Il ripudio nel tardo Impero: una costituzione di Teodosio II
Paola Ombretta Cuneo
Ricercatrice di diritto romano e diritti dell’antichità, Università di Milano-Bicocca
Il ripudio nel tardo Impero: una costituzione di Teodosio II*
Sommario: 1. Il ripudio nei casi di leciti matrimoni. - 2. Le cause lecite e tassative di ripudio. - 3. L’assunzione di prove. - 4. Gli effetti di un ripudio non legittimo. - 5. Il favor liberorum. - 6. Conclusioni.
1. Il ripudio nei casi di leciti matrimoni.
Nel titolo De repudiis et iudicio de moribus sublato del Codice Giustiniano è conservata una costituzione di Teodosio II, datata D. V Id. Ian. Protogene et Asterio conss., cioè del 9 gennaio 449, e indirizzata al prefetto del pretorio Ormisda, che ha ricoperto tale carica negli anni dal 448 al 450[1] in Oriente[2]. Si tratta di C.I. 5.17.8, un lungo testo, infatti, in materia di ripudio[3].
Il testo esordisce con la premessa che quei matrimoni leciti che si sono formati con il consenso possono essere sciolti solo in seguito alla notificazione di un libello di ripudio:
Consensu licita matrimonia posse contrahi, contracta non nisi misso repudio dissolvi praecipimus
Per quanto concerne la forma, il Robleda[4] sosteneva che il requisito formale non corrisponde all’antica dichiarazione di ripudio dell’epoca augustea da pronunciarsi alla presenza di sette testimoni e di un liberto del divorziante, dal momento che il testo si limita a menzionare solo la notifica del ripudio. Per lo studioso l’introduzione di questa forma sarebbe un’innovazione, consistendo nella notifica di un semplice libellus per la comunicazione del ripudio, come era conforme agli usi orientali.
Pactiones sane si quae adversus praesentia scita nostrae maiestatis fuerint attentate, tamquam legibus contrarias, nullum habere volumus firmitatem.
2. Le cause lecite e tassative di ripudio.
Il testo continua con la riaffermazione del principio secondo cui è proibito il ripudio fuori dalle iustae causae indicate tassativamente dall’imperatore, pur ponendo un’eccezione nel caso in cui il coniuge ripudiante sia oppresso da un’avversità.
1. Causas autem repudii haec saluberrima lege apertius designamus. Si enim sine iuxta causa dissolvi matrimonia iuxto limite prohibemus, ita adversa necessitate pressum vel pressam quamvis infausto, attamen necessario auxilio cupimus liberari.
2. Si qua igitur maritum suum adulterum aut homicidam vel venificum vel certe contra nostrum imperium aliquid molientem vel falsitatis crimine condemnatum invenerit, si sepulchrorum dissolutorem, si sacris aedibus aliquid subtrahentem, si latronem vel latronum susceptorem vel abactorem aut plagiarium vel ad contemptum sui domi suae ipsa inspiciente cum impudicis mulieribus (quod maxime etiam castas exasperat) coetum ineuntem, si suae vitae veneno aut gladio vel alio simili modo insidiantem, si se verberibus, quae ab ingenuis aliena sunt, adficientem probaverit, tunc repudii auxilio uti necessariam ei permittimus libertatem et causas discidii legibus comprobare.
3. Vir quoque pari fine claudetur nec licebit aei sine causis apertius designatis propriam repudiare iugalem, nec ullo modo expellat nisi adulteram, nisi veneficam aut homicidam aut plagiariam aut sepulchrorum dissolutricem aut ex sacris aedibus aliquid subtrahentem aut latronum fautricem aut extraneorum virorum se ignorante vel nolente convivia appetentem aut ipso invito sine iusta et probabili causa foris scilicet pernoctantem, nisi circencibus vel theatralibus ludis vel harenarum spectaculis in ipsis locis, in quibus haec adsolent celebrari, se prohibente gaudentem, nisi suiveneno vel gladio aut alio simili modo insidiatricem, vel contra nostrum imperium aliquid machinantibus consciam, seu falsitatis se crimini immiscentem invenerit, aut manus audaces sibi probaverit ingerentem: tunc enim necessariam ei discedendi permittimus facultatem et causas discidii legibus comprobare.
Il Brini[5], a proposito di questo testo, si soffermava esclusivamente sulle cause previste per il ripudio. E sono proprio queste che hanno attirato la mia attenzione. Teodosio offre un elenco tassativo delle cause che legittimano il ripudio[6], molto ampliato rispetto alle precedenti costituzioni[7] per rendere più completo ed esaustivo il provvedimento e, di conseguenza, anche più efficace.
Già una costituzione di Costantino del 331, CTh. 3.16.1, aveva dato inizio alla riforma del ripudio rispetto alla legislazione precedente[8].
Secondo Domingo[9] «La lectura de esta ley nos permite advertir que Constantino prohibió el divorcio unilateral salvo en tres supuestos – tria crimina -, que deben ser probados»[10]. I tre crimini previsti da Costantino imputabili al marito erano l’omicidio (homicida), il confezionare pozioni magiche, ma anche il praticare l’aborto o l’avvelenamento (medicamentarius), la violazione delle tombe (sepulchrorum dissolutor). In riferimento alla moglie si indicavano l’essere adultera (moecha), medicamentaria e mezzana (conciliatrix). Già in altri testi, come CTh. 9.40.1 del 313 o 314, Costantino aveva sottolineato la rilevanza di crimini quali adulterii vel homicidi vel malefici crimen. Secondo Venturini «è chiaro, dunque, che già negli anni precedenti erano apparsi al medesimo imperatore meritevoli di accentuata considerazione sotto il profilo repressivo l’omicidio, l’adulterio e, a fianco di tali reati, il veneficium e il maleficium, con frequenza già da tempo valutati come attività rientranti ambedue nelle pratiche di magia e quindi, in larga misura, assimilabili»[11]. In riferimento a quest’ultimo crimine imputabile ai due coniugi, lo studioso si stupiva per il fatto che «un solo crimen, cioè, la manipolazione di veleni o la pratica di arti magiche, sia contemplato in rapporto ad entrambi i coniugi, i quali risultano tra loro diversificati quanto alle ipotesi residue»[12].
Sempre in relazione alla c. 1, recentemente il Pergami ha sottolineato che Costantino aveva stabilito che «i giudici di primo grado debbono irrogare condanne capitali o comunque severe (ut non prius capitalem in quempiam promat severamque sententiam) nei confronti di rei di adulterio, oltre che dei colpevoli di omicidio e arti magiche, che al primo vengono equiparate, per il caso di istruzione probatoria univoca e incontrovertibile, in unum conspirantem concordantemque»[13].
Si proibiva alla donna di inviare il libello di ripudio per pravae cupiditates e si indicavano a titolo esemplificativo l’essere l’uomo dedito al vino, al gioco e alle donne. E’, inoltre, evidente che una sola causa è identica per uomo e donna, pur essendoci una certa simmetria. Non ritengo, come hanno fatto molti studiosi in passato, che, sulla base di un passo dello Pseudo Agostino, un editto dell’imperatore Giuliano possa aver cancellato la costituzione di Costantino. Al contrario ritengo più probabile che nella realtà le donne non fossero ancora abituate ad inviare il libello di ripudio al proprio marito e che quindi la norma rimanesse sulla carta. Successivamente con Giuliano è possibile che la norma di Costantino avesse una maggiore applicazione.
Tornando alla costituzione di Teodosio II, l’attenzione della Vannucchi Forzieri si sofferma sul fatto che, ancora una volta nella legislazione tardo-imperiale in materia di ripudio, «le cause che legittimano l’invio del ripudio sono ancora dei particolari crimina»[14], senonché non si può non constatare l’ampliamento delle iustae causae repudii rispetto alla normativa precedente.
La Fayer, intervenendo in tema di ripudio sulla costituzione di Teodosio II, ha evidenziato che le cause indicate, perché fosse legittimo il ripudio, «risultano essere piuttosto numerose, ma sempre tassative»[15].
L’ampliamento non è voluto al fine di impedire il più possibile la pratica del ripudio. Sono, infatti, indicati quei crimini che hanno raggiunto una maggiore risonanza sociale. Per il Gaudemet si era resa necessaria una nuova determinazione delle cause di ripudio, le quali operavano «curiose incursioni nella vita sociale e familiare che si conduceva a Costantinopoli»[16].
La moglie può ripudiare il coniuge nel caso che questi sia adultero, omicida, corruttore, cospiratore contro l’Impero, condannato per crimini di falsità, violatore di tombe, che abbia sottratto qualcosa da luoghi sacri, che sia ladro, ricettatore, ladro di bestiame, plagiario, o sia solito introdurre nella casa coniugale come concubine donne di facili costumi in presenza della moglie, attentatore alla vita della moglie con il veleno o con la spada o in qualsiasi maniera, e infine che l’abbia percossa, cosa inconcepibile nei confronti di una donna ingenua.
Il marito, diversamente, può ripudiare nel caso che la moglie sia colpevole di adulterio, veneficio, omicidio, violazione dei sepolcri, plagio, sacrilegio, sia complice dei ladri, sia a conoscenza di una cospirazione contro l’Impero, sia colpevole di atti che rientrano nel crimine di falso, abbia attentato alla vita del marito col veleno, con la spada o in qualsiasi altro modo, abbia percosso il marito, abbia partecipato all’insaputa o contro la volontà del marito a banchetti o abbia pernottato fuori di casa senza un ragionevole motivo, abbia assistito contro il volere del marito a giochi circensi, a spettacoli teatrali o delle arene[17].
Il Gaudemet parla a ragione di una simmetria quasi perfetta (undici casi per la donna e dodici per l’uomo) e ritiene che si possono raggruppare queste cause di rottura sotto quattro rubriche: «des crimes (homicide, empoisonnement, faux) ou de graves délits (vol); les intérêts de l’Etat (atteinte à sa sureté); la morale coniugale (adultère, concubine, vie trop libre de la femme, attentat contre le mari, mauvais traitements infligés à la femme); les relations sociales (plagium)»[18]. Dissento decisamente sul collocare il plagio fra le relazioni sociali. All’epoca di Teodosio II era un crimine molto grave. L’elenco offre l’indicazione di quelli che dovevano essere i crimini più gravi e dei quali più risentiva la società dell’epoca.
Per alcuni di questi crimini, in relazione alla donna, c’è una relazione indiretta presente nei secoli. In uno splendido lavoro, il più recente sull’adulterio, Rizzelli, in particolare, sostiene che «se le correlazioni fra il furto e l’adulterio sembrano essere profondamente radicate nell’immaginario collettivo, tanto che il primo può essere metafora del secondo, anche l’omicidio, dunque è spesso associato all’adulterium. Nel caso della donna sessualmente infedele al proprio marito, questa è dai retori di frequente indicata come ‘venefica’. Il veneficium - è noto - viene considerato dalle fonti un illecito tipicamente femminile, in quanto modo di uccidere caratteristico delle persone deboli e timorose… Il motivo della prossimità fra adulterio e omicidio ricorre, peraltro, a sottolineare la totale inaffidabilità dell’adultera»[19]. Più avanti lo studioso asserisce che «Per altro verso, il campo semantico cui appartiene ‘venenum’ si estende alla magia, consentendo il sovrapporsi della figura della maga a quella di manipolatrice di veleni», rilevando, inoltre, come «la distinzione fra veleno e preparato magico si presenti ormai compiutamente enucleata»[20]. E ancora, in riferimento alla riforma augustea:
«La condotta della donna che compromette la legittima paternità del marito con la propria infedeltà e che si avvale di venena, ossia di elementi e di pratiche cui è attribuito un potere metamorfico, in grado di modificare i caratteri di ciò con cui vengono a contatto, evoca uno dei temi rilanciati dall’organizzazione del consenso intorno alla politica matrimoniale augustea, forse il più ‘forte’ al livello dell’immaginario: quello dell’adulterium quale turbamento di un ordine familiare e sociale razionalmente strutturato, ‘naturale’, attraverso la corruzione dell’adultera, causata dall’immissione di un sangue estraneo che inquina, determinando incertezza sulla effettiva paternità del figlio concepito all’interno del matrimonio. La generazione è, infatti, intesa quale ‘fusione di sangue’»[21].
In riferimento alla costituzione di Costantino, il Venturini sosteneva che
«essa testimonia, infatti, senza dubbio l’esigenza, che certo corrisponde ai principi cristiani (ma della quale non vedo perché si debba escludere la parallela maturazione anche nell’ambito della società laica) di favorire la stabilità delle unioni sanzionando il divorzio unilaterale e tutelando il ripudiato e la ripudiata con previsioni disomogenee che presupponevano una diversa valutazione dell’operato dell’uno e dell’altra sul piano morale: lascia trasparire però, nello stesso tempo, anche una particolare tendenza repressiva nei confronti dell’adulterio, alla quale si deve ricondurre la scelta legislativa di stimolare il marito a promuovere l’accertamento dell’illecito riconoscendogli verosimilmente, in caso di condanna della moglie, anche vantaggi patrimoniali, assai superiori rispetto al passato»[22].
Anche l’adulterio[23] in epoca tardo-imperiale è un crimine che ha subito un’evoluzione e viene represso duramente. Abbiamo, infatti, una costituzione emanata nel 339, quando governavano Costantino II, Costanzo e Costante, e indirizzata al vicario d’Africa Catullino. Il testo, conservato in CTh. 11.36.4, va, verosimilmente attribuito a Costante[24], il quale rimprovera il funzionario
«per non aver punito legum severitate reiconfessi di adulterio ed avere anzi ammesso i loro appelli miranti a rinviare il supplizio, dopo di che passa ad enunciare il principio: anche in avvenire, una volta accertato l’adulterio manifestis probationibus, l’appello non deve essere ammesso Il principio non era nuovo: già Costantino aveva disposto in tal senso con la c.1 h.t. Di nuovo la costituzione presenta il rigore della pena: gli adulteri, definiti sacrilegi nuptiarum sono equiparati ai manifesti parricidi e come tali passibili della pena del culleus o in alternativa, del rogo. Il testo giustinianeo, che il Mommsen come corrispondente a quello teodosiano, riporta, in realtà, la costituzione di Costantino 9.7.2 sull’adulterio, alla quale aggiunge la frase sacrilegos autem nuptiarum gladio puniri oportet, tratta dalla costituzione di Costanzo, ma attenuata per il genere della pena, che non è più quella del culleus o del rogo, ma solo la decapitazione»[25].
Interessante è il rilievo di Zuccotti, per il quale la crudeltà della condanna deve «collocarsi in una precisa visione sacrale e simbolica della pena in cui l’infedeltà del coniuge di cui il reo si è reso colpevole viene così punita secondo un rituale visto come specifico contrappasso di chi ha tradito un vincolo religioso che lo legava agli dei ed ai congiunti»[26]. E’ evidente che l’epoca di Costantino è ancora intrisa di paganesimo.
L’indicare la pena del culleus[27], riservata al parricida, testimonia come fosse recepito in modo grave il crimen adulterii.
Per questo motivo, pur vivendo in un’epoca ed in una società diversa, lontane dagli echi pagani, Teodosio II ha ritenuto di mantenere questo crimine tra le cause legittime di ripudio.
Un’altra causa è la violazione delle tombe[28], crimine che in epoca tardo-imperiale aveva raggiunto un’importante evoluzione. Le costituzioni in materia del IV secolo riguardavano essenzialmente la tutela dell’integrità del monumento, anche se implicitamente riguardava anche il rispetto delle spoglie mortali; quelle del V secolo fanno riferimento essenzialmente ai resti dei defunti. Già in un’altra occasione[29] avevo avuto occasione di dire che la maggiore attenzione dei legislatori del IV secolo soprattutto verso gli attentati al monumento funebre «si spiega con la frequenza di quegli attentati, originati da fini di lucro che, per la scarsezza e l’alto costo dei materiali edilizi, spingevano ad utilizzare le parti architettoniche dei sepolcri»[30]. La motivazione dei continui interventi normativi non era certamente l’influenza cristiana, tanto più che essi sono dovuti anche ad un imperatore pagano come Giuliano e che imperatori cristiani vietavano e colpivano la violazione delle tombe anche se commessa con il fine di recuperare reliquie di martiri. La costituzione del 449 di Teodosio II, che stiamo esaminando, in realtà, non fa nessuna distinzione fra danneggiamentodella tomba e offesa ai resti dei defunti e va ad evidenziare, in particolar modo, la gravità del reato. Va evidenziato che, nel corso dei secoli e in anni diversi, con differenti provvedimenti, questo crimine aveva ottenuto una maggior attenzione da parte del legislatore, il quale è riuscito a delinearne in modo più preciso la struttura. Così ci si era soffermati sulle diverse ipotesi che il soggetto «abbia agito di propria iniziativa o per suggestione o addirittura per ordine del dominus»[31]. Altro elemento di attenzione era quello della confisca della domus o della villa previsto in caso di ritrovamento del materiale architettonico sottratto al sepolcro. «Si ha in questo caso una sanzione meno grave per una fattispecie che in termini moderni si qualificherebbe come ‘quasi flagranza, la sorpresa, cioè, del reo con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima»[32]. In alcune costituzioni, inoltre, il legislatore si sofferma sull’elemento psicologico che è il dolo.
«La prima configura la fattispecie delittuosa richiedendo che l’agente, lucri nimium cupidus, abbia voluto il fatto descritto nella norma, cioè demolire il sepolcro e trasportare il materiale ad proprias aedes. La seconda richiede, invece, alternativamente che il materiale sia prelevato dal sepolcro fabricae gratia o per essere venduto. Nel primo caso, parleremmo, perciò, con termini moderni, di dolo generico, in quanto il desiderio di lucro rappresenta solo il movente e non il fine del crimine. Nel secondo caso l’utilizzazione del materiale costituisce un fine particolare ulteriore, la cui realizzazione non è necessaria per l’esistenza del reato e perciò si deve parlare di dolo specifico»[33].
Altro crimine che ha subito una forte evoluzione e che rientra fra le cause legittime di ripudio è il plagium. Il plagio[34] rientra fra quei crimini i cui elementi si sono ormai ben definiti. Gaudemet traduce «s’il a retenu en esclavage un personne libre (plagiarius)»[35]. Quanto al marito se la moglie è una plagiaria, che il Gaudemet interpreta come «détennant un homme ou une femme libre en servitude»[36]. Come si è visto, plagiarius, non è semplicemente chi si macchia del crimine di plagio, ma colui che fa parte di un’associazione a delinquere che pratica questo crimine, per cui sono previste pene molto severe. Nel corso dei secoli, infatti, lo squilibrio politico ed economico aveva favorito il formarsi di bande criminali organizzate, i plagiarii, che approfittavano della situazione per i loro commerci illeciti sequestrando schiavi altrui, ma soprattutto uomini liberi. Ed era questa la preoccupazione maggiore degli interventi imperiali, poiché non si poteva tollerare che cittadini romani fossero strappati alle loro famiglie, alla loro casa, alla loro civitas, per essere venduti e trasportati come schiavi in territori lontani da cui non sarebbero più tornati e dove non sarebbe stato possibile far valere il loro status di uomini liberi[37]. Nel testo di Teodosio II, dunque, tra le cause legittime viene indicato l’essere il coniuge plagiarius o plagiaria, cioè l’appartenere a quelle associazioni a delinquere sempre più diffuse. Da questo si evince quanto fosse recepito il disvalore sociale di questo crimine.
In riferimento a questo elenco di cause legittime di ripudio, delle quali in questa sede ho preso in considerazione solo alcune, da una parte la dottrina è concorde nel ritenere che questa indicazione tassativa comporta un ritorno ad una restrizione del ripudio, dall’altra l’opposto. Il Delpini, addirittura, riteneva che le iustae causae fossero state ampliate a tal punto da «rendere facile lo scioglimento di qualsiasi matrimonio male assortito»[38].
A mio avviso non si deve porre il problema della limitazione o meno del divorzio[39] (sia esso consensuale o unilaterale), ma piuttosto di un maggior controllo imperiale, che Teodosio II otteneva con l’ampliamento dell’elenco delle cause legittime.
Per questo motivo era importante riuscire ad assumere le prove.
3. L’assunzione di prove.
Già la costituzione di Costantino (CTh. 3.16.1) prevedeva che l’accusa di un crimine fosse suffragata da prove, affinché ci potesse essere una giusta causa di ripudio: si omicidam vel medicamentarium vel sepulchrorum dissolutorem maritum suum esse probaverit.
Il fatto che i crimini dovessero essere provati è accennato appena, senza specificare come debbano essere provati.
Successivamente, nella costituzione di Onorio (CTh. 3.16.2) indirizzata al prefetto del pretorio Palladio ed emanata nel 421 a Ravenna, si ritornava sull’argomento. Sarà questa costituzione a evidenziare chiaramente che la donna e l’uomo che ripudiano devono provare in giudizio i crimini addotti nel libello di ripudio[40]. La Vannucchi Forzieri ritiene che con questa costituzione «viene ancora precisata la possibilità di ripudio del coniuge che abbia commesso un crimen»[41] senza specificare quali fossero i crimini, che verosimilmente, sono ancora quelli indicati da Costantino.
La cancelleria di Onorio stabilisce che la donna dovrà provare le cause di ripudio indicate nel libello di ripudio, elencando, in caso contrario, le conseguenze:
Mulier, quae repudii a se dati oblatione discesserit, si nullas probaverit divortii sui causas…
Se è, invece, l’uomo a notificare per primo il libello di ripudio, incolpando la moglie del crimine, dovrà portare avanti l’accusa in ottemperanza alle leggi e solo ottenuta giustizia potrà ottenere quello che gli compete:
Sane si divortium prior maritus obiecerit ac mulieri grave crimen intulerit, persequatur legibus accusatam impetrataque vindicta…
Tornando alla costituzione di Teodosio II, colpisce il fatto che il provvedimento autorizza le parti ad assumere le prove con tutti i mezzi possibili.
A questo riguardo, nel caso di crimine di adulterio o di lesa maestà per l’uno e per l’altro coniuge, qualora non ci siano altre prove, è lecito, dal momento che è difficile rinvenire testimonianze sulla vita privata condotta all’interno della casa coniugale, interrogare gli schiavi maschi o femmine già in pubertà ed acquisire le loro deposizioni anche attraverso torture[42] per pervenire più facilmente alla verità dei fatti. In forma imperativa l’imperatore ordina che, anche in caso di plagio commesso, come si è detto, dall’uno o dall’altro coniuge, siano osservate le stesse regole per assumere le prove in modo da indurre a testimoniare .
6. Servis scilicet seu ancillis puberibus, si crimen adulterii vel maiestatis ingeritur, tam viri quam mulieris ad examinandam causam repudii, quo veritas aut facilius eruatur aut liquidius detegatur, si tamen alia documenta defecerint, quaestionibus subdendis. Super plagiis etiam, prout dictum est, illatis ab alterutro commovendis easdem probationes (quoniam non facile quae domi geruntur per alienos poterunt confiteri) volumus observari.
Nel testo non è specificato, ma in epoca tardoimperiale l’assunzione delle prove spettava al funzionario, il quale stabiliva quali fossero i testimoni da escutere[43]. Al fine di giungere alla verità, era ammesso l’uso della tortura. Nel testo si fa riferimento alla sola tortura nei confronti degli schiavi che avessero raggiunto la pubertà. Nei processi criminali in genere, però, era ammessa anche nei confronti di uomini liberi, specialmente quelli di bassa estrazione sociale. A proposito dell’uso della tortura come mezzo istruttorio, il Vincenti vi ravvisava
«la tendenza, rintracciabile nella legislazione tardo imperiale, a vedere nel testimone, prima che un terzo estraneo, un partecipe del crimine, da assoggettarsi alle stesse costrizioni riservate al reus, in particolare alla quaestio per tormenta quale strumento onde acclarare l’effettiva partecipazione del teste al fatto criminoso e, nel contempo, la veridicità delle sue affermazioni»[44].
4. Gli effetti di un ripudio non legittimo.
4. Haec nisi vir et mulier observaverint, ultrice providentissimae legis poena plectentur. Nam mulier si contempta lege repudium mittendum esse tentaverit: suam dotem et ante nuptias donationem ammittat nec intra quinquennium nubendi habeat denuo potestatem.
Aequum est enim eam interim carere connubio, quo se monstravit indignam. Quod si praeter hoc nupserit, erit ipsa quidem infamis, connubium vero illud nolumus nuncupari: insuper etiam arguendi hoc ipsum volenti concedimus libertatem. Si vero causam probaverit intentatam, tunc eam et dotem recuperare, et ante, et ante nuptias donationem lucro habere, aut legibus vindicare censemus; et nubendi post annum ei (ne quis de prole dubitet) permittimus facultatem.
Il passo della costituzione di Teodosio II indica le conseguenze del mancato rispetto della legge nell’invio del libello di ripudio.
A questo proposito la Vannucchi Forzieri rileva che «ci troviamo di fronte ad un affievolimento delle sanzioni di carattere personale a carico del coniuge che ripudia sine iusta causa, rispetto alle sanzioni previste CTh. 3.16.1 e 3.16.2. Appare evidente questo per la donna, che precedentemente era condannata alla deportatio, mentre ora la pena è limitata al divieto di contrarre una nuova unione per cinque anni. Nel caso analogo, in cui sia l’uomo ad inviare il ripudio sine causa, si dice solamente che questi perde dote e donazione nuziale, senza alcun accenno a sanzioni di carattere personale, sin autem aliter uxori suae renuntiare voluerit, dotemredhibeat et ante nuptias donationem amittat»[45].
García Garrido[46], nel confronto di questa norma con quella di Onorio del 421 (CTh. 3.16.2), non manca di far notare una certa evoluzione consistente nella semplificazione delle cause di ripudio e un’attenuazione delle pene, dal momento che nella costituzione di Teodosio II scompare la gradazione delle cause precedentemente classificate in gravi o mediocri e viene abolita la pena della deportazione per la moglie e quella di celibato perpetuo per il marito, a conferma di una legislazione imperiale che tende più a una liberalizzazione in generale del divorzio che ad una sua proibizione rigida e severa, che si riscontrerebbe se fossero seguiti i principi cristiani.
In questa costituzione del 449 ciò che è più evidente è che, per la prima volta, si riscontra l’adulterio del marito come causa giustificativa di ripudio a favore della moglie, non solo, ma, pur essendo conservata la disposizione secondo cui la moglie ripudiante fuori dai casi stabiliti non può rimaritarsi per un quinquennio, pena l’infamia, vengano, tuttavia, abolite le sanzioni personali previste dal legislatore del 331 e del 421 per il ripudio, rimanendo in vigore quindi solamente quelle patrimoniali[47], sicché da questi mutamenti parrebbe emergere la tendenza dell’imperatore a trattare con maggiore eguaglianza i coniugi.
La Fayer[48] ha precisato che il coniuge, potendo provare che l’altro si era macchiato di uno dei crimini elencati, otteneva la restituzione o poteva trattenere dote e donazione nuziale e poteva risposarsi.
5. Virum etiam, si mulierem interdicta arguerit attentatem, tam dotem, quam ante nuptias donationem sibi habere seu vindicare, uxoremque (si velit) statim ducere, hac iusta definitione sancimus. Sin autem aliter uxori suae renuntiare voluerit: dotem redhibeat, et ante nuptias donationem amittat.
Proseguendo nella lettura del testo, l’accenno all’aiuto prestato al coniuge oppresso da adversa necessitas fa concludere a Montan[49] che l’Imperatore, in apparenza più rigido già nella premessa, affronta l’argomento con vedute più larghe dei loro predecessori e cioè Costantino ed Onorio.
5. Il favor liberorum.
Il testo evidenzia che lo scioglimento del matrimonio deve essere reso più difficile nell’interesse dei figli.
Solutionem etenim matrimonii difficiliorem debere esse favor imperat liberorum.
La dottrina appare pressoché unanime nel considerare la forma richiesta ed il favor liberorum effettivi deterrenti nei riguardi del ripudio. Giustamente il Delpini affermava che il favor liberorum non corrispondeva a principi cristiani, bensì a sentimenti di morale naturale, ritenendo che «il paganesimo dominava ancora largamente la vita romana» e che «fino ai tempi di Giustiniano, si poteva ancora sempre parlare di due società nell’Impero romano»[50].
7. Si vero filio vel filiis, filia vel filiabus extantibus, repudium missum est: omne quicquid ex nuptiis lucratum est, filio seu filiis filiae seu filiabus post mortem accipientis servari: id est, si pater temere repudium miserit, donationem ante nuptias a matre servari; si mater, dotem ipsam eidem vel eisdem filio seu filiae patre moriente dimitti censemus: patri videlicet vel matri in scribendis heredibus si unum seu unam vel omnes scribere, vel uni ex his donare velit, electione servata. Nec ullam alienandi seu supponendi memoratas res permittimus facultatem. Sed si aliquid ex iisdem rebus defuerit: ab heredibus, seu earum detentatoribus (si tamen non ipsos heredes scripserit, aut scripti filii non adierint) resarciri praecipimus: ut etiam hoc modo inconsulti animi a repudio mittendo detrimento retrahantur.
Nella sua parte conclusiva la costituzione Teodosio II ha cura di inserire anche alcune disposizioni di contenuto patrimoniale nell’interesse dei figli, affinché non rimanessero mere parole il favor liberorum ventilato nella normativa precedente.
Se è stato il marito ad inviare temerariamente il libello di ripudio, la moglie tratterrà la donazione nuziale, conservandola per i figli, viceversa, se è stata la donna che ha inviato temerariamente il libello di ripudio, la dote sarà trattenuta dal marito e alla sua morte passerà ai figli.
Il Bonfante, richiamando il testo, parlava di «lucri del coniuge innocente a carico del coniuge colpevole del delitto o del coniuge ripudiante sine causa» che, in presenza di figli, sarebbero andati a loro per successione, siano essi maschi o femmine e, per questo motivo, si vietava al genitore l’alienazione ed il pignoramento. Lo studioso aveva cura di precisare che la costituzione ammetteva la possibilità di esercitare un diritto di elezione o di preferenza tra i figli, che era «il concetto orientale del figlio più favorito»[51]. L’interesse dei figli, a cui si faceva riferimento, ma in senso morale, ora si estende a quello patrimoniale.
Già dieci anni prima nella Novella 12 dello stesso imperatore si dichiarava che l’interesse dei figli imponeva che fosse più difficile lo scioglimento del matrimonio.
Il favor liberorum è, comunque, sovente presente nella legislazione tardoimperiale. Si pensi, ad esempio a CTh. 8.18.1, il cui testo non è del tutto chiaro, ma che, verosimilmente va così interpretato: “Cessi, pertanto, il ricorso alla cretio limitatamente alle successioni materne e i beni che sono devoluti per successione materna ai figli, siano nella disponibilità dei padri, ma in modo tale che abbiano solamente la facoltà di usufruirne e sia tolta a loro la facoltà di alienare, essendo la proprietà, di certo, dei loro figli”[52]. Anche qui siamo di fronte ad uno scioglimento del matrimonio, ma per motivi più tragici. Una volta morto anche il padre, i figli diventeranno sui iuris e i beni materni toccheranno necessariamente a loro, senza doverli dividere con nessuno.
6. Conclusioni.
A proposito del ripudio in generale, mi piace ricordare le parole di Carlo Venturini, che definisce il repudium quale «strumento causativo della rottura del vincolo, attuata per iniziativa di un singolo coniuge in forme idonee a permettergli nuove nozze»[53].
Per quanto riguarda l’epoca tardoimperiale, come ricorda la Fayer[54], il termine è usato esclusivamente per indicare la rottura unilaterale del vincolo matrimoniale.
Le costituzioni imperiali in materia di ripudio non vanno viste contrapposte fra di loro. A partire da Costantino è iniziata una riforma, che è andata sempre più a completarsi.
Si arriva ad un assestamento con Teodosio II, che sente il bisogno di adattare il diritto ad una società che si è evoluta nel bene e nel male. Per questo motivo la cancelleria imperiale fissa le cause legittime di ripudio, ampliando il numero dei crimini, che nel frattempo hanno consolidato la loro struttura.
In questo mio lavoro, pur facendo una rassegna dei crimini indicati, mi sono soffermata maggiormente su quelli che, rispetto all’epoca precedente, non solo hanno evidenziato una ben definita struttura, tanto da distinguere il dolo generico da quello specifico, da ravvisare l’associazione a delinquere, da essere repressi con pene certe e severe, ma hanno rappresentato anche un maggiore disvalore sociale, senza il quale, verosimilmente non sarebbero stati inseriti nelle cause legittime di ripudio. Si pensi all’adulterio, alla violazione dei sepolcri, al plagio, che certamente in questi secoli avevano destato un elevato allarme sociale.
A bilanciare l’aumento delle cause legittime di ripudio rispetto alla costituzione di Costantino, erano state attenuate le pene previste in caso di non osservanza della legge, in modo tale da eliminare, salvo qualche eccezione, quelle di carattere personale e lasciando quasi esclusivamente quelle patrimoniali. Non solo, ma si raggiunge anche un certo equilibrio fra i casi previsti per il marito e quelli per la moglie, una sorta di simmetria fra l’uno e l’altro, come evidenziò il Gaudemet[55], non una disparità così netta come avveniva in passato. Certamente avvenne questa trasformazione per le cause legittime di ripudio, ma qualcosa avvenne, in modo più lieve, anche per le pene previste nel caso di mancato rispetto della legge. Se non altro venne abolita la pena della deportatio[56], prevista per la sola donna.
Ecco perché possiamo ritenere un testo più equilibrato quello di Teodosio II.
Nel passato gli studiosi hanno rivolto le loro riflessioni all’influenza o meno del cristianesimo, sull’evoluzione degli istituti familiari[57]. In realtà, difficilmente il pensiero della Chiesa poteva stravolgere in modo radicale quegli istituti, tanto più che i pensieri dei Padri, in ordine al ripudio, presentavano, sovente, posizioni diverse.
Se ci fosse stata una decisiva influenza della Chiesa, la legislazione si sarebbe rivolta direttamente all’indissolubilità del matrimonio, ma non fu così.
Infatti, i provvedimenti imperiali riguardano il ripudio e non il divorzio consensuale, che non viene nemmeno menzionato. D’altra parte, l’imperatore interviene per lo più in presenza di qualche elemento patologico del diritto, al fine di rimuoverlo.
Nella prassi troppo spesso il ripudio avveniva senza regole e sfuggiva al controllo, diversamente dai divorzi consensuali.
Se Venturini parlava di «esigenza di frenare gli scioglimenti unilaterali, il promovimento del giudizio da parte del marito, cioè a far leva sullo strumento che l’esperienza pregressa aveva dimostrato più efficace»[58], questo era un punto di partenza di un nuovo orientamento legislativo in espansione.
Il minuzioso intervento da parte dell’imperatore rispecchia, dunque, l’idea di uno Stato sempre più presente anche nella vita privata del cittadino.
C’era, infatti, la necessità di ricorrere ad un maggiore formalismo, per essere sicuri di agire nel rispetto della volontà imperiale.
Teodosio II lo enuncia chiaramente: non ci può essere ripudio senza notifica del libello, che dà certezza da un lato, e dall’altro garanzia per il destinatario dell’atto.
Devono essere indicate chiaramente le cause legittime del ripudio al di fuori delle quali non si può andare, se non con la consapevolezza delle conseguenze ben precise da affrontare.
Il crimine indicato dall’autore del libello di ripudio deve essere provato, altrimenti si ritorna ad una prassi senza regole. Il ripudio non può basarsi su una falsa accusa. Per arrivare alla verità è prevista l’escussione dei testimoni. In alcuni casi è ammessa pure la tortura per far parlare testimoni di stato servile reticenti.
La cancelleria imperiale usa talvolta un linguaggio duro, ma non dimentica l’attenzione alla persona: si è detto del destinatario dell’atto, il quale deve essere garantito, ma non solo. Teodosio II enuncia il principio del favor liberorum, nei confronti dei figli della coppia che, nell’ambito di un ripudio senza regole, rischierebbero di essere danneggiati dal punto di vista patrimoniale.
In conclusione, Teodosio II, pur percorrendo una strada legislativa iniziata da Costantino, emana un provvedimento ancora meglio strutturato e con un linguaggio più giuridico, al fine, non di negare la possibilità di ricorrere al ripudio, ma di limitarne un uso eccessivo, privo di regole.* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
[1] Cfr. ‘Hormisdas’, in A.H.M. Jones, J.R. Martindale, J. Morris, «The Prosopography of the later Roman Empire (A.D. 395- 527)», II, New York 1980, p. 571.
[2] Sulla provenienza orientale della costituzione si veda A. Arjava, Women and law in late antiquity, Oxford 1996, p. 181, nt.71.
[3] Impp. Theodosius II et Valentinianus III AA. Hormisdae pp.
Consensu licita matrimonia posse contrahi, contracta non nisi misso repudio dissolvi praecipimus: solutionem etenim matrimonii difficiliorem debere esse favor imperat liberorum.
1. Causas autem repudii haec saluberrima lege apertius designamus. Si enim sine iuxta causa dissolvi matrimonia iuxto limite prohibemus, ita adversa necessitate pressum vel pressam quamvis infausto, attamen necessario auxilio cupimus liberari.
2. Si qua igitur maritum suum adulterum aut homicidam vel venificum vel certe contra nostrum imperium aliquid molientem vel falsitatis crimine condemnatum invenerit, si sepulchrorum dissolutorem, si sacris aedibus aliquid subtrahentem, si latronem vel latronum susceptorem vel abactorem aut plagiarium vel ad contemptum sui domi suae ipsa inspiciente cum impudicis mulieribus (quod maxime etiam castas exasperat) coetum ineuntem, si suae vitae veneno aut gladio vel alio simili modo insidiantem, si se verberibus, quae ab ingenuis aliena sunt, adficientem probaverit, tunc repudii auxilio uti necessariam ei permittimus libertatem et causas discidii legibus comprobare.
3. Vir quoque pari fine claudetur nec licebit aei sine causis apertius designatis propriam repudiare iugalem, nec ullo modo expellat nisi adulteram, nisi veneficam aut homicidam aut plagiariam aut sepulchrorum dissolutricem aut ex sacris aedibus aliquid subtrahentem aut latronum fautricem aut extraneorum virorum se ignorante vel nolente convivia appetentem aut ipso invito sine iusta et probabili causa foris scilicet pernoctantem, nisi circencibus vel theatralibus ludis vel harenarum spectaculis in ipsis locis, in quibus haec adsolent celebrari, se prohibente gaudentem, nisi sui veneno vel gladio aut alio simili modo insidiatricem, vel contra nostrum imperium aliquid machinantibus consciam, seu falsitatis se crimini immiscentem invenerit, aut manus audaces sibi probaverit ingerentem: tunc enim necessariam ei discedendi permittimus facultatem et causas discidii legibus comprobare.
4. Haec nisi vir et mulier observaverint, ultrice providentissimae legis poena plectentur. Nam mulier si contempta lege repudium mittendum esse tentaverit: suam dotem et ante nuptias donationem ammittat nec intra quinquennium nubendi habeat denuo potestatem.
Aequum est enim eam interim carere connubio, quo se monstravit indignam. Quod si praeter hoc nupserit, erit ipsa quidem infamis, connubium vero illud nolumus nuncupari: insuper etiam arguendi hoc ipsum volenti concedimus libertatem. Si vero causam probaverit intentatam, tunc eam et dotem recuperare, et ante, et ante nuptias donationem lucro habere, aut legibus vindicare censemus; et nubendi post annum ei (ne quis de prole dubitet) permittimus facultatem.
5. Virum etiam, si mulierem interdicta arguerit attentatem, tam dotem, quam ante nuptias donationem sibi habere seu vindicare, uxoremque (si velit) statim ducere, hac iusta definitione sancimus. Sin autem aliter uxori suae renuntiare voluerit: dotem redhibeat, et ante nuptias donationem amittat.
6. Servis scilicet seu ancillis puberibus, si crimen adulterii vel maiestatis ingeritur, tam viri quam mulieris ad examinandam causam repudii, quo veritas aut facilius eruatur aut liquidius detegatur, si tamen alia documenta defecerint, quaestionibus subdendis. Super plagiis etiam, prout dictum est, illatis ab alterutro commovendis easdem probationes (quoniam non facile quae domi geruntur per alienos poterunt confiteri) volumus observari.
7. Si vero filio vel filiis, filia vel filiabus extantibus, repudium missum est: omne quicquid ex nuptiis lucratum est, filio seu filiis filiae seu filiabus post mortem accipientis servari: id est, si pater temere repudium miserit, donationem ante nuptias a matre servari; si mater, dotem ipsam eidem vel eisdem filio seu filiae patre moriente dimitti censemus: patri videlicet vel matri in scribendis heredibus si unum seu unam vel omnes scribere, vel uni ex his donare velit, electione servata. Nec ullam alienandi seu supponendi memoratas res permittimus facultatem. Sed si aliquid ex iisdem rebus defuerit: ab heredibus, seu earum detentatoribus (si tamen non ipsos heredes scripserit, aut scripti filii non adierint) resarciri praecipimus: ut etiam hoc modo inconsulti animi a repudio mittendo detrimento retrahantur.
8. Pactiones sane si quae adversus praesentia scita nostrae maiestatis fuerint attentate, tamquam legibus contrarias, nullum habere volumus firmitatem.
D. V Id. Ian. Protogene et Asterio conss.
[4] Cfr. O. Robleda, El matrimonio en el derecho Romano, Roma 1970, p. 267.
[5] Cfr. G. Brini, Matrimonio e divorzio nel diritto romano, III, Diritto romano nel divorzio, Roma 1975, p. 230 e ss.
[6] V. il breve accenno in J. Evans Grubbs, Law and family in late Antiquity. The emperor Constantine’s Marriage Legislation, Oxford 1999, p. 236.
[7] V. P.G. Caron, Consensu licite matrimonia posse contrahi, contracta non nisi misso repudio solvi (C. 5.17.8), in AARC, VII, Napoli 1988, p. 291 e s.
[8] CTh. 3.16.1: Imp. Constantinus A. ad Ablavium praefectum praetorio. Placet mulieri non licere propter suas pravas cupiditates marito repudium mittere exquisita causa, velut ebrioso aut aleatori aut mulierculario, nec vero maritatis per quascumque occasiones uxores suas simittere, sed in ripudio mittendo a femina haec sola crimini inquiri, si homicidam vel medicamentarium vel sepulchrorum dissolutorem maritum suum esse probaverit, ut ita demum laudata omnem suam dotem recipiat. Nam si praeter haec tria crimina repudium marito miserit, oportet eam usque ad acuculam capitis in domo mariti deponere et pro tam magna sui confidentia in insulam deportari. In masculis etiam, si repudium mittant, haec tria crimina inquiri conveniet, si moecham vel medicamentariam vel conciliatricem repudiare voluerint. Nam si ab his criminibus liberam eiecerit, omnem dotem restituere debet et aliam non ducere. Quod si fecerit, priori coniugi facultas dabitur domum eius invadere et omnem dotem posterioris uxoris ad semet ipsam transferre pro iniuria sibi inlata. Dat. ……….. Basso et Ablavio conss.
Interpretatio. Certis rebus et probati causisinter uxorem et maritum repudiandi locus patet; nam levi obiectione matrimonium solvere prohibentur. Quod si forte mulier dicat maritum suum aut ebriosum aut luxuriae deditum, non propterea repudiandus est, nisi forte eum aut homicidam aut maleficum aut sepulchri violatorem esse docuerit, quibus criminibus convictus sine culpa mulieribus merito videtur excludi et mulier recepta dote discedit: nam si haeccrimina mulier non potuerit adprobare, haec poena multatur, ut et dotem, quam dederat vel pro ipsa data fuerat, et donationem, quam percepit, amittat atque etiam exilii relegatione teneatur. Quod si a viro mulier repellatur, nec ipse, nisi certis criminibus ream docuerit, pro levi, ut solet, iurgio, repudiare non permittitur, nisi fortasse adulteram aut maleficam aut conciliatricem eam probare sufficiat. Quod si docere non potuerit, dotem mulieri restituat et aliam ducere non praesumat uxorem. Quod si fortetemptaverit, habebit mulier facultatem, quae innocens eiecta est, domum mariti sui atque eius substantiam sibimet vindicare. Quod dinoscitur ordinatum, ut etiam secundae uxoris dotem repudiata iniuste mulier iubeatur adquirere.
[9] Cfr. R. Domingo, La Legislaciòn matrimonial de Constantino, Navarra 1989, p. 37 e ss.
[10] R. Domingo, ivi, p. 38.
[11] C. Venturini, La ripudianda (In margine a CTh. 3.16.1), in AARC, VIII, Napoli 1990, p. 355.
[12] C. Venturini, ivi,p. 356.
[13] F. Pergami, Repressione dell’adulterio nella legislazione tardoimperiale, in Index, XL (2012), p. 495.
[14] O. Vannucchi Forzieri, La legislazione imperiale del IV-V secolo in tema di divorzio, in SDHI., XLVIII (1982), p. 310.
[15] C. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici e antiquari, III, Concubinato divorzio adulterio, Roma 2005, p. 153 e ss.
[16] J. Gaudemet, Le mariage en Occident, Paris 1987, trad. it. Il matrimonio in Occidente, Torino 1989, p. 61.
[17] V. anche P. Bonfante, Corso di diritto romano, I, Diritto di famiglia, Milano 1963, p. 352 e s.
[18] J. Gaudemet, La législation sur le divorce dans le droit impérial, in AARC, VII, Napoli 1988, p. 80 e ss.
[19] G. Rizzelli, Adulterium. Immagini, etica, diritto, in Rivista di diritto romano, VIII (2008), p. 39.
[20] G. Rizzelli, ivi, p. 40
[21] G. Rizzelli, ivi, p. 41.
[22] C. Venturini, La ripudianda, cit., p. 360.
[23] V. B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, Milano 1998, p. 294.
[24] CTh. 11.36.4: Impp(p. Constantinus) Constantius et Constans AA(A) ad Catullinum. Oportuerat te publici instituti respectu confessione detectos legum severitate punire nec frustra vitam differentum moratorias provocationes admittere, sed delatum adulterii crimen et quaestionibus adhibitis adprobatum pari sceleri immanitate damnare. Quod deinceps in huiusmodi criminibus convenit observari, ut manifestis probationibus adulterio probato frustratoria provocatio minime admittatur, cum pari similique ratione sacrilegos nuptiarum tamquam manifestos parricidas insuere culleo vivos vel exurere iudicantem oporteat. Dat. IIII Kal. Sept. Constantio A. II et Constante Caes. conss.
[25] Ho riportato quanto scritto in P.O. Cuneo, La legislazione di Costantino II, Costanzo II e Costante (337-361), Milano 1997, p. 55 e s., riportato tale e quale, senza citazione, in F. Pergami, Repressione dell’adulterio, cit., p. 507.
[26] Si veda F. Zuccotti, La «crudeltà» nel Codice Teodosiano ed i suoi fondamenti teologico giuridici, in AARC, XIX, Roma, 2013, p. 46.
[27] Sulla pena del culleus v. il recentissimo lavoro di E. Cantarella, Come uccidere il padre. Genitori e figli da Roma a oggi, Milano 2017, p. 88 e ss.
[28] V. B. Santalucia, Diritto e processo penale, cit.,p. 267; A. Banfi, Acerrima indago. Considerazioni sul procedimento criminale romano nel IV sec. d.C., Torino 2016, 2a ed., p. 102 e ss.; P.O. Cuneo, sv. Grab/Grabrecht, in H. HEINEN (a cura di) , Handwörterbuch der antiken Sklaverei, vol. 2, Stuttgart 2017, col. 1219 e ss.
[29] Cfr. P.O. Cuneo, La legislazione tardo-imperiale in materia di sepolcri, in Scritti in memoria di Giambattista Impallomeni, Milano 1999, p. 154 e s.
[30] P.O. Cuneo, ivi, p. 155 e nt. 37.
[31] P.O. Cuneo, ivi, p. 139.
[32] P.O. Cuneo, ivi, p. 141.
[33] P.O. Cuneo, ivi, p. 146.
[34] V. R. Lambertini, Plagium, Milano 1980, passim; B. Santalucia, rec. a R. Lambertini, Plagium (Milano, 1980), in Iura, XXXI (1980), p. 249 e ss., ora in Altri studi di diritto penale, p. 445 ss.; B. Santalucia, Diritto e processo penale, cit., p. 293; P.O. Cuneo, Sequestro di persona, riduzione in schiavitù e traffico di esseri umani. Studi sul crimen plagii dall’età dioclezianea al V secolo d.C., in corso di pubblicazione.
[35] J. Gaudemet, La législation sur le divorce, cit., 80.
[36] J. Gaudemet, ibidem.
[37] Cfr. P.O. Cuneo, Sequestro di persona, riduzione in schiavitù e traffico di esseri umani. Studi sul crimen plagii, cit., in corso di pubblicazione.
[38] F. Delpini, Divorzio e separazione, cit., p. 121.
[39] Diversamente, v. M. Humbert, Le remariage à Rome. Études d’histoire juridique et sociale, Milano 1972, p. 130, nt. 36, per il quale la costituzione di Teodosio II rientrerebbe in una legislazione decisamente ostile al divorzio.
[40] V. C. Fayer, La familia romana, cit., III, Concubinato divorzio adulterio, cit., p. 146 e ss.
[41] O. Vannucchi Forzieri, La legislazione imperiale del IV-V secolo in tema di divorzio, cit., p. 301.
[42] V. P. Bonfante, Corso di diritto romano, I, cit., p. 353.
[43] V. B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, Milano 1998, p. 284.
[44] U. Vincenti, La condizione del testimone nel diritto processualcriminale romano di età tardo imperiale, in AARC, VIII, Napoli 1990, p. 322.
[45] O. Vannucchi Forzieri, La legislazione imperiale del IV-V secolo in tema di divorzio, cit., p. 310 e s.
[46]Cfr. M. García Garrido, Relaciones personales y patrimoniales entre esposos y coniuges en el derecho imperial tardio, in AARC, VII, 1988, p. 41.
[47] V. M.I. Núñez Paz Algunaz, Consentimiento matrimonial y divorcio in Roma, Salamanca 1988, p. 153 e s.; A. Ariawa, Women and Law in Late Antiquity, Oxford 1996, p. 185 e s.
[48] Cfr. C. Fayer, La familia romana, cit., III, Concubinato divorzio adulterio, cit., p. 156.
[49] Cfr. A. Montan, La legislazione romana sul divorzio: aspetti evolutivi e influssi cristiani, in Apollinaris, LII, 1980, p.183 e s.
[50] F. Delpini, Divorzio e separazione dei coniugi nel diritto romano e nella dottrina della Chiesa fino al secolo V, Torino 1956, p. 121 e s.
[51] P. Bonfante, Corso di diritto romano, I, Diritto di famiglia, Milano 1963, p. 353.
[52]P.O. Cuneo, Alcune costituzioni di costantino emanate ad Aquileia, in Costantino a 1700 anni dall’editto di Milano, Trieste 2014, p. 232.
[53] C. Venturini, La ripudianda, cit., p. 348.
[54] Cfr. C. Fayer, La familia romana, cit., III, Concubinato divorzio adulterio, cit., p. 60.
[55] V. supra, par. 2.
[56] V. , per l’epoca precedente, B. Santalucia, Diritto e processo penale, cit.,p. 251
[57] V. P.O. Cuneo Benatti, Ricerche sul matrimonio romano in età imperiale (I-V secolo d.C.), Roma 2013, p. 207 e ss.
[58] C. Venturini, La ripudianda, cit., p. 365.
Cuneo Paola Ombretta
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