The Legacy of ‘Things Intended for the Wife’ in a Case Law Discussed by Alfenus Varus (D. 32.60.2)

Il legato di ‘cose destinate alla moglie’ in un caso discusso da Alfeno Varo (D.32.60.2)

25.06.2022

Francesca Scotti *

 

Il legato di ‘cose destinate alla moglie’ in un caso discusso da Alfeno Varo (D.32.60.2)**

 

English title: The Legacy of ‘Things Intended for the Wife’ in a Case Law Discussed by Alfenus Varus (D. 32.60.2)

 

DOI: 10.26350/18277942_000077

 

Sommario: 1. Contenuto del testo. 2. Contesto storico, sociale ed economico della manifattura tessile. 3. La giurisprudenza prevalente in tema di “lana”, “linum”, “versicoloria” e “purpura” oggetto di legati anche alla luce delle tecniche di lavorazione della filiera tessile: le diverse visioni di Ulpiano e Paolo. 4. Brevi osservazioni sul significato delle parole «quae eius causa parata essent» di cui in D.32.60.2 Alf. 2 dig. a Paul. epitomat. 5. Appendice: un altro caso di legato di lana colorata e “purpura” (D.33.2.32.2 Scaev. 15 dig.).

 

1. Contenuto del testo

 

In un noto passo dell’epitome di Paolo ai digesta di Alfeno Varo[1], il giurista tardo-repubblicano narra di un pater familias che aveva disposto a favore della moglie un legato della lana, del lino e della porpora[2] che “erano stati destinati a lei”.

 

D.32.60.2 Alf. 2 dig. a Paul. epitomat.[3] (Pal. Alf. 39)

 

Lana lino purpura uxori legatis, quae eius causa parata essent, cum multam lanam et omnis generis reliquisset, quaerebatur, an omnis deberetur. respondit, si nihil ex ea destinasset ad usum uxoris, sed omnis commixta esset, non dissimilem esse deliberationem, cum penus legata esset et multas res quae penus essent reliquisset, ex quibus pater familias vendere solitus esset. nam si vina diffudisset habiturus usioni ipse et heres eius, tamen omne in penu existimari[4]. sed cum probaretur eum qui testamentum fecisset partem penus vendere solitum esse, constitutum esse, ut ex eo, quod ad annum opus esset, heredes legatario darent. sic mihi placet et in lana fieri, ut ex ea quod ad usum annuum mulieri satis esset, ea sumeret: non enim deducto eo, quod ad viri usum opus esset, reliquum uxori legatum esse[5], sed quod uxoris causa paratum esset[6].

 

Riguardo al legato a favore della moglie della lana, del lino e della porpora a lei destinati, poiché il marito aveva lasciato molta lana di ogni genere, si chiedeva se questa fosse dovuta tutta. Rispose che, se il marito non avesse specificamente riservato nessuna parte della lana all’uso della moglie, ma la lana fosse stata mescolata tutta insieme, la soluzione non sarebbe diversa da quella adottata quando fossero state legate “le vettovaglie”[7] e il testatore avesse lasciato molte cose a titolo di vettovaglie, tra le quali alcune erano solitamente vendute dal pater familias stesso: se costui infatti avesse travasato i vini che erano destinati a essere bevuti da lui e dal suo erede, questi tuttavia sarebbero dovuti tutti; ma, poiché si era dimostrato che il testatore era solito vendere una parte delle vettovaglie, si è adottata la soluzione della consegna da parte degli eredi al legatario di vettovaglie del necessario per il consumo di un anno. Così ritengo che si debba fare anche rispetto alla lana, cioè che la donna ne prenda la quantità sufficiente all’uso di un anno: non è stato infatti legato alla moglie ciò che rimane dedotto quanto era necessario all’utilizzo del marito, ma ciò che era destinato ai bisogni della moglie stessa.

 

Tuttavia Alfeno rileva che il testatore aveva lasciato alla rinfusa molta lana di ogni genere: il dubbio è, dunque, se la lana fosse interamente dovuta[8]. La ratio dubitandi consiste nel fatto che la lana è mescolata nello stesso rispostiglio di casa: quella “destinata all’uso della moglie” non è quindi stata separata dal resto e non è possibile individuarla[9].

Per rispondere, Servio[10], il maestro di Alfeno di cui quest’ultimo riporta i responsa, richiamava una questione dubbia probabilmente risolta in precedenza dai c.dd. “veteres”, cioè i giuristi dell’età repubblicana[11], avente per oggetto un legato di vettovaglie (“penus”)[12], da intendere come tutti i viveri collocati nella dispensa e destinati al consumo famigliare[13]. In particolare, il problema riguardava una delle vettovaglie comprese nel legato, cioè il vino[14], come nel caso qui esaminato l’incertezza concerne uno solo dei tre genera lasciati (lana, lino e porpora), cioè la lana. Anche nella fattispecie ipotizzata da Servio, evidentemente, il testatore aveva lasciato il vino alla rinfusa, cioè in un’unica botte: questo si ricava dal seguito del discorso.

Ebbene Servio afferma che, se il pater familias avesse travasato i vini riservati all’uso suo e dell’erede distinguendoli dagli altri accantonati per la vendita, allora i primi sarebbero spettati interamente al legatario: era infatti chiaro quali, fra i vini esistenti nella dispensa, erano stati approntati per il consumo famigliare, costituendo quindi “penus”, e quali erano stati rivolti al commercio. Tuttavia, giacché il vino era stato lasciato alla rinfusa in un unico barile e, d’altronde, si era dimostrato che il testatore era abituato a venderne una parte[15], allora non doveva essere dato al legatario di vettovaglie tutto il vino, ma la sola quantità necessaria per il consumo di un anno[16]. È evidente, infatti, che il vino finalizzato alla vendita non rientrava nel novero delle “vettovaglie”, che erano i beni della dispensa familiare allestiti per l’uso del pater e di tutti i membri della famiglia[17].

Alfeno ritiene quindi che si debba fare altrettanto riguardo alla lana, cioè che la donna non possa prendere tutta quella lasciata alla rinfusa, ma soltanto la quantità sufficiente all’uso di un anno[18]: non è stato infatti legato alla moglie ciò che rimane dedotto quanto era indispensabile all’uso del marito (ad es. per le necessità commerciali), ma quanto era destinato all’utilizzo della consorte, così come, nel caso del legato di vettovaglie, non erano stati legati tutti i generi alimentari presenti nella domus, ma soltanto quelli preordinati al soddisfacimento dei bisogni materiali della famiglia[19]. Fra l’altro questa applicazione analogica del criterio previsto per il legato di penus si può spiegare alla luce del fatto che il legato di vettovaglie, sin dall’antichità, era diretto al sostentamento della vedova[20].

Possiamo ora aggiungere alcuni dettagli sul probabile contesto socio-economico cui allude il frammento di Alfeno e sulle caratteristiche dei filati cui si fa riferimento.

 

2. Contesto storico, sociale ed economico della manifattura tessile

 

Il fatto che il passo qui esaminato sia tratto dall’epitome di Paolo ai digesta di Alfeno rende probabile che l’ambiente sociale cui ci si riferisce fosse attuale sia nell’età tardo-repubblicana, sia in quella imperiale severiana. Sembrerebbe strano, infatti, che Paolo parlasse di una domus in cui la moglie si dedicava al lavoro tessile e in cui, al contempo, il pater familias esercitasse – come pare di potersi ricavare dal confronto con l’esempio del legato di vettovaglie – un’attività commerciale legata alla filiera tessile. Ne deriva che, probabilmente, per tutto il lungo periodo considerato, la filatura e la tessitura mantennero sempre un grande valore sia simbolico, sia socio-economico[21].

Sotto il primo aspetto, bisogna osservare che il lavoro tradizionale tessile svolto dalle matrone[22] e avente per oggetto la lana fu concepito in tutta l’antichità romana come emblema delle virtù femminili, le quali si possono enucleare in una serie di aggettivi ricorrenti sia nelle opere letterarie, sia nelle epigrafi funerarie[23]: “casta” (cioè colei che intrattiene rapporti sessuali limitatamente al matrimonio e ai fini procreativi), “pudica” (schiva e posata), “pia” (ossia colei che si dedica alle pratiche religiose e rispetta i precetti dei mores maiorum), “frugi” (sobria), “domiseda” (che sta a casa) e “lanifica” (che fila e tesse la lana)[24]. In particolare, l’attributo “lanifica”, dalle origini fino a tutto il iv sec. a.C., dovette alludere sia alla filatura, sia alla tessitura (svolte normalmente entro le mura domestiche), a partire dal iii sec. a.C., alla sola filatura[25].

Da un punto di vista storico, economico e sociale, fra l’età monarchica e la prima metà del iii sec. d.C., la filatura e la tessitura della lana vennero via via assumendo “volti” diversi, come conferma tra l’altro una serie di passi del Digesto di Giustiniano che verranno indicati oltre[26].

Nel primo periodo, cioè fra la monarchia e gli inizi della repubblica, ciascun nucleo familiare usava produrre autonomamente gran parte dei tessuti da impiegare per la realizzazione di vestiti, il che significa che era indispensabile filare e tenere un telaio in casa[27]. Pertanto, in una società facente capo, secondo antiche usanze, ai patres familias e con un regime di vita semplice e austero, in cui il criterio atto a stabilire la discendenza o l’attribuzione di prerogative sociali era declinato per via maschile e le coppie sposate vivevano ciascuna con il gruppo del padre dello sposo, “lanifica” era la mater familias integerrima, votata alla filatura e alla tessitura necessarie per ottemperare ai bisogni di vestiario dei membri della famiglia in una prospettiva economica di tipo autarchico[28].

Già dalla seconda metà del iii sec. a.C., tuttavia, si assiste a un progressivo cambiamento nei metodi della produzione tessile, consistente nel passaggio da una manifattura domestica su piccola scala a una su base più ampia, addirittura al di fuori del contesto familiare, organizzata in vere e proprie “officinae” di tessitura, le c.dd. “textrinae” o “textrina”, ove era impiegato personale specializzato, per lo più femminile (le cui mansioni compaiono talvolta nelle iscrizioni funerarie), di condizione servile oppure libera e retribuita[29]: “lanificae”, “lanipendae” o “lanipendiae” (pesatrici della lana), “quasillariae” (filatrici), “textrices” o “stamnariae” (tessitrici), “sarcinatrices” (rammendatrici) e “vestificae” (sarte)[30]. In queste “textrinae”, del resto, vi erano oltre a lanipendae, anche “lanipendi” ed entrambe le categorie di lavoratori avevano il compito di attribuire una certa quantità di lana da filare, il c.d. “pensum”, alle quasillariae di cui controllavano l’operato[31]. Mentre, tuttavia, alla tessitura potevano essere addetti anche gli uomini, la filatura era di competenza esclusiva delle donne[32]. Alcune di queste textrinae erano autonomamente gestite da liberte, talvolta insieme ai mariti, pure liberti[33]. Comunque è probabile che esistessero altresì spazi destinati al solo svolgimento della filatura, detti “lanifici”, in cui le quasillariae filavano ognuna il rispettivo pensum di lana quotidiano, loro consegnato previa pesatura dei bioccoli di lana[34].

In parallelo si constata la graduale costituzione di un corpo di lavoratori tessili maschi di livello più o meno professionale[35]. Si trattava, ad es., dei “fullones”, chiamati anche “lavatores” o “lotores”, ossia gli addetti alla follatura e al finissaggio delle stoffe (specialmente di lana) dopo la tessitura oppure al lavaggio degli abiti, che si affermarono a Roma nella seconda metà del iii sec. a.C.[36]. Essi operavano in impianti particolari, chiamati “fullonicae”, ove la follatura e il finissaggio constavano di una serie di passaggi volti a rendere la stoffa più compatta e nel contempo più morbida (tramite l’ammollo delle tele in acqua e soluzioni alcaline, l’infeltritura, l’asciugatura, la spazzolatura, l’eliminazione della villosità con cesoie, l’eventuale sbiancatura, la stiratura)[37]. Accanto ai fullones, tra i nuovi professionisti della produzione tessile, emersero i c.dd. “infectores” e i “lanarii”: i primi erano tintori, i secondi artigiani dedicati sia alla lavorazione della lana (dalla filatura alla creazione di stoffe e vestiti di lana), sia al commercio, a sua volta legato alle diverse fasi del processo di lavorazione, come proverebbe la presenza, nel catalogo epigrafico di alcune zone maggiormente specializzate nella lavorazione di questa fibra, di indicazioni aggiunte alla parola “lanarius”, quali, ad es., “purgator”, “cardator”, “carminator”, “pectinarius”, “coactor”, “coactilarius”, al plurale o al singolare a seconda dei casi[38]. “Lanarius”, dunque, si poneva come termine generico, applicabile ai diversi specialisti del mestiere, il cui significato veniva precisato da eventuali epiteti: ad es., un mercante di lana e di stoffe si chiamava “lanarius negotians” o “lanarius negotiator”, un fabbricante di feltro “lanarius coactor” o “lanarius coactiliarius[39]. Erano dunque questi aggettivi a fornire indicazioni utili a individuare il mestiere specifico svolto da ciascun artigiano[40]; eppure spesso accadeva che l’artigiano si confondesse con il mercante perché poteva darsi che chi vendeva determinati articoli ne fosse anche il produttore[41]: ebbene, come si vedrà oltre, questo potrebbe essere il caso del testatore di cui in D.32.60.2.

In ogni modo, a partire dal iii sec. a.C., pur con la nascita delle professioni tessili, la filatura restò l’attività per eccellenza delle donne, emblema delle più nobili virtù femminili e continuò a esercitarsi anche in casa, mentre la tessitura non funse più da elemento di distinzione morale, sociale, economica e di genere: non a caso la tessitura è raramente attestata nel catalogo epigrafico – e soltanto in riferimento a individui di sesso maschile o femminile di status servile[42] –, mentre gli stessi corredi sepolcrali[43], se di frequente presentano fusi, fusaiole e rocche, raramente contengono pesi da telaio[44].

Ebbene, nonostante il consolidarsi di una manifattura tessile artigianale, ancora nel ii-i sec. a.C. e oltre nelle città si continuava a filare e a tessere nelle abitazioni private ove di regola le ancillae svolgevano queste operazioni sotto il controllo delle matronae[45].

Parallelamente vestiti e tessuti sia economici[46] che costosi si vendevano nei negozi e nei mercati[47]; in particolare, gli abiti già confezionati erano di qualità assai più varie di quelle degli indumenti fatti in casa e si caratterizzavano per uno sprettro di colori più ampio[48].

Si può dunque pensare che nell’ultima parte della repubblica la produzione tessile urbana avvenisse in parte su larga scala, in parte nella sfera domestica[49].

È altrettanto immaginabile che nello stesso torno di tempo (dalla monarchia a tutta la repubblica) il lanificium domestico avesse luogo anche nelle aree rurali sia all’interno delle grandi villae rusticae, sia nelle domus di piccoli vici o pagi.

