Il reddito di cittadinanza tra contrasto alla povertà e mercato del lavoro: un primo bilancio e le prospettive future
Daniele Chapellu
Docente di diritto del lavoro,
Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Milano
Il reddito di cittadinanza tra contrasto alla povertà e mercato del lavoro: un primo bilancio e le prospettive future*
English title: The “reddito di cittadinanza” among fight against poverty and labour market: first assessment and future perspectives.
DOI: 10.26350/004084_000079
Sommario: 1. Decreto Legge 28 gennaio 2019 n. 4: una norma molto attesa dai molteplici impatti sulle politiche attive del lavoro. - 2. Le esperienze precedenti al “reddito di cittadinanza”: il “reddito minimo di inserimento”, la “social card”, il SIA e il REI. - 3. Il reddito di cittadinanza e i principali strumenti di politica attiva presenti nel decreto. - 4. Il “Patto per il lavoro” quale architrave della presa in carico del disoccupato: profili contenutistici e giuridici. - 5. Il complesso meccanismo di riattivazione verso il lavoro: il concetto di condizionalità, offerta congrua e il sistema sanzionatorio. - 6. Il reddito di cittadinanza e il suo lento decollo a poco più di un anno dalla sua emanazione: l’analisi dei principali dati, l’attuale faticosa implementazione della misura e la sospensione della condizionalità in relazione al Covid19. – 7. Conclusioni.
1. Decreto Legge 28 gennaio 2019 n. 4: una norma molto attesa dai molteplici impatti sulle politiche attive del lavoro.
Il 28 gennaio 2019 è stato emanato il Decreto Legge n. 4 del 2018 rubricato “Disposizioni in tema di reddito di cittadinanza e di pensioni” che, per la prima volta dopo un lungo dibattito che ha impegnato anche parte della dottrina[1], ha introdotto nel nostro paese il concetto di reddito di cittadinanza (d’ora in poi RdC). Già da una prima lettura della definizione del medesimo, inteso quale “misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro”, appare evidente che non si tratti di una iniziativa avente semplici implicazioni di natura socio assistenziale, ma di un provvedimento avente forti impatti nelle politiche attive e nella gestione dei servizi per il lavoro del nostro paese.
Il decreto si presenta come un atto normativo estremamente complesso in quanto, volendo rappresentare una “misura di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto del lavoro” volta a combattere la povertà, l’esclusione sociale e la disuguaglianza, tende ad enfatizzare il ruolo del diritto del lavoro e delle politiche attive anche in situazioni che, per loro stessa natura, fino ad alcuni anni fa erano considerate maggiormente aderenti a politiche di tipo sociale. Il testo normativo presenta, infatti, un forte dettaglio volto a definire tutti gli elementi di natura socio-economica indispensabili nella individuazione dei beneficiari e degli importi riconosciuti. Nella norma sono, inoltre, indicate tutte le politiche attive del lavoro e del settore sociale connesse all’erogazione del beneficio economico, descritte le piattaforme digitali necessarie per una efficace gestione di tutto il processo, previste le sanzioni e chiarite le modalità di monitoraggio e finanziarie della misura.
Proprio tale complessità impone di ben definire, fin da ora, il campo di analisi del presente saggio che dovrà obbligatoriamente tralasciare molti aspetti procedurali e tecnici del RdC per consentire un adeguato approfondimento delle politiche attive del lavoro e degli strumenti ad esso collegati.
Il saggio verte, pertanto, sull’analisi di alcuni istituti della riforma favorendo una comparazione tra le misure del passato e l’attuale situazione in essere nei servizi per il lavoro e sulla messa in evidenza degli impatti e delle conseguenze che emergono ad un anno e mezzo dall’introduzione della nuova misura di contrasto alla povertà.
2. Le esperienze precedenti al “reddito di cittadinanza”: il “reddito minimo di inserimento”, la “social card”, il SIA e il REI.
Il reddito di cittadinanza rappresenta il punto di arrivo di diverse esperienze nazionali di contrasto alla povertà che si sono succedute nell’ultimo ventennio e che occorre, in questa sede, trattare al fine di ben inquadrare il contesto di riferimento nel quale è venuto ad esistenza l’istituto oggetto del presente saggio.
Un primo intervento legislativo, risalente alla seconda metà degli anni novanta, si può rilevare nell’ambito di un quadro generale di riforma del diritto del lavoro rappresentato in quegli anni dal cd. Pacchetto Treu. Tale riforma prevedeva, infatti, anche norme che si proponevano di ostacolare la complessa piaga del lavoro cd. sommerso [2] e introduceva ex art. 1, co. 1, d.lgs. n. 237/1998[3], in via sperimentale, il “reddito minimo di inserimento” definito quale “misura di contrasto della povertà e dell'esclusione sociale attraverso il sostegno delle condizioni economiche e sociali delle persone esposte al rischio della marginalità sociale ed impossibilitate a provvedere per cause psichiche, fisiche e sociali al mantenimento proprio e dei figli”.
Tale misura, caratterizzata dalla presenza di “programmi personalizzati”[4] definiti e implementati dai Comuni, non consisteva in una mera erogazione in denaro ma si sviluppava per mezzo di interventi volti a realizzare l'integrazione sociale e l'autonomia economica dei soggetti e delle famiglie destinatarie.
L’istituto non ebbe però grande successo. La caratteristica sperimentale dello stesso, che limitava l’ambito territoriale interessato e prevedeva un periodo massimo (due anni) di possibile erogazione del beneficio, rappresentò forse il principale limite del “reddito minimo di inserimento” che nonostante delineasse una prima interessante risposta al problema del contrasto alla povertà non riuscì a trovare una implementazione ordinaria nel nostro sistema.
Anche il nuovo istituto, definito “reddito di ultima istanza” e introdotto dalla legge finanziaria 2004 (l. n. 350 del 24 dicembre 2003), non ebbe però un esito positivo in quanto intervenne una sentenza della Corte Costituzionale[5] la quale dichiarò illegittima la norma istitutiva della misura – per la quale era previsto il finanziamento da parte del succitato Fondo per le politiche sociali – per violazione del principio di riparto delle competenze tra Stato e Regioni, con riferimento alle materie concernenti i servizi sociali e l’istruzione. Anche il “reddito di ultima istanza”, in sostanza, non trovò attuazione e il problema di contrastare la povertà nel nostro paese rimase privo di risposte adeguate[6].
Il tema dell’aiuto alle persone indigenti ritrovò l’attenzione del legislatore solo alcuni anni dopo, quando nel 2008 il D.L. n. 112, art. 81, c. 32, istituì la “carta acquisti” (cd. social card)[7].
Con tale norma si avviava per la prima volta un apposito strumento elettronico volto a “soddisfare le esigenze prioritariamente di natura alimentare e successivamente anche energetiche” e sanitare dei cittadini meno abbienti. Nello specifico il cittadino che versava in una “condizione di maggior disagio sociale” e che aveva determinati requisiti previsti dalla legge poteva richiedere agli enti preposti l’erogazione della card e quindi utilizzarla per gli acquisti di beni e servizi nei settori predefiniti dalla legge. Il sussidio che presentava un ammontare abbastanza irrisorio –circa quaranta euro mensili- non richiedeva specifici oneri di attivazione in politiche del lavoro o sociali e, pertanto, lo stesso rappresentò principalmente una modesta misura di sostegno economico che di per sé non portò ad una effettiva presa in carico dei soggetti a possibile rischio di marginalità.
