Il processo contro Barea Sorano. Un contributo alla conoscenza del crimen maiestatis in età neroniana
Yuri Gonzalez Roldan*
Il processo contro Barea Sorano. Un contributo alla conoscenza del crimen maiestatis in età neroniana**
English title: Crimen maiestatis in Nero’s Age. The case of Barea Sorano
DOI: 10.26350/18277942_000076
Sommario: 1. La natura del procedimento senatorio in materia di crimen maiestatis. 2. Il capo d’imputazione contro Barea Sorano nella sua veste di proconsole d’Asia e la denuncia del cavaliere Ostorio Sabino. 3. Il ruolo del principe nella fase istruttoria. 4. La procedura di fronte al senato. a. Instaurazione formale del processo. b. Svolgimento del processo. 5. Applicazione al caso di specie della lex de maiestate?
1. La natura del procedimento senatorio in materia di crimen maiestatis
La cognitio criminale dei patres in età imperiale è stata egregiamente studiata dalla dottrina, la quale è giunta a «conclusioni sufficientemente sicure e difficilmente controvertibili», come sottolinea uno dei principali studiosi che si sono occupati del tema[1]. In particolare, in ordine allo svolgimento della cognitio senatus Franca De Marini Avonzo ha significativamente dimostrato[2] che «presentata formalmente l’accusa per mezzo della delatio, essa doveva essere accettata dal magistrato. Nelle fonti si trovano documentati due diversi modi di procedere a questa receptio inter reos: talvolta essa era discussa da tutto il senato, talaltra il console decideva da solo sull’ammissibilità della domanda», ma, come si vedrà più avanti, nel presente lavoro, in caso di crimen maiestatis in età neroniana l’accusa si faceva per iscritto ed era lo stesso princeps a decidere sull’ammissibilità della domanda. Tale processo di natura inquisitoria era instaurato anche sulla base della delatio di un privato, ma essa costituiva una mera denuncia, in quanto il processo avrebbe avuto inizio solo se il magistrato (nel nostro caso il principe), ritenendola fondata, avesse deciso di instaurarlo, altrimenti l’accusa, di per sé, non avrebbe messo in moto il meccanismo della persecuzione criminale[3].
Il presente lavoro mira ad individuare ed analizzare le varie tappe del processo contro Barea Sorano: la denuncia, il capo d’imputazione, il ruolo del principe nella fase istruttoria, la procedura di fronte al senato fino alla sentenza di condanna.
2. Il capo d’imputazione contro Barea Sorano nella sua veste di proconsole d’Asia e la denuncia del cavaliere Ostorio Sabino
Barea Sorano, figlio del console Q. Marcius Barea Soranus[4], raggiunse l’ultimo scalino del cursus honorum sotto Claudio nel 52 d.C.[5]e diventò poi proconsole d’Asia probabilmente tra il 61 e il 62 d.C. e restando in carica fino al 64 d.C.
Dopo l’incendio di Roma (18-23 luglio del 64 d.C.), Nerone ebbe bisogno di grandi quantità di denaro e di opere d’arte per costruire e abbellire la Domus Aurea e, a tale scopo, il principe saccheggiò l’Italia, rovinò economicamente le province, i popoli alleati e le città libere, profanò addirittura i templi di Roma e portò via le offerte votive che in diverse epoche il popolo romano in occasione dei trionfi o in momenti di prosperità o di paura aveva consacrato alle divinità (Tac. ann. 15.45.1). Il liberto Acrato[6] fu inviato dall’imperatore in Asia e Secondo Carrinate in Acaia per spogliare le province dei doni votivi che si trovavano nei templi e per trascinare via le statue degli dei: enimvero per Asiam atque Achaiam non dona tantum, sed simulacra numinum abripiebantur. (Tac. ann. 15.45.2[7]).
Quando Acratus iniziò il saccheggio di Pergamo[8], gli abitanti della città fecero ricorso alla forza per tentare di salvare le statue e i mosaici; Tacito non chiarisce se l’opposizione cittadina abbia avuto successo, ma siccome si trova attestato in Dio Chrys. orat. 31.148 che effettivamente Nerone ottenne le statue di tale città, il proconsole con la forza o mediante la sua intermediazione[9] sicuramente fu in grado di calmare gli animi evitando il massacro della popolazione; infatti, Barea Sorano si astenne dal punire i ribelli (Tac. ann. 16.23.1).
Tale comportamento del proconsole fu alla base della denuncia del cavaliere Ostorio Sabino il quale riteneva che Barea Sorano avesse attentato alla maiestas imperiale per avere agito per il proprio vantaggio personale e non per l’utilità pubblica, promuovendo sedizioni tra i provinciali. La rivolta dei cittadini, infatti, sarebbe stata da interpretarsi come il risultato di una rivoluzione orchestrata con la finalità di produrre mutamenti politici; non a caso, dopo l’uccisione di Rubellio Plauto (62 d.C.)[10], amico di Sorano, la vita del proconsole già correva pericolo perché a Roma si andava dicendo che l’intera provincia d’Asia aveva preso le armi in difesa di Plauto (Tac. ann. 14.58.2). L’accusa contro il proconsole non si sarebbe limitata perciò alla mancata persecuzione dei cittadini di Pergamo che si erano opposti allo spoglio, ma sicuramente si riferiva anche al coinvolgimento di Sorano nella vicenda di Plauto.
3. Il ruolo del principe nella fase istruttoria
Per dare inizio a un processo criminale in età neroniana era necessaria una valutazione attenta dell’accusa da parte dello stesso princeps, come si osserva in Tac. hist. 4.42.1-6. In tale brano si racconta di una seduta del senato avvenuta nel 70 d.C. (data in cui era stata ripristinata la pace da Vespasiano dopo la caduta di Nerone) in cui Curzio Montano[11] presenta la proposta di instaurare un processo criminale contro M. Aquilio Regolo[12], un famoso accusatore di età neroniana. Nel testo si riporta l’oratio con cui il retore rimproverava a Regulus la sua attività delatoria riportando dati preziosi per conoscere il ruolo del principe nella fase istruttoria.
…cum segnitiem Neronis incusares, quod per singulas domos seque et delatores fatigaret: posse universum senatum una voce subverti.
Da questa frase si evince che avviare un processo criminale per motivi di lesa maiestas richiedeva prima di tutto un’analisi accurata da parte del princeps delle prove fornite dall’accusatore; infatti Regolo si era lamentato (incusares) della lentezza (segnitiem) di Nerone, evidentemente perché prima che fosse presentata la delatio in senato era necessario il nullaosta del principe perché la questione potesse essere esaminata; inoltre, attesta Tac.hist. 4.41 che negli archivi imperiali si trovava la documentazione attraverso la quale si poteva conoscere chi ciascun accusatore avesse cercato di incriminare[13].
Dopo l’acquisizione delle notizie di reato e una volta che il principe avesse ritenuto che effettivamente esistevano elementi comprovanti la colpevolezza dell’accusato, attraverso una comunicazione, si preannunciava all’imputato che sarebbe stato giudicato in senato mediante il divieto di partecipare ad atti ufficiali in onore della famiglia imperiale. Tale atto formale di ripudio fu emesso, ad esempio, nel caso di Trasea Peto quando Nerone vietò la sua presenza ad Anzio per onorare insieme ai patres la nascita della sua prima figlia con Poppea: ...praenuntiam imminentis caedis.... (Tac. ann. 15.23.4) o anche quandoal giurista Cassio fu proibita la partecipazione alle oneranze funebri dell’Augusta: ...quod primum indicium mali… (Tac. ann. 16.7.1).
Nel caso di Barea Sorano invece non si trova attestato nelle fonti un atto formale di ripudio da parte del principe che ne presagisse la fine, ma siccome sembra che il proconsole non fu più in carica dopo la denuncia dell’accusatore, probabilmente Nerone lo fece tornare a Roma nel 64 d.C. e tale ordine di fatto preannunciò che sarebbe stato giudicato in senato.
La fase istruttoria si concludeva (crimini dabatur[14]) quando il principe inviava al senato un’oratio con cui si comunicava ai patres che il personaggio incriminato sarebbe stato allontanato dalla res publica,come emerge dal processo contro Cassio (Tac. ann. 16.7.2) e in quelli contro Trasea Peto e Barea Sorano svoltisi nella stessa data (Tac. ann. 16.21).
4. La procedura di fronte al senato
a. Instaurazione formale del processo
Dopo la lettura dell’oratio principis in senato l’accusatore esponeva ai patres i motivi per cui l’imputato doveva essere giudicato. Tacito non riporta il discorso di Ostorio Sabino in senato con cui avrebbe illustrato all’assemblea i motivi per cui Barea Sorano doveva essere messo sotto processo, ma è probabile che sia avvenuto quanto osservato nel caso di Trasea Peto[15] (Tac. ann. 16.21-22). Da questo momento in poi la parte lesa non poteva più aggiungere nuovi elementi contro il reo e una volta avviato il processo sarebbe spettato al senato decidere la questione, previo confronto tra l’accusatore e l’accusato (disceptatorem senatum nobis relinque in Tac. ann. 16.22.5). Non si prevedeva in questa prima fase che i senatori dovessero votare per accogliere la richiesta del principe di avviare il giudizio contro l’accusato poiché lo stesso Nerone, previa indagine della questione, aveva piena certezza della colpevolezza dell’imputato.
La prima parte del giudizio si concludeva con l’approvazione del principe del discorso fatto dall’accusatore e con la nomina di un avvocato coadiuvante da parte dello stesso Nerone, come si osserva nel caso di Trasea Peto (Tac. ann. 16.22.6). Sebbene non abbiamo indicazione nelle fonti di questo secondo accusatore nel processo contro Barea Sorano, la sua nomina dovette essere fondamentale poiché, come si vedrà più avanti, il suo compito preciso fu quello di introdurre altri capi di accusa e di identificare altri eventuali colpevoli.
La determinazione della data in cui il senato avrebbe dovuto decidere, previo ascolto dell’imputato, fu stabilita da Nerone nello stesso giorno in cui fu condannato Trasea Peto; infatti, spettava al principefissare il giorno dell’udienza (Tac. ann. 16.24.2). La presenza di Tiridate a Roma fu considerata da Nerone il momento giusto per fare deliberare la causa[16]. Tale scelta trova due possibili motivazioni nella narrazione di Tacito: o il principe intendeva far passare inosservata la condanna contro Barea Sorano e Trasea Peto o al contrario voleva dimostrare a Tiridate la sua grandezza atteggiandosi a re onnipotente (Tac. ann. 16.23.2).