Nelle prime (villae rusticae), le schiave venivano sfruttate con il ruolo di “lanificae” per la lavorazione della lana e la sua trasformazione in abbigliamento per la familia rustica, com’è confermato, ad es., da qualche testo del Digesto (D.33.7.12.5 e 6 Ulp. 20 ad Sab.; D.33.7.16.2 Alf. 2 a Paul. epitomat.)[50].

Nelle seconde (domus di pagi o vici di campagna) le donne della famiglia creavano i vestiti dei loro congiunti[51].

Dunque, come si vedrà meglio oltre, se guardiamo all’epoca di Alfeno, possiamo ipotizzare che la uxor di D.32.60.2 impiegasse la “lana”, il “linum” e la “purpura” per il confezionamento degli indumenti dei suoi familiari in un contesto agricolo, a bassa densità abitativa ed economicamente modesto, come quello sopra richiamato.

È probabile che tra la fine del ii e gli inizi del i sec. a.C. esistesse, accanto a minuscoli laboratori indipendenti, ciascuno occupato in una delle fasi della filiera produttiva tessile, una serie collegata di officinae artigianali, dedite ai vari stadi della lavorazione della materia prima, della tessitura, della follatura, della tintura e della finitura, ai fini della produzione oltre che della vendita, sotto la guida di un unico produttore-mercante, il c.d. “mercante imprenditore”, che pianificava e sorvegliava buona parte delle attività produttive e commerciali della filiera tessile[52]. In questo modo, è verosimile che sotto il controllo del mercante imprenditore ogni stadio fosse gestito da laboratori singoli di piccole o medie dimensioni, anche se non si può neppure escludere che talora due o più stadi fossero appannaggio di un solo laboratorio o di più laboratori distinti, ma tutti appartenenti a un singolo proprietario imprenditore: si considerino, ad es., le tessitorie siciliane nominate da Seneca (ii sec. a.C.)[53], la textrina in cui operavano vari “plumarii[54] menzionata da Vitruvio (seconda metà del i sec. a.C.)[55] o il caso pompeiano di Vecilius Verecundus, titolare di un negozio di feltro e vestiti e al tempo stesso sarto (i sec. a.C.)[56].

È quindi plausibile che, accanto a modeste officinae che operavano in modo autonomo, vi fossero anche insiemi di laboratori organizzati in vere e proprie aziende a carattere produttivo e commerciale di media grandezza, dirette da queste figure di mercanti imprenditori[57].

Considerato dunque il periodo di Alfeno, si può avanzare l’ipotesi che il nostro testo si riferisca al titolare di un’azienda a conduzione familiare che autonomamente vendeva gli articoli che produceva.

A partire dall’età augustea, benché la consuetudine di confezionare abiti in casa fosse diventata sempre meno diffusa fino a essere avvertita come superata al punto che il princeps stesso tentò di ricondurre le donne al lavoro domestico tradizionale, incluse la filatura e la tessitura, anche sulla base del buon esempio che, nei suoi intendimenti, avrebbe dovuto dare la componente femminile della sua famiglia[58], cionondimeno le iscrizioni sepolcrali urbane[59] sembrano attestare la persistenza dell’uso di realizzare i vestiti in casa, pur con modalità spesso diverse rispetto all’epoca precedente[60]. È possibile infatti che nell’Urbe il lanificium fosse eseguito: (1) nella famiglia imperiale e in quelle aristocratiche dal personale servile sotto la guida di lanipendi, cioè di schiavi che provvedevano anche alla pesatura e all’assegnazione, alle ancillae quasillariae (schiave filatrici), dei pensa (pesi) quotidiani di lana da filare[61]; (2) nelle famiglie abbienti, ma non nobiliari, e in quelle della classe media, a opera di schiavi sotto la supervisione di lanipendae, nella posizione di vere e proprie governanti[62]; (3) nelle famiglie di ceto più basso dalle stesse matres familias magari con l’assistenza di ancelle[63]. Forse, in qualche caso, nelle grandi familiae urbanae, la filatura e la tessitura erano destinate a scopi commerciali, così com’è possibile che, talvolta, le medesime finalità fossero perseguite in contesti più modesti[64].

Comunque, anche se risulta improbabile che le matrone aristocratiche si dedicassero continuativamente alle loro lane, la responsabilità del lanificium, pur in presenza di lanipendi o di lanipendae, restava di per sé a loro carico, il che trova un interessante riscontro in alcuni frammenti del Digesto (D.24.1.29.1 Pomp. 14 ad Sab.; D.24.1.30 Gai. 11 ad ed. prov.; D.24.1.31 pr. e 1 Pomp. 14 ad Sab.)[65].

In campagna, nelle villae rusticae, la tessitura in particolare doveva essere un’attività ancora ampiamente praticata e i telai dovevano rientrare fra le dotazioni di queste[66]: qui, come ci narra Columella[67], le “vilicae” avevano il compito, che un tempo era stato delle mogli dei proprietari terrieri, di sopraintendere al lavoro di filatura e tessitura delle ancillae lanificae per la confezione dell’abbigliamento destinato alle vilicae stesse, agli schiavi sorveglianti e agli altri degni di rispetto[68], il che è comprovato da qualche passo del Digesto (D.33.7.12.5 e 6 Ulp. 20 ad Sab.; D.33.7.16.2 Alf. 2 a Paul. epitomat.)[69]. Resta ancora da capire se la realizzazione di stoffe nelle grandi fattorie fosse votata alla sola autarchia o anche a produrre un surplus riservato all’esportazione[70].

È altrettanto possibile che nelle zone rurali e meno urbanizzate il lanificium domestico avesse luogo in ambienti familiari meno agiati: erano molte, infatti, le famiglie nelle campagne i cui membri usavano vestiti creati dalle donne di casa[71]. Allora, se si considera l’epoca in cui il testo alfeniano fu epitomato, è verosimile che la uxor di cui in D.32.60.2 utilizzasse in un quadro analogo la “lana”, il “linum” e la “purpura” per il confezionamento degli indumenti dei suoi familiari (situazione identica a quella ipotizzata poco sopra in riferimento alla seconda metà del i sec. a.C.).

Quanto al settore manifatturiero urbano, si può dire che dal I sec. d.C. laboratori artigianali e imprese cominciarono a farsi carico stabilmente del lavoro di produzione delle vesti, mentre la filatura continuò a essere prerogativa di donne e bambini, la tessitura diventò appannaggio per lo più degli uomini: i tessitori, infatti, che lavoravano nelle officinae erano più spesso maschi (“textores”), il che si può anche spiegare con il fatto che si trattava di un’attività fisicamente più pesante che implicava una tecnologia più avanzata di quella richiesta per la filatura[72]. Gli indumenti realizzati nelle officinae presentavano, come già nella tarda repubblica, tipologie e caratteristiche diverse a seconda del genere di clientela disposta ad acquistarli: mentre i più facoltosi richiedevano un abbigliamento molto raffinato fatto di tessuti pregiati e frutto del lavoro di professionisti abilissimi, le persone con pochi mezzi acquistavano vestiti confezionati con tele di mediocre qualità, poco rifiniti e opera di manifatture a conduzione familiare o di rami dell’artigianato tessile che prediligevano la «produzione di “massa”» [73].

La filatura,peraltro, fu sempre considerata un’attività più “femminile”, al punto che essa finì con l’essere concepita come l’occupazione muliebre per eccellenza alla quale fu impossibile per gli uomini essere associati senza essere tacciati di omosessualità[74].

Non si può, infine, escludere che un artigianato a conduzione familiare sia fiorito anche in certe zone dell’agro italico (soprattutto nelle piccole fattorie)[75].

Dunque, tenuto conto del periodo storico dell’epitomatore Paolo, si potrebbe immaginare che in D.32.60.2 il testatore fosse il titolare di un’azienda a conduzione famigliare di piccole dimensioni, situata in campagna, ove era obiettivamente più semplice approvvigionarsi di fibre tessili grezze da lavorare (nella sostanza, questa ipotesi è paragonabile a quella avanzata poco sopra in relazione alla seconda metà del i sec. a.C).

Malgrado questi cambiamenti, i Romani, cionondimeno, per tutta l’età imperiale continuarono a celebrare la matrona che avesse conservato la pratica di filare e tessere la lana in casa (si pensi, ad es., all’imperatore Domiziano, che si sforzò di riesumare alcuni dei fondamenti morali e politici propugnati dal primo princeps di Roma, nel tentativo di identificare la politica del suo regno con quella culturale e sociale augustea)[76].

Alcuni specialisti[77], in presenza di vari reperti archeologici e di informazioni talvolta discordanti provenienti dalle fonti letterarie, ritengono di non essere ancora in grado di determinare con esattezza entro quali limiti si ponesse la lavorazione domestica della lana e in che misura questa si rapportasse con la produzione artigianale durante l’impero, il che tra l’altro si lega al problema dell’artificiosità della differenza tra l’artigiano e il domestico in un contesto sociale in cui una certa quantità di prodotti di natura artigianale era realizzata nelle domus[78] e nelle villae[79]. Inoltre, la manifattura professionale e la produzione domestica erano spesso collegate tra loro: ad es. le matres familias che tessevano in casa impiegavano di frequente filati che erano stati in precedenza colorati presso tintorie specializzate (come probabilmente la legataria di cui in D.32.60.2), mentre le tele appena tessute dovevano poi essere sottoposte alla follatura e al finissaggio, attività che erano prerogativa dei fullones[80]. Quindi l’ideale dell’autoconsumo, che propugnava la produzione di abiti per tutta famiglia da parte della donna di casa impegnata nel lanificium, poteva funzionare soltanto là dove i familiari si fossero accontentati di stoffe dal colore naturale e con poche rifiniture[81].

A parere di altri studiosi[82], comunque, nella piena età imperiale si sarebbe instaurata una sorta di interdipendenza economica fra la città e la campagna dovuta all’incapacità delle aree urbane (distinte da quelle agricole dello stato-città) di badare autonomamente ai propri bisogni manufatturieri: i cittadini, infatti, erano privi delle risorse, del tempo e delle abilità necessarie per preparare la lana e realizzare i tessuti; per questo è verosimile che essi indossassero abiti già confezionati o di seconda mano[83]. In effetti, esisteva in ogni città un mercato dei tessuti per soddisfare il quale non avrebbe potuto bastare l’organizzazione domestica e, mentre le classi sociali più agiate acquistavano a prezzi elevati stoffe e vestiti creati con le fibre più raffinate e riccamente lavorati da artigiani specializzati, i meno abbienti, quando non realizzavano gli abiti in casa, li compravano sul mercato a prezzi bassi perché fatti con panni più grezzi e poco rifiniti: il che tra l’altro comportava una diversificazione tra gli artigiani e i commercianti che si occupavano di stoffe pregiate e quelli che invece trattavano merce meno cara[84].

Del resto, il sistema di organizzazione della manifattura tessile votata al commercio sotto la guida del c.d. “mercante imprenditore” si era ormai consolidata in età imperiale: si pensi, ad es., ad alcune imprese pompeiane in cui lavoravano insieme filatrici e tessitori, che potrebbero anche essere la prova del tentativo, nelle zone più economicamente sviluppate delle province occidentali, di instaurare un apparato di produzione volto a superare i volumi della piccola azienda a conduzione familiare, che era invece il modulo predominante in Egitto[85], o alle officinae promercalium vestium di Q. Remnius Palémon nell’ager Nomentanus (prima metà del ii sec. d.C.)[86].

Ma quali erano, nell’ambito della filiera tessile artigianale e domestica, le lane più pregevoli e quelle meno? Questo interrogativo rileva ai fini dell’interpretazione del caso descritto da Alfeno ed epitomato da Paolo nella parte in cui si ricorda la presenza, nella casa dell’ereditando, di “multa lana et  o m n i s  g e n e r i s ”. In altri termini, il richiamo alla lana «omnis generis» potrebbe sottintendere che, fra i tipi di lana lasciati alla rinfusa, alcuni fossero più adatti a un uso domestico, altri, invece, a finalità commerciali.

La lana, com’è noto, nel mondo romano era la fibra tessile più importante ed era tratta principalmente dalle pecore[87].

Negli scritti di gran parte degli agronomi (i sec. a.C. - i sec. d.C.)[88], le pecore che regalavano la lana migliore erano considerate quelle dotate di un vello lungo, soffice e ricco, distribuito uniformemente su tutto il corpo, specialmente sulla nuca, sul collo e sulla pancia[89]. Gli antichi scrittori distinguevano le razze ovine a seconda delle caratteristiche fisiche o del particolare colore del vello e spiegavano che determinate lane erano prodotte in luoghi specifici[90].

Due erano i tipi principali di pecora: la pecora c.d. “coperta” (“tectum pecus”) e quella che viveva nelle masserie (“colonicum pecus”)[91]. La prima forniva una lana più soffice (“pecus mollius”), mentre la seconda presentava un vello ispido[92]. L’appellativo “coperta” era dovuto al fatto che, per evitare che il vello particolarmente pregiato si riempisse di lappole[93] o si sporcasse durante il pascolo, lo si proteggeva con coperte di lana (di cui le migliori erano di lana arabica) o con pelli (il vello sporco, del resto, non avrebbe potuto essere tinto bene, tanto meno lavato o candeggiato, come rilevava Varrone[94])[95].

Per queste due categorie di pecore (coperte e allevate nelle masserie) valeva la regola secondo cui, se piaceva la lana bianchissima, era necessario scegliere maschi assolutamente candidi perché, se da padre bianco potevano di frequente venire alla luce agnelli neri, era pur vero che da padre rosso o bruno non nasceva mai una prole candida[96]. A tale riguardo, si osserva che i velli delle varie razze ovine presentavano diversi tipi di colori naturali, ciascuno dei quali aveva un differente pregio[97]. Secondo Columella[98] il bianco era il migliore non soltanto per bellezza, ma anche per utilità: da esso infatti (tramite l’incrocio con razze di diverso colore) si potevano trarre molte altre tonalità, da cui invece non si poteva ricavare il bianco[99]. Accanto alle pecore e agli arieti dal vello candido, ne esistevano altri di colore differente, come, ad es., le razze dalla tinta (molto probabilmente) scura e nera di Pollenzo (in Italia)[100] e di Cordova (nella Betica), quelle rossicce della provincia d’Asia e della Betica, la lana fulva di Canosa e quella di Taranto dal colore scuro particolare[101]. Si osserva per inciso che, mentre Columella[102] afferma che le lane di Pollenzo sono scure (e ciò trova riscontro sia in Marziale[103] che in Silio Italico[104]), Plinio[105] annovera le stesse lane fra quelle bianche[106]: secondo alcuni studiosi[107], pur mancando prove risolutive a favore dell’una o dell’altra visione, si potrebbe tuttavia ipotizzare con molta cautela che le lane di Pollenzo fossero scure o nere.

Al tempo di Columella[108] erano particolarmente rinomate le lane della Gallia (fra cui soprattutto quelle di Altino) e quelle provenienti dai Campi Macri fra Parma e Modena, mentre all’epoca del padre dell’agronomo le migliori erano verosimilmente le lane tarentine (della qualità degli ovini coperti), seguite da quelle calabresi, apule e di Mileto[109].

