penale reintegratrice non va necessariamente identificata con quella privativa della libertà personale, risultando, in effetti, ampiamente utilizzabili strumenti alternativi.

Ebbene, malgrado la risocializzazione sia stata per lo più concepita, di fatto, solo come regola interna, nella fase della sua esecuzione, alla pena detentiva[83], non può che constatarsi come quest’ultima, in verità, «non mira a incidere, attraverso la sua inflizione, sugli effetti del reato, né cerca in alcun modo il coinvolgimento della persona stessa cui, pure, risulta diretta»[84]. Se ne può dunque evincere che una buona reintegrazione non si realizza tanto con forme di pena subìta, quanto, piuttosto, con forme di pena agìta, secondo un paradigma sanzionatorio di tipo prescrittivo[85], il cui effetto pratico dovrebbe essere quello di «riallacciare il nodo della solidarietà e della pace sociale, includendo il condannato in un circuito ricostruttivo, anziché [quello] di tagliare quel nodo attraverso l’esclusione del reo dal consorzio umano»[86].

La rinuncia alla pena detentiva, in favore di uno strumento alternativo, non implicherebbe, peraltro, il venir meno dell’onerosità caratterizzante lo strumento penale: gli adempimenti che si richiederebbero all’autore del reato sarebbero, infatti, tutt’altro che banali, comportando impegno e, in tal senso, sacrificio. Dunque, pur sempre – se lo si vuole – una sofferenza, ma lontana dagli assiomi di una visione retribuzionistica[87] e, nondimeno, capace di rappresentare, almeno prima facie, una conseguenza sfavorevole per il reo, la cui comminazione risulterebbe egualmente idonea ad esercitare forza deterrente[88].

Resterebbe, in ogni caso, legittimo il ricorso alla pena detentiva, ma andrebbe circoscritto ai casi in cui il legame del reo con lo stile comportamentale criminoso non possa che essere reciso, fondatamente, attraverso la privazione della libertà personale. Si tratterebbe, in questo senso, di uno strumento “estremo”, ancorché pur sempre finalizzato al rinserimento sociale[89] dell’autore di reato.  

Venendo, ora, all’assetto concreto di un eventuale doppio binario sanzionatorio, la sua strutturazione potrebbe essere pensata nei termini seguenti.

Anzitutto si avvierebbe, al momento della commissione di un fatto tipico il procedimento amministrativo (di regola più rapido), diretto all’applicazione di una misura riferita a quanto necessario per le restituzioni, nonché per la riparazione/risarcimento del danno oppure per la neutralizzazione dei profitti o delle conseguenze dannose. Un’operazione sostanzialmente matematica: stimato e monetizzato il costo del risarcimento, se ne richiede la dazione; quantificate le somme sottratte, se ne richiede la restituzione; individuate e selezionate le conseguenze criminose, si obbliga il responsabile alla riparazione.

Successivamente, attraverso la celebrazione del procedimento penale, l’avvenuta irrogazione della precedente sanzione amministrativa potrebbe divenire il punto di partenza per la valutazione del tipo di condotta (di regola) prescrittiva con la quale gestire il reato in termini progettuali e favorire la reale reintegrazione sociale del soggetto autore del reato. Di conseguenza, quanto più l’ordinamento si doterà di sanzioni alternative alla pena detentiva, tanto più sarà possibile elaborare un progetto sanzionatorio personalizzato[90].

Un siffatto meccanismo, ove la pena, quando necessaria, seguirebbe – tenendone conto – la riparazione, avrebbe, del resto, una ricaduta sistemica fondamentale: «l’idea che prima viene la riparazione e solo dopo o in assenza di essa si comincia a discutere veramente della pena implica che la pena acquista una struttura epistemologica non retributiva (cioè: il “raddoppio del male”), ma post-riparatoria»[91], quando la riparazione non appaia sufficiente.

Escluse, pertanto, duplicazioni sostanziali, secondo quanto abbiamo discusso sinora, sarebbe doveroso riconoscere, poi, un rilievo autonomo al principio del bis in idem processuale, evitando che il sistema a doppio binario moltiplichi, oltre lo stretto necessario, gli adempimenti processuali[92]. Del resto, «meccanismi di assorbimento, compensazione e rivalutazione del carico sanzionatorio», che consentirebbero di evitare duplicazioni nella pretesa punitiva, «possono al meglio funzionare attraverso l’unificazione processuale dei momenti di accertamento, proprio in presenza di plurimi illeciti o sanzioni»[93].