In continuità con la “carta acquisti” un importante passo avanti venne fatto nel 2016 con l’emanazione del Decreto interministeriale del 26 maggio con il quale si disciplinava una nuova misura di contrasto della povertà denominata “Sostegno per l'Inclusione Attiva” (cd. SIA)[8].
Tale misura oltre a prevedere l’erogazione di un sussidio economico alle famiglie in condizioni economiche disagiate[9] -anche in tal caso attraverso l’attribuzione di una carta di pagamento elettronica utilizzabile per l’acquisto di beni di prima necessità- introduceva un primo meccanismo di condizionalità volto a favorire una effettiva attivazione del beneficiario per migliorare la propria condizione sociale.
Il sussidio era, infatti, subordinato all’adesione a un “progetto personalizzato di attivazione sociale e lavorativa” predisposto dai servizi sociali del comune, in rete con i servizi per l’impiego, i servizi sanitari e le scuole, nonché con soggetti privati ed enti no profit. Il progetto doveva coinvolgere tutti i componenti del nucleo familiare e prevedeva specifici impegni per adulti e minori sulla base di una valutazione globale delle problematiche e dei bisogni. Le attività riguardavano i contatti con i servizi, la ricerca attiva di lavoro, l’adesione a progetti di formazione, la frequenza e l’impegno scolastico, la prevenzione e la tutela della salute.
A seguito del SIA, anche in considerazione del sempre più consistente interesse politico al tema del contrasto alla povertà, è stato introdotto col d.lgs. n. 147 del 2017 il “reddito di inclusione” (ReI) [10] che ne rappresenta l’evoluzione.[11]
Il “reddito di inclusione” rappresentava una “misura a carattere universale, condizionata alla prova dei mezzi e all'adesione a un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa finalizzato all'affrancamento dalla condizione di povertà” (art.2. c. 2, d.lgs.147/2017) e si componeva, pertanto, di due parti: un beneficio economico, erogato mensilmente attraverso una carta di pagamento elettronica (cd. Carta ReI) e un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa volto al superamento della condizione di povertà.
Soddisfatti i requisiti per l’ottenimento del beneficio economico, il “progetto personalizzato” veniva predisposto con il supporto dei servizi sociali del Comune che agivano in rete con gli altri servizi territoriali, tra cui anche i Centri per l'Impiego, le ASL, le scuole, nonché con soggetti privati attivi nell'ambito degli interventi di contrasto alla povertà, con particolare riferimento agli enti non profit. Il progetto coinvolgeva tutti i componenti del nucleo familiare e prevedeva l'identificazione degli obiettivi che si intendevano raggiungere, dei sostegni di cui il nucleo necessitava, degli impegni da parte dei componenti il nucleo a svolgere specifiche attività (quali a titolo esemplificativo l’attivazione lavorativa, la frequenza scolastica, la tutela della salute).
Con il ReI si introduceva, per la prima volta, un forte meccanismo di condizionalità -procedimento qualificante e fondamentale nell’attuale “reddito di cittadinanza”- che collegato all’applicazione di specifiche sanzioni graduate poteva portare alla decurtazione di parte del beneficio o addirittura alla decadenza del medesimo. Infine, nonostante si trattasse di una misura prevalentemente di natura sociale gestita dagli sportelli comunali, il reddito di inclusione ha avuto il merito di aver individuato, tra le leve da utilizzare in risposta a casi di povertà ed emarginazione sociale, anche le politiche attive del lavoro.
3. Il reddito di cittadinanza e i principali strumenti di politica attiva presenti nel decreto.
Nel corso della precedente e della attuale legislatura il tema del contrasto alla povertà rappresenta un ambito di intervento sostanziale e strategico dal punto di vista politico-parlamentare.
Tutte le esperienze passate, “reddito minimo di inserimento”, “social card”, SIA e ReI non sono state ritenute sufficienti a dare una risposta adeguata al fenomeno del contrasto alla povertà e, per quanto nella nuova misura si possano ritrovare elementi comuni con le precedenti sperimentazioni, ci si trova davanti ad un piano di intervento decisamente più rilevante sia in relazione alla portata dell’impegno finanziario necessario per soddisfare una platea molto più ampia di beneficiari, sia in merito alle politiche attive del lavoro e sociali da implementare per un corretto completamento dell’intervento.
Proprio la particolare enfasi che è stata attribuita al “reddito di cittadinanza” e l’ingente esborso finanziario pubblico connesso, hanno portato il Legislatore a dover prevedere e definire una serie di dettami molto precisi volti ad evitare il manifestarsi di comportamenti opportunistici che avrebbero fatto venir meno il principale obiettivo dichiarato dal Governo. Rappresentando, infatti, il RdC una adeguata forma di accompagnamento e aiuto per soggetti ipoteticamente in grado di svolgere una attività lavorativa, la norma prevede meccanismi di incentivo o di disincentivo, di condizionalità e sanzionatori che, connessi con l’attivazione di politiche attive del lavoro o servizi sociali efficienti, consentano di garantire un adeguato sostegno e una corretta attivazione di quei cittadini che, trovandosi in evidente stato difficoltà economica e sociale, non sono in grado di superare la propria inadeguata condizione occupazionale.
La complessità della norma è legata anche al fatto, non irrilevante a livello pratico-gestionale (come già avveniva in parte nel ReI), che la misura si rivolge non a singoli soggetti ma a nuclei famigliari, che a seconda della occupabilità o meno dei singoli componenti, vengono indirizzati a percorsi di inserimento lavorativo o sociale, o rimangono semplici fruitori del sostegno economico senza obblighi previsti da percorsi di integrazione[12] (art. 4 D.L. n. 4/2019). Nel primo caso i beneficiari sono distribuiti in due diversi canali tra di loro correlati e comunicanti: quello dei Centri per l’impiego qualora il nucleo coinvolto, o parte dello stesso, sia ritenuto occupabile e quello dei Comuni qualora il medesimo necessiti di un programma socio-assistenziale che gli consenta di uscire dalla propria condizione di emarginazione o disagio per avviare i suoi componenti a percorsi di politica attiva del lavoro.
L’erogazione del beneficio è condizionata dalla “dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro da parte di tutti i componenti il nucleo familiare maggiorenni”, (cd. did) nonché “all’adesione ad un percorso personalizzato all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale che prevede attività di servizio alla comunità, di riqualificazione professionale, di completamento degli studi, nonché altri impegni individuati dai servizi competenti” (art. 4 D.L. n. 4/2019).[13]
Tali soggetti, a seguito della prima convocazione sottoscrivono il cd “Patto per il lavoro” e iniziano quindi il loro percorso di ricollocazione professionale.
I beneficiari, non rientranti nelle categorie appena citate, sono convocati invece dai Comuni, presso i “servizi competenti per il contrasto alla povertà” (comma 11, art. 4 D.L. n. 4/2019) che effettuano una valutazione multidimensionale volta a far emergere la prevalenza dei bisogni familiari. Se da tale analisi risulta che gli stessi sono connessi prevalentemente alla “situazione lavorativa”, i componenti il nucleo familiare interessati vengono indirizzati presso i servizi per l’impiego, nel caso in cui emerga, invece, un bisogno complesso multidimensionale, i beneficiari sono tenuti a sottoscrivere il “Patto per l’inclusione sociale” che include “oltre agli interventi per l’accompagnamento lavorativo… gli interventi e i servizi sociali di contrasto alla povertà”.