Siccome il crimine presuppone un’offesa o minaccia alla figura dell’imperatore, evidentemente, per ragioni di sicurezza, non poteva essere concesso all’imputato di recarsi presso di lui[17]; questo è il motivo per cui nel processo contro Trasea, conclusa la prima fase ed essendo imminente la condanna, a quest’ultimo fu comunicato il divieto di avvicinamento al principe (Tac. ann. 16,24,1: Thrasea, occursu prohibitus).
A partire da questo momento il reo aveva due opzioni, il suicidio oppure l’invio di una lettera al principe con preghiera di clemenza con il fine, una volta giudicato colpevole dal senato, di evitare l’esecuzione della condanna grazie alla intercessio tribunicia[18].
b. Svolgimento del processo
La delibera in senato della causa contro Trasea Peto avvenne in sua assenza e, in ragione della sua latitanza, si considerò che l’imputato avesse rinunciato alla difesa; invece nel giudizio contro Barea Sorano l’accusato era presente in senato e pronto a difendersi[19]. Il giorno del processo il delatore Ostorio Sabino ripropose l’arringa già pronunciata precedentemente quando aveva illustrato all’assemblea i motivi per cui Barea Sorano doveva essere messo sotto processo. L’accusatore iniziò a parlare dell’amicizia di Sorano con Rubellio Plauto e di come, a suo parere, l’indagato avrebbe agito a suo vantaggio e non per utilità pubblica. Ostorio Sabino, inoltre, riteneva l’accusato responsabile per la sedizione dei cittadini mentre era proconsole in Asia (Tac. ann. 16.30.1), evento del quale, come abbiamo indicato precedentemente, non era responsabile il governatore ma Nerone, che aveva ordinato ad Acrato lo spoglio dei doni votivi dai templi e delle statue degli dei a Pergamo.
Dopo aver riportato il contenuto del discorso di Ostorio Sabino, Tacito sottolinea che queste accuse erano di vecchia data (vetera haec), per cui risulta logico pensare che le stesse si trovassero già nella denuncia inviata a Nerone e che poi fossero state estese ad una nuova condotta, come si indica in Tac. ann. 16.30.2:
sed recens et quo discrimini patris filiam conectebat, quod pecuniam magis dilargita esset. Acciderat sane pietate Serviliae (id enim nomen puellae fuit), quae caritate erga parentem, simul imprudentia aetatis, non tamen aliud consultaverat quam de incolumitate domus, et an placabilis Nero, an cognitio senatus nihil atrox adferret.
La congiunzione sed tronca il discorso anteriore di Ostorio Sabino e incorpora la nuova incriminazione probabilmente presentata dal secondo accusatore coadiuvante proposto da Nerone nel processo[20], con la quale si coinvolgeva nella causa una nuova imputata: Servilia[21], figlia di Barea Sorano e moglie di Annio Pollione, condannato all’esilio per la sua probabile partecipazione alla congiura di Pisone[22].
La giovane donna, colta dalla disperazione per l’atto di accusa contro il padre, tentò di evitare la condanna capitale del patre ricorrendo alla magia e, a questo scopo, vendette i suoi gioielli per pagare i riti che avrebbero dovuto compiere i maghi[23]. Tacito interpreta l’accaduto nel senso che la fanciulla avrebbe consultato gli stregoni per essere rassicurata sull’incolumità della sua famiglia e perché questi le svelassero se Nerone si sarebbe placato, evitandosi così le conseguenze atroci della cognitio senatus: …non tamen aliud consultaverat quam de incolumitate domus, et an placabilis Nero, an cognitio senatus nihil atrox adferret (Tac. ann. 16.30.2).
L’interpretazione di Tacito dell’atto imprudente di Servilia sembra poco verosimile[24] poiché la consultazione dei maghi non poteva avere come scopo soltanto la conoscenza in anteprima di fatti che sarebbero accaduti successivamente (magia divinatoria[25]); infatti, la figlia dell’imputato, certamente indotta dall’affetto verso il padre, desiderava la sua incolumità e, perciò, risultava necessario che i maghi non soltanto rivelassero il contenuto della sentenza, che sicuramente sarebbe stata di condanna a morte, ma offuscassero la mentalità del principe per calmare la sua rabbia[26], il che costituiva un crimine gravissimo[27].
Il senato ebbe notizia del fatto che Servilia aveva consultato i maghi prima della emissione della sentenza nei confronti del padre, ma Tacito non rivela in che modo i patres vennero a conoscenza del fatto; probabilmente furono gli stessi indovini a denunciare l’accaduto una volta ricevuto il compenso[28], con il che essi non solo avrebbero evitato di essere riconosciuti responsabili nel processo, ma avrebbero anche potuto trattenere la somma ricevuta dalla figlia di Sorano.
Dopo l’arringa di Ostorio Sabino fu pertanto chiamata a comparire Servilia (igitur accita est in senatum) e messa a confronto con il padre (Tac. ann. 16.30.3); l’accusatore domandò all’imputata se avesse venduto i suoi abiti dotali e se si fosse tolta dal collo la sua collana per ottenere denaro e così pagare i riti ai maghi. In Tac. ann. 16.31.1-2 si spiega che la figlia di Sorano prima di rispondere abbracciò i gradini dell’altare della Vittoria e la stessa ara, atto con cui la ragazza pretese di dimostrare che la sua dichiarazione corrispondeva alla verità e rispose così:
…‘nullos’ inquit ‘impios deos, nullas devotiones, nec aliud infelicibus precibus invocavi, quam ut hunc optimum patrem tu, Caesar, vos, patres, servaretis incolumem. 2. sic gemmas et vestes et dignitatis insignia dedi, quo modo si sanguinem et vitam poposcissent. viderint isti, antehac mihi ignoti, quo nomine sint, quas artes exerceant: nulla mihi principis mentio nisi inter numina fuit. nescit tamen miserrimus pater, et si crimen est, sola deliqui’.
L’imputata cerca di difendersi negando di avere compiuto un atto esecrabile consistente nell’avere invocato divinità malefiche (mala sacrificia)[29] e di avere realizzato sortilegi attraverso riti empi (devotiones[30]), dichiarando che con le sue sterili preghiere non aveva fatto altro che richiedere che il principe e il senato conservassero l’incolumità del suo ottimo padre. Servilia riconosce effettivamente di aver pagato i maghi con i gioielli, i vestiti e i distintivi del suo grado, sottolineando senza pentimento che avrebbe dato pure il suo sangue e la vita se le fossero state chiesti. La ragazza comunque rileva di non avere mai visto prima gli indovini, di non conoscere i loro nomi e le arti che esercitavano, proponendo che fossero loro a confermare questa circostanza in senato. Per concludere il suo discorso l’accusata chiarisce di non avere mai nominato il principe se non per annoverarlo tra le divinità e che con quella faccenda suo padre non aveva nulla a che vedere.
La risposta affermativa dell’imputata alla domanda posta dall’accusatore dimostrò a tutti gli effetti la sua intenzione di evitare ad ogni costo che il padre fosse giudicato colpevole; effettivamente Servilia affermò che non si era resa artefice di mala sacrificia e nemmeno di devotiones contro il principe, ma riconobbe di avere consegnato denaro ai maghi con la finalità di preservare l’incolumità del padre, confessando, in modo tacito, che la vendita dalla sua dote avrebbe potuto anche portare a termine riti empi svolti da terzi.
Tacito non spiega la ragione per cui nella causa contro Barea Sorano sia stata incorporata quella contro Servilia; infatti, lo stesso padre invoca la totale estraneità della figlia ai fatti relativi al suo processo. Gli argomenti di Sorano per scagionarla sembrano solidi: la ragazza non aveva accompagnato il padre in provincia e per motivo della sua giovane età non avrebbe nemmeno potuto conoscere Plato; inoltre, la stessa non era stata imputata nel giudizio in cui era stato coinvolto suo marito Annio Pollione[31] e perciò non sarebbe stato dimostrato il compimento di un atto esecrabile contro l’imperatore (Tac. ann. 16.32.1). Forse il racconto di Tacito aveva come scopo quello di sottolineare gli aspetti drammatici della vicenda tralasciando altri elementi che avrebbero potuto fornire più chiarezza sul piano giuridico.
La spia che può collegare la vicenda della figlia al giudizio del padre si trova alla fine del discorso di Servilia, quando dichiara la estraneità del padre ai fatti frutto della imprudenza di lei(‘…nescit tamen miserrimus pater, et si crimen est, sola deliqui’); tale frase può far pensare che anche il padre fosse stato incolpato per aver consultato i maghi. A considerare attendibile la spiegazione presente, soccorre Dio 62.26.3 alla luce del quale è possibile risolvere la questione:
Σωρανὸς μὲν οὖν ὡς καὶ μαγεύματί τινι διὰ τῆς θυγατρὸς κεχρημένος, ἐπειδὴ νοσήσαντος αὐτοῦ θυσίαν τινὰἐθύσαντο, ἐσφάγη…
Il senato avrebbe collegato il fatto criminoso di Servilia alla vicenda di Barea Sorano poiché, a parere dei patres, in buona sostanza sarebbe stato il genitore a rivolgersi ai maghi per il tramite della figlia (διὰ τῆς θυγατρὸς). La circostanza sarebbe stata provata dal fatto che in precedenza entrambi avevano offerto un certo sacrificio (θυσίαν τινὰ) anche mediante arti magiche (μαγεύματί), in quanto il padre si era ammalato.
In Tac. ann. 16.30.1 si chiarisce che la denuncia di Ostorio Sabino consisteva nel fatto che Barea Sorano avrebbe attentato alla maiestas imperiale per essere stato amico di Rubellio Plauto, nemico di Nerone, e per avere agito per il proprio vantaggio personale e non per l’utilità pubblica, promuovendo sedizioni tra i provinciali. A queste vecchie accuse (vetera haec), alle quali Servilia era completamente estranea, come sottolinea lo stesso padre nel processo, se ne sarebbe aggiunta una più recente, probabilmente rivolta dall’accusatore coadiuvante nominato da Nerone, come attesta Tac. ann. 16.30.2, dove si legge che la figlia sarebbe stata implicata nell’accusa contro Sorano: sed recens et quo discrimini patris filiam conectabat…[32].