Non si tratta, tuttavia, di demandare al procedimento amministrativo l’accertamento della colpevolezza individuale, così da privare il cittadino delle garanzie che il procedimento penale gli appresta. Mantenere l’autonomia dei procedimenti di diversa natura significa che il fatto concreto sarà riscostruito secondo le regole di formazione della prova proprie di un procedimento amministrativo e di un procedimento penale, non diversamente da quanto accade allo stato attuale. Con una differenza. Mentre, oggi, i procedimenti sanzionatori sono sovrapponibili sia nell’accertamento delle responsabilità che nei fini, la soluzione che si prospetta vedrebbe i due procedimenti interagire nell’accertamento delle responsabilità e divergere nei fini.

In un’ottica de iure condendo, infatti, la giurisdizione penale ‒ l’organo inquirente, prima ancora di quello giudicante ‒ dovrebbe servirsi[94] degli accertamenti svolti in ambito amministrativo quale mezzo di prova della responsabilità penale dell’imputato, per raggiungere un risultato, autonomo, che potrebbe anche divergere rispetto al primo. Infatti, seppure determinati elementi risultino, in ambito amministrativo, sufficientemente probanti un determinato fatto, potrebbero non esserlo in sede penale, ove si richiede un valore probatorio oltre ogni ragionevole dubbio.

Ritenere il procedimento amministrativo e le prescrizioni ivi imponibili quali prius logico della pena in senso stretto non significa intendere il procedimento penale quale mera continuazione di quello amministrativo nella progettazione della pena irrogabile. L’esistenza di un provvedimento sanzionatorio di diversa natura non esonera, così, il giudice penale dall’accertare se i fatti posti a fondamento di quel provvedimento siano nel proprio procedimento altrettanto probanti. È compito dell’organo inquirente, infatti, acquisire il materiale probatorio formato al di fuori del giudizio ed introdurlo nel processo penale quale prova a carico dei fatti. Anche l’adempimento agli oneri imposti dall’Autorità amministrativa, da parte dell’imputato, non rappresenterebbe una presunzione sull’an della colpevolezza, costituendo, piuttosto, un fattore che incide sulla valutazione del suo quantum.

Un siffatto sistema non solo risulterebbe pienamente conforme ai requisiti richiesti in sede europea per ammettere un doppio binario sanzionatorio ‒ stanti, in sostanza, nella complementarietà di scopi tra i due procedimenti (così da causarne una materiale connessione) e nella proporzionalità complessiva della “pena” ‒ ma, anche, a entrambi i princìpi del ne bis in idem, sostanziale e processuale, senza che il secondo ne subisca costrizione alcuna. La conduzione di differenti procedimenti, in questo quadro, non comporterebbe duplicazioni, ma ognuna risulterebbe comprensibile come una “parte della risposta punitiva” del medesimo fatto.

Bisogna peraltro ribadire che in molte situazioni la sola riparazione del danno potrebbe garantire di per sé un’effettiva reintegrazione soggettiva, così da escludersi la necessità di agire anche sul piano penale[95]. L’impegno che comportano talune sanzioni amministrative, infatti, determinerebbe il completo esaurimento delle esigenze di prevenzione connesse al disvalore del fatto colpevole[96], in modo da togliere fondamento alle stesse ragioni del punire[97]. A tal punto troverebbe spazio, anche, l’applicazione del ne bis in idem “europeo” come ricostruito dalla Corti sovranazionali e attuato recentemente dalla Corte di Cassazione, secondo la quale la proporzionalità della sanzione rispetto la gravità del fatto consente di derogare in mitius alla normativa penale.

In sintesi, tale proposta impone di «ripensare civile, amministrativo e penale insieme»[98]. I diversi rami dell’ordinamento devono porsi in un dialogo costante, al fine precipuo di evitare che la valutazione giuridica di un fatto subisca duplicazioni nella medesima direzione. Quando, dunque, più norme giuridiche di diversa natura convergono sullo stesso fatto storico debbono in ogni caso prenderne in considerazione aspetti diversi, così che ne discendano effetti diversi.

È questo il valore precettivo del ne bis in idem: una garanzia che stimola a una nuova presa di coscienza circa i concetti di “illecito” e di “sanzione”, in forza della quale modulare, senza dannose duplicazioni, la risposta sanzionatoria multipla e poterla definire, così, complessiva ed integrata. Il precetto in cui si sostanzia questa regola non sta, quindi, nell’ostacolare l’attività di contrasto dei reati, ma nel coordinarne al meglio l’esercizio.

 

  1. Le sentenze di legittimità tra dispositivi e obiter dicta

 

Il merito che va riconosciuto alla giurisprudenza eu

Pietrella Tommaso



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