Il “Patto per il lavoro” e il “Patto per l’inclusione sociale” e tutti i sostegni in essi previsti sono considerati “livelli essenziali delle prestazioni” (cd. LEP)[14] e soggetti a condizionalità.
Un elemento non trascurabile, nell’analisi del D.L. n. 4 del 2019, risiede, inoltre, nel fatto che l’emanazione della normativa relativa al RdC trova oggi collocazione in un sistema di politiche del lavoro fortemente riformato dal D.Lgs. 150 del 2015 caratterizzato da una precisa definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, da una nuova rete di attori coinvolti, da nuovi strumenti informatici (Sistema informativo unitario delle politiche del lavoro) e da un sistema di condizionalità legato alla sottoscrizione di un adeguato “Patto di sevizio personalizzato”.[15]
Ecco, quindi, che le misure previste per l’erogazione del reddito di cittadinanza vanno analizzate e correlate con gli strumenti e le politiche attive del lavoro già presenti nel nostro sistema normativo al fine di far emergere opportunità o fattori critici del nuovo approccio contenuto nel dettato normativo.
A tal fine si prospetta di analizzare in modo più dettagliato i principali strumenti e le modalità attuative previste dal D.L. n. 4 del 2019 ed in particolare quanto prescritto in relazione al “patto per il lavoro”, al meccanismo di condizionalità, al relativo sistema sanzionatorio e al concetto di offerta congrua.
4. Il “Patto per il lavoro” quale architrave della presa in carico del disoccupato: profili contenutistici e giuridici.
Come già precedentemente evidenziato, il percorso del soggetto beneficiario di reddito di cittadinanza decorre dal rilascio della “dichiarazione di immediata disponibilità”, elemento già previsto nella più recente riforma del mercato del lavoro (art. 19 del d.lgs. 150 del 2015) che individua i disoccupati quali “soggetti privi di impiego che dichiarano, in forma telematica, al sistema informativo unitario delle politiche del lavoro…la propria immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica attiva del lavoro concordate con il centro per l'impiego”. Anche, quindi, nel caso del RdC per poter accedere al beneficio economico il cittadino deve rendersi disponibile all’accettazione di offerte di lavoro adeguate e alla partecipazione attiva ad iniziative volte alla propria ricollocazione.
L’architrave del sistema della presa in carico del beneficiario da parte dei servizi per il lavoro non può, però, essere certo rappresentato da una semplice e unilaterale disponibilità del cittadino a fruire dei servizi offerti, ma piuttosto, da uno strumento che consenta di individuare in modo chiaro ed efficace il percorso che coinvolge il disoccupato sia nella fase di aggiornamento delle proprie competenze sia in quella relativa al suo rientro nel mercato del lavoro. Sulla scia di quanto già previsto dall’art. 20 del d.lgs. n. 150 del 2015 in tema di patto di servizio personalizzato (PSP)[16], il decreto sul RdC prevede quali fondamentali strumenti regolatori della misura di contrasto alla povertà il “Patto per il lavoro” (PpL) e il “Patto per l’inclusione sociale” (PpIS).
L’art. 4 del D.L. n. 4 del 2019 ai commi 7 e 8, prevede che i beneficiari di RdC stipulino presso i Centri per l’impiego (CpI) ovvero presso i soggetti accreditati (laddove previsto da leggi regionali) un “Patto per il lavoro” che assume le caratteristiche del “Patto di servizio personalizzato” di cui all’art. 20 D.lgs. 150 del 2015 integrato con ulteriori condizioni che si possono sintetizzare nella collaborazione con l’operatore addetto alla redazione del bilancio delle competenze e nella successiva accettazione espressa degli obblighi e degli impegni stabiliti nel patto medesimo.
Tra gli impegni e gli obblighi previsti nel “Patto per il lavoro”, che l’utente deve accettare, la legge prevede la registrazione “sull’apposita piattaforma digitale” e la consultazione quotidiana della stessa “quale supporto nella ricerca del lavoro”, lo svolgimento di attività di “ricerca attiva del lavoro, secondo le modalità definite nel Patto per il lavoro, che, comunque, individua il diario delle attività che devono essere svolte settimanalmente”, l’accettazione ad “essere avviato ai corsi di formazione e riqualificazione professionale, ovvero progetti per favorire l’auto-imprenditorialità”, il sostegno di “colloqui psicoattitudinali e le eventuali prove di selezione”, ed infine l’accettazione di “almeno una di tre offerte di lavoro congrue”.
Il patto per il lavoro, rappresenta, pertanto, un “accordo” tra un “responsabile delle attività”, e un cittadino che, in quanto beneficiario e percettore del RdC, diviene portatore di alcuni obblighi volti a favorire la sua ricollocazione professionale.
In tal modo il Legislatore collega l’erogazione del sussidio economico con le misure di politica attiva per mezzo di un atto “bilaterale”[17] che viene stipulato tra utente e centro per l’impiego competente a livello territoriale. Con tale atto formale il servizio pubblico, o il soggetto accreditato -laddove previsto da leggi regionali-, si impegna nei confronti del disoccupato ad offrire, nei tempi e nei modi concordati, azioni di politica attiva e offerte di lavoro, mentre l’utente si obbliga a parteciparvi attivamente e con spirito proattivo.
L’interessante approccio “pattizio” relativo alla fattispecie appena citata fa emergere una spontanea discussione sulla natura giuridica della stessa, sulla sua portata contrattuale e sui consequenziali effetti giuridici derivanti.
Al fine di approfondire la questione occorre inizialmente soffermarsi sulle caratteristiche dei PSP, che attualmente vengono sottoscritti presso i CPI per la gestione quotidiana dei flussi di disoccupati che cercano ricollocazione lavorativa. Nonostante, infatti, il termine “patto” appaia accattivante e porti il pensiero ad una connotazione contrattuale dello stesso –richiamando l’idea di accordo o, più tecnicamente di negozio giuridico-[18] occorre prestare molta attenzione al suo contenuto, ai soggetti coinvolti e alla peculiare circostanza nella quale viene ad esistenza.
I patti di servizio, che vengono oggi conclusi nelle singole regioni, nella maggior parte dei casi sono caratterizzati da modelli “predefiniti” che contengono prevalentemente oltre ai dati di colui che cerca lavoro (Jobseeker), la sua profilazione e il suo impegno a partecipare attivamente a delle molto generiche categorie di azioni di politica attiva[19]. L’impegno in capo ai servizi si sintetizza anch’esso in azioni molto indefinite che nella quasi totalità dei casi rappresentano una semplice trasposizione dei servizi di base che ogni singolo territorio può offrire.[20]
L’approccio caratterizzato dall’assunzione di reciproche obbligazioni (mutual obbligations approach) oggi si presenta come un formale atto nel quale diviene molto difficile individuare un vero e proprio contratto a prestazioni corrispettive sia per la genericità dei contenuti sia per le differenti posizioni che acquisiscono le parti contraenti.