Nell’età di Plinio[110], invece, il primo posto spettava alla lana della Puglia, il secondo a quella che in Italia veniva chiamata lana “greca” e altrove “italica”(cioè quella delle pecore coperte), il terzo alla lana di Mileto; inoltre, tra le lane bianche, la più preziosa era quella prodotta dalle pecore circumpadane[111], mentre erano ritenute pregevoli le lane della Galazia (in Asia Minore) e dell’Attica[112].

Quanto poi alle lane della Liguria in generale, pare che queste servissero per l’abbigliamento degli schiavi (il che è confermato sia in Strabone[113] che in Marziale[114])[115].

In ultima analisi, nel mondo romano esistevano almeno tre tipi di lane destinate alla filiera tessile: c’erano quelle fini (con cui si creavano stoffe di lusso), quelle di media qualità (che servivano per la confezione degli abiti di uso quotidiano), quelle più grossolane (con cui si realizzavano i vestiti degli schiavi[116] e dei contadini); a questi tre generi si deve aggiungere la borra della lana, con cui si tessevano i tappeti o di cui si riempivano i materassi secondo, in quest’ultimo caso, una moda gallica[117].

Dunque, è possibile che in D.32.60.2 alcuni tipi di lana (presumibilmente i più raffinati) fossero destinati alla vendita, altri (magari meno costosi) al lanificium domestico.

 

3. La giurisprudenza prevalente in tema di “lana”, “linum”, “versicoloria” e “purpura” oggetto di legati anche alla luce delle tecniche di lavorazione della filiera tessile: le diverse visioni di Ulpiano e Paolo

 

A questo punto, appare interessante accertare che cosa verosimilmente si intendesse nel testo per “lana”, “linum” e “purpura” nell’ambiente socio-economico del caso esposto da Alfeno ed epitomato da Paolo. In mancanza di fonti da cui emerga il pensiero di Alfeno sul punto, può essere utile cercare di ricostruire il contenuto del legato di cui in D.32.60.2 alla luce della visione di Paolo: il frammento, infatti, proviene dall’epitome curata da quest’ultimo e riflette verosimilmente un caso ancora attuale nella prima metà del iii sec. d.C.[118].

La fonte più significativa in proposito è il lungo fr. 70 D. 32, tratto dal xxii libro del commentario di Ulpiano ad Sabinum, dove si effettua un’analisi terminologica delle diverse fibre, sia animali (come la lana di pecora, lepre, capra, inclusa la piuma d’oca)[119], sia vegetali (come il cotone e il lino), destinate a essere lavorate ai fini soprattutto della confezione di stoffe, vestiti e accessori, lasciate in legato.

Questo testo presenta pesanti problemi interpretativi, il che ha indotto Mommsen, nell’edizione critica dei Digesta (maior e minor), a suggerire in nota alcuni rilevanti cambiamenti[120], che furono ripresi dagli editori del c.d. “Digesto Milano”[121] e in piccola parte da Lenel nel secondo volume della Palingenesia Iuris Civilis[122], consistenti, ad es., nello spostamento di intere frasi da un paragrafo all’altro o nella sostituzione di un termine all’altro in seno al singolo paragrafo[123]. Basti dire, in questa sede, che tali proposte rendono il testo comprensibile e chiaro e che non soltanto tengono conto del normale ordine di successione delle fasi di lavorazione della lana e del lino, ma sono anche in grado di ripristinare una coerenza logica all’interno di pr.-4, 11 e 12 D. 32.70 e fra questi e altri passi del Digesto e delle Pauli Sententiae in materia di legati di vestis o vestimenta[124]. Per questa ragione appare indispensabile accogliere tali suggerimenti, la cui ineludibilità è stata ulteriormente dimostrata in una mia recente ricerca sulla base delle notizie provenienti dalle fonti letterarie e dai risultati delle ricerche antichistiche e delle scoperte archeologiche più recenti[125]. E la grandezza dello studioso è amplificata dal fatto che questi, all’epoca in cui formulò tali congetture, non poteva contare né sull’apparato di studi antichistici innovativi e aggiornati, né sulla messe di risultanze archeologiche di cui si dispone attualmente[126].

Naturalmente, ai nostri fini, non rilevano qui i §§ 5-9 del frammento perché non direttamente coinvolti nell’oggetto di questo studio.

Si riporta, sotto, il contenuto di pr.-4,10-13 D. 32.70 ponendo nel testo in tondo i suggerimenti che Mommsen propone nelle note delle edizioni critiche summenzionate e in nota la versione tràdita del principium e dei paragrafi successivi:

 

Si cui lana legetur, id legatum videtur quod tinctum non est, sed ατοφνές: et constabat apud veteres lanae appellatione versicoloria non contineri[127]. 1. Sive autem pectita est sive inpectita, lanae appellatione continetur[128]. 2. Quaesitum est, utrum lanae appellatione ea sola contineatur quae neta non est an et ea quae neta est, ut puta stamen et subtemen: et Sabinus et netam contineri putat, cuius sententia utimur netam autem esse quae neque detexta neque contexta sit[129]. 3. Lanae appellationem eatenus extendi placet, quoad ad telam pervenisset. 4. Et sciendum sucidam quoque contineri et lotam, si modo tincta non sit. 10. Linum autem lana legata utique non continebitur. 11. Lino autem legato tampectitum quam inpectitum continetur quodque netum quodque in tela est, quod est nondum detextum. ergo aliud in lino quam in lana est. et quidem si tinctum linum sit, credo lino continebitur[130]. 12. Versicoloribus videndum est. versicoloribus legatis constat ea omnia videri legata, quae tincta sunt, et neta, quae neque detexta neque contexta sunt. proinde quaeritur, an purpura appellatione versicolorum contineatur. et ego arbitror ea, quae tincta non sunt, versicoloribus non adnumerari et ideo neque album neque naturaliter nigrum contineri nec alterius coloris naturalis: purpuram autem et coccum, quoniam nihil nativi coloris sunt, contineri arbitror, nisi aliud sensit testator[131].13. Purpurae autem appellatione omnis generis purpuram contineri puto: sed coccum non continebitur, fucinum et ianthinum continebitur. purpurae appellatione etiam subtemen factum contineri nemo dubitat: lana tinguendae purpurae causa destinata non continebitur.

 

Senza soffermarsi sul confronto testuale fra la versione tràdita e quella proposta da Mommsen[132], si possono tuttavia svolgere alcune considerazioni di massima sulla visione ulpianea della disciplina dei legati di “lana”, “linum”, “versicoloria” e “purpura” alla luce dei suggerimenti dell’editore.

Dalla parte introduttiva di D.32.70 (pr.-4)[133] emerge che la “lana” oggetto di legato èintesa da Ulpiano prima di tutto come lana di pecora[134], purché non artificialmente colorata[135].

Peraltro, ad avviso del giurista, la lana legata può trovarsi sotto forma di:

1) lana grassa appena tosata o strappata (“sucida”): cfr. § 4 fr. 70 D. eod.;

2) lana lavata, eventualmente lavorata con l’olio e quindi sottoposta a districatura (“lota” e “inpectita”): cfr. § 1 fr. 70 D. eod.;

3) lana cardata o pettinata (“pectita”): cfr. § 1 fr. 70 D. eod.;

4) lana filata («neta»): cfr. § 2 fr. 70 D. eod.;

5) lana i cui fili dell’ordito sono montati sul telaio e quelli della trama avvolti nella “spola”[136], senza che tuttavia la tessitura abbia avuto inizio (“ad telam perventa”): cfr. § 3 fr. 70 D. eod.

Come si vede, sulla scorta delle modifiche ipotizzate da Mommsen, il pr. e i §§ 1-4 D.32.70 riflettono il normale ciclo di lavorazione della lana. Questo probabilmente iniziava con la c.d. “lavatura”[137], cui seguivano (l’eventuale) colorazione[138], la cardatura o la pettinatura, la filatura e la tessitura[139].

Se la lana “sucida” in D.32.70.4 è la lana grassa appena tosata, quella “lota” del § 1 fr. 70 D. eod. è quella che veniva:

1. “purgata”, cioè privata di gran parte della lanolina e delle impurità stando, in antico, in ammollo in tre quarti d’acqua e uno di urina e, in epoca successiva, in tre quarti d’acqua e uno di saponaria in calderoni di bronzo[140];

2. risciacquata con acqua corrente e stesa ad asciugare[141];

3. privata a mano dei piccoli pezzi di sterpaglia pungente, delle lappole o delle spine delle erbacce rimati nonostante la lavatura[142];

4. eventualmente lavorata con l’olio per evitare l’infeltrimento[143];

5. sottoposta a districatura, che, eliminando i nodi, serviva a distinguere le fibre più sottili da quelle più grezze[144].

La lana “lota” di cui in D.32.70.4 non era cardata o pettinata (cioè era “inpectita”: cfr. § 1 fr. 70 D. eod.).

In D.32.70.1 la lana “inpectita” è verosimilmente quella “lota” non ancora cardata o pettinata, mentre “pectita è quella che veniva cardata o pettinata al termine del processo di lavatura appena descritto[145]. La cardatura e/o pettinatura servivano a ulteriormente districare la lana per togliere i nodi e così separare le fibre le une dalle altre sino a renderle parallele, oltre che a liberarla da tutte le impurità[146]. Non è da escludere che la cardatura servisse a districare velli con fibre corte, mentre la pettinatura si applicasse a velli a fibre lunghe[147].

La lana “neta” indicata nel § 2 fr. 70 D. eod. è, come anticipato, quella filata. In linea generale, la filatura era un insieme di operazioni con cui si tendevano e si torcevano le fibre in un filo continuo[148].

Come si è visto, ad avviso di Ulpiano D.32.70.3, la nozione di “lana legata” può spingersi sino a ricomprendere la lana i cui fili dell’ordito siano montati sul telaio e quelli della trama avvolti nella spola, senza che tuttavia la tessitura abbia avuto inizio (“ad telam perventa”)[149]. È plausibile che il giureconsulto, nell’accennare alla “tela” intendendola come “telaio”, alluda qui alla tipologia di telaio “a doppio subbio”: siamo infatti in un periodo (prima metà del iii sec. d.C.) in cui il telaio “a doppio subbio” era ormai generalmente diffuso per la tessitura della lana, mentre è verosimile che quello a pesi fosse ancora impiegato per la tessituradel lino[150].

Occorre ricordare che la tessitura consisteva nell’intrecciare i fili verticali dell’ordito con quelli orizzontali della trama: per realizzare ciò, i fili verticali dell’ordito dovevano essere fissati a un telaio perpendicolarmente e i fili della trama essere fatti passare orizzontalmente sopra e sotto quelli dell’ordito tramite una “spola” o “rocchetto” o “bambolina” oppure una “navetta”[151].

Quindi, riassumendo, in base a D.32.70 pr.-4 Ulp. 22 ad Sab. la “lana” oggetto di legato èprincipalmente quella di pecora, purché non artificialmente colorata e nello stato di lana“sucida”, “lota”, “pectinata”, “neta” o “ad telam perventa”.

Simili circostanziate osservazioni non trovano tuttavia spazio nella totalità dei testi pervenutici connessi alla tematica in esame: ad es. le Pauli Sententiae (III 6.82) includono nel legato di lana soltanto la lana sucida, quella lavata ed eventualmente passata nell’olio e districata, quella colorata (ma, come si vedrà, non di purpura), quella pettinata ma non filata[152]:

 

Lana legata, siue sucida siue lota sit siue pectinata sive uersicoloria, legato cedit: purpura uero aut stamen subtemenue hoc nomine non continentur.

 

Ulpiano e il giurista delle Pauli Sententiae, per contro, convengono nell’ammettere che il legato di lana si distingua da quello di vestis o vestimenta perché soltanto nel secondo è compresa la pezza di stoffa interamente tessuta (D.34.2.22. Ulp. 22 ad Sab.; D.32.52.5 Ulp. 24 ad Sab.; Paul. Sent. III 6.79; III 6.85)[153].

Pertanto, giacché nel frammento di Alfeno qui esaminato la lana è descritta come tutta mescolata insieme, è verosimile che essa si trovasse allo stadio di lana sucida, lota e inpectita oppure pectita, ma non neta (il filato, infatti, si raccoglieva di norma in matasse che si fissavano ad appositi anelli di metallo)[154], tanto meno montata su un telaio.

Riguardo poi al lino, si rileva che nel mondo romano questa pianta non era considerata né un cereale, né un ortaggio[155]: si spiega così la decisione Ulpiano (D.32.70.10) di escludere il lino dal legato di lana (a differenza, ad es., del cotone – la c.d. “de ligno lana” –, che, nonostante la sua origine vegetale, ad avviso del giurista vi rientra per il fatto di derivare da una « l a n u g i n e  di semi vegetali»[156]: v. D.37.70.2)[157].

Ulpiano (D.32.70.11)[158] sostiene quindi che il legato di lino può avere per oggetto il lino:

1. non pettinato (“inpectitum”), ossia allo stadio di fibra separata dalla parte centrale legnosa in seguito alla battitura con un apposito martello da stoppa, detto “stupparium malleum”, o, più ampiamente, la fibra nei diversi stadi anteriori alla pettinatura, cioè dalla raccolta della pianta alla battitura con il relativo stuppiarium malleum;

2. pettinato (“pectitum”), vale a dire totalmente privato della scorza grazie alla cardatura con pettini di ferro delle fibre ottenute in precedenza con la battituta del martello da stoppa;

3. filato (“netum”)[159];

4. filato e in opera sul telaio ma di cui non si sia ancora terminata la tessitura («quodque netum quodque in tela est, quod est nondum detextum»)[160];

5. artificialmente colorato («tinctum»)[161].

Quanto al lino «tinctum», si rileva che il lino veniva colorato con la porpora e, in alternativa, con tinture vegetali come lo scotano (che dava il giallo o l’arancio)[162], ma in misura minore rispetto alla lana e con risultati spesso deludenti perché la sua struttura generava un assorbimento scadente delle sostanze coloranti[163]; si spiega così, ad es., perché si preferissero tingere di porpora i fili di lino, non le stoffe[164].

Come si può notare, anche il § 11 fr. 70 D. eod., sulla scorta delle modifiche ipotizzate da Mommsen, rispecchia i passaggi propri del processo di manifattura del lino così come sono descritti da Plinio[165] e che qui si riportano succintamente: 1) essiccazione delle piante in piccoli fasci; 2) ammollo in acqua tiepida; 3) nuova essiccazione; 4) battituta con un martello da stoppa; 5) cardatura; 6) filatura, bagno e seguente martellatura dei fili; 8) eventuale colorazione; 7) tessitura[166].

Purtroppo non si sa quasi nulla dell’organizzazione della manifattura del lino[167], salvo che i “linarii” erano coloro che filavano o commerciavano il lino filato e forse anche quello tessuto, mentre i “lintiones” o “linteones” erano i tessitori professionisti di lino[168]. Infine, i “negotiatores lintiarii” erano coloro che importavano il lino dall’Egitto[169]. Evidentemente anche in questo ambito della filiera tessile poteva accadere che l’artigiano si confondesse con il commerciante qualora il venditore di taluni articoli ne fosse anche il produttore[170]. Come si vedrà più avanti, questa potrebbe essere la situazione dell’ereditando di cui in D.32.60.2.