L’imputato a sua difesa avrebbe potuto presentare testimoni per dimostrare la propria innocenza; infatti, dopo la risposta di Servilia alla domanda dell’accusatore furono fatti entrare in senato Publio Egnazio Celere[33]e Cassio Asclepiodoto[34](Tac. ann. 16.32.2): mox datus testibus locus. Lo scopo della partecipazione di tali personaggi nel processo sarebbe stato quello di riferire i fatti relativi ai capi di imputazione di cui avessero avuto conoscenza e perciò l’accusatore con grande severità rivolse domande a entrambi (…et quantum misericordiae saevitia accusationis permoverat…).
In Tac. ann. 16.33.1 si racconta che il facoltoso provinciale Cassio Asclepiodoto, originario della Bitinia, non abbandonò Sorano quando quest’ultimo cadde in disgrazia:
Idem tamen dies et honestum exemplum tulit Cassii Asclepiodoti, qui magnitudine opum praecipuus inter Bithynos, quo obsequio florentem Soranum celebraverat, labantem non deseruit, exutusque omnibus fortunis et in exilium actus, aequitate deum erga bona malaque documenta.
Causa perplessità apprendere che un testimone fosse stato spogliato dei suoi averi e mandato in esilio dal senato[35] soltanto per avere dimostrato il suo totale appoggio all’imputato, come vorrebbe farci credere Tacito. Probabilmente Cassio Asclepiodoto soffrì tali conseguenze giuridiche per la sua mancata collaborazione nel processo, in particolare per il fatto che, di fronte alle domande formulate dall’accusatore, egli, invece di rispondere, si limitò a lodare Barea Sorano e per questo motivo fu ritenuto ostile nei confronti l’organo giudicante.
Lo scrittore si sofferma sul primo personaggio e, senza riportare le domande che l’accusatore avrebbe rivolto a Celere, riferisce, senza scendere nei particolari, che le sue risposte causarono indignazione[36], descrivendo il cliens di Sorano come un traditore e un falso stoico in Tac. ann. 16.32.3:
cliens hic Sorani, et tunc emptus ad opprimendum amicum, auctoritatem Stoicae sectae praeferebat, habitu et ore ad exprimendam imaginem honesti exercitus, ceterum animo perfidiosus subdolus, avaritiam ac libidinem occultans; quae postquam pecunia reclusa sunt, dedit exemplum praecavendi, quo modo fraudibus involutos aut flagitiis commaculatos, sic specie bonarum artium falsos et amicitiae fallaces.
Del discorso dello storico, ricco di appellativi contrari alla virtù attribuiti a Celere[37], ci interessa la parte in cui si dice che egli si sarebbe fatto corrompere per rovinare un amico (cliens hic Sorani, et tunc emptus ad opprimendum amicum…), nonché il riferimento all’avidità e alla turpitudine insite nella ricezione del denaro (Quae postquam pecunia reclusa sunt…). Lo storico non menziona elementi in grado di dimostrare che effettivamente Celere avesse ottenuto un vantaggio economico per tradire l’amico e nemmeno risulta chiara nell’opera di Tacito la ragione precisa per cui la dichiarazione del testimone sarebbe stata una menzogna. La risposta si ottiene leggendo Tac. hist. 4.10, brano in cui si racconta che Gaio Musonio Rufo[38] prese l’iniziativa per far processare Celere dopo la fine della guerra civile (69 d.C)[39]:
Tum invectus est Musonius Rufus in Publium Celerem, a quo Baream Soranum falso testimonio circumventum arguebat. ea cognitione renovari odia accusationum videbantur. sed vilis et nocens reus protegi non poterat: quippe Sorani sancta memoria; Celer professus sapientiam, dein testis in Baream, proditor corruptorque amicitiae, cuius se magistrum ferebat. proximus dies causae destinatur…
In tale testo si indica che il proditor aveva provocato la rovina di Barea Sorano mediante una falsa testimonianza, dato riportato anche in Dio 62.26.1 (…κατεψευδομαρτύρησε), ma non si fa nessun accenno alla causa precisa per cui il maestro di Sorano avrebbe agito in questo modo e nemmeno si dice se tale dichiarazione fosse il risultato di un atto di corruzione. Il processo che condusse poi alla condanna[40] di Celere presenta diverse lacune e soprattutto causa perplessità un dato che si ricorda in Tac. hist. 4.40.3 riguardo al difensore dell’imputato: …diversa fama de Demetrio Cynicam sectam professo, quod manifestum reum ambitiosius quam honestius defendisset…
Se il difensore di Celere fu Demetrio, maestro della dottrina cinica, ammirato da Seneca[41] e amico di Trasea Peto, con cui dialogò prima di morire (Tac. ann. 16.34.1), forse l’opinione di Tacito riguardo il maestro di Barea Sorano risulta troppo severa. Il quam che compara l’aggettivo ambitiosius con honestius fa pensare che per il filosofo cinico il cosiddetto perfidiosus fosse invece un uomo degno di essere difeso[42]. Non esistono elementi certi che permettano di concludere che effettivamente il cliens di Sorano avesse dichiarato il falso nel presente processo, in quanto Tacito non riporta le domande a cui avrebbe risposto Celere e neppure afferma che la sua testimonianza fosse il risultato di un atto di corruzione. Se il capo di accusa nel giudizio fosse stata l’amicizia tra l’imputato e Rubellio Plauto, sarebbe difficile sostenere che il testimone potesse negare l’esistenza di tale vincolo affettivo; forse Celere, minacciato dall’accusatore che in mancanza di collaborazione avrebbe subito la stessa sorte dell’accusato, fu costretto a rivelare il contenuto di conversazioni private intercorse tra Sorano e Plauto su Nerone e soprattutto a descrivere il comportamento tenuto dal primo in seguito all’uccisione dell’amico.
Negli scholia vetera all’opera di Giovenale (schol. Iuvenal. 6. 552), scritti tra la fine del IV e il V secolo, si attribuisce a Celere la responsabilità di avere spinto Servilia a consultare i maghi[43]. Tale dato suscita dubbi, non soltanto perché lo scoliasta difficilmente avrebbe potuto consultare una fonte diretta relativa a fatti avvenuti nel 66 d.C., ma soprattutto perché contraddice la confessione di Servilia, la quale dichiara: …et, si crimen est, sola deliqui (Tac. ann. 16.31.2).
Probabilmente la frase avaritiam ac libidinem occultans; quae postquam pecunia reclusa sunt (Tac. ann. 16.32.3) dimostra la delusione di Tacito per la collaborazione di Celere nel processo. Lo storico pretendeva, infatti, che il testimone e cliens di Sorano si limitasse a dichiarare l’alta considerazione che aveva per Barea Sorano[44] e così a subire la stessa pena di Cassio Asclepiodoto: …exutusque omnibus fortunis et in exilium actus… (Tac. ann. 16.33.1).
L’accusa di Musonio Rufo secondo il quale la falsa testimonianza di Celere avrebbe avuto un ruolo fondamentale nella decisione del senato di provocare la rovina di Barea Sorano (Tac. hist. 4.10) si scontra con i dati analizzati in precedenza; le condanne a morte di Barea Sorano e della figlia (Tac. ann. 16.33.2) non furono il risultato della collaborazione di Celere come testimone. Servilia causò la propria morte per imprudenza, a differenza del padre e di Trasea, dei quali Nerone aveva già scelto il destino (Tac. ann. 16.21.1); infatti, il principe, per costringere i patres a condannarli a morte (datur mortis arbitrium), aveva inviato uno stuolo di uomini armati in toga con il gladium in vista, che occuparono l’ingresso del senato (Tac. ann. 16.27.1) suscitando grande terrore nei senatori (Tac. ann. 16.29.1).
La memoria di Barea Sorano fu profondamente rispettata (Tac. hist. 4.10). Egli era statoamico di Vespasiano (Tac. hist. 4.7.2)[45], tanto che dopo la guerra civile (69 d.C.) si ritenne necessario trovare un ‘capro espiatorio’ per cancellare le colpe del senato riguardo alla rovina di Sorano. La testimonianza di Celere non avrebbe potuto cambiare la sorte dell’imputato e per questo motivo, quando Musonio Rufo iniziò il processo contro il maestro di Sorano, il filosofo cinico Demetrio lo difese senza successo[46]. L’affermazione contenuta in Tac. hist. 4.40 .3, secondo la quale Musonio avrebbe espletato un giusto officium facendo condannare Celere, mentre la difesa di un condannato manifestamente colpevole assunta da Demetrio sarebbe stata motivata più dall’ambizione che dall’onestà, risulta totalmente discutibile ed è in contraddizione con il profilo del filosofo e con i fatti narrati dallo stesso storico.
5. Applicazione al caso di specie della lex de maiestate?
Per concludere il presente lavoro dobbiamo analizzare se nella sentenza di condanna contro Barea Sorano e Servilia abbia trovato applicazione la lex de maiestate o, in caso contrario, quali furono le ragioni per cui il senato decise diversamente.
La lex Iulia maiestatis di età augustea[47] sanzionava il crimine con l’interdictio aquae et igni che consisteva nella relegatio in insulam e nella publicatio bonorum[48],ma dobbiamo riconoscere comunque che una condanna per lesa maestà non costringeva il senato ad applicare l’interdictio aquae et igni poiché i patres avevano piena libertà di valutazione e di solito proponevano l’extremum supplicium anche in casi di minore gravità per compiacere il principe, il quale avrebbe comunque potuto interporre l’intercessio tribunicia per graziare l’imputato[49]. Infatti, ricordiamo che quando il pretore Antistio Sosiano compose versi infamanti contro Nerone e li rese di dominio pubblico durante la celebrazione di un banchetto presso la dimora di Ostorio Scapola, il console designato Q. Iunius Marullus (sett. - dic. del 62 d.C.) come atto di ossequio verso il principe propose al senato che il reus fosse rimosso dalla carica di pretore e messo a morte secondo la tradizione repubblicana (impiccagione mediante corda, effettuata da un boia). Soltanto grazie all’intervento di Trasea Peto si decise che la condanna per il crimine di lesa maestà per aver rivolto parole offensive al principe fosse la relegatio in insulam e la publicatio bonorum. (Tac. ann. 14.48) [50].