Per quanto la sottoscrizione del patto da parte del cittadino potrebbe essere ricondotta a quanto stabilito nell’art. 1326 cc, e quindi alla conclusione di un contratto scaturente dalla accettazione di una parte alla proposta effettuata e pervenuta dall’altra, sul versante degli obblighi e delle sanzioni i due contraenti, in tale peculiare situazione, si trovano in una posizione totalmente asimmetrica.
Il jobseeker, infatti, deve sottostare a tutte le iniziative che vengono proposte dai servizi per l’impiego, mentre nulla è previsto in relazione agli obblighi del contraente pubblico in merito a specifiche necessità del soggetto inoccupato o disoccupato. Quest’ultimo, con la previsione della perdita dello stato di disoccupazione e dei sussidi di cui è beneficiario, si trova, inoltre, caricato di maggiori oneri a livello sanzionatorio rispetto alla controparte che, in caso di mancata attivazione delle misure di politica attiva previste nel patto, per non dire addirittura nel caso di una sua totale inerzia, non è soggetta a particolari sanzioni. [21]
Tale asimmetria, che potrebbe ridursi con l’introduzione nei “Patti per il lavoro” di clausole più analitiche volte a rendere più equilibrate le posizioni dei “contraenti”, è però destinata a permanere, in quanto, anche nel decreto sul RdC, non sono previste sanzioni specifiche in caso di inadeguatezza dell’offerta di politiche del lavoro da parte dei CPI.
Suddetto scenario, può però assumere altri “connotati” se si sposta il focus di analisi all’elevazione, prevista dalla legge, del reddito di cittadinanza a “livello essenziale di prestazione” (LEP)[22]. Tale prescrizione normativa offre, infatti, una nuova prospettiva di studio che, se rapportata al diritto soggettivo dei cittadini ad ottenere adeguati e uniformi livelli essenziali delle prestazioni, porta al sorgere di una conseguente responsabilità del contraente pubblico in caso di sua inerzia.
In tale prospettiva, vi è dottrina, che constata che nel momento in cui “la PA pone a disposizione del singolo le misure funzionali a rendere effettivo il bene lavoro, nasce il presupposto del rapporto obbligatorio” per cui in caso di totale stasi o di attività insoddisfacente da parte dei servizi per l’impiego in relazione ai servizi offerti, specie se appartenenti ai LEP, il lavoratore, in quanto titolare di un diritto soggettivo leso, potrebbe agire giudizialmente nei confronti dell’amministrazione inadempiente e richiedere il risarcimento del danno.[23]
Volendo approfondire ulteriormente l’argomento trattato, diviene necessario, partendo dalle difformi esperienze realizzate nei diversi contesti territoriali del nostro paese[24], effettuare alcune ulteriori riflessioni sul contenuto dei PSP.
A tal fine appare molto utile quanto previsto da un interessante approccio dottrinario che evidenzia come, sotto l’unica dizione di “patto di servizio”, in realtà negli anni si sono definiti “modelli differenziati almeno su base di una doppia matrice, cioè in relazione, da un lato alla maggiore o minore formalizzazione del sistema pattizio e, dall’altro, al tendenziale orientamento del medesimo sistema verso funzioni di ordine propriamente amministrativo (in connessione con il riconoscimento e il mantenimento dello status di disoccupato) ovvero verso funzioni tendenzialmente di natura gestionale ed operativa (in relazione a modalità innovative di presa in carico del disoccupato da parte del servizio)”.[25]
Tale approccio appare molto adatto per comprendere se gli odierni “Patti di servizio personalizzati” -e ora anche i “Patti per il lavoro”- definiti nelle singole Regioni, siano adeguati ed in linea con le previsioni normative.
Sia il D.lgs. n. 150 del 2015 in relazione al PSP, che il D.L. n. 4 del 2109 relativamente al “Patto per il lavoro” sono, infatti, molto chiari nel prevedere il contenuto dei singoli atti, e dalla lettura della legge emerge che gli stessi dovrebbero cedere la loro funzione meramente amministrativa, che oggi è sicuramente rappresentata dalla “dichiarazione di immediata disponibilità”, a favore di un contenuto primariamente di natura gestionale e operativa che favorisca una reale presa in carico del disoccupato.
In realtà l’effettiva difficoltà ad abbandonare l’ottica amministrativa del patto, risiede sia nel carattere innovativo che lo stesso dovrebbe trovare nell’erogazione di un servizio individualizzato, sia nella carenza di politiche attive territoriali a supporto dei servizi pubblici o degli enti accreditati adeguate a soddisfare le plurime esigenze dei jobseekers.
Proprio per tali ragioni i “patti”, nell’attuale realtà delle politiche del lavoro, sono ancora molto distanti dal poter essere considerati dei contratti a prestazioni corrispettive, e possono essere al limite definiti come legami tra servizi per il lavoro e disoccupati caratterizzati da una condizionalità “praticata nei termini di sostegno regolato al self-help”[26], oppure come “adattamento del contenuto obbligatorio previsto dalla legge alle esigenze del singolo”[27] o, ancora, in rapporti giuridici bilaterali “che non conformandosi alla visione più tradizionale del contratto, sono di tipo “para-contrattuale” o “quasi-contrattuale”, con effetti … tutti da definire sul piano degli inadempimenti degli obblighi assunti (e delle conseguenze degli inadempimenti, soprattutto da parte degli uffici pubblici)”.[28]
Concludendo, in considerazione del fatto che sussiste un diritto del disoccupato a ricevere un’adeguata prestazione (oggi rientrante nei LEP) e che questo molto spesso non trova una giusta collocazione nell’attuale servizio pubblico e privato accreditato, forse l’unica via possibile per giungere ad una minore asimmetria degli obblighi delle parti potrebbe essere rappresentata da una implementazione dell’attuale sistema normativo che preveda impegni più precisi ed eventuali sanzioni del soggetto erogatore del servizio e che inizi a contemplare il profilo della mancata, incompleta o tardiva erogazione del servizio a garanzia dell’effettività del diritto del lavoro[29].
5. Il complesso meccanismo di riattivazione verso il lavoro: il concetto di condizionalità, offerta congrua e il sistema sanzionatorio.
Le misure di accompagnamento al lavoro che completano gli interventi di natura economica relativi al reddito di cittadinanza se, da un lato, hanno la finalità di consentire al cittadino di uscire da uno stato di difficoltà ritenuto socialmente inaccettabile, dall’altro hanno l’obiettivo di contrastare comportamenti opportunistici che potrebbero mettere a rischio l’intero intervento legislativo e l’obiettivo finale della norma.
Come già avvenuto, in molti altri paesi europei, anche in Italia il legislatore ha associato la concessione del beneficio statale all’impegno del beneficiario a fare quanto necessario per preservare la sua professionalità e per ricercare una nuova occupazione[30].
Le misure di sostegno al reddito sono subordinate, e dunque condizionate[31], all’impegno del disoccupato ad attivarsi realmente per la ricerca di un’occupazione, alla disponibilità a partecipare a misure di politica attiva ed attività formative e di riqualificazione e all’accettazione di un posto di lavoro congruo alle proprie competenze.[32]
La presenza di un sistema basato sul concetto di condizionalità[33] prevede un meccanismo sanzionatorio caratterizzato da infrazioni lievi, che portano a sanzioni miti e che hanno ad oggetto i momenti propedeutici e funzionali alla compiuta attivazione dei disoccupati e infrazioni più gravi che possono giungere alla perdita totale del sussidio percepito.[34]
La decadenza dal RdC è disposta quando anche solo uno dei componenti del nucleo familiare non dichiari la sua immediata disponibilità al lavoro, non sottoscriva il “Patto per il lavoro” o il “Patto per l’inclusione sociale”, non partecipi –senza giustificato motivo- alle iniziative di politica attiva proposte, non aderisca ai progetti istituiti presso il proprio comune di residenza, non accetti almeno una di tre offerte congrue, non effettui le comunicazioni richieste dalla legge o le effettui in modo mendace, non presenti “dichiarazione sostitutiva unica” (DSU) aggiornata o venga trovato a svolgere attività di lavoro in assenza di comunicazioni obbligatorie.
Per quanto sia semplice appurare il mancato rispetto nella maggior parte dei casi appena citati, e la conseguente inflizione della sanzione prevista, la “non accettazione di una offerta congrua di lavoro”, anche in relazione alla complessità normativa e pratica che ne deriva, apre spunti di discussione assolutamente non trascurabili.
Il testo normativo prevede, infatti, che i beneficiari siano tenuti ad “accettare almeno una delle tre offerte di lavoro congrue, ai sensi dell’articolo 25 del decreto legislativo 150 del 2015, come integrato dal comma 9”, il quale definisce “la congruità dell’offerta di lavoro… anche con riferimento alla durata di fruizione del beneficio del RdC e al numero di offerte rifiutate”[35].
È considerata congrua nei primi dodici mesi di fruizione del beneficio, “un’offerta entro cento chilometri di distanza dalla residenza del beneficiario o comunque raggiungibile in cento minuti con i mezzi di trasporto pubblico, se si tratta di prima offerta, ovvero entro duecentocinquanta chilometri di distanza se si tratta di seconda offerta, ovvero… ovunque se si tratta di terza offerta”. Trascorsi i primi dodici mesi la legge diviene più severa prevedendo quali requisiti di congruità i duecentocinquanta chilometri di distanza dalla residenza del beneficiario per la prima e la seconda offerta, e ovunque sul territorio nazionale se si tratta della terza offerta o in caso di rinnovo del beneficio.
Alla luce del contenuto normativo or ora analizzato la congruità dell’offerta di lavoro[36] troverebbe, quindi, definizione dal combinato disposto tra quanto prescritto dal comma 9 dell’art. 4 del D.L. istitutivo del reddito di cittadinanza e quanto previsto dall’art. 25 del decreto legislativo 150 del 2015, norma quest’ultima, perfezionata dal decreto ministeriale del 10 aprile 2018 che definendo in modo dettagliato l’“offerta di lavoro congrua” offre tutti gli elementi necessari per comprendere la portata della questione. Infine anche la circolare Anpal n. 3 del 15 novembre 2019 pone delle precisazioni che fanno sorgere riflessioni importanti sul tema oggetto di studio.
Proprio la lettura congiunta delle diverse norme fa emergere come la distanza dal luogo di residenza -principale, per non dire unico, elemento comunicato a livello politico e istituzionale per evidenziare la serietà della misura e l’eventuale decadenza dalla stessa in caso di rifiuto del lavoro offerto- in realtà rappresenti solo uno degli indicatori da valutare per definire la congruità dell’offerta proposta.
Al requisito variabile della distanza dal luogo di residenza, da notare che negli altri casi di ammortizzatori sociali per disoccupazione involontaria il requisito geografico parte dal domicilio del beneficiario, si aggiungono gli elementi della “coerenza con le esperienze e le competenze maturate” e della “retribuzione superiore di almeno il 10 per cento rispetto al beneficio massimo fruibile da un solo individuo, inclusivo della componente ad integrazione del reddito dei nuclei residenti in abitazione in locazione”.
In relazione alla coerenza dell’offerta di lavoro e ai fini dell’individuazione di una o più attività professionali adeguate al beneficiario RdC, sulla base delle esperienze e delle competenze comunque maturate da quest’ultimo, l’indice di riferimento è rappresentato dalla classificazione dei settori economico-professionali, che dovrebbero derivare, nell’ambito di una procedura informatica guidata, dai dati presenti all’interno del sistema informativo unitario delle politiche del lavoro, che però attualmente ancora non è totalmente implementato e funzionante.
Il livello di congruità è, inoltre, strettamente connesso con la durata del periodo di disoccupazione e, se questo non supera i sei mesi, l’offerta sarà congrua se corrispondente a quanto concordato nel patto di servizio personalizzato e riferibile all'area o alle aree di attività delimitate. Oltre i sei mesi e entro l’anno l’offerta potrà, invece, provenire anche da aree di attività afferenti ad altri processi del settore economico professionale, come definite nel patto, in cui vi sia continuità dei contenuti professionali rispetto alle esperienze e competenze maturate. Oltre i dodici mesi saranno adeguati a rispondere alla congruità tutti i processi di lavoro descritti nel settore economico professionale o in aree di attività afferenti ad altri settori economico professionali in cui vi sia continuità dei contenuti professionali rispetto alle esperienze e competenze comunque maturate.
Infine, l’offerta congrua riguarda pur sempre un rapporto di lavoro regolare avente precisi requisiti, tra i quali avere natura subordinata, una durata non inferiore a tre mesi, essere a tempo pieno o presentare un orario di lavoro non inferiore all'80% dell'ultimo contratto di lavoro posseduto e offrire una retribuzione non inferiore ai minimi salariali previsti dai contratti collettivi. Inoltre, l’offerta deve contenere, al momento della sua presentazione, l’indicazione della qualifica da ricoprire e le mansioni, i requisiti richiesti, il luogo e l'orario di lavoro, la tipologia contrattuale, la durata, la retribuzione prevista o i riferimenti al contratto collettivo nazionale applicato.
Tutti questi elementi non sono certamente poco rilevanti nelle dinamiche che si sviluppano quotidianamente nei servizi per l’impiego, nello specifico nei dipartimenti abiti a favorire l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro, e rendono molto complicata l’effettuazione di un adeguato scouting della domanda idoneo ad offrire offerte congrue al difficile target dei beneficiari del reddito di cittadinanza.
Tutto ciò porta a forti perplessità sulla possibilità per i servizi pubblici o privati accreditati di rispettare il dettato normativo e, di conseguenza, sulla possibile collocazione o ricollocazione dello specifico target che per sua natura si presenta molto poco appetibile per il mercato del lavoro attuale.
Proprio per tali ragioni e nell’ottica della pubblica amministrazione di evitare ricorsi da parte dei beneficiari decaduti è, sin da subito, emersa la necessità di fornire una esatta definizione di offerta di lavoro.
A tal fine il 15 novembre 2019 Anpal ha emanato la circolare n. 3 avente lo scopo di dirimere eventuali dubbi sulla corretta definizione di offerta di lavoro congrua. Nello specifico la circolare, rubricata “Prime istruzioni operative per l’attuazione da parte dei centri per l’impiego delle disposizioni di cui al decreto legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26”, nonostante avesse il fine di chiarire una delle principali questioni che, se mal gestita, potrebbe inficiare completamente lo strumento della condizionalità, ha in realtà sollevato alcune perplessità da parte di studiosi[37], ma soprattutto di operatori delle politiche del lavoro.