Nella parte conclusiva del frammento (§ 12)[171] Ulpiano si occupa dei legati dei c.dd. “versicoloria”, terminein cui fa rientrare i filati artificialmente colorati che non siano in corso ditessitura e tanto meno siano interamente tessuti (altrimenti, almeno in questa seconda ipotesi, farebbero parte del legato di abbigliamento)[172].Sono esclusi da tale nozione, invece, i filati naturalmente bianchi, neri o di altro colore, mentre vi sono compresi i filati tinti di “purpura” o di “coccum” perché questi erano coloranti artificiali. Si tratta peraltro di indicazioni di massima, che potevano essere disattese dal testatore. Il significato delle parole “purpura” e “coccum” presenti in questo paragrafo si può intendere alla luce di ciò che Ulpiano dirà subito dopo, nel § 13, a proposito della “purpuraeappellatio.

Questa, a parere di Ulpiano (§ 13)[173], include, come colorante, “omnis generis purpura”, compresi il «fucinum» e il «ianthinum», escluso tuttavia il «coccum»[174]. Ma per “purpura” il giurista intende anche il prodotto finale dell’operazione di tintura, cioè la lana grezza lavata e il filato («subtemen factum», cioè il filo di “trama fatta”) tinti di purpura[175].

Vedremo come le nozioni di “versicoloria” e “purpura” non combacino nella visione, rispettivamente, di Ulpiano e Paolo e quanto questo possa influire sulla nostra ricostruzione ipotetica del significato di “purpura” nel passo di Alfeno in esame.

Com’è noto, nella tintura tessile del mondo antico esistevano in generale almeno tre tipi di colori considerati “artificiali”: i colori di origine animale (principalmente tratti dai molluschi – si pensi, ad es., al murice e alle porpore, da un lato, al “coracinum”, una lumaca di mare da cui si ricavava il nero corvino, dall’altro –), i colori di orgine vegetale (come, ad es., quelli che si ottenevano dal “coccum”, erroneamente ritenuto dagli antichi una bacca della quercia, in realtà un insetto parassita della stessa pianta, il c.d. “Chermes”/“Kermes”, “Coccus ilicis” o “cocciniglia”), i colori di origine minerale (come, ad es., l’“atramentum”, cioè il solfato di ferro o di rame, che dava il nero se unito con l’estratto delle noci di galla, oppure il gesso, che dava il bianco)[176].

In particolare, tra i colori di origine animale, quelli che si traevano dai succhi di due tipi di molluschi, rispettivamente, il “murex” o “bucinum” (“murice” o “buccino” del tipo “a trombetta”), ela “purpura”o “pelagia” (“porpora” o “porpora marina” del genere “porpora”)[177], appartenevano al novero delle c.dd. “porpore marine”[178].

Pur essendo i due termini “murex” e “purpura” riservati all’inizio a varietà diverse, essi venivano spesso utilizzati per alludere in generale a tutti i molluschi della porpora, di qualsiasi tipo questi fossero[179]. A sua volta, il vocabolo “purpura” alludeva tanto al mollusco della porpora in sé, quanto all’insieme di questi molluschi, ma anche alla sostanza industriale e al colore[180]. Inoltre, parole come “concha”, “conchylium” e “ostrum”, che di per se stesse indicavano innanzi tutto la “conchiglia”, erano talvolta impiegate (insieme ai loro derivati) nel senso di “conchiglie della porpora” o addirittuta di “colore della porpora”[181].

Le purpuraepelagiae” erano di vario tipo a seconda del genere di alimentazione e delle peculiarità del terreno su cui ciascuna prosperava (“genus” “lutense”, “algense”, “taeniense”, “calculense” e “dialutense”)[182].

Il colore che si ricavava dal murice e dalla porpora era un prodotto di lusso, equiparabile per valore alle perle[183], e fu, sin dalle origini, rappresentativo del prestigio e dei valori dell’élite aristocratica romana (oltre che del successo raggiunto dai nuovi ricchi)[184]. Del resto, la porpora si caratterizzava per le sue tonalità brillanti e soprattuto per la sua stabilità: mentre ad es. i coloranti vegetali nel lungo periodo sbiadivano sotto l’influenza della luce, la porpora non degenerava, anzi, assumeva con l’invecchiamento riflessi nuovi[185].

Le porpore migliori provenivano da Tiro[186] e Sidone (entrambe nella provincia d’Asia)[187], da Meninge (nella provincia d’Africa), dalla costa dell’Africa nord-occidentale abitata dai Getuli e dalla Laconia (in Europa), come risulta anche da qualche frammento del Digesto (D.32.58 Ulp. 4 disp.; D.34.2.4 Paul. 54 ad ed.) e da un passo delle Istituzioni gaiane (Gai. IV 53d) da cui emerge in particolare l’allusione alla fama acquisita nel mondo romano classico dalla porpora di Tiro come quella di migliore qualità e maggior prezzo rispetto a tutte le altre[188].

Ma esistevano anche industrie di minore importanza per la produzione della porpora in Italia (cioè ad Ancona, Aquino, Pozzuoli, Taranto, Siracusa), in Grecia, in Gallia e in Spagna[189].

In linea generale, le varie tonalità erano il frutto di reazioni fotochimiche ottenute in seguito all’asciugatura al sole della fibra impregnata dei succhi dei molluschi già macerati e bolliti[190]. La fibra immersa nel liquido prodotto dal bucinum diventava prima gialla, poi, una volta esposta alla luce del sole e all’aria, subiva una serie di mutamenti fino a trasformarsi in rosso purpureo o scarlatto[191]. La purpura, invece, si convertiva fotochimicamente in un violetto blu profondo[192].

Ma gli artigiani ottenevano varie sfumature e tonalità anche mescolando insieme in quantità diverse i succhi dei due tipi di mollusco (bucinum e pelagium)[193]. Si pensi, ad es.: 1) al “coccum” (detto anche “phoenicius” o “poenicius”), cioè il “rosso scarlatto” (una tinta carica e duratura, molto ricercata e giudicata di maggior pregio)[194]; 2) all’“amethystinum” (detto così dalla pietra omonima), cioè il colore “ametista”, la cui tonalità era molto simile a quella della viola della qualità “purpurea” (“purpurea”), in greco “α” (da cui l’appellativo “ianthina”,detto del colore della “vestis”), altrimenti chiamato purpuraianthina”, “hyacinthina” o “violacea[195].

In alternativa si conseguivano gradazioni differenti di colore sottoponendo le fibre a bagni separati di succhi dei molluschi[196]. Si considerino, ad es.: 1) la “purpura dibapha” o “purpura Tyria” (“porpora tiria”), ottenibile imbevendo la lana prima di “pelagium” (quando il prodotto non era ancora maturo ed era verdognolo), poi di “bucinum[197]; 2) il “Tyrianthinum”, che si ricavava da un primo bagno nel hyantinum seguito dal doppio bagno tiriano (prima nel pelagio, poi nel buccino)[198] e il cui nome era il risultato della fusione delle denominazioni, “hyantinum” e “purpura Tyria”, dei due coloranti che ne formavano parte[199].

Accanto ai colori che si traevano dalle porpore e dal buccino, esistevano quelli “di conchiglia”[200]. I colori di conchiglia erano tenui e delicati e per la colorazione delle fibre il procedimento era identico a quello precedentemente descritto per la porpora, salvo che in questo caso non si utilizzava il buccino, ma il succo della purpura appartenente al “genus” «calculense» (chiamato così dai sassolini – “calculi” – del mare) insieme ad acqua e in parti uguali urina umana con l’aggiunta, per metà, di “medicamina”, che, secondo gli autori antichi, potevano essere, segnatamente, il miele, la farina di fave o, soprattutto, il “phycos thalassion”, cioè il “fuco marino”, simile alla “lattuga” (“phycos” era la forma latina del greco “φκος”, mancando in latino una parola equivalente: “phycos”, infatti, alludeva a un “arbusto”, mentre con il latino “alga”, che forse avrebbe potuto avvicinarsi a quel vocabolo, ci si riferiva alle “erbe marine”)[201]. Vi erano alcuni tipi di phycos thalassion, di cui il più diffuso era quello che cresceva sulle coste rocciose cretesi e la cui qualità migliore veniva da quelle settentrionali: doveva trattarsi di un lichene (inteso come associazione simbiotica tra un fungo e un’alga), dal colore rossiccio, oggi detto “Roccella tinctoria” od “oricello”, che serviva a tingere di rosso se usato da solo e trattato con urina fermentata e ossido di calcio[202].

Vi era poi l’“hysginum”, dalla tonalità rosso violacea, che nasceva dalla colorazione con la purpura Tyria di ciò che era già stato tinto di rosso scarlatto con il “coccum”, identificato erroneamente dagli antichi con una bacca prodotta da una determinata quercia (“quercus coccifera”), anche se in realtà si trattava di un insetto (“Coccus ilicis”) che viveva su quell’albero[203]. Si trattava dunque di una cocciniglia, i cui esemplari femminili, nel portare in grembo le uova (destinate a liberare il colore), assumevano l’aspetto di bacche (“cocci”) pendenti dai rami: queste femmine venivano raccolte prima della schiusa delle uova stesse, uccise tramite esposizione all’aceto, messe a essiccare e poi immerse nell’acqua in modo che il principio colorante vi si sciogliesse e, a seconda del successivo contatto con sostanze alcaline o acide, desse tonalità comprese fra il rosso mattone e il violetto[204].Quindi, per ottenere l’hysginum, era necessario che le fibre venissero prima colorate con il succo ottenuto dalle pseudo bacche contenenti le uova, schiacciate e liquefatte, delle femmine del Chermes, poi tinte una seconda volta con un miscuglio di mordenti di orgine minerale e di porpora tiria[205].

Ma l’hysginum poteva anche derivare dal c.d. “hyacinthus” della Gallia, forse il “Vaccinium Uliginosum”, cioè il mirtillo di palude, identificabile con un frutice delle zone umide di montagna dalle cui bacche azzurro-nerastre si traeva un colore purpureo (rosso violaceo) per l’abbigliamento servile[206].

Talvolta, poi, la “creta argentaria[207] (una marna calcarea bianca dalla consistenza molto fine) veniva aggiunta al bagno di porpora insieme ai tessuti di lana da tingere. La creta argentaria assorbiva il succo più velocemente delle lane: ne nasceva così un colore, il “purpurissimum” (usato anche in pittura), che era il risultato della fissazione della tinta di “purpura” sulla creta[208]. In questo modo la lana si tingeva di una tonalità meno intensa di quella che si avrebbe avuto in mancanza della creta nel bagno di porpora[209].

Il fucus e il coccum (intesi entrambi come coloranti vegetali) venivano anche utilizzati da soli per imitare, rispettivamente, il colore della porpora[210] e il rosso vivo e brillante derivante dall’unione, entro certe proporzioni, del succo del pelagio con quello del buccino (pare tra l’altro che le pseudo bacche della Galazia, dell’Africa e della Lusitania fossero impiegate per colorare di un rosso scarlatto i “paludamenta” dei generali vittoriosi)[211]. Accanto a queste tinte esistevano anche quelle simili ai colori della porpora tiria e di conchiglia e a tutte le altre sfumature che gli abitanti della Gallia Transalpina riproducevano grazie all’uso di erbe, tra le quali si può ricordare, ad es., il summenzionato Vaccinium Uliginosum[212].

Come sopra anticipato, l’unico inconveniente era che tutte queste tinte vegetali tendevano a perdere vivacità con l’utilizzo[213]: esse rientravano nei i c.dd. “medicamina terrena”, vale a dire le porpore c.dd. “erbacee” o “terrene”, che si distinguevano da quelle c.dd. “vere” o “marine” per il fatto di essere prive della principale caratteristica delle seconde, cioè la durevolezza[214].

Si può forse ritenere che tra le porpore erbacee si annoverasse anche la radice della robbia oppure l’unione di indigo e Kermes o di robbia e indigo[215]. Ma anche l’erba di guado pare che fosse utilizzata in Macedonia per ottenere nel campo tessile una tinta simile a quella della porpora, il che accadeva naturalmente quando si aveva bisogno del colore porpora a prezzi contenuti[216].

Un vegetale che, unito a un mordente, attribuiva alle fibre una gamma di colori che andavano dal marrone al rosso era invece la “robbia” (l’attuale “Rubia tinctorum”) o “garanza”, la quale, in presenza di condizioni molto particolari, dava anche un colore paragonabile a quello della porpora marina o del coccum[217]. Sembra che la robbia venisse utilizzata dai Romani per tingere di rosso gli indumenti militari[218].

Nella stragrande maggioranza dei casi la colorazione delle fibre avveniva a livello artigianale, salvo qualche rara eccezione in cui essa veniva svolta in casa[219]. In base all’opinione tradizionale, il sostantivo maschile “purpurarius”, assai frequente nelle iscrizioni[220], designava il tintore di porpora, l’artigiano che la fabbricava o il mercante che ne faceva commercio (il quale era anche detto “negotiator artis purpurariae” o “purpurae venditor”): fra tutti costoro pare che fossero molto numerosi i liberti o i loro discendenti di origine greca e orientale[221]. Si può anche pensare che i purpurarii o importassero la porpora già lavorata dai Paesi vicini o la producessero e la vendessero essi stessi a livello locale in Italia[222]. Essi, pertanto, costituivano un gruppo di individui scelti di entrambi i sessi, con abilità imprenditoriali, dotati della capacità di produrre o vendere nei rispettivi laboratori-negozi una molteplicità di prodotti di lusso legati alla porpora[223] e non soltanto al tessile[224]. L’industria della porpora, rappresentata dalle c.dd. “officinae purpurariae[225], cioè i laboratori in cui gli operai preparavano la porpora e con questa tingevano le fibre, i filati o le stoffe (in genere di lana, talvolta di seta, ma anche di lino benché senza successo), si chiamava ars purpuraria[226]. Esistevano non soltanto le officinae purpurariae, ma anche le tabernae purpurariae, gestite, sia le une, sia le altre, dai purpurarii[227]. In base alla tesi più comune, le officinae purpurariae erano i laboratori in cui si produceva la sostanza industriale della porpora e con questa si tingevano le fibre, i filati o le stoffe, mentre le tabernae purpurariae erano i negozi in cui si vendevano a peso flaconi di materia colorante, matasse di lana colorata e stoffe purpuree apprettate[228].

Alla luce di tutto ciò, si potrebbe già azzardare che in D.32.60.2 con il termine “purpura” si alludesse sia alle fibre colorate, sia al colorante, destinati entrambi a soddisfare esigenze di carattere sia domestico che commerciale.

Per tornare ai §§ 12 e 13 D. 32.70, si osserva che nel § 12 nell’“appellatioversicolorum”:

1. non si annoverano i filati naturalmente bianchi o neri o di un altro colore naturale[229];

2. rientrano invece i filati colorati di “purpura” o di “coccum” proprio perché tinti artificialmente, a meno che il testatore non abbia disposto altrimenti.