In tale occasione Trasea avrebbe dichiarato che qualunque pena meritasse il colpevole, sotto un principe egregio il senato non avrebbe dovuto stabilirla senza la costrizione di alcuna necessità. Nondimeno, dopo la congiura di Pisone (65 d.C.) la situazione era cambiata e lo stato di necessità esisteva poiché era in pericolo il principato di Nerone. Sebbene il processo contro Barea Sorano non avesse come presupposto versi infamanti contro Nerone come quello del pretore Antistio, in entrambi casi esisteva l’offensio principis, requisito indispensabile del crimen maiestatis.
Il principe aveva bisogno di trovare capi di accusa per far processare i suoi avversari politici (veri o apparenti) ed evitare una nuova ribellione e per questo la pena della lex de maiestate era risultata a Nerone poco severa in questo momento storico; infatti, quando L. Giunio Silano Torquato[51] fu condannato dal senato all’esilio nello stesso anno della congiura di Pisone (Tac. ann. 16.7-9), il principe, ritenendo la sentenza poco severa, inviò un centurione per ucciderlo.
Dobbiamo notare che in età neroniana i patres comminarono la pena prevista dal mos maiorum (impiccagione mediante corda effettuata da un boia) soltanto a partire dal 65 d.C., contro il console del 55 d.C., L. Antistio Vetere, genero di Rubellio Plauto, Antistia Pollita, moglie del primo e figlia di Plauto, e Sestia, suocera del primo e moglie di Plauto. Tale sentenza fu emessa dal senato nonostante i condannati si fossero suicidati precedentemente e Nerone, nonostante la loro morte, concesse agli imputati il liberum mortis arbitrium attraverso la sua intercessio tribunicia (Tac. ann. 16.11).
Le condanne a morte pronunciate dai patres contro Barea Sorano e Servilia non rispecchiano la tradizione repubblicana poiché si concesse a loro il liberum mortis arbitrium permettendosi così che gli accusati, come ultima manifestazione di libertà, potessero espiare in maniera onorevole la loro colpa[52]; invece, la condanna secondo il mos maiorum fu decisa dal senato contro lo stesso principe ma non fu eseguita poiché Nerone si inflisse la morte prima d’essere catturato, come si ricorda in Suet. Nero 49.
Abstract: Barea Sorano reached the last step of the cursus honorum under Claudius in 52 AD when he was appointed as consul designatus, and he also became proconsul of Asia probably between 61/62 AD, remaining in charge until 64 A.D. The purpose of this research is to analyze from a legal point of view the judgment to which he and his daughter Servilia were subjected and, in this way, to reconstruct the stages of the trial for crimen maiestatis in Nero's age.
Keywords: Judgment, Crime, Senate, Prince.
* Università degli Studi di Bari Aldo Moro (yuri.gonzalezroldan@uniba.it).
** Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
[1] F. Arcaria, ‘Quod ipsi Gallo inter gravissima crimina ab Augusto obicitur’. Augusto e la repressione del dissenso per mezzo del senato agli inizi del principato, Napoli, 2013, p. 1, [ricordando una sua affermazione precedente in F. Arcaria, ‘Senatus censuit’. Attività giudiziaria ed attività normativa del senato in età imperiale, Milano, 1992, pp. 15 ss. con riferimenti alla dottrina]. È opportuno rilevare che il fondamento di tale cognitio sembra essere una misura politica del principe in favore del senato ‘volta in qualche modo a compensare la notevole riduzione della sua attività di governo’ come riconosce lo studioso alle pp. 2-3; infatti, in età neroniana tale meccanismo emerge chiaramente nel processo tenutosi nel 62 d.C. contro il pretore Antistio che avrebbe composto versi infamanti nei confronti del principe e li aveva resi di dominio pubblico durante la celebrazione di un banchetto presso la dimora di Ostorio Scapola (Tac. ann. 14.48.1-2). Il processo fu rilevante poiché per la prima volta sotto Nerone ci si appellò alla legge che regolava il crimen maiestatis per la semplice pronuncia di parole offensive come era avvenuto sotto Augusto (Tac. ann. 1.72). Nerone non assunse personalmente il compito di giudicare ma rinviò la denuncia ai patres per la sua deliberazione e questi ultimi, prima di emanare la sentenza, per evitare di non causare un affronto al princeps, incaricarono i consoli di scrivere al principe per informarlo del decretum. Nerone rispose che, pur non opponendosi a un giudizio severo, non ostacolava una decisione più moderata, permettendo al senato così la libera scelta di prendere la decisione che considerasse più adatta al caso concreto, ivi compresa addirittura una eventuale assoluzione dell’imputato. Tale risposta dimostra chiaramente non soltanto che il principe ebbe rispetto dell’autonomia dei patres, i quali furono liberi di giudicare senza alcun tipo di interferenza, ma soprattutto che tale cognitio rappresentava il risultato di una delega dell’imperatore in favore del senato (Tac. ann. 14.49.1-2), come emerge anche dal processo svoltosi nel 47 d.C. (e dunque in piena età claudiana) contro Valerio Asiatico, di cui riferisce Tac. ann. 11.2, dove chiaramente si legge che all’imputato Neque data senatus copia…
[2] F. De Marini Avonzo, La funzione giurisdizionale del senato romano, Milano, 1957, pp. 79-120.
[3] B. Santalucia, Accusatio e inquisitio nel processo penale romano di età imperiale, «Seminarios Complutenses de derecho romano»14 (2002), pp. 179-194.
[4] Console suffetto insieme a Tito Rustio Nummio Gallo sotto Tiberio nel 34 d.C. (CIL VI 244), proconsole della provincia di Africa in due occasioni (negli anni 41/42 e 42/43), quindecemviro e feziale come dimostra un documento epigrafico trovato nella città algerina di Annaba (Hippo Regius) e riportato in AE, 1935 (1936), 14 n.32 e in E. M. Smallwood, Documents illustrating the principates of Gaius, Claudius and Nero, Cambridge, 1967, 122 n. 405. Il console, oltre al figlio omonimo, ebbe Q. Marcius Barea Sura che sposò Antonia Furnilla generando la figlia Marcia Furnilla, seconda ex moglie di Tito (Svet. Tit. 4.2). Sull’argomento si veda L. Petersen, voce ‘Q. Marcius Barea Soranus’, in PIR, V.2, Berlin, 1983, pp. 175 ss.
[5] In Tac. ann. 12.53.1-2 si ricorda che Barea Sorano nella sua veste di consul designatus propose in senato che Pallante, il potente liberto di Claudio, fosse investito delle insegne pretorie e che gli fossero dati quindicimila sesterzi poiché il Cesare avrebbe dichiarato che la sua relatio in senato era stata redatta dal libertus dando luogo al famoso senatoconsulto Claudiano (che puniva la donna libera con la schiavitù nel caso in cui avesse continuato ad avere rapporti intimi con uno schiavo altrui nonostante la volontà contraria del dominus e l’intimazione a cessare dal rapporto). Sull’argomento, con una citazione completa delle fonti, P. Buongiorno, ‘Senatus consulta claudianis temporibus facta’. Una Palingenesi delle deliberazioni senatorie dell’età di Claudio (41-54 d.C.), Napoli, 2010, pp. 311 ss. Non condividiamo la posizione di O. Devillers, Tacite et les sources des «Annales». Enquêtes sur la méthode historique, Leuven, 2003, pp. 219 e 266 nt. 56, il quale ritiene che per motivi derivanti dalla consultazione di fonti diverse da parte di Tacito Barea Sorano sia considerato nel presente brano un adulatore di Claudio, mentre in età neroniana sarebbe stato ritenuto un uomo virtuoso (Tac. ann. 16.21.1). Non esiste nessuna contraddizione tra i due testi tale da indurre a pensare che lo storico abbia consultato autori che avessero opinioni discordanti su Barea Sorano. Il consul designatus propose in senato che Pallante ottenesse i benefici menzionati perché il principe pretese che il liberto fosse gratificato; infatti, se così non fosse, non si spiegherebbe il motivo per cui Claudio sottolineò che Pallante era il promotore della legge. L. Salvius Otho Titianus e Faustus Cornelius Sulla Felix erano consoli nel 52 ma nel mese di giugno Barea Sorano prese il posto del primo, come dimostra TPSulp. 4.3. Con riguardo a questo documento, datato il 9 giugno 52, G. Camodeca, L’archivio puteolano dei Sulpicii, 1, Napoli, 1992, p. 63 n. 82 sottolinea che tale data ha un suo rilievo poiché il console subentrò il 1° giugno e non il 1° luglio come propone P.A. Gallivan, The ‘Fasti’ for the reign of Claudius, in CQ, 28.2 (1978), p. 425; tesi condivisa da S. Panciera, Nuovi luoghi di culto a Roma dalle testimonianze epigrafiche in Epigrafi, epigrafia, epigrafisti. Scritti vari editi e inediti (1956-2005), 1, Roma, 2006, p. 284. Gallivan ritiene che il cambio dei suffetti sarebbe avvenuto il 1° luglio (p. 413). Errore dello scriba o tale regola non era così rigida? La prima tesi non sembra plausibile perché, come sostiene lo stesso Camodeca, non è un «buon metodo spiegare questa eccezione con un errore dello scriba, che è poco verosimile considerando la troppo precoce anticipazione dell’entrata in carica del suffetto Barea Soranus». Lo stesso pensiero è condiviso da A. Tortoriello, I fasti consolari degli anni di Claudio, Roma, 2004, p. 528 nt. 383, la quale sottolinea: «In effetti, il cambio dei suffetti generalmente avveniva alle calende di luglio ma non è possibile, per salvare a tutti i costi questo presupposto, pensare ad un errore dello scriba». Dati biografici relativi a Barea Sorano si trovano in A. Bergener, Die führende Senatorenschicht im frühen Prinzipat (14-68 n. Chr.), Bonn, 1965, pp. 194-200 e in U. Vogel-Weidemann, Die Statthalter von Africa und Asia in den Jahren 14-68 n. Chr. Eine Untersuchung zum Verhältnis Princeps und Senat, Bonn, 1982, pp. 429-438.