Al comma 7.1 della stessa si legge, infatti, che “il posto di lavoro offerto non è di norma nelle disponibilità del centro per l’impiego, e la valutazione ultima circa l’assunzione è in capo al datore di lavoro; pertanto per offerta di lavoro è da intendersi l’offerta di una candidatura per una posizione vacante segnalata da un datore di lavoro o un intermediario autorizzato” e “il rifiuto di una offerta di lavoro va pertanto inteso come rifiuto a candidarsi ad una posizione di lavoro vacante. Nell’ipotesi in cui il posto di lavoro offerto sia nella disponibilità del servizio per il lavoro …, il rifiuto di sottoscrivere un contratto di lavoro congruo da parte del beneficiario di RdC costituisce causa di decadenza del beneficio”.
La circolare propone, pertanto, due specifiche situazioni: il caso di lavoro “non nella disponibilità del centro per l’impiego” e il caso della disponibilità dello stesso in capo al soggetto pubblico o privato accreditato. Nel primo caso, al fine di non decadere dal beneficio, è sufficiente per il percettore di RdC accettare la proposta di candidatura, nel secondo caso l’offerta di lavoro.
Considerando che nella quasi totalità dei casi i CPI non hanno offerte di lavoro direttamente nelle loro disponibilità, diversi interrogativi sono sorti in relazione alla presa di posizione di Anpal relativamente all’accettazione della semplice candidatura, omettendo, in tal modo, di considerare la possibilità di quanto avvenga in una fase successiva presso il datore di lavoro che ha richiesto la candidatura. I principali interrogativi che ci si pone sono connessi a comportamenti opportunistici del beneficiario caratterizzati dalla accettazione della proposta di candidatura - per non perdere il beneficio e rispettare la condizionalità – e da successive condotte finalizzate a non farsi assumere facendo emergere, in sede di colloquio finale, una non rispondenza delle proprie caratteristiche e competenze alle esigenze selettive dall’azienda alla ricerca di personale.
Tutto ciò, senza voler considerare che “in molti casi l’informazione che consente di realizzare l’incontro preliminare tra le parti non basta per un incontro soddisfacente fra domanda e offerta di lavoro: al contratto si arriva soltanto attraverso un periodo di addestramento della persona interessata alle mansioni richieste, che di regola dovrebbe svolgersi nella forma dell’apprendistato, ma può anche richiedere un corso di formazione preliminare. Quando di questo si tratta, è ancor più facile al titolare del sostegno del reddito porre in essere un rifiuto sostanziale dell’occasione di lavoro che gli si offre, negando la propria disponibilità per il percorso di addestramento necessario”[38].
In conclusione, il tema della condizionalità appare tutt’altro che risolto e, senza considerare l’attuale difficile situazione occupazionale presente nel mercato del lavoro italiano, se effettivamente si vuole rendere efficace l’intero sistema del reddito di cittadinanza occorre fare delle serie e veloci riflessioni sulle questioni appena trattate.
6. Il reddito di cittadinanza e il suo lento decollo a poco più di un anno dalla sua emanazione: l’analisi dei principali dati, l’attuale faticosa implementazione della misura e la sospensione della condizionalità in relazione al Covid19.
Quanto finora trattato necessita, al fine di giungere ad una visione ancora più empirica della questione, di una prima riflessione sui primi dati disponibili in relazione alla misura RdC ad un anno e mezzo dalla sua introduzione[39].
Il reperimento di dati sugli effettivi esiti della misura di lotta alla povertà e sostegno al reinserimento nel mercato del lavoro non risulta di semplice portata in quanto non sono stati ancora pubblicati studi statistici che facciano emergere in modo chiaro quanti soggetti siano stati attualmente ricollocati nel mercato del lavoro grazie allo strumento RdC.
Per poter fare qualche considerazione, senza avere la pretesa di proporre un’analisi quantitativa e qualitativa dettagliata del fenomeno, credo vadano quindi valutate rilevazioni provenienti da enti o istituzioni diverse.
L’“Osservatorio sul Reddito e Pensione di cittadinanza” dell’Inps si presenta certamente come una delle fonti più accreditate ed aggiornate. L’ultima rilevazione risale allo scorso 8 giugno 2020[40]ed evidenzia che la totalità dei soggetti coinvolti nella misura risulta essere pari a 2.840.053 unità per corrispondenti 1.104.477 nuclei familiari. Cifre certamente importanti che necessitano di un attento monitoraggio anche al fine di introdurre eventuali correttivi nel caso in cui si verificassero scostamenti significativi rispetto alle finalità iniziali previste. A livello geografico il sud appare come il territorio più coinvolto dalla misura presentando, a giugno 2020, 1.238.162 soggetti implicati che se sommato al dato delle isole (651.644 unità) porta ad un valore superiore al triplo dei soggetti coinvolti in tutto il nord Italia (572.821 unità) mentre il centro presenta un numero di cittadini interessati pari a 377.426. Il sito Inps consente anche di effettuare una comparazione con la situazione presente nel 2019 mettendo in evidenza l’aumento dei numeri su tutto il territorio nazionale. Nello specifico nel nord Italia l’aumento, già al mese di giugno del presente anno, è pari 29.744 unità (incremento del 5,5% nei primi sei mesi del 2020 rispetto al dato del 31dicembre 2019), nel centro a 32.922 (pari ad un incremento del 9,5%), e nel sud Italia a 235.945 (pari ad un incremento del 14%).
Anche se tali dati contemplano, sia i beneficiari da indirizzarsi ai centri per l’impiego sia quelli da orientare verso i comuni ossia ai servizi sociali, l’aumento del dato rappresenta certamente un segnale non incoraggiante. Al fine di trovare una giustificazione al fenomeno va evidenziato che -al di là dell’attuale difficile periodo che il nostro paese sta vivendo a causa della pandemia Coivd19 e della relativa recessione economica- la “fase 2” del RdC, caratterizzata dalla presa in carico dei beneficiari e dalla successiva attivazione al percorso di accompagnamento al lavoro, ha avuto avvio solo verso la fine dell’anno 2019. Tutto ciò anche alla luce del fatto che le figure professionali ingaggiate per aiutare i beneficiari nella ricerca del lavoro, i cosiddetti “navigator”, sono state contrattualizzate solamente nell’estate del 2019 e successivamente, in quanto professionalmente non specializzate nel complesso settore delle politiche del lavoro, inserite in percorsi formativi che non sono ancora totalmente giunti al termine. Inoltre, gli strumenti informativi che hanno la finalità di favorire un veloce incontro tra domanda e offerta di lavoro presentano ancora oggi alcune criticità che non ne consentono un utilizzo fluido e veloce. Infine, l’assegno di ricollocazione, strumento volto ad offrire un servizio di ricollocazione intensiva nel mercato del lavoro, non più disponibile per i beneficiari di NASPI a beneficio dei percettori di RdC, non è ancora attualmente utilizzabile in quanto non si è ancora addivenuti ad un modello definitivo delle procedure operative e attuative da adottare.
Altra fonte da considerare è rappresentata dal primo rapporto Anpal sul “Reddito di cittadinanza” del maggio 2020[41]. Tale rapporto offre il quadro complessivo dei beneficiari presenti all’interno del database di Anpal e mette in evidenza, in primo luogo, i “Beneficiari totali”, i “Beneficiari soggetti al Patto per il lavoro” e coloro già “Presi in carico” e inseriti in azienda con “Tirocinio” alla data del 1 aprile 2020.
Come per i dati dell’osservatorio INPS l’analisi suddivide il territorio in Nord (ovest ed est), centro, sud e isole. In tal caso i beneficiari totali inviati ai centri per l’impiego risultano essere a pari a 991.565 unità ovvero, se rapportati al dato INPS, pari al 35% della totalità dei soggetti coinvolti nella misura[42]. Da tale dato vanno sottratti i beneficiari esonerati, quelli rinviati ai comuni e coloro che rifiutano, abbandonano o sono esclusi dalla misura. I beneficiari rimanenti, ossia i “Soggetti al patto per il lavoro” sono in totale 819.129, di cui 163.437 (20%) residenti nelle regioni del nord, 108.086 (13%) nel centro, 547.606 (67%) nel sud e nelle isole. Di tali beneficiari risultano essere già presi in carico dai Servizi per l’impiego 365.759 cittadini (ovvero circa il 45% dei beneficiari soggetti al patto per il lavoro).
A livello territoriale al nord i soggetti presi in carico sono 55.738, al centro 44.995 e al sud e isole 547.606. Se si analizzano le percentuali delle singole regioni relative a tali soggetti (presumendo che agli stessi sia stata proposta almeno una politica attiva del lavoro) si rilevano, a parte una sola eccezione, dati in gran parte simili che fanno emergere la presa in carico del 40-60% dei “Beneficiari soggetti al patto per il lavoro”. Solo tre regioni superano il 60%, precisamente il Piemonte (62%), l’Abruzzo (65%) e la Basilicata (75%).
Concludendo, se si rapportano i dati generali INPS rispetto a quelli di Anpal emerge che il numero di beneficiari soggetti al patto per il lavoro, e quindi coloro che dovrebbero essere effettivamente presi in carico dai servizi per l’impiego, è, su tutto il territorio nazionale, pari a circa il 29% delle persone coinvolte nella misura.
Se al quadro appena descritto si aggiunge l’interruzione delle attività dei servizi per l’impiego dovuto alla pandemia che ha colpito il nostro paese dal mese di marzo fino al mese di luglio 2020, caratterizzato anche dal blocco della condizionalità come previsto dal D.L. n. 18 del 17 marzo 2020 - Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da Covid-19- e dal D.L. n. 34 del 19 maggio 2020 -Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all'economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19- appare evidente che ad oggi si è ancora in parte distanti non solo dalla fase in cui si possano offrire delle offerte congrue di lavoro, ma anche da quella dell’attivazione effettiva di politiche attive del lavoro complesse e atte a colmare i gap formativi o professionali di tale complesso target di beneficiari.
7. Conclusioni.
In conclusione, anche alla luce delle riflessioni proposte, credo si debba cercare di effettuare qualche sintetica valutazione dei principali fattori critici che per ora non hanno ancora consentito al Reddito di cittadinanza e ai suoi rilevanti obiettivi di trovare un rispettoso posizionamento nel nostro mercato del lavoro[43].
Le difficoltà relative a una piena attuazione della misura con ogni probabilità derivano, oltre che dalle aspettative eccessivamente ottimistiche generate dall’allora legislatore nei confronti di una certa parte dell’opinione pubblica, dalla complessità della stessa che, per poter raggiungere il proprio scopo, ossia quello di inserire nel mercato del lavoro soggetti estremamente vulnerabili che non riescono a trovare una propria autonomia occupazionale, necessita di tempo e di un ingente investimento di risorse e strumenti per ammodernare le nostre politiche attive del lavoro.
Il primo aspetto da considerarsi è, pertanto, il tempo. Se si osservano la complessità della misura e gli strumenti attualmente in possesso dei nostri servizi per l’impiego appare evidente che un arco temporale di un anno e mezzo non è sufficiente per raggiungere un obiettivo di tale portata e i dati indicati confermano tale fattore.
I tempi più lunghi sono certamente da considerarsi anche alla luce delle risorse messe in campo in tema di servizi al lavoro[44]. Al fine di modernizzare tali servizi è iniziata, da parte delle singole regioni[45], una importante stagione di potenziamento del numero di risorse umane adibito alle politiche del lavoro che dovranno col tempo divenire professionalità esperte come sta gradualmente accadendo per i “navigator”.
Al potenziamento delle risorse umane si aggiunge una primaria implementazione di strutture informatiche - che richiede ancora vari passaggi per giungere al risultato normativamente previsto - volte a consentire lo scambio di dati e di flussi informativi in tempo reale tra sistemi attualmente in uso e che, essendo riferibili a enti diversi, ancora difficilmente comunicano tra loro[46].
Oltre allo sviluppo dei servizi, come emerge anche dall’analisi sopra effettuata dei singoli istituiti coinvolti nella misura RdC, restano margini di intervento volti a migliorare particolari aspetti normativi che hanno implicazioni molto pratiche e che possono bloccare o favorire il buon esito della misura nel suo complesso.
Il tema sopra approfondito della responsabilità dell’attore pubblico verso il cittadino sottoscrittore del patto di servizio personalizzato o del patto per il lavoro, va certamente riconsiderato in un’ottica di sviluppo di figure di “case manager dei centri per l’impiego” che siano responsabili di un “patto” chiaro e completo e che seguano il disoccupato in tutto il percorso di ricollocazione e sino al suo nuovo ingresso nel mercato del lavoro.
Solo con un riequilibrio delle posizioni dei singoli “contraenti” che sottoscrivono il “patto” sarà possibile ottenere una seria condizionalità che dovrà trovare sviluppo sia nell’erogazione di una molteplicità di offerte di servizi alla ricollocazione e di opportunità formative a beneficio del “soggetto preso in carico”, sia nell’implementazione di servizi di incrocio tra domanda e offerta di lavoro sempre più attenti alle generali esigenze delle aziende del territorio e non solo alla loro sporadica ricerca di personale.
Una questione da non sottovalutare a livello normativo e che ha risvolti pratici molto rilevanti è certamente quella relativa al concetto di “offerta congrua” e alle correlate modalità di gestione e monitoraggio che hanno impatti importanti sulla condizionalità dell’intera misura.
Concludendo il reddito di cittadinanza rappresenta certamente, per il nostro paese, un primo grande esperimento volto ad unire un sussidio alla povertà, avente quindi una connotazione prettamente sociale, alle politiche del lavoro che rappresentano, nella loro sostanza, una risposta a cittadini considerati socialmente attivi e in grado di apportare ricchezza alla propria società tramite la loro capacità lavorativa.
Tale istituto ha quindi dato speranza a un considerevole numero di cittadini che si ritenevano ormai esclusi da ogni dinamica di riattivazione occupazionale. Resta da comprendere, ad un oltre un anno e mezzo dall’attivazione della misura, se tale strumento nella sua attuale proposizione sia da considerarsi adeguato ed idoneo a raggiungere il suo elevato obiettivo, vada semplicemente sviluppato in un contesto di evoluzione dei servizi per l’impiego o se vada totalmente ripensato anche alla luce dei diversi aspetti critici esposti. Il tempo saprà certamente chiarire ulteriormente tale interrogativo su cui credo sia importante al più presto trovare una risposta chiara e non dettata da atteggiamenti pregiudizievoli che non gioverebbero certamente ad un processo che ormai ha avuto inizio e attende risposte concrete.