Come si diceva, “purpura” e “coccum” hanno qui lo stesso significato che si ricava dal § 13, ove Ulpiano afferma innanzitutto che la “purpurae appellatio” include “omnis generis purpura”, compresi il “fucinum” e il “ianthinum”, ma escluso il “coccum”:

1. “il “fucinum” si può identificare con la tinta purpurea che si traeva della pianta del “fucus thalassion” (un lichene dal colore rossiccio di cui si è trattato sopra);

2. il “ianthinum” è una particolare tonalità purpurea tendente al viola e derivante dall’unione dei succhi di pelagio e buccino (entrambi molluschi di due varietà diverse di porpora marina);

3. il “coccum” è il colore rosso tratto da quella che erroneamente gli antichi identificavano con una bacca della quercia o del leccio, in realtà un insetto parassita, detto “Coccus ilicis[230]: d’altra parte, sono gli stessi antichisti[231] a informarci che il termine “coccum”, nel senso di “tinta” o “colore” che si estraeva da quell’insetto, è attestato nella lingua latina a partire da Orazio. Del tutto inaccoglibile, pertanto, appare la tesi di chi[232], a proposito di D.32.70.13, confonde il «coccum» con il colore rosso vivo e brillante che derivava dall’unione, entro certe proporzioni, del succo del pelagio con quello del buccino.

Tutto questo significa allora che Ulpiano include nella nozione di “porpora” sia le porpore marine[233], come, ad es., il «ianthinum», sia quelle erbacee o terrestri[234], come il «fucinum», a eccezione del «coccum»[235]. È difficile spiegare le ragioni di questa esclusione, visto che il fucinum condivideva con il coccum la provenienza erbacea[236]. Forse i motivi sono di carattere sociale e di costume: il coccum, infatti, il cui utilizzo fu introdotto nell’ambito della società romana in un’epoca relativamente recente (nella seconda metà del i sec. a.C.), fu sempre avvertito come una tinta che imitava, a un prezzo un po’ più basso, il colore tipico della porpora marina, da sempre rappresentativo del prestigio dell’élite aristocratica romana[237]. Era dunque il colore degli strati sociali inferiori e di chi, pur benestante, non appartenendo alla classe senatoria, usava essere tenuto a debita distanza dagli esponenti di quest’ultima[238].

Quanto poi all’inserimento espresso nell’“omnis generis purpura” del «ianthinum»,pur in presenza, al tempo di Ulpiano, di molti altri tipi di colori frutto di combinazioni o bagni di succhi di molluschi diversi dal giurista non citati, si può ipotizzare che si tratti della mera indicazione di una parte per il tutto: come a dire, cioè, che nell’“omnis generis purpura” è compreso l’insieme delle porpore marine, di cui il «ianthinum» è soltanto un esempio[239].

Come si accennava sopra, nella seconda parte del § 13 Ulpiano dichiara che non vi sono dubbi che per “purpura” si debba intendere anche il «subtemen factum», cioè il filo di trama («subtemen factum») tinto di purpura[240], mentre non si può considerare legata come “purpura” la lana che ancora non è stata colorata di porpora («lana tinguendae purpurae causa destinata»), anche se (negli intendimenti dell’ereditando) era destinata a essere tinta con questo colorante[241]. Non basta dunque che la lana fosse destinata (presumibilmente per volontà del de cuius) a essere colorata di porpora: è indispensabile che essa sia purpurea alla morte del testatore, il che induce a ritenere che, secondo Ulpiano, oltre al filo di trama colorato di “purpura”, nel legato sia compreso anche il vello che, una volta lavato, sia stato sottoposto ai procedimenti di tintura, quali emergono, ad es., dai resoconti pliniani[242].

Quanto, in particolare, al «subtemen factum», è possibile che il filato colorato di porpora cui allude il giureconsulto sia in primo luogo quello di lana: del resto, gli antichisti[243] informano dell’uso di intessere fili di trama purpurei di lana tra quelli dell’ordito nel corso della tessitura di abiti di linoper la creazione di decorazioni a forma circolare – gli “orbiculi, quadrata o rettangolare – le “tabulae” – o sotto forma di lunghe fasce verticali che partivano dalle spalle – i “clavi” – [244]. Ma tra questi filati tinti di porpora potrebbero rientrare anche quelli di lino: non soltanto Ulpiano aveva sottolineato nel § 12 che questa fibra si può legare anche “tincta”, sia filata, sia in corso di tessitura, ma gli stessi esperti[245] informano che, sotto forma di filato, il lino veniva colorato di porpora[246].

Queste osservazioni consentono adesso di comprendere a che cosa corrispondano nel § 12 la “purpura” e il “coccum” inclusi nel novero dei “versicoloria”. Per “purpura” facente parte dei “versicoloria” Ulpiano presumibilmente intende i filati colorati con le porpore marine o quelle erbacee, mentre per “coccum”i filati tinti con il succo della pseudo bacca del Kermes[247].

Più nello specifico, si può pensare che nel § 12 in seno ai “versicoloria” si trovino i filati colorati di “purpura”,che potevano essere sia di lana[248], sia di lino: infatti dal § 11 risulta che anche il lino (come appunto i “versicoloria”di cui al § 12) si può legare tinto e filato, anche se non ancora montato sul telaio[249]. Anzi, la genericità della definizione di “versicoloria”, come “tutto ciò che è stato artificialmente tinto e filato” (§ 12), induce a credere che vi possano rientrare i filati di qualsiasi fibra e colorazione: gli studiosi[250], ad es., rivelano che si coloravano di porpora perfino le matasse di seta serica[251].

 

§§§§

 

Passando quindi a esaminare quanto ci è pervenuto a proposito delle opinioni di Paolo sui legati “tessili”, ai fini della ricostruzione del significato che nel testo alfeniano in esame potrebbero avere i termini “lana”, “linum” e “purpura”, si può innanzi tutto notare come Paolo 2 ad Vitell. in D.34.2.32.6[252] sostenga la possibilità di legare la lana artificialmente colorata:

 

Labeo testamento suo Neratiae uxori suae nominatim legavit ‘vestem mundum muliebrem omnem ornamentaque muliebria omnia lanam linum purpuram versicoloria facta infectaque omnia’ et cetera. sed non mutat substantiam rerum non necessaria verborum multiplicatio, quia Labeo testamento lanam ac deinde versicoloria scripsit, quasi desit lana tincta lana esse, detractoque verbo ‘versicolorio’ nihilo minus etiam versicoloria debebuntur, si non appareat aliam defuncti voluntatem fuisse.

 

Il passo, tratto dal secondo titolo del trentaquattresimo libro del Digesto in tema di legati di oro, argento, corredo femminile, ornamenti, unguenti, abbigliamento e statue, si apre con la descrizione del contenuto del legato lasciato nel suo testamento dal giurista Labeone alla moglie Nerazia[253]. Considerato il genere di beni oggetto della disposizione testamentaria ivi riprodotta, è verosimile che il frammento si riferisca a un ambiente urbano medio alto, ove molto probabilmente la lavorazione della lana o del lino avvenivano in casa a opera di ancillae sotto la guida di una governante (lanipenda)[254].

Paolo descrive l’oggetto della disposizione predisposta «nominatim» a favore della consorte in questi termini: «... ‘vestem mundum muliebrem omnem ornamentaque muliebria omnia lanam linum purpuram versicoloria facta infectaque omnia’ et cetera. ...»[255]. Il de cuius, quindi, ha legato a Nerazia “il vestiario, tutto il corredo femminile e tutti gli ornamenti femminili, la lana, il lino, la purpura e tutti i versicoloria ‘lavorati’ e ‘non lavorati’” insieme ad altre cose[256].

Ad avviso del giurista, in questo caso la superfluità delle parole non cambia la sostanza del legato per il fatto che Labeone abbia indicato prima la “lana”, poi i «versicoloria», credendo che la “lana” non fosse “lana tinta”[257]. Infatti, prosegue il giurista, se anche si fosse tolto il vocabolo “versicolorius” (nella forma di aggettivo sostantivato plurale neutro «versicoloria»), cionondimeno anche la lana tinta sarebbe dovuta, a meno che non risulti una diversa volontà del defunto[258].

Il commento di Paolo al contenuto del legato di Labeone trova riscontro in Paul. Sent. III 6.82[259], secondo cui, quando si lega la lana, nella disposizione è compresa anche la lana «uersicoloria», cioè colorata:

 

Lana legata, siue sucida siue lota sit siue pectinata sive uersicoloria, legato cedit: purpura uero aut stamen subtemenue hoc nomine non continentur.

 

In questo testo si evidenziano sinteticamente prima ciò che è incluso nel legato di lana, cioè la lana appena tosata, quella lavata, quella pettinata, quella artificialmente colorata, poi ciò che non vi rientra, come la lana colorata di porpora, l’ordito e la trama[260]. Mentre nelle Pauli Sententiae «uersicoloria» è l’aggettivo femminile di “uersicolorius[261], in D.34.2.32.6, nel tratto «Labeo testamento suo-versicoloria scripsit», «versicoloria» è l’accusativo plurale dell’aggettivo neutro sostantivato “versicoloria, -ium”, che indica “ciò che è tinto”, e nel tratto conclusivo, «... quasi desit voluntatem fuisse», «versicoloria» è il nominativo plurale dello stesso aggettivo neutro sostantivato[262]. Dunque, ad avviso di Paolo 2 ad Vitell. D.34.2.32.6, “lana” è un termine generico che include la lana sia tinta che non tinta, per cui, se anche il testatore non avesse utilizzato, dopo la parola “lana”, il sostantivo «versicoloria», alla legataria spetterebbe comunque la lana sia tinta che non tinta[263]. Quindi è verosimile, a parere del giurista, che l’ereditando abbia scritto «versicoloria» perché “erroneamente” convinto che il concetto di “lana” designasse soltanto quella “non tinta” e che per lasciare la lana “colorata artificialmente” bisognasse usare il sostantivo “versicoloria[264].

Al contrario, come già visto, Ulpiano 22 ad Sab. (D.32.70 pr.) reputa che la lana (di pecora) oggetto di legato non possa essere artificialmente colorata, ma debba essere “al naturale”.

Proprio perché in D.34.2.32.6 l’attenzione di Paolo è incentrata sulla sovrabbondanza, nel legato in esame, della parola «versicoloria» rispetto al sostantivo «lanam», non sull’eventuale superfluità del termine «purpuram» rispetto a «versicoloria», si è propensi a supporre che, ad avviso del giureconsulto, “purpura” e “versicoloria” siano entità diverse o che, in altri termini, “purpura” non rientri nella nozione di “versicoloria”. Lo stesso, fra l’altro, si legge in Paul. Sent. III 6.82, secondo cui il legato di lana non può contenere la lana «lota» (lavata) tinta di purpura: il che rende fiduciosi sulla effettiva paternità paolina di D.34.2.32.6[265].

Mancano invece passi nel Digesto da cui trarre una definizione paolina esplicita di “purpura legata”[266]. Tuttavia, si può tentare di ricostruire tale nozione dalla definizione che Paolo 2 ad Vitell. D.32.78.5 dà del termine “versicoloria”:

 

Coccum quod proprio nomine appellatur quin versicoloribus cederet, nemo dubitavit. quin minus porro coracinum aut hysginum aut melinum suo nomine quam coccum purpurave designatur?

 

Il giurista rileva qui che nessuno ha mai dubitato che il «coccum», per il fatto solo di avere una propria denominazione specifica, non possa essere compreso fra i “versicoloria”. D’altronde, si domanda Paolo, a loro volta, hanno forse un nome meno preciso di «coccum» o «purpura» il «coracinum», l’«hysginum» o il «melinum»?

Dal momento che questo passo riguarda l’oggetto dei versicoloria, pare ragionevole pensare che il termine «coccum» ivi presente indichi ciò che è stato tinto di coccum, non il colore in sé[267]. Dunque, nel tratto iniziale «Coccum-nemo dubitavit», Paolo osserverebbe che, benché di regola si usi autonomamente l’espressione «coccum» per designare ciò che è stato colorato con questa tinta, nulla impedisce tuttavia di far rientrare nei “versicoloria” anche ciò che è colorato di «coccum»[268].

Sembra plausibile, alla luce delle testimonianze letterarie antiche e degli studi moderni[269], che in questa sede «coccum» designi ciò che è stato tinto di rosso scarlatto con il colorante che si ricavava dal Kermes[270]. In questo senso, allora, vi è accordo fra Paolo e Ulpiano, dal momento che anche ad avviso del secondo i filati tinti di coccum (inteso come colore tratto dall’omonima pseudo-bacca) fanno parte dei versicoloria (D.32.70.12).

La domanda che segue, «quin minus porro coracinum aut hysginum aut melinum suo nomine quam coccum purpurave designatur?», si potrebbe intendere così: del resto, ciò che è colorato di «coracinum», «hysginum» o «melinum», che ha una denominazione specifica, come quella di ciò che è tinto di «coccum» o di «purpura», non rientra forse a propria volta nel novero dei “versicoloria”?[271]

Quindi nei legati di versicoloria Paolo include ciò che è colorato di «coccum», «coracinum», «hysginum» e «melinum», senza nulla specificare in ordine alla porpora[272]. È verosimile che in questo contesto i termini«coccum», «coracinum», «hysginum» e «melinum» alludano a ciò che è colorato con tinture non a base del succo di porpore marine[273]. Come già osservato, “coccum” era ciò che era stato colorato con il succo di pseudo bacche della quercus coccifera[274]. “Coracinum” era ciò che erastato tinto di nero corvino con: (1) una lumaca di mare così denominata (ma non annoverata dagli antichi fra le porpore marine pur essendo un mollusco gasteropode); (2) l’estratto di noci di galla unito ad allume o ad “atramentum” (cioè il solfato di ferro o di rame); (3) il nerofumo; (4) il bitume (tutte sostanze di origine animale, vegetale, minerale e organica). “Hysginum” era ciò che era stato colorato di un rosso violaceo tratto dal succo delle bacche nero-azzurre di un arbusto di montagna detto “hyacinthus”, originario della Gallia, forse il “Vaccinium Uliginosum”, utilizzato soprattutto per l’abbigliamento servile (porpora erbacea). “Melinum” era ciò che era stato tinto di un color zafferano o giallastro ottenuto dal succo ricavato da vari tipi di piante (non rientranti nelle porpore erbacee)[275].

Come risultato di queste considerazioni, appare probabile che la «purpura» menzionata in D.32.78.5 si riferisca a ciò che veniva colorato con le sole porpore marine in contrapposizione a ciò che era tinto: 1) di nero con il succo di un mollusco non rientrante nel novero delle porpore marine o con un colorante vegetale unito a sostanze di origine minerale; 2) di giallo con tinture vegetali; 3) di un rosso violaceo con una particolare porpora erbacea[276].