[6] Acrato è citato in Tac. ann. 15.45 e 16.23 così come in Dio Chrys. orat. 31.149; nella stessa fonte in 31.150 Nerone è ricordato come l’imperatore meno moderato poiché lo stesso riteneva che qualunque cosa fosse soggetta al proprio illimitato potere. A. Stein, voce ‘Acratus, Neronis libertus’, in PIR, 1, Berlin-Lipsia, 1933, p. 16 non include nella voce Acratus l’iscrizione di Acrato, pedagogo di Livia Medullina, fidanzata di Claudio morta il giorno delle sue nozze in CIL 10.6561 e in CIL 6.9741: Medullinae Camilli f(iliae)/ Ti(beri) Claudii Neronis/ Germanici sponsae/ Acratus l(ibertus) paedagogus. Forse il liberto di Nerone fu lo stesso pedagogo dell’Augusta ma il dato non è certo. Sui presenti documenti epigrafici si veda Mika Kajava, Livia Medullina and CIL X6561, in Arctos 20, 1986, pp. 59 ss., anche se la studiosa non affronta il problema dell’identificazione del liberto di Nerone con il pedagogo di Livia Medullina.
[7] Tacito nel presente brano esprime un giudizio personale sui due personaggi: …ille libertus (Acrato) cuicumque flagitio promptus, hic (Secundo Carrinate) Graeca doctrina ore tenus exercitus animum bonis artibus non induerat. Forse il giudizio dello scrittore sul liberto è troppo severo poiché Acrato non aveva nessuna scelta; il libertus caesaris era tenuto a adempiere l’ordine del principe con totale cura come avrebbe dovuto fare qualunque altro funzionario imperiale allo stesso modo di Secundo Carrinate, che, a parere di Tacito, non era un uomo virtuoso nonostante il suo avvicinamento alla filosofia stoica.In Dio Chrys. orat. 31.148 si ricorda che Nerone non tenne le mani lontane dai tesori di Olimpia e di Delfi e tolse la maggior parte delle statue dell’Acropoli di Atene e molte di Pergamo. A ogni buon conto nell’età successiva a Nerone è attestata la presenza di molte statue a Rodi, Atene, Olimpia e Delfi come informa Gaio Licinio Muciano ricordato in Plin. nat. hist. 34.17.
[8] Non sappiamo se Acrato ebbe la possibilità di scegliere le opere d’arte che dovevano essere trascinate a Roma e se il proconsole abbia potuto proporre al liberto quelle che a suo parere erano le più belle. L’altare di Pergamo che si trova attualmente a Berlino sicuramente non passò inosservato ad Acrato e i pannelli che rappresentano gli dèi dell’Olimpo avrebbero potuto essere trasportati a Roma per abbellire la Domus Aurea. Come mai la costruzione rimase a Pergamo dopo Nerone? Poco interesse da parte di Acrato dei fregi scolpiti dell’altare o l’opposizione cittadina fu in grado di evitare che Pergamo fosse spogliata anche di uno dei suoi monumenti più rappresentativi? Siccome l’area dell’altare era fornita di statue in bronzo e marmo, forse Acrato si limitò soltanto a scegliere le più belle tra quelle senza alterare l’opera architettonica così come i mosaici (picturas) che si trovavano in città. Tacito indica in ann. 16.23.1 che i cittadini di Pergamo fecero ricorso alla forza per impedire ad Acrato di prendere le opere d’arte (…vimque civitatis Pergamenae, prohibentis Acratum Caesaris libertum statuas et picturas evehere…) Probabilmente non fu una rivolta popolare in difesa del patrimonio artistico della città; sembra più una manifestazione di rabbia per l’oltraggio agli dèi da parte dalle famiglie potenti di Pergamo che avevano portato doni votivi nei templi. Un atteggiamento diverso ebbe Nerone verso il popolo di Rodi poiché non tolse le statue a quelli che avevano ricevuto onori da tale città, come si indica in Dio Chrys. orat. 31.150.
[9] Probabilmente la popolazione aveva stima del proconsole poiché in Tac. ann.16.23.1 si indica che grazie alla sua buona gestione il porto di Efeso fu pulito dei detriti rendendolo di nuovo praticabile. Barea Sorano avrebbe amministrato la provincia con competenza, e sarebbe stato onesto e zelante, ma non riteniamo, come sostenuto invece da M. Heider, Philosophen vor Gericht. Zum Prozess des ‘P. Egnatius Celer’, in RHM, 48, 2006, p. 141, che il proconsole abbia protetto Pergamo dall’attacco del liberto imperiale, come lo studioso interpreta in base a Tac. ann. 16.23. Barea Sorano non disattende l’ordine di Nerone di permettere ad Acrato di prendere le statue e i mosaici; la sua unica colpa fu quella di non punire i cittadini che cercarono di impedirlo (inultam omiserat).
[10] Per via materna era discendente di Augusto in pari grado di Nerone poiché sua madre Giulia era figlia di Drusus minor, figlio di Tiberio, nato dal primo matrimonio con Vipsania. Nel 55 d.C. Agrippina fu accusata senza fondamento di volere portare a Plauto al potere per poi sposarlo (Tac. ann. 13.19-22). La cometa che rifulse in cielo nel 60 d.C., fu interpretata dal popolo come l’annuncio del cambio di un nuovo principe e, poiché Plauto avrebbe avuto tutte le carte in regola per sostituire Nerone, si pensò che fosse lui il nuovo prescelto: …et omnium ore Rubellius Plautus celebratur, cui nobilitas per matrem ex Iulia familia. ipse placita maiorum colebat, habitu severo, casta et secreta domo, quantoque metu occultior, tanto plus famae adeptus. Auxit rumorem pari vanitate orta interpretatio fulguris. (Tac. ann. 14.22.1). Dopo il presente episodio Nerone scrisse una lettera a Plauto per invitarlo a ritirarsi in Asia e così evitare nuove diffamazioni (Tac. ann. 14.22.3) e, siccome nella provincia di Asia governava Barea Sorano, l’amicizia tra i due personaggi diventò più stretta. I presenti dati si trovano riportati anche in A. Maiuri, ‘Occultae notae’. Linee evolutive del trattamento del reato di magia negli ‘Annales’ di Tacito: profilo giuridico e puntualizzazioni lessicali in Contesti magici, a cura di M. Piranomonte e F.M. Simón, Roma, 2012, p. 98 nt.142.
[11] Su questo personaggio E. Groag, voce ‘Curtius Montanus’in PIR, II, Berlin-Lipsia, 1936, p. 393 e R. Syme Tacitus, 1, Oxford, 1958, 1, p. 188.
[12] Riguardo alla sua attività delatoria si vedano: P. v. Rohden, voce ‘M. Aquilius Regulus’ in RE II-1 (1895), p. 331; E. Groag, voce ‘M. Aquilius Regulus’ in PIR, I, Berlin-Lipsia, 1933, pp. 196-197; R. Syme, Tacitus, 1, cit., pp. 100-111; J. Heurgon, Les sortilèges d’un avocat sous Trajan, in Hommages à Marcel Renard, I, Bruxelles, 1969, pp. 443-448 con particolare attenzione a Plin. Ep. VI.2.2; R.J.A. Talbert, The Senate of Imperial Rome, Princeton, 1984, pp. 504-505; L. Fanizza, Delatori e accusatori. L’iniziativa nei processi di età imperiale, Roma, 1988, pp. 13-15; V. Rudich, Political dissidence under Nero. The price of dissimulation, London-New York, 1993, pp. 201-206.
[13] Infatti, i senatori chiesero al figlio minore di Vespasiano di consultare gli archivi imperiali per conoscere le accuse dei delatores, ma Domiziano rispose che per una questione così importante si doveva consultare il principe: Consulendum tali super re principem respondit.
[14] In Tac. ann. 16.23.1 si precisa: sed crimini dabatur amicitia Plauti et ambitio conciliandae provinciae ad spes novas.
[15] Sul processo contro Trasea Peto vedere per ultimo Y. González Roldán, ‘Crimen maiestatis’ in età neroniana. Il caso di Trasea Peto, in BStudLat, 52.1, gennaio-giugno 2022, pp. 42-69.
[16] Nel caso di Trasea, dopo la lettera inviata dall’imputato a Nerone, il principe decise il giorno in cui avrebbe avuto luogo la sentenza del senato; invece, in Tac. ann.16.23.2 sembra che la data in cui si doveva deliberare la sorte di Sorano fosse stata stabilita lo stesso giorno in cui si presentò la questione (Tempus damnationi delectum quo Tiridates accipiendo Armeniae regno adventabat…). Siccome la narrazione di Tacito sulla causa di Barea Sorano è soltanto un brevissimo riassunto (manca il discorso di Ostorio Sabino in senato, la nomina formale dell’accusatore e il nome dell’accusatore coadiuvante), forse manca un passaggio successivo che troviamo invece nel racconto su Trasea Peto: una lettera scritta dall’accusato al principe con la finalità che, una volta giudicato colpevole dal senato, fosse evitata l’esecuzione della condanna grazie alla sua intercessio tribunicia. Probabilmente Nerone, dopo la lettura della missiva redatta da Sorano, dispose che l’imputato fosse giudicato il giorno dell’arrivo di Tiridate a Roma allo stesso modo di Trasea Peto seppur per i diversi motivi che saranno analizzati nel prosieguo.
[17] Come nel caso del processo contro Vetere del 65 d.C., in cui, probabilmente per il divieto di avvicinamento all’accusato, la figlia Pollitta, non riuscendo a ottenere udienza da Nerone, si recò a Napoli per incontrarlo (Tac. ann.16.10).
[18] La possibilità del perdono mediante intercessio tribunicia è attestata nel caso del pretore Antistio in Tac. ann. 14.48; invece,nel processo contro Torquato Silano del 64 d.C. (Tac. ann. 15.35.3), il personaggio decise di tagliarsi le vene, quando, se avesse chiesto clemenza, Nerone avrebbe potuto concedergli la grazia: secutaque Neronis oratio ex more, quamvis sontem et defensioni merito diffisum victurum tamen fuisse, si clementiam iudicis exspectasset.
[19] A. Schilling, ‘Poena Extraordinaria’: Zur Strafzumessung in Der Fruhen Kaiserzeit, Berlin, 2010, p. 257 fa notare che i verbali del processo a carico di Barea Sorano, così come di quello a carico di Trasea Peto, occupano molto spazio negli Annali di Tacito poiché lo scrittore pretende di mostrare al lettore quanto fossero privi di libertà i senatori nelle proprie deliberazioni e come Nerone usò il senato per rovesciare ‘die letzen Freigester’. Nel caso di Trasea Peto non abbiamo dubbi che il senatore fosse uno ‘spirito libero’ ma con riguardo a Barea Sorano abbiamo dubbi che il proconsole potesse essere considerato tale; l’accusato sembra avere svolto correttamente la sua funzione quando era governatore d’Asia secondo il volere del principe e probabilmente il suo processo fu il risultato di diffamazioni motivate dalla sua amicizia con Rubellio Plauto e dalla mancata punizione dei provinciali che si ribellarono allo spoglio di Pergamo (Tac. ann. 14.58.2).
[20] Non abbiamo notizia del nome del secondo accusatore nominato da Nerone dopo la presentazione dell’accusa in senato, ma siamo sicuri che egli ci sia stato, come accade nella causa intentata contro Trasea Peto (Tac. ann. 16.22.6).
[21] Servilia, figlia di Barea Sorano, si chiamò così poiché suo padre sposò una figlia di Marco Servilio Noniano, console nel 35 d.C., famoso oratore e storico morto alla fine del 59 d.C. (Tac. ann. 14.19). Sull’importanza del presente personaggio si veda R. Syme, The Historian Servilius Nonianus, in Hermes, 92, 1964, pp. 408-424; H. Aigner, «M. Servilius Nonianus», cos. 35 n. Chr.: Ein «Servilius» oder ein «Nonius», in Historia, 21.3, 1972,pp. 507-512 e Devillers, Tacite et les sources des «Annales». Enquêtes sur la méthode historique, cit., pp. 15-16.
[22] Il suo amico Senecione avrebbe negato a lungo la sua partecipazione alla congiura ma, sedotto dalla promessa dell’impunità, denunciò Annio Pollione (Tac. ann. 15.56.4), il quale, senza che fosse provata la sua colpevolezza, fu esiliato (Tac. ann. 15.71.3). Il marito di Servilia era il fratello di Annio Viniciano, genero di Corbulone, che partecipò alla seconda congiura dopo quella di Pisone a Benevento (Svet. Ner. 36). Cfr. E. Graoag, voce ‘Annius Pollio’, in PIR, 1, Berlin-Lipsia, 1933, pp. 115 ss.
[23] Probabilmente si trattava degli astrologi, i quali attraverso diversi procedimenti, tra cui l’evocazione dei defunti (negromanzia), si riteneva che potessero predire il futuro. In Plin. nat. 30,14 si ricordano diverse tecniche: predizioni attraverso acqua, sfere, aria, stelle, lucerne, catini, dialoghi di ombre e d’inferi.
[24] Anche se lo scrittore accetta la spiegazione della figlia di Sorano, secondo la quale la finalità della consultazione dei maghi sarebbe stata solo quella di conoscere in anticipo la sorte del padre, a nostro parere egli non risulta molto convincente sul punto perché prima di dare una spiegazione del suo comportamento fornisce una serie di pretesti per cercare di minimizzarlo…quae, caritate erga parentem, simul imprudentia aetatis… (Tac. ann. 16.30.2). Su questo punto cfr. J.H.W.G. Liebesschuetz, Continuity and Change in Roman Religion, Oxford, 1996, p. 135 e A. Maiuri, ‘Occultae notae’, cit., p. 98.
[25] La magia divinatoria era considerata una cosa seria e, come afferma S. Fazzo, L’astrologia nel mondo romano, in Civiltà dei Romani. Un linguaggio comune, IV, a cura di S. Settis, Milano, 1994, 108, ‘Già agli esordi del principato, dunque, il discutere sulla durata della vita degli imperatori in carica era apparso, al lungimirante Augusto, un potenziale fattore di grave instabilità politica’. Ricordiamo che ad Agrippina era stato predetto dagli indovini caldei che Nerone sarebbe diventato imperatore e che lei sarebbe stata uccisa dal figlio (Tac. ann. 6.22.4; 14.9.3). Inoltre, dopo l’apparizione di una cometa in cielo, che il popolo riteneva fosse il presagio della morte dei potenti, l’astrologo Balbillo disse a Nerone, timoroso della sua morte, che per scongiurare l’evento dovevano essere immolati personaggi illustri; infatti, furono giustiziati i partecipanti alla congiura di Pisone e a quella di Vinicio (Svet. Nero 36). Sull’argomento F. H. Cramer,Astrology in roman Law and Politics, Philadelphia, 1954, pp. 116 ss.
[26] Si racconta in Svet. Nero 34 che il fantasma di Agrippina perseguitava Nerone e che, mediante gli incantesimi dei maghi, il principe tentò di evocare i manes di lei e di placare le loro furie. Probabilmente lo stesso scopo avrebbe avuto Servilia; invocando gli antenati di Nerone, gli stregoni avrebbero ottenuto il risultato che i primi sarebbero comparsi in sogno al princeps per costringerlo a cambiare parere.
[27] Un episodio del genere si trova ricordato in Dio 57.15.7-8 quando Tiberio affermò che un certo uomo, attraverso l’evocazione di uno spirito con l’inganno, l’avrebbe indotto in sogno a dargli denaro, ma poiché il principe era diventato abile nell’arte divinatoria si rese conto del misfatto e lo mise a morte. Dopo tale evento la pratica della divinazione fu vietata dall’imperatore; infatti, fu emanato un senatoconsulto nel 16 (17?) d.C. con cui si ordinò l’espulsione dall’Italia degli astrologi e dei maghi, come si ricorda in Tac. ann. 2.32.3; Svet. Tib. 36 e Dio 57.15.7-8; dato confermato da Ulpiano nel suo libro settimo de officio proconsulis in Coll. 15.2 e in modo più sintetico in D. 48.8.13 (Modest. 12 pandect.). Il menzionato senatus consultum avrebbe ricondotto le pratiche di magia (mala sacrificia) sotto l’orbita della lex Cornelia de sicariis et veneficis dell’81 a.C. qualificandosi nella tipologia di crimen magiae,come sottolinea F. Lucrezi, Apuleio in difesa di sé stesso per un’accusa di magia in F. Amarelli-F. Lucrezi, I processi contro Archia e contro Apuleio, Napoli, 1997, pp. 125 ss. Dobbiamo comunque ricordare che precedentemente Agrippa, nominato edile di Roma nel 33 a.C., espulse gli astrologi e i maghi dalla città con l’approvazione di Augusto (Dio 49.43.5) e che quest’ultimo emanò un editto nel 11 d.C., in cui si proibiva ai veggenti di profetizzare sulla morte e qualunque altro tipo di pratica divinatoria (Dio 56.25.5-6). Un secondo senatoconsulto del 52 d.C., emanato sotto il regno di Claudio e rimasto senza effetto, espelleva gli astrologi dall’Italia (Tac. ann. 12.52.3). Sull’argomento si vedano F. H. Cramer, Astrology, cit., pp. 248 ss.; L. Desanti, La repressione della ‘scientia’ divinatoria in età del principato in Idee vecchie e nuove sul diritto criminale romano, a cura di A. Burdese, Padova, 1988, pp. 225 ss.; L. Pellecchi, L’accusa contro Apuleio: linee retoriche e giuridiche in Eparcheia, autonomia e ‘civitas’ romana. Studi sulla giurisdizione criminale dei governatori di provincia (II sec. A.C.-II d.C.), a cura di D. Mantovani e L. Pellecchi, Pavia, 2010, pp. 324 ss. Si svolsero numerosi processi in senato per pratiche magiche come ricordano B. Rochette, Néron et la magie, in Latomus, 62.4, octobre-décembre 2003, pp. 835 ss. e A. Maiuri, ‘Occultae notae’, cit., pp. 89 ss.; uno ebbe luogo nell’età di Tiberio contro Libone Druso nel 16 d.C. Tra i diversi capi d’accusa figurava la redazione di formule magiche di maledizione in cui comparivano i nomi dei Cesari o dei senatori (nominibus Caesarum aut senatorum additas atroces vel occultas notas). L’accusato prima della condanna si procurò la morte anche se il principe, in seguito, ebbe a dichiarare in senato che, nonostante la sua colpevolezza, avrebbe chiesto la grazia per salvare la vita dell’imputato (Tac. ann. 2.27-31); un altro si svolse nel 20 d.C. contro Emilia Lepida, condannata all’esilio perché accusata, tra altro, di aver consultato astrologi caldei in merito alla sorte della casa dei Cesari (Tac. ann. 3.22-23); nel 34 d.C., Mamerco Scauro accusato non soltanto di aver commesso adulterio con Livia Giulia, moglie di Druso, ma anche di aver praticato la magia (magorum sacra) (Tac. ann. 6.29.4). Ricordiamo poi il processo orchestrato in età claudiana, precisamente nel 49 d.C., da Agrippina contro Lollia Paolina (Tac. ann. 12.22), candidata, dopo l’uccisione di Messalina, a diventare moglie di Claudio (Tac. ann. 12.1), per aver consultato astrologi e maghi riguardo alle nozze dell’imperatore. La gentildonna fu espulsa dall’Italia e i suoi beni confiscati, ma dopo la morte di Agrippina, Nerone permise che le sue ceneri fossero riportate in patria e si costruisse una tomba per conservare i suoi resti. Sotto lo stesso imperatore nel 52 d.C. fu condannato all’esilio Furio Scriboniano per aver consultato gli astrologi in ordine alla morte del principe (Tac. ann. 12.52); nel 53 d.C., Statilio Tauro si tolse la vita poiché era stato accusato non soltanto per concussione ma anche per pratiche magiche (Tac. ann. 12.59.1) e nel 54 d.C. fu condannata a morte Domizia Lepida, madre di Messalina, per aver fatto incantesimi (devotiones)contro Agrippina (Tac. ann. 12.65). In età neroniana fu messa sotto processo Giunia Lepida, moglie del giurista Cassio nel 65 d.C., per avere effettuato empie cerimonie magiche, ma non fu condannata poiché, data la scarsa importanza dell’imputata sul piano politico, il principe dimenticò di richiedere al senato la prosecuzione del processo fino alla sentenza (Tac. ann. 16.8.2). I presenti episodi riconducono all’ipotesi considerata in Paul. Sent. 6.21.3: Qui de salute principis vel summa rei publicae mathematicos hariolos haruspices vaticinatores consulit, cum eo qui responderit capite punitur. Un elenco di pronunce senatorie in materia di divinazione è proposto da P. Buongiorno, Pronunce senatorie in materia di divinazione dall’età repubblicana all’età Giulio-Claudia, in Procedimenti giuridici e sanzione religiosa nel mondo greco romano. Atti di un convegno italo-tedesco. Palermo, 11-13 dicembre 2014, Stuttgart, 2014, pp. 245-254. In questo ultimo studio esiste un errore a p. 253 poiché lo studioso scrive: «Nell’età di Nerone si segnala infine il processo contro il figlio di Barea Soranus (ann. 16,30-2)» (sic).
[28] Tesi di F. H. Cramer, Astrology, cit., p. 265, forse condivisibile poiché non abbiamo notizia del fatto che i maghi fossero stati incriminati per avere soddisfatto la richiesta di Servilia, ma comunque restano dubbi; infatti, come si vedrà di seguito, dalla domanda fatta dall’accusatore è possibile evincere non soltanto che l’imputata aveva chiesto agli astrologi un responso, ma anche che era già nota l’esistenza di una vendita di oggetti appartenenti alla sua dote in Tac. ann. 16.31.1: Tum interrogante accusatore, an cultus dotales, an detractum cervici monile venum dedisset, quo pecuniam faciendis magicis sacris contraheret… La figlia di Sorano prima di trovare un acquirente avrebbe proposto le res dotales a diverse nobildonne, le quali informarono il senato dell’intenzione della fanciulla, dato poi confermato dalla denuncia degli indovini. Tali elementi avrebbero costituito prove schiaccianti della colpevolezza di Servilia, la quale sarebbe stata così privata di qualsiasi possibilità di difesa.
[29] I termini mala sacrificia sono usati in D. 48.8.13 (Modest. 12 pandect.). Imprecando contro l’imperatore l’accusata potrebbe avere nominato divinità collegate con l’oltretomba come Ecate, dea della magia, signora dell’oscurità che governava sui demoni malvagi, o ancora Plutone, signore dell’Averno sul quale regnava insieme alla dea Proserpina, le Erinni invocate soprattutto nei confronti di chi colpisce la propria famiglia e i parenti. Un esempio di precatio alle divinità dell’Oltretomba si trova in Sen. Med. 1-12; 835-840. In argomento G. Appel, ‘De Romanorum precationibus’, New York, 1975, p. 87; E. Secci, ‘Non movent divos preces’ (Phaedr. 1242): Aspetti delle invocazioni agli dèi nelle tragedie di Seneca (parte II), in Prometheus, 26, 2000, pp. 241 ss.; J. Rüpke, Die Religion der Römer, München, 2001, pp. 166 ss.
[30] Le devotiones e i carmina erano formule di maleficio o sortilegio che potevano essere scritte anche su piastre di piombo incise con segni misteriosi (tabellae defixionis) in cui era scritto il nome della persona alla quale erano indirizzate; tali formule magiche e di maledizione permettevano consacrare la vittima alle divinità infernali. A tal proposito si ricorda l’episodio narrato in Tac. ann. 2.69.3 sulla convinzione di Germanico di essere stato vittima di stregoneria, oltre ad essere stato avvelenato da Pisone: …carmina et devotiones et nomen Germanici plumbeis tabulis insculptum… Inoltre, Pisone avrebbe rivolto devotiones contro gli amici di Germanico come si racconta in Tac. ann. 3.13.2. Tale tipo di tavolette sono indicate anche da Apul. met. 3.17. Sull’argomento V.M. Warrior, Roman Religion, Cambridge, 2006, pp. 98 ss. e, con particolare attenzione a Pisone e alle tavolette indicate, A.M. Tupet, Les pratiques magiques à la mort de ‘Germanicus’, in Mélanges de littérature et d’épigraphie latines, d’histoire romaine et d’archéologie. Hommage à la mémoire de P. Wuilleumier, Paris, 1980, pp. 345 ss.; Rites magiques dans l’Antiquité romaine in ANRW 16.3, Berlin-New York, 1986, pp. 2601 ss. F. Mercogliano, Pisone e i suoi complici. Ricerche sulla ‘cognitio senatus’, Napoli, 2009, pp. 116 ss. sottolinea comunque che nel testo del senatus consultum de Cn. Pisone patre ‘non v’è alcun cenno né ad alcuna devotio, né a carmina come invocazioni malefiche o sortilegi, né al venenum’.
[31] Non condividiamo la tesi di R.S. Rogers, A Tacitean Pattern in Narrating Treason-Trials, in TAPhA, 83, 1952, pp. 294 ss., secondo la quale Servilia avrebbe partecipato insieme al marito alla congiura di Pisone. All’avviso dello studioso il fatto che Barea Soriano dichiari che la figlia era estranea a tale rivolta rivelerebbe piuttosto il contrario e, se la vera ragione dell’imputazione fosse la consultazione degli astrologi, afferma ancora Rogers, non si spiegherebbe la dichiarazione del padre. Noi crediamo invece che la protesta del padre abbia avuto uno scopo preciso, ossia argomentare la totale estraneità della figlia ai fatti relativi a un processo di lesa maestà per i motivi indicati dal genitore, ma Servilia, nonostante tali rilievi, fu comunque indagata per il crimine insieme al padre, perché, a parere del senato, ella si sarebbe rivolta ai maghi su consiglio del genitore come si dimostra in Dio 62.26.3 (brano non considerato da Rogers). Dobbiamo inoltre notare che Servilia dichiara il falso quando afferma che lo scopo della consultazione sarebbe stato soltanto quello di conoscere in anticipo il contenuto della sentenza che sarebbe stata emessa contro il padre; infatti, ella confessa d’avere consegnato i suoi oggetti ai maghi ignorando le pratiche da questi esercitate. Tale ignoranza non esclude l’eventualità che gli indovini dovessero effettuare riti malefici contro Nerone per ottenere l’incolumità del padre con il nulla osta dell’imputata. Tacito non ha oscurato il caso ricordando soltanto le accuse banali e pregiudizievoli omettendo le più gravi, come ipotizza Rogers. La consultazione degli indovini è considerata come un grave crimine già in questo periodo storico e non solo un secolo dopo, come ritiene lo studioso, poiché i testi che egli cita in nota 54 trovano fondamento nell’età età di Tiberio, come abbiamo rilevato alla nota 27.
[32] M. Heider, Philosophen, cit., p. 144 ritiene che Tacito non riporti le effettive accuse elevate contro Barea Sorano e che invece quelle vecchie siano servite soltanto per discreditare l’imputato di fronte al senato. Noi non abbiamo dubbi che esista una lacuna nell’opera di Tacito riguardo al coinvolgimento di Sorano nella vicenda della figlia, ma questa non era venuta alla luce prima che Sorano fosse inviato a giudizio per il suo operato in provincia. Probabilmente dopo l’arringa di Ostorio Sabino (non riportata da Tacito) Nerone nominò un accusatore coadiuvante, come accade nel giudizio contro Trasea Peto (Tac. ann. 16.22.6), il quale avrebbe scoperto il coinvolgimento della figlia nella nuova vicenda in cui sarebbe stato coinvolto anche il padre.
[33] Nato a Berito, cliens e maestro di Barea Sorano in filosofia stoica Cfr. A. Stein, voce ‘P. Egnatius Celer’, in PIR, III, Berlin-Lipsia, 1943, p. 70.
[34] Cfr. A. Stein, voce ‘Cassius Asclepiodotus’, in PIR, II, Berlin-Lipsia, 1936, p. 113.
[35] Anche se in seguito Cassio Asclepiodoto sarebbe tornato a Roma sotto Galba, come si indica in Dio 62.26.2.
[36] Vogliamo sottolineare che Celere fu portato come testimone da Barea Sorano secondo quanto si può leggere in Tac. ann. 16.32.2 e perciò, anche se non si riporta il nome del personaggio, risulta impreciso l’uso del termine delator in Iuv. 3.116 (Stoicus occidit Baream delator, amicum Discipulumque…) e in schol. Iuv. 1.33 (magni delator amici). L’identificazione con Celere in questa ultima fonte è sostenuta da Stein, voce ‘P. Egnatius Celer’, cit., p. 70, anche se tale tesi non è condivisa da G.B. Townend, The Earliest Scholiast on Juvenal, in CQ, 22.2, Nov. 1972, pp. 379 ss., nonostante in schol. Iuv. 6.552 sia usato il nome di Ignatius (sic). Crediamo esista inoltre una confusione in Dio 62.26.2, ove si ricorda che Publio, in cambio delle sue false accuse, ricevette denaro e onori, come altri suoi colleghi. L’autore evidentemente lo confonde con Ostorio Sabino, accusatore di Barea Sorano, il quale ricevette come premio per la sua delatio un milione e duecento mila sesterzi, oltre alle insegne di questore.
[37] Riguardo alla descrizione di Celere si veda: E. Keitel, Principate and Civil War in the Annals of Tacitus, in AJPh, 105.3, Autumn 1984, p. 324.
[38] Musonio Rufo, maestro di Epitteto, di origine etrusca e appartenente all’ordine equestre (Tac. hist. 3.81.1), consigliò a Plauto di attendere con serena fermezza la sua morte, anziché vivere nell’incertezza e nel timore (Tac. ann. 14.59.1); il filosofo stoico fu espulso da Nerone nel 65 d.C., non tanto per avere partecipato direttamente alla congiura di Pisone ma soprattutto perché i suoi precetti di vita accendevano gli entusiasmi dei giovani allo stesso modo della eloquenza di Verginio Flavo (Tac. ann. 15.71.4). Cfr. Ch. Pomeroy Parker, Musonius the Etruscan, in HSPh, 7, 1896, pp. 123 ss.; J. Korver, Neron et Musonius. À propos du dialogue de pseudo-lucien Neron, ou sur le percement de l'isthme de corinthe, in Mnemosyne, 3.4, 1950, pp. 319 ss.; R. Chevallier, Le milieu stoïcien à Rome au Ier siècle après Jésus-Christ ou l’âge héroïque du Stoïcisme romain, in BAGB, 19, décembre 1960, pp. 542 ss.; L. Petersen, voce ‘C. Musonius Rufus’, in PIR, V.2, Berlin, 1983, pp. 324 ss. Sui motivi dell’azione promossa in giudizio da Musonio Rufo contro Celere si veda M. Heider, Philosophen, cit., pp. 151 ss.
[39] Riguardo al presente processo si veda: J.K. Evans, The Trial of ‘P. Egnatius Celer’, in CQ, 29, 1979, pp. 198 ss. eM. Heider, Philosophen, cit., pp. 135 ss.
[40] Tac. hist. 4.40.3: repeti inde cognitionem inter Musonium Rufum et Publium Celerem placuit, damnatusque Publius et Sorani manibus satis factum… L’imputato sarebbe stato considerato colpevole e condannato alla deportatio e alla publicatio omnium bonorum secondo la lex Cornelia de falsis o più probabilmente alla morte. La prima tesi è sostenuta da J.K. Evans, The Trial, cit., p. 199 nt. 4 sulla base di D. 48.10.1pr. (Marcian. 14 inst.): Poena legis Corneliae irrogatur ei, qui falsas testationes faciendas testimoniave falsa inspicienda dolo malo coiecerit. La seconda tesi, che si deve a H. von Arnim, voce ‘Egnatius’, in RE, V,2, Stuttgart, 1905, p. 1996, sembra più plausibile perché, sebbene la pena fondata sulla legge Cornelia fosse quella indicata da Evans, dobbiamo notare che il senato, considerando la gravità della questione, avrebbe potuto stabilire una condanna più severa rispetto a quella stabilita dalla legge. Nello stesso senso M. Heider, Philosophen, cit., 154 ss. In Tac. hist. 4.40.3, pur non essendo illustrato nel testo il contenuto della sentenza, si dichiara che la stessa avrebbe dato soddisfazione ai manes di Sorano, sottolineando altresì la pubblica severitas con cui fu presa la decisione. Tali dati escludono l’ipotesi che la condanna non sia stata particolarmente gravosa per l’imputato: …repeti inde cognitionem inter Musonium Rufum et Publium Celerem placuit, damnatusque Publius et Sorani manibus satis factum. insignis publica severitate dies…
[41] Demetrius noster (Sen. epist. 6.62.3, 20.9 e benef. 7.2.1), vir magnus (Sen. benef. 7.1.3), vir optimus (Sen. epist. 6.62.3), egregius vir (Sen. nat. 4 a), fortissimus vir, (Sen. prov. 5.5) vir acerrimus (Sen. vit. beat.18.3), exemplum (Sen. benef. 7.8.3), non praeceptor veri sed testis est (Sen. epist. 20.9). Testi riportati anche da M. Heider, Philosophen, cit., p. 138 nt. 12. Sul rapporto tra Seneca e Demetrio si veda B. Del Giovane, Seneca, la diatriba e la ricerca di una morale austera. Caratteristiche, influenze, mediazioni di un rapporto complesso, Firenze, 2015, pp. 100 ss.
[42] Giustamente M. Heider, Philosophen, cit., 138 afferma che non è possibile che Demetrio, ammirato da Seneca, abbia difeso qualcuno che egli riteneva colpevole, come Tacito cerca di farci credere. Diversi studi hanno cercato di spiegare la ragione per cui Demetrio avrebbe difeso Celere: M. Billerbeck, Der Kyniker ‘Demetrius’: ein Beitrag zur Geschichte der frühkaiserzeitlichen Populärphilosophie, Leiden, 1979, pp. 1 ss.; J.F. Kindstrand, ‘Demetrius’ the Cynic, in Philologus, 124, 1980, pp. 83 ss.; J. Moles, ‘Honestius quam ambitiosius?’ An Exploration of the Cynic’s Attitude to Moral Corruption in his fellow Men, in JHS, 103, 1983, pp. 103 ss.; tesi seguita da M. Trapp, ‘Cynics’, in BICS, 94 suppl., 2007, p. 2002.
[43] Cliens Bareae Sorani et amicus, philosophus sectae stoicae, magister Sorani quem accusatum cum filia eius, cum ipse eam ad magicam discendam hortatus esset. Tesi respinta da M. Heider, Philosophen, cit., 150. Sugli scholia vetera all’opera di Giovenale si veda U. Tischer, Die zeitgeschichtliche Anspielung in der antiken Literaturerklärung, Tübingen, 2005, pp. 170 ss., con particolare attenzione al testo che ci interessa p. 180.
[44] Secondo M. Heider, Philosophen, cit., p. 136, la testimonianza di Celere non solo contraddice le norme comportamentali di un cliente nei confronti del patronus,al quale il primo doveva servizi e piena obbedienza, ma anche il comportamento tenuto dagli altri stoici condannati nel processo contro Trasea Peto, come il genero Elvidio Prisco, Curzio Montano e Paconio Agrippino. Su questo aspetto dobbiamo notare che effettivamente Celere, come cliens di Barea Sorano, era tenuto al rispetto delle norme comportamentali che esistevano tra cliente e patrono, ma tali regole risultavano problematiche quando il patrono si trovava imputato in un processo poiché il testimone era tenuto a rispondere alle domande formulate dall’accusatore. Gli altri stoici condannati nella causa contro Trasea Peto probabilmente non erano presenti nel giudizio. Ad esempio, sappiamo che, quando fu comunicata la sentenza Paconio Agrippino (Epict. ench. 1.1.28; 2.12), egli rispose: molto bene, pranzerò ad Ariccia, frase che con molta probabilità pronunciò nella propria dimora. Celere invece era un testimone e perciò non poteva astenersi dal comparire in giudizio il giorno del processo contro Sorano.
[45] Il rapporto di amicizia con Vespasiano si può evincere anche dal fatto che Tito, dopo la morte della sua prima sposa (Suet. Tit. 4), contrasse un nuovo matrimonio con Marcia Funilla, nipote di Barea Sorano poiché figlia del fratello Q. Marcio Barea Sura, da cui in seguito divorziò.
[46] In un periodo successivo Demetrio fu relegato su di una isola da Vespasiano insieme ad altri filosofi, come si ricorda in Dio 65.13.2-3.
[47] Tac. ann. 1.72.2: …nam legem maiestatis reduxerat, cui nomen apud veteres idem, sed alia in iudicium veniebant, si quis proditione exercitum aut plebem seditionibus, denique male gesta re publica maiestatem populi Romani minuisset: facta arguebantur, dicta inpune erant. 3. primus Augustus cognitionem de famosis libellis specie legis eius tractavit… Il brano che si trova inserito nel racconto di Tacito sugli inizi del regno di Tiberio suscita dubbi in relazione al fatto che la legge sia attribuita ad Augusto o a Tiberio. Su questo problema si veda R.A. Bauman, The Crimen Maiestatis in the Roman Repiblic and Augustan Principate, Johannesburg, 1967, 266-292.
[48] Criterio applicato da Marco Lepido sotto Tiberio con riguardo al crimine commesso dal cavaliere Clutorio Prisco ricordato in Tac. ann. 3,50,4: cedat tamen urbe et bonis amissis aqua et igni arceatur: quod perinde censeo ac si lege maiestatis teneretur. Su questo problema B.M. Levick, ‘Poena legis maiestatis’, in Historia,28, 1979, pp. 358-379; M. Melounová, ‘Crimen maiestatis’ and the ‘poena legis’ during the principate, in AAntHung,54, 2014, pp. 407-430.
[49] Infatti, in relazione alla condanna a morte comminata sotto Tiberio a Taro Graziano che aveva ricoperto la pretura, in Tac. ann. 6,38,4 si indica la lex Iulia maiestatis non perché la legge preveda tale punizione, ma per decisione del senato: Tariusque Gratianus praetura functus lege eadem extremum ad supplicium damnatus.
[50] Claudio aveva abolito il crimine di lesa maestà consistente in parole offensive al principe (Dio 60.3.6) trovando comunque ingegnosi sostituti come ricorda R.A. Bauman, Impietas in principem. A study of treason against the Roman emperor with special reference to the first century A.D., München, 1974, pp. 194-204. Nerone, grazie alla moderazione di Seneca, nei primi otto anni del suo regno non considerò punibile l’uso di parole offensive contro la sua persona ma, dopo l’uccisione di Agrippina ed esauritosi il potere del suo maestro, il crimine fu ristabilito, come indica R.A. Bauman, Crime and punishment in ancient Rome, London-New York, 1996, pp. 84-85.
[51] Figlio di M. Giunio Silano, fratello di D. Giunio Torquato Silano, pronipote di Augusto e console nel 53 d.C., che si tolse la vita dopo essere stato sotto processo per motivo di lesa maestà (Tac. ann. 15.35.1). In argomento si veda L. Petersen, voce ‘L. Iunius Silanus Torquatus’ in PIR, 4.3, Berlin, 1966, 356-357 e la scheda dell’albero genealogico a p. 351.
[52] Ricordiamo che Seiano in età tiberiana non ebbe questo beneficio (Dio 58.11.5) mentre nel 47 d.C., nel processo contro Valerio Asiatico (a cui non fu concesso dal principe di difendersi in senato) Claudio decise che al condannato, per i suoi meriti nei confronti della res publica,fosse concesso, come atto di clemenza imperiale, il liberum mortis arbitrium (Tac. ann. 11.3.1). Schilling, Poena extraordinaria,cit., pp. 213-215 rileva che per la prima volta, nel presente processo si concede questo tipo di condanna. E. Höbenreich-G. Rizzelli, I provvedimenti imperiali, senatori e comiziali del principato di Galba nella letteratura antica, in CCG, 9, 1998, p. 133, affermano che il suicidio costituisce una mitigazione della pena di morte, frequente durante il principato e spesso concessa dall’imperatore in sede di giudizio o anche da un tribunale diverso da quello imperiale. Non crediamo che si possa parlare di una «mitigazione della pena di morte» poiché la condanna secondo il mos maiorum e quella in cui si concede il liberum mortis arbitrium producono gli stessi risultati: il fine vita. La ratio per cui si cercò di evitare la condanna all’impiccagione mediante corda effettuata da un boia in età neroniana è da ravvisarsi nel fatto che tale pena, stabilita in età repubblicana, non corrispondeva più al senso di giustizia dell’epoca qui considerata, come aveva già sottolineato Trasea Peto nel processo contro il pretore Antistio Sosiano (Tac. ann. 14.48). Al reus era concessa una morte con onore, che rispettava la sua dignità ed evitava la corruzione del proprio corpo in modo che il cadavere potesse avere un iustum sepulchrum; del resto, basta vedere l’applicazione della condanna a morte secondo il mos maiorum al tempo di Tiberio (Dio 58.11.5) per rendersi conto dell’odiosità e crudeltà che essa comportava.
Gonzalez Roldan Yuri
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