Abstract: The essay gives a first assessment of the Italian basic income (Reddito di cittadinanza) as a tool aimed at fighting poverty and reintegrating unemployed people into the labour market. After considering the recent Italian social policy framework, the paper focuses on the innovations and on the legislative features of the last piece of legislation. In this perspective, the article focuses upon the main issues regulated by the new norms, such as the "Employment Pact", conditionality, the "Suitable Offer" and the related sanctioning system. In conclusion, empirical data are assessed in order to highlight the current state of art of the abovementioned measure and its possible critical aspects.
Keywords: Basic income, labour market, active labour market policies (ALMP), essential levels of service, unemployment, Employment Pact, Personalised Service Pact, conditionality, Suitable Offer
* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
[1] Il tema del cd. basic income impegna da anni la letteratura a livello internazionale, sia da un punto di vista economico-politologico (v. almeno P. Van Parijs, Y. Vanderborght, Basic Income. A radical proposal for a free society and a sane economy, Harvard University Press, Cambridge, 2017) che giuridico. Limitandoci per motivi di economia di spazi ai soli contributi giuridici, si vedano almeno, prima dell’emanazione della legge del 2019:A. Durante, Il reddito di cittadinanza: un nuovo modo di protezione sociale, in Riv. giur. lav., 2006, pp. 403 ss.; L. Zoppoli, Reddito di cittadinanza, inclusione sociale e lavoro di qualità, in Dir. lav. Marche, 2007, pp. 75 ss.; P. Bozzao, Reddito minimo e welfare multilivello, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2012, pp. 589 ss.; S. Giubboni, Il reddito minimo garantito nel sistema di sicurezza sociale, in Riv. dir. sic. soc., 2014, pp. 149 ss.; F. Martelloni, Il reddito di cittadinanza nel discorso giuslavoristico: le interferenze con la disciplina dei rapporti di lavoro, in Lav. dir., 2014, p. 202; G. Bronzini, Il reddito minimo garantito e la riforma degli ammortizzatori sociali, in G. Zilio Grandi - M. Biasi (a cura di), Commentario breve alla riforma «Jobs act», Cedam, Padova 2016, pp. 451 ss.; G. Bronzini, Il diritto a un reddito di base. Il welfare nell'era dell'innovazione, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2017; M. Ferraresi (a cura di), Reddito di inclusione e reddito di cittadinanza: il contrasto alla povertà tra diritto e politica, Giappichelli, Torino 2018.
Successivamente all’entrata in vigore del d.l. n. 4/2019 sono numerosi gli studi che si sono focalizzati sul tema; senza pretesa di esaustività cfr: R. Casillo, Il reddito di cittadinanza nel d.l. 28 gennaio 2019, n. 4: precedenti, luci e ombre, in Riv. dir. sic. soc., 2019, pp. 557 ss.;M. Corti - A. Sartori,L'attivazione nel reddito di cittadinanza. I rapporti di lavoro nel codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2019, pp. 85 ss.; E. Dagnino, Il reddito di cittadinanza tra universalismo e condizionalità, Spigolature lavoristiche sul decreto legge n. 4/2019 convertito in legge n. 26/2019, in Dir. rel. ind., 2019, pp. 967 ss.; L. Valente, I diritti dei disoccupati. Le politiche per il lavoro e il welfare dal jobs act al reddito di cittadinanza, Wolters Kluwer, Milano 2019; P. Bozzao, Reddito di cittadinanza e laboriosità, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2020, pp. 1 ss.; M. D’Onghia, Il Reddito di Cittadinanza un anno dopo: eppur si muove ma con troppe funzioni e a doppia velocità, in Labor, 2020, pp. 27 ss.; G. A. Recchia, Il reddito di cittadinanza nel prisma delle relazioni industriali, in Dir. rel. ind., 2020, pp.12 ss.; M. Vincieri, Spunti critici sul reddito di cittadinanza, Ivi, pp. 36 ss.; G. Sigillò Massara, Dall’assistenza al Reddito di Cittadinanza (e ritorno), Prime riflessioni su reddito di cittadinanza, Giappichelli, Torino 2019; S. Giubboni, Reddito di cittadinanza e pensioni: il riordino del welfare italiano - Legge 28 marzo 2019, n. 26. Commentario aggiornato ai decreti "Cura Italia" e "Rilancio", in Il nuovo diritto del lavoro, Giappichelli, Torino 2020.
[2] In generale, sul tema, cfr. M. Dell’Olio, Il lavoro sommerso e la “lotta per il diritto”, in Arg. dir. lav., 2000, pp. 43 ss.; A. Viscomi, Profili giuridici del lavoro sommerso, in Dir. mer. lav., 2000, pp. 379 ss.; A. Viscomi, Incentivi all’emersione del lavoro sommerso e tecniche di accesso, in Riv. dir. sic. soc., 2002, pp. 85 ss.; D. Gottardi (a cura di), Legal Frame Work. Lavoro e legalità nella società dell’inclusione, Giappichelli, Torino 2016; V. Ferrante (a cura di), Economia “informale” e politiche di trasparenza, Vita e Pensiero, Milano 2017; V. inoltre sempre in relazione al medesimo tema i due numeri monografici di Riv. giur. lav., n. 2/2012 e n. 1/2018.
[3] Cfr. G. Bronzini, A proposito di “reddito minimo di inserimento”, in Questione giustizia, 1999, pp. 235 ss.; E. Ales, Famiglia e diritto della sicurezza sociale: modelli e strumenti giuridici per un nuovo Stato sociale, in Dir. lav., 1999, pp. 153 ss.; L. Gaeta, Il reddito minimo di inserimento, in M. Rusciano - L. Zoppoli (a cura di) Il diritto del mercato del lavoro, Esi, Napoli 1999, pp. 291 ss.. Per un approfondimento all’interno della cornice rappresentata dall’ordinamento uni-europeo S. Giubboni, L'incerta europeizzazione. Diritto della sicurezza sociale e lotta all'esclusione in Italia, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2003, pp. 563 ss.
[4] Come succede in parte anche oggi nel RdC.
[5]Corte cost. 16 dicembre 2004, n. 423. In merito cfr. F. Pizzolato, L'incompiuta attuazione del minimo vitale nell'ordinamento italiano, in Riv. dir. sic. soc., 2005, pp. 243 ss.; S. Sacchi, Reddito minimo e politiche di contrasto alla povertà in Italia, Ivi,pp. 466 ss.; E. Vivaldi, Il Fondo nazionale per le politiche sociali alla prova della Corte costituzionale, in Le Regioni, 2005, pp. 649 ss.;
[6]E. Ranci Ortigosa, Il reddito minimo di inserimento, in L. Guerzoni (a cura di), La riforma del welfare. Dieci anni dopo la "Commissione Onofri", il Mulino, Bologna 2008, p. 445; v. T. Treu, La persistenza dell’impianto lavoristico-categoriale, Ivi, pp. 105 ss.
[7]F. Pizzolato,La "social card" all'esame della Corte costituzionale, in Riv. dir. sic. soc., 2010, p. 349.