Ebbene, mentre Ulpiano non dubita che nei “versicoloria” rientrino i filati colorati artificialmente, compresi, in particolare, quelli tinti di “purpura” (sia marina che erbacea, ma non comprensiva del coccum) e quelli colorati di “coccum”, Paolo ritiene che dei “versicoloria” faccia parte, oltre a ciò che è tinto di “coccum”, anche ciò che è colorato di “coracinum”, “hysginum” e “melinum”, senza tuttavia specificare se ciò che è tinto di porpora marina sia o non sia compreso nel novero dei “versicoloria” stessi[277].

 

§§§§

 

Per rispondere ora al quesito relativo al possibile significato dei termini “lana”, “linum” e “purpura” in D.32.60.2, si osserva quanto segue.

Lana”. In D.32.60.2 Alfeno non specifica a quale stadio della lavorazione sia la lana legata, se, cioè, si tratti di lana sucida, lota, colorata, cardata o pettinata oppure filata[278]. Tuttavia, tenuto conto che essa si presenta tutta mescolata insieme e che Paolo è solito distinguere il legato di lana da quello di vestimentum[279], si potrebbe ipotizzare che si tratti di lana sucida, lota, al naturale o tinta ma non di porpora, cardata o pettinata; è più difficile, invece, che sia lana già filata[280] e comunque certamente non montata su un telaio.

Linum”. Anche il lino, come la “lana”, è in D.32.60.2 mantenuto separato dalla “purpura”, il che induce a ritenere che, se ad es. esso è stato legato sotto forma di filato, quest’ultimo non sia colorato di porpora[281]. In assenza di indicazioni, nel testo, riguardo allo stadio di lavorazione di questa fibra e mancando fonti paoline da cui risulti una qualche definizione di “linum legatum”, si può immaginare che qui il “linum” sia stato legato nello stato precedente la battitura con il martello da stoppa (stupparium malleum) prodromica alla cardatura, cardato, filato[282] o in corso di tessitura, ma senza che questa si sia ancora conclusa[283].

Purpura”. Si potrebbe pensare che “purpura” indichi in D.32.60.2 la lana (lavata), il filato di lana o magari anche il filato di lino tinti di porpora esclusivamente “marina” oppure i succhi dei molluschi lavorati in modo da fornire il colorante destinato alla tintura di fibre, filati o tessuti in officinae purpurariae o anche in casa per esigenze famigliari[284].

 

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A proposito dell’individuazione del possibile contesto socio-economico di D.32.60.2, benché in quest’ultimo non si specifichi se il disponente fosse un commerciante di lana, lino e porpora, tuttavia sulla base del paragone instaurato da Servio con la fattispecie del legato di penus predisposto da chi era abituato a mettere in vendita i propri prodotti senza separarli fisicamente dagli altri destinati all’uso quotidiano, si può pensare che l’ereditando cui Alfeno si riferisce commerciasse in lana, lino e porpora[285].

Dunque, quella del testatore poteva essere una dimora in cui la lavorazione tessile aveva luogo non soltanto per esigenze puramente familiari, ma anche per scopi commerciali[286].

Il fatto poi che il disponente avesse lasciato la “lana” destinata all’uso della moglie confusa insieme a quella riservata alla vendita induce a supporre che tali lane si trovassero nello stesso locale adibito a magazzino all’interno della casa di famiglia. Al contempo, giacché Alfeno si concentra sulla sola confusione della lana, è presumibile che il lino e la porpora si trovassero invece distinti e separati in quella stessa stanza[287].

Di conseguenza potrebbe darsi che l’ereditando fosse il titolare di un’azienda a conduzione familiare, che vendeva fibre tessili grezze oppure articoli tessili semilavorati o lavorati di propria produzione, talmente piccola da non avere nemmeno un vano a sé per lo stoccaggio delle merci ai fini commerciali[288]. Del resto, gli studi di epigrafia romana hanno dimostrato la persistenza, nella vita commerciale romana, di piccole imprese in cui i dipendenti schiavi e liberti acquisivano una serie di competenze che, alla dipartita dei rispettivi datori di lavoro, avrebbero permesso loro di portare avanti in modo autonomo l’attività (è evidente che per gli schiavi ciò sarebbe stato possibile soltanto se il pater familias imprenditore li avesse manomessi prima di morire)[289].

Considerate le ridotte dimensioni dell’impresa di cui in D.32.60.2, è allora possibile che la vendita si svolgesse in uno spazio apposito della casa di famiglia aperto al pubblico (taberna)[290].

Ad es., il de cuius, in quanto artigiano coinvolto nelle varie fasi della lavorazione della lana, sarebbe stato un “lanarius purgator” se l’attività della sua impresa fosse consistita nella lavatura del vello, un “lanarius cardator” o “carminator” se nella sua azienda si fosse svolta la districatura di velli con fibre corte, un “lanarius pectinarius” se il suo lavoro fosse servito a districare velli a fibre lunghe e così via. Contemporaneamente, in quanto commerciante della lana nei vari stadi di lavorazione fino alla tessitura, egli sarebbe stato un “lanarius negotians” o “lanarius negotiator”.

Rispetto al “linum”, si potrebbe supporre che il testatore fosse un linarius se la principale attività concernente questa fibra fosse stata la filatura o forse anche la tessitura unitamente al commercio dei relativi filati o tessuti; al contrario, se il lino da vendere fosse stato importato dall’Egitto, l’ereditando sarebbe stato un negotiator lintiarius.

Pertanto, è presumibile che l’abitazione di famiglia si trovasse in un piccolo centro urbano di campagna, ove la lana e il lino allo stato grezzo erano più facilmente reperibili.

Quanto infine alla “purpura”, si potrebbe immaginare che l’ereditando praticasse il commercio del colorante (indigeno o importato), delle fibre e del filato tinti di porpora(purpurarius o negotiator artis purpurariae o purpurae venditor) in una taberna purpuraria magari sita al piano terra della sua stessa casa[291], accanto a quella in cui si vendevano la lana e il lino allo stato grezzo, semilavorato o lavorato. Ma non si può nemmeno scartare l’ipotesi che vi fosse una sola taberna in cui si svolgevano i traffici commerciali di lana, linum e purpura.

 

4. Brevi osservazioni sul significato delle parole «quae eius causa parata essent» di cui in D.32.60.2 Alf. 2 dig. a Paul. epitomat

 

La “lana”, il “linum” e la “purpura”, oggetto del legato esaminato da Alfeno, sono quelli destinati “all’uso della moglie” («Lana lino purpura uxori legatis,  q u a e  e i u s  c a u s a  parata essent …»), nel senso di “devoluti alla cura e alla gestione della donna per il confezionamento degli abiti dei membri della famiglia”[292].

Ma con l’espressione “ea quae eius causa parata essent” ci si riferisce, nelle fonti giuridiche romane, anche a beni di uso personale, come, ad es., articoli da toeletta, abiti, ornamenti e gioielli, schiavi al servizio della donna, strumenti di lavoro (domestico) e svago, tazze, etc.[293].

Premesso che il matrimonio cum manu fiorì molto verosimilmente in età repubblicana, per essere poi gradualmente soppiantato in età classica da quello sine manu[294] senza comunque mai scomparire del tutto[295], si nota che i testi in cui si tratta dei legati di beni intitolati all’uso della moglie possono prestarsi a differenti letture, dal momento che non specificano se la legataria fosse una uxor in manu o sine manu.

Così, se la moglie era in manu, “le cose destinate all’uso di lei” costituivano una sorta di “peculium” simile a quello della filia familias, data l’equiparazione a questa della uxor in manu sposata al pater familias[296]; di conseguenza tali cose restavano di proprietà del vir per tutta la durata del rapporto coniugale e, per far sì che dopo la morte di costui la consorte continuasse a servirsene, si disponeva, previa diseredazione “inter ceteros” della donna, un legato (probabilmente nella forma “sinendi modo”) con cui si consentiva alla beneficiaria di acquistare il dominium di “ea, quae uxoris casa empta paratave sunt[297]. Da ciò si può cogliere la preoccupazione dei mariti di garantire alle compagne, dopo la propria morte, il mantenimento delle abitudini e dello stile di vita di cui queste avevano goduto durante il matrimonio.

Al contrario, se la moglie era sine manu in quanto sui iuris o sottoposta alla potestas di suo padre, il lascito testamentario avente per oggetto “ea, quae uxoris causa empta paratave sunt” aveva lo scopo di far conseguire alla vedova la proprietà dei beni di cui aveva fatto uso in vita senza esserne domina, dato il divieto di donazione fra coniugi con regime patrimoniale separato[298]: pertanto la messa a disposizione della moglie di tali cose in vita del marito non poteva che consistere in una serie di «concessioni in uso … de facto», finalizzate a eludere quella proibizione, le quali si sarebbero poi «trasformate in lasciti a titolo particolare attraverso il ricorso ai legati»[299].

Ecco allora che, se si tiene conto dell’epoca di Alfeno, si potrebbe immaginare che in D.32.60.2 il legato a favore della “uxor” della “lana”, del “linum” e della “purpura” «quae eius causa parata essent» appartenesse al contesto di un matrimonio cum manu: da tale disposizione, infatti, potrebbe emergere non tanto l’esigenza di sanare la precedente messa a disposizione della “uxor” di beni a lei destinati, contraria al divieto di donazione fra coniugi (che peraltro era noto ad Alfeno stesso, oltre che a Trebazio), quanto, piuttosto, quella di garantire alla vedova un tenore di vita adeguato e la continuità nell’utilizzo delle cose di cui, durante il matrimonio, ella si serviva, il che sarebbe tra l’altro confermato dal successivo richiamo (forse da parte di Servio) della disciplina del legato di “penus”, normalmente volto a raggiungere questo scopo[300].

Dall’altro lato, alla luce dell’evoluzione ormai consolidata nella forma “sine manu” dell’istituto matrimoniale nella tarda età classica, si potrebbe ipotizzare che agli occhi dell’epitomatore Paolo il legame di coniugio nel testo alfeniano fosse sine manu. D’altronde, sono gli stessi esponenti della dottrina a informare di un’applicazione estensiva, nell’ambito delle decisioni giurisprudenziali classiche, al matrimonio c.d. “libero” (cioè sine manu, caratterizzato dal regime di separazione dei beni), della disciplina dei legati a favore delle mogli in manu, con la differenza che, mentre i legati a favore delle uxores in manu fungevano da legati di peculio e quindi erano essenzialmente volti a far acquistare alle vedove la proprietà delle cose destinate a queste dai loro mariti durante il rapporto coniugale, i legati a favore delle mogli sine manu miravano soprattutto a realizzare una sorta di convalida post mortem delle donazioni effettuate in costanza di matrimonio dai maritialle mogli[301]. Naturalmente nulla vieta di pensare che all’epoca di Paolo la soluzione di cui in D.32.60.2 si potesse applicare sia al prevalente marimonio libero, sia all’ampiamente residuale vincolo cum manu.

A giudicare dal numero di frammenti che attestanto la prassi dei mariti di legare alle consorti gli articoli a queste comprati o destinati durante il matrimonio[302], è presumibile che disposizioni di tal genere fossero frequenti, come confermano le definizioni di ciò che si intendeva “comprato o predisposto per lei” fornite da Pomponio 5 ad Q. Muc. D.34.2.10, Ulpiano 22 ad Sab. D.32.45 e Paolo 2 ad Vitell. D.32.46[303].

In particolare, all’inizio di D.34.2.10, Pomponio 5 ad Q. Muc.[304] dichiara:

 

Quintus Mucius ait: si pater familias uxori vas aut vestimentum aut quippiam aliud ita legavit ‘quod eius causa emptum paratumve esset’, id videtur legasse, quod magis illius quam communis usus causa paratum esset. …

 

In questo testo, tratto dal quinto libro del commentario ai diciotto libri di diritto civile di Quinto Mucio, Pomponio esordisce riportando il parere del grande giurista repubblicano secondo cui, nel caso di legato a favore della moglie di vasellame, abbigliamento o qualcos’altro “che sia stato comprato o predisposto per lei”, si deve considerare legato ciò che è stato destinato all’uso della consorte piuttosto che a quello di entrambi i coniugi[305].

Tuttavia, subito dopo, Pomponio precisa che il significato di «communis usus causa» non va riferito soltanto all’uso indifferenziato della cosa da parte di marito e moglie, ma anche all’utilizzo da parte di discendenti o di un terzo, per cui è da ritenere che, nel legato a favore della consorte, l’ereditando, con le parole «quod eius causa emptum paratumve esset», abbia inteso riferirsi a ciò che era stato acquistato o assegnato per un uso personale della donna:

 

… Pomponius: sed[306] hoc verum est non solum, si ipsius viri et uxoris communis usus, sed etiam si liberorum eius aut alterius alicuius communis usus fuerit: id enim videtur demonstrasse, quod proprio usui uxoris comparatum sit.

 

Come è stato rilevato in dottrina[307], la visione di Quinto Mucio ebbe un grande successo presso la giurisprudenza successiva, come attesta D.32.45[308], ove Ulpiano 22 ad Sab. riferisce, oltre al proprio, anche il pensiero di Sabino:

 

Hoc legatum ‘uxoris causa parata’, generale est et continet tam vestem quam argentum aurum ornamenta ceteraque, quae uxoris gratia parantur. sed quae videantur uxoris causa parari? Sabinus libris ad Vitellium ita scripsit: quod in usu frequentissime versatur, ut in legatis uxoris adiciatur ‘quod eius causa parata sint’[309], hanc interpretationem optinuit, quod magis uxoris causa quam communis promiscuique usus causa paratum foret. neque interesse visum est, ante ductam uxorem id pater familias paravisset an postea, an etiam ex his rebus quibus ipse uti soleret uxori aliquid adsignavisset, dum id mulieris usibus proprie adtributum esset.

 

Secondo Ulpiano, l’espressione “le cose allestite a uso della moglie” è generale e abbraccia tanto le vesti quanto l’argenteria, l’oro, gli ornamenti e gli altri beni destinati all’uso della legataria[310]. Ma cosa significa esattamente “cose allestite a uso della moglie”? Il giurista risponde richiamando l’opinione di Sabino (espressa nei libri ad Vitellium) in base alla quale la locuzione indica ciò che è stato allestito più per l’uso personale della moglie che per quello indifferenziato dei coniugi[311]. In aggiunta, sempre ad avviso di Sabino[312], non è parso opportuno distinguere se il pater familias avesse allestito i beni a uso della moglie prima o dopo il matrimonio o se avesse attribuito alla consorte qualcosa fra ciò che egli stesso era solito adoperare, purché tali oggetti siano poi stati ascritti a un impiego esclusivo della donna[313].

La definizione paolina di “ea, quae ‘uxoris causa parata’ sunt” contenuta in D.32.46 2 ad Vitell.[314] è complementare a quella ulpianea appena vista (D.32.45 22 ad Sab.):

 

Ea tamen adiectio legatum alias exiguius, alias plenius efficit. augetur, cum sic scriptum est: ‘quaeque eius causa parata sunt’: id enim significat et si quid praeter ea quae dicta sunt eius causa paratum est: minuitur detracta coniunctione, quia ex omnibus supra comprehensis ea sola definiuntur, quae eius causa parata sunt.

 

Paolo, infatti, reputa che le parole “le cose destinate all’uso della moglie” costituiscano una sorta di aggiunta che a volte riduce la portata applicativa del legato, a volte l’accresce[315]. L’accresce quando l’espressione “le cose destinate all’uso della moglie” è preceduta dalla congiunzione “e”, come, ad es., «... e le cose allestite per lei»: questo infatti significa che alla legataria spettano non soltanto i beni indicati all’inizio della disposizione, ma anche “ciò che è stato allestito per lei”[316]; la riduce quando la congiunzione “e” manca e quindi alla legataria sono lasciate soltanto le cose allestite a suo uso: di tutte le cose innanzi dette, infatti, si assegnano esclusivamente quelle predisposte per l’utilizzo della matrona[317]. Naturalmente sia in D.32.45 che in D.32.46 i beni adibiti all’uso della consorte sono quelli che erano stati destinati a tale scopo quando il pater familias era in vita[318].

Tornando a D.32.60.2 Alf. 2 dig. a Paul. epitomat., si rileva che qui la “lana”, il “linum” e la “purpura” legati alla moglie sono definiti come «quae eius causa  p a r a t a  essent». In mancanza di testi da cui risulti che cosa Alfeno intendesse per “lana”,“linum”,“purpura”, «quae eius causa parata essent», si potrebbe cercare di trovare una risposta nella visione giurisprudenziale prevalente sul punto al tempo di Paolo. Si considerino in primis le parole di Ulpiano 22 ad Sab. espresse in D.32.49.3 e D.32.47.1[319].

In D.32.49.3[320] il giurista afferma:

 

Item interest, ipsius causa parata sint ei legata an ipsius causa empta: paratis enim omnia continentur, quae ipsius usibus fuerunt destinata, empta[321] vero ea sola, quae propter eam empta fecit maritus. unde non continebuntur emptis solis legatis, quae alia ratione pater familias adquisita ei destinavit: utroque autem legato continebuntur et quae maritus emi mandaverat vel quae emerat, necdum autem ei adsignaverat, adsignaturus si vixisset.

 

A parere di Ulpiano vi è differenza fra il legato di cose “destinate alla moglie” e quello di cose “comprate per la moglie”. Nel legato di cose “destinate alla moglie” («… paratis …»), infatti, è compreso tutto ciò che è stato destinato agli usi propri di questa («… enim omnia continentur, quae ipsius usibus fuerunt destinata …»), mentre nel legato di “cose comprate” («… empta vero …») rientrano soltanto quelle che il marito ha acquistato appositamente per la moglie («… ea sola, quae propter eam empta fecit maritus …»). Dunque non saranno incluse nel legato di “cose comprate” quelle che il pater familias ha destinato alla consorte dopo averle acquistate per uno scopo diverso. Al contrario, saranno comprese in entrambi i tipi di legato anche le cose che il marito diede l’incarico di comprare o che acquistò egli stesso senza averle ancora consegnate alla moglie, ma che a questa avrebbe consegnato se fosse rimasto in vita[322].

In ultima analisi, nel legato di “ea, quae eius causa  e m p t a  sunt” rientrano i beni acquistati o fatti acquistare dal disponente per la consorte, a prescindere dall’avvenuta o mancata consegna di questi alla beneficiaria[323].

A sua volta, il legato di “ea, quae eius causa  p a r a t a  sunt” include, oltre alle cose appena menzionate, anche quelle comprate non per la consorte, ma per una persona diversa e soltanto in seguito destinate all’utilizzo della moglie[324].

Tutto ciò induce a ritenere che «il legato dell’id quod paratum est» abbia un contenuto più ampio di quello «dell’id quod emptum est» dal momento che quest’ultimo vi è interamente compreso[325]. Ecco perché appare fondata la proposta di una lettura alternativa del tratto «in empto paratum inesse, in parato non continuo emptum contineri» di cui in D.32.47.1 Ulp. 22 ad Sab., avanzata da Krüger sulla scorta di un testo dei Basilici[326] e consistente nelle parole “in empto non continuo paratum inesse, in parato emptum contineri”. Il suggerimento di Krüger è indicato in nota in entrambe le edizioni Maior e Minor del Digesto[327] e nel c.d. “Digesto Milano”[328].

In base alla versione dei manoscritti D.32.47.1 Ulp. 22 ad Sab. figura così:

 

Inter emptum et paratum quid interest, quaeritur: et responsum est  i n  e m p t o  p a r a t u m  i n e s s e,  i n  p a r a t o  n o n  c o n t i n u o  e m p t u m  c o n t i n e r i [329]: veluti si quis quae prioris uxoris causa emisset, posteriori uxori tradidisset, eas res eum posterioris uxoris causa paravisse, non emisse constat. ideoque quamvis maritus posterioris uxoris causa nihil emerit, tamen tradendo quae prior habuerit, eius causa parata sunt[330], etsi ei adsignata non sunt, legato cedunt: at quae prioris uxoris causa parata sunt, ita posteriori debentur, si ei adsignata sint, quia non est ita[331] de posteriore uxore cogitatum, cum compararentur.

 

Ulpiano riporta qui la soluzione fornita dalla giurisprudenza riguardo al dubbio su quale sia la differenza fra «emptum et paratum»[332] (“comprato” e “allestito”) in base alla quale nel “comprato” è incluso l’“allestito” («in empto paratum inesse») e nell’“allestito” non necessariamente il “comprato” («in parato non continuo emptum contineri»).

Per suffragare l’attendibilità di tale “responsum”, il giurista presenta il caso di un pater familias che in vita aveva dato alla seconda moglie ciò che aveva acquistato per la prima: dal momento che costui aveva destinato e non comprato tali beni alla seconda moglie, è da ritenere che il relativo legato sia di cose “predisposte per l’uso di lei”, non “comprate”, e che questi beni ricadano comunque in tale disposizione quantunque non siano stati consegnati (perché, ad es., il pater familias è morto prima di assegnarli alla seconda moglie).

Al contrario, le cose destinate alla prima moglie sono dovute alla seconda purché siano state a questa consegnate perché, mentre venivano preparate, la seconda moglie non poteva essere nei pensieri del disponente.

Ebbene, ci si interroga su come sia possibile sostenere che nell’“aver predisposto” non sia necessariamente incluso l’“aver comperato” quando, poco dopo, si dichiara che le cose “acquistate” per la prima moglie si intendono “predisposte” per l’uso della seconda a condizione che a questa siano state effettivamente destinate, a prescindere dall’avvenuta o mancata consegna delle stesse.

Appare pertanto più attendibile la versione dei Basilici richiamata da Krüger. Se si accogliesse questa lezione, la prima parte di D.32.47.1 si presenterebbe così (le parole tratte dalla traduzione latina dei Basilici sono riportate in tondo):

 

Inter emptum et paratum quid interest, quaeritur: et responsum est in empto non continuo paratum inesse, in parato emptum contineri:

 

Si chiede quale sia la differenza fra ciò che è stato “comprato” («emptum») e ciò che è stato “allestito” («paratum») e si rispose che nel concetto di “comprato” non è automaticamente incluso quello di “allestito” e che nella nozione di “allestito” rientra quella di “comprato”. Questa lezione è in linea non soltanto con il caso esposto subito dopo nel testo da Ulpiano, ma anche con quanto espresso dal medesimo giurista in D.32.49.3[333].

Com’è noto, le stesse regole si estesero non senza controversialità alle concubine[334].

Tenendo conto quindi dell’opinione giurisprudenziale maggioritaria della prima metà del iii sec. d.C., si può ipotizzare che in D.32.60.2 nella frase «Lana lino purpura uxori legatis, quae eius causa parata essent», la forma verbale «parata essent» indichi che tali beni potevano essere stati indifferentemente “riservati” oppure “acquistati” alla legataria[335].

Per concludere, si rammenta che in D.32.60.2 il legato della “lana”, del “linum” e della “purpura”, «quae eius causa parata essent», sia che la moglie fosse in manu, sia che fosse sine manu, era “privilegiato” nel senso che la vedova non era tenuta a fornire la prova della provenienza di questi beni qualora non riuscisse a dimostrarne la diversa origine, in quanto si presumeva che tutto ciò che la moglie possedeva fosse di proprietà del marito (c.d. “praesumptio Muciana”)[336].

 

5. Appendice: un altro caso di legato di lana colorata e “purpura” (D.33.2.32.2 Scaev. 15 dig.)

 

Nel Digesto vi è un passo concernente un legato a favore della moglie del de cuius in cui entrano in gioco “lana” e “purpura” e cui si applica un criterio analogo a quello espresso da Alfeno in D.32.60.2 in base al quale sono esclusi dalla disposizione i beni destinati all’attività commerciale[337]. Si tratta di D.33.2.32.2 Scaev. 15 dig.:

 

Uxori usum fructum domuum et omnium rerum, quae in his domibus erant, excepto argento legaverat, item usum fructum fundorum et salinarum: quaesitum est, an lanae cuiusque coloris mercis causa paratae[338], item purpurae, quae in domibus erat[339], usus fructus ei deberetur. respondit excepto argento et his, quae mercis causa comparata sunt, ceterorum omnium usum fructum legatariam habere.

 

Scevola narra qui di un tale che aveva legato alla consorte l’usufrutto[340] delle case e di tutte le cose che vi si trovavano, eccettuato il danaro[341], oltre che l’usufrutto dei fondi e delle saline[342]. Il dubbio è se alla donna sia dovuto anche l’usufrutto della “lana” di qualsiasi colore e così pure della “purpura” destinate all’attività commerciale che si trovavano nelle case al tempo della morte del pater familias[343]. Scevola rispose che, fatta eccezione per il danaro[344] e le cose riservate alla vendita, tutti gli altri beni spettano in usufrutto alla legataria[345].

La ratio dubitandi può essere intesa in modo diverso a seconda del significato che si attribuisce alle parole «excepto argento».

Se si intende l’esclusione dell’“argentum” dal diritto di usufrutto delle case e di tutte le cose che vi si trovano giustificata dal fatto che il danaro in età classica poteva essere oggetto soltanto di “quasi usufrutto”, allora il dubbio se la lana di qualsiasi colore e la porpora destinate all’attività commerciale che stanno nelle dimore del defunto siano comprese nell’usufrutto nasce da una sorta di ragionamento analogico secondo cui queste cose, se vendute, procurerebbero danaro, non sussumibile, come l’“exceptum argentum”, sotto l’oggetto dell’usufrutto[346].

Se invece si considera l’espressione «excepto argento» come una sorta di eccezione che conferma la regola secondo cui nelle «omnes res legatae» rientra l’“argentum” che si trova in una delle “domus” in quanto destinato a sopperire ai bisogni di tipo domestico, ci si chiede, ferma restando l’eccezione stabilita dal testatore in questo caso alla regola generale, se la lana di qualsiasi colore e la purpura destinate al commercio non siano per caso da ritenersi escluse dal legato di usufrutto in quanto, pur trovandosi in una delle abitazioni del de cuius, risultano tuttavia essere «mercis causa paratae» e quindi non riservate al soddisfacimento delle necessità della vita familiare[347].

Come si vede, in questo frammento si parla di “lana” «cuiusque coloris» in contrapposizione a “purpura”.

Giacché l’espressione «cuiusque coloris» è molto generica, è verosimile che si tratti di lana colorata non soltanto naturalmente, ma anche artificialmente[348] ed è altresì possibile che la “lana” «cuiusque coloris» artificialmente tinta sia quella colorata con qualsiasi tipo di colore, incluse le porpore marine e quelle erbacee. Purtroppo ignoriamo che cosa Scevola intendesse per “purpura[349]. A mio avviso, data la contrapposizione abbastanza netta fra “lana” «cuiusque coloris» e “purpura” (entrambe comunque destinate agli scambi commerciali), è plausibile che la seconda si riferisca al colorante che si traeva dal “murice” (detto “murex” o “bucinum”) e dalla “porpora” (detta “purpura” o “pelagia”)[350]. D’altronde è notoria, nel mondo romano, la diffusione dell’ars purpuraria (praticata in officinae purpurariae) e di tabernae purpurariae ove si vendeva il prezioso colorante[351].

Quanto poi all’accertamento del possibile stadio di lavorazione della lana «cuiusque coloris» legata in usufrutto, bisogna distinguere, a mio parere, a seconda che si consideri la lana naturalmente o artificialmene colorata[352]. La lana per natura colorata, infatti, potrebbe essere quella sucida, lavata, pettinata, cardata, filata o addirittura montata sul telaio ma senza che se ne sia iniziata la tessitura, dal momento che si può comunque ipotizzare che Scevola, considerata l’epoca in cui scrive (nella quale era già assodata almeno la differenza fra lana e vestimentum)[353], giudicasse il legato di lana non inclusivo di ciò la cui tessitura si fosse inziata o conclusa[354]. La lana tinta potrebbe consistere, sulla scorta dei risultati degli studi antichistici e delle fonti latine, sia nel vello lavato che nel filato artificialmente colorati[355] (e il filato tinto potrebbe forse essere già montato sul telaio ma non in opera).

Il giurista pertanto decide che, in mancanza di indicazioni del de cuius circa l’individuazione esatta delle cose da assegnare in usufrutto alla legataria che si trovano nelle varie “domus” del patrimonio ereditario all’apertura della successione, alla donna non siano dovute né le lane naturalmente o artificialmente colorate né il colorante della “purpura” (marina), destinati le une e l’altro al commercio[356].

In un’ipotetica ricostruzione socio-economica del contesto del frammento di Scevola, l’autore del legato potrebbe essere un “capitano d’industria”[357], impegnato nella manifattura tessile di lusso, oltre che titolare di saline e fondi agricoli presumibilmente sfruttati a livello industriale. Non si tratterebbe certo di un esponente della classe senatoria, ma piuttosto di uno dei molti uomini che a Roma, a partire dall’età imperiale, seppero accumulare grandi fortune grazie allo svolgimento in contemporanea di varie attività che oggi si direbbero proprie del «settore primario, secondario e terziario»[358].

 

Abstract: The purpose of this paper is to demonstrate that D.32.60.2 Alf. 2 dig. a Paul. epitomat. can confirm the validity of several archaeological and ancient reconstructions according to which during the late republic and the imperial age animal and vegetable fibers, including those that were purple coloured, were worked at home, for both family and commercial needs. But this essay will also try to ascertain the legal meaning of the provision described in D.32.60.2 which falls within the category of legacies concerning the so-called ‘id quod uxoris causa paratum est’.Finally, in the Appendix, we will examine D.33.2.32.2 Scaev. 15 dig. concerning a gift out of the inheritance in favour of the deceased’s wife in which ‘lana’ and ‘purpura’ play an important role and to which a criterion similar to that expressed by Alfenus in D.32.60.2 is applied. According to this criterion goods intended for commercial activity are excluded from the disposition.

 

Keywords: wool, flax, purple, gift out of the inheritance, uxor, vir, penus



* Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (francescasilvia.scotti@unicatt.it).

** Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] Sull’epitome dell’anonimo e su quella paolina v. C. Ferrini, Intorno ai Digesti di Alfeno Varo, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano, 4 (1891), p. 1 ss.; F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana (Traduzione di G. Nocera, Presentazione di P. De Francisci), Firenze, 1968, p. 365 ss. Più specificamente, per un paragone fra l’epitome dell’anonimo e quella paolina dal punto di vista dell’aderenza di entrambe all’ordine di trattazione delle materie e del contenuto dell’orginale, v. C. Ferrini, Intorno ai Digesti, cit., p. 8 ss.; L. De Sarlo, Alfeno Varo e i suoi Digesta, Milano, 1940, p. 1 ss.; W. Formigoni, Πιθανν a Paulo epitomatorum libri VIII. Sulla funzione critica del commento del giurista Iulius Paulus, Milano, 1996, p. 9 ss. Sui pesanti e gravi dubbi in ordine alla paternità dell’epitome paolina, e in particolare di D.32.60.2, che hanno indotto ad es. A. Ormanni, Penus legata. Contributi alla storia dei legati disposti con clausola penale in età repubblicana e classica, Milano, 1962, p. 686 nt. 230, a parlare addirittura di uno «pseudo Alfeno» (in riferimento a D.32.60.2), v. M.A. Ligios, Merci e legati. Aspetti della riflessione giurisprudenziale in tema di successione nell’esercizio della negotiatio, in Iura. Rivista internazionale di diritto romano e antico, 56 (2011), p. 99 nt. 163.

[2] In generale sui legati di lana e di lino v. P. Voci, Diritto ereditario romano. Parte speciale. Successione ab intestato. Successione testamentaria, vol. II, 2a ed. rif., Milano 1963, p. 294 s.; R. Astolfi, Studi sull’oggetto dei legati in diritto romano, vol. II, Padova, 1969, p. 240 ss.

[3] Si ricorda che Alfeno elenca nel fr. 60 D. eod. i criteri interpretativi del legato di: agnelli (pr.) – su cui v. telegraficamente C.A. Maschi, Studi sull’interpretazione dei legati, Milano, 1938, p. 55 –; schiavi urbani (§ 1) – su cui v. succintamente L. Boyer, La fonction sociale des legs d’après la jurisprudence classique, in Revue historique de droit français et étranger, Quatrième série, 43 (1965), p. 382 e ntt. 62 e 63; A. Montañana Casaní, La veuve et la succession hereditaire dans le droit classique, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité, 3ème Serie, 47 (2000), p. 439; lino, lana e porpora destinati alla moglie (§ 2); fondi rustici con le scorte di schiavi e animali (§ 3). Per la bibl. (aggiornata al 2010) su D.32.60.2 v. M. Miglietta, «Servius respondit». Studi intorno a metodo e interpretazione nella scuola giuridica serviana – Prolegomena I –, in Università degli Studi di Trento, Dipartimento di Scienze Giuridiche. Quaderni del Dipartimento, 91 (2010), p. 17 s. nt. 15; sullo stesso passo v. da ultimo F. Scotti, Lana, linum, purpura, versicoloria. I legati «tessili» fra diritto romano e archeologia, Napoli 2020, p. 361 ss.

[4] Cfr. il tratto «nam si vina - habiturus usioni ipse et heres eius - in penu existimari», di cui in D.32.60.2, con l’altro «… quae longae usionis gratia contrahuntur et reconduntur - penus dicta sunt», di cui in Servius apud. Gell. iv 1.17 (su cui v. C. Ferrini, Intorno ai Digesti, cit., pp. 11, 13), che confermerebbe l’appartenenza del responso a Servio; C.A. Maschi, Studi, cit., pp. 29, 43, 80 e nt. 1; ma anche, più di recente, O. Licandro, «Domicilium»: emersione di un istituto, in Rivista di Diritto Romano, 3 (2003), (https://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano03licandro.pdf), p. 1 nt. 1. Riteneva che questo tratto avesse subìto qualche intervento compilatorio A. Watson, The Law of Succession in the Later Roman Republic, Oxford, 1971, p. 140 e nt. 1.

[5] R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 268, suppone che dopo la frase «reliquum uxori legatum esse» vi fossero le parole “Servius respondit”.

[6] Sull’uso del verbo “parari” v. M. Miglietta, «Servius respondit», cit., vol. I, p. 284 nt. 284.

[7] Com’è noto, con il termine “vettovaglie” si usa indicare la “penus” (cfr. R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 126).

[8] Ad avviso di L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., p. 382 nt. 62, il caso riguarderebbe in ultima analisi la sola lana perché il lino e la porpora erano forse già stati messi da parte.

[9] Cfr. F. Scotti, Il testamento nel diritto romano. Studi esegetici, Roma, 2012, p. 637 nt. 303; v. già L. De Sarlo, Alfeno Varo, cit., p. 189.

[10]Sulla riconducibilità a Servio della terza persona del perfetto del verbo “respondeo” v. C. Ferrini, Intorno ai Digesti, cit., p. 8 ss.; R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 267; M. Miglietta, «Servius respondit», cit., vol. I, p. 20 ss. nt. 15 (con ricca bibl. sul punto); F. Scotti, Il testamento, cit., p. 637 nt. 304. Un’ulteriore prova dell’appartenenza del responso a Servio è indicata nella nt. 4 del presente contributo. F. Schulz, Storia della giurisprudenza, cit., p. 366 e nt. 1, invece, riteneva in generale molto difficile se non impossibile distinguere, nell’epitome paolina, i responsi di Servio da quelli del suo allievo prediletto.

[11] Cfr. C. Ferrini, Intorno ai Digesti, cit., p. 11; L. De Sarlo, Alfeno Varo, cit., p. 189.

[12] Sul legato di penus in generale v. P. Voci, Diritto ereditario, cit., vol. II, 2a ed. rif., p. 285 ss.; A. Watson, The Law of Succession, cit., p. 134 ss. (per ulteriori indicazioni bibl. si rinvia a P. Biavaschi, Ofilio e il legatum penoris: qualche osservazione in merito a Ulpiano D. 33.9.3, in Scritti in onore di Generoso Melillo, a cura di A. Palma, Napoli, 2009, p. 1 nt. 2; E. Pezzato, Si sanctitas inter eos sit digna foedere coniugali. Gli apporti patrimoniali alla moglie superstite in età tardoantica e giustinianea,Bologna, 2022, p. 35 nt. 38). Sul legato di penus destinato specificamente alla moglie v. R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 124 ss.; M.J. García Garrido, El patrimonio de la mujer casada en el derecho civil. I - La tradicion romanistica, Barcelona, 1982, p. 88 ss.

[13] Generalmente il legato di penus aveva per oggetto le provviste alimentari che includevano cibi e bevande: tra i primi, i cereali, i legumi, i condimenti e gli ingredienti (come olio, salse, odori e spezie), tra le seconde, soprattutto il vino; oltre a ciò, del legato di penus facevano parte la legna e il carbone, destinati alla cucina, insieme all’incenso e alla cera, forse utilizzati per il culto dei Penati, e alla carta, impiegata per i piccoli conti giornalieri (cfr. P. Voci, Diritto ereditario, cit., vol. II, 2a ed. rif., p. 285; R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 79 ss.; M.J. García Garrido, El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 90 s.; A. Russo, Osservazioni su D. 33.9.3 (Ulp. 22 ad Sab.), in Fides hvmanitas ivs. Studi in onore di Luigi Labruna, vol. VII, Napoli, 2007, p. 4824 ss.; P. Biavaschi, Ofilio e il legatum penoris, cit., p. 142 s.; M.A. Ligios, Merci e legati, cit., pp. 89 ss., 96 ss.; J.Á. Tamayo Errazquin, El legatum penoris, ¿un legado alimenticio?, in Homenaje al profesor Armando Torrent, Madrid, 2016, p. 1164 ss.; M. Felici, Spunti di ricerca sull’interpretatio dei giuristi e il destino del legatum penoris, in forum historiae iuris 2020 (https://forhistiur.net/media/zeitschrift/0520_FELICI_E6aAmiY.pdf), p. 8 ss.). Di norma, riguardo alla quantità di vettovaglie oggetto del relativo legato, vigeva la regola secondo cui rientravano nell’oggetto di questo gli approvvigionamenti che l’ereditando aveva accumulato per il mantenimento proprio, dei familiari e degli ospiti che di solito frequentavano la sua casa, oltre che per l’alimentazione degli schiavi e degli animali adibiti alla cura delle persone appena menzionate; non erano invece incluse nel legato di vettovaglie le scorte riservate al sostentamento degli schiavi impiegati come operai in un’azienda, né quelle destinate al commercio, dal che nasceva un problema ogniqualvolta il testatore usasse vendere una parte di ciò che produceva (cfr. P. Voci, Diritto ereditario, cit., vol. II, 2a ed. rif., p. 285 s.). Si vedano D.33.9.3 pr.,3,6-10 Ulp. 22 ad Sab., fr. 4.2 Paul. 4 ad Sab. D. eod.; fr. 5 pr. Paul. 4 ad Sab. D. eod.; Gell. Noct. Att. iv 1,7 e 8, 17, 20-23 (sui §§ 20-23 v. C.A. Maschi, Studi, cit., pp. 24, 43, 93; su iv 1, 17, 20, 22 e iv 1, 16 e 17 v. P. Biavaschi, Ofilio e il legatum penoris, cit., pp. 135 ss., 143 ss.). Su questi testi v. C.A. Maschi, Studi, cit., pp. 24 ss., 29 s., 57 nt. 1, 92 nt. 3, 93 s.; M.J. García Garrido, IVS VXORIVM. El régimen patrimonial de la mujer casada en derecho romano, Roma-Madrid, 1958, p. 113 ss.; A. Ormanni, Penus legata, cit., p. 664; R. Astolfi, I libri tres iuris civilis di Sabino, Padova, 1983, p. 97 ss.; E. Quintana Orive, En torno al deber legal de alimentos entre cónyuges en el Derecho Romano, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité, 47 (2000), p. 185 nt. 24; M.A. Ligios, Merci e legati, cit., p. 90 s.; M.V. Sansón Rodríguez, La interpretación en el derecho romano clásico y la unidad entre voluntad y declaración. Interpretación del legado de cosa conjunta, in Revista general de derecho romano. Iustel,16 (2011) (http://www.iustel. com/v2/revistas/detalle_revista.asp?id=11&numero=16), p. 11 ss.; F. Scotti, Il testamento nel diritto romano, cit., p. 638 nt. 307.

[14] A proposito dell’inclusione del vino nella nozione di “penus”, argomentabile da D.33.6.2 pr. Pomp. 6 ad Sab. e D.33.9.4.6 Paul. 4 ad Sab. (sui quali v. concisamente R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 91), v. anche C. Nitsch, «Exceptio firmat regulam». Un contributo sul ragionamento giuridico, in Fides Hvmanitas Ivs. Studi in onore di Luigi Labruna, vol. VI, Napoli, 2007, p. 3792 ss. e nt. 14. Per un interessante excursus sulle varie tipologie di vino nelle diverse fasi della storia di Roma v. C. Pennacchio, Un invito a cena, in Scritti in onore di Generoso Melillo, a cura di A. Palma, vol. II, Napoli 2009, pp. 934 ss., 954 s.

[15] Come è stato autorevolmente osservato (cfr. in part. C.A. Maschi, Studi, cit., p. 55), D.32.60.2 dimostra che era possibile risalire alla volontà del testatore tramite un’indagine di natura extra documentale basata sull’accertamento delle consuetudini, del modo di vivere del defunto e della normalità di certi impieghi e destinazioni delle cose.

[16] Un metodo analogo a quello appena esposto di accertamento del tipo e quantità di vino dovuti alla beneficiaria di un legato di vettovaglie si trova espresso in D.33.9.4.2 Paul. 4 ad Sab., ove il giurista afferma che, se chi usava vendere i propri frutti ha legato le vettovaglie, si debba ritenere che costui non abbia legato insieme tutte le cose che teneva per il commercio e per l’utilizzo personale, ma soltanto quelle che riservava per il proprio impiego privato nell’ambito delle vettovaglie (cfr. R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 87; M.A. Ligios, Merci e legati, cit., p. 88; F. Scotti, Il testamento, cit., p. 639 nt. 310). Al contrario, prosegue Paolo, se l’uomo era solito impiegare le vettovaglie in modo indifferenziato, allora rientra nel legato quanto sarebbe bastato a lui, alla sua famiglia e agli schiavi che aveva al proprio seguito per la cura della sua persona per l’uso di un anno, il che, affermava Sabino, generalmente avviene tra i commercianti oppure quando siano lasciati in eredità l’olio e il vino che si trovano nella dispensa e che di solito venivano messi in vendita quando il disponente era vivo (cfr. F. Scotti, Il testamento, cit., p. 639 nt. 310; v. già M.A. Ligios, Merci e legati, cit., pp. 88 s., 93 ss.). Si rileva che ad avviso di R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 85 nt. 16, è difficile negare con certezza che sia di Alfeno la soluzione del dubbio inerente ai criteri di quantificazione della penus oggetto del legato.

[17] Cfr. F. Scotti, Il testamento, cit., p. 638 nt. 308; v. anche già M.A. Ligios, Merci e legati, cit., p. 93. A parere di M.J. García Garrido, IVS VXORIVM, cit., p. 116, come lascerebbero intendere D.33.9.7 Scaev. 3 resp. e D.33.9.1 Ulp. 24 ad Sab., il legato di penus a favore della vedova assunse gradatamente la funzione di legato di alimenti necessario non soltanto a garantire il mantenimento della legataria, ma anche ad assicurare a questa la prosecuzione dell’esercizio del ruolo di amministratrice della casa di famiglia, assegnatole durante il matrimonio dal marito, anche dopo la morte di quest’ultimo: in tal caso ella avrebbe continuato a svolgere i compiti propri del suo sesso e delle sue competenze. Si vedano altresì R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, pp. 124 s., 231 e nt. 1 (con bibl. essenziale), ad avviso del quale a Roma, sin dai tempi più antichi, era abitudine del pater familias lasciare alla moglie la lana, il lino, i versicoloria, la purpura, gli abiti, gli ornamenta e il mundus muliebris, oltre che la penus (in merito v. anche E. Pezzato, Si sanctitas, cit., p. 35 nt. 38); A. Montañana Casaní, La veuve, cit., p. 442. Non mi sembra invece su questa linea E. Sciandriello, I libri XX-XXII del commentario ulpianeo ad Sabinum: per un confronto con la struttura dei libri ad Vitellium di Paolo, in Teoria e Storia del Diritto Privato. Rivista Internazionale Online-Peer Reviewed Journal, 13 (2020), p. 16 e nt. 52, il quale reputa che la penus non facesse parte delle tipologie di beni che nei lasciti mortis causa venivano spesso definite con le parole «‘quae uxoris causa parata sunt’» e che, ciononostante, in D.32.60.2, si riscontri «un esempio di trattazione congiunta di queste tipologie di legato, poste in comparazione tra loro …». Dal canto suo, J.Á. Tamayo Errazquin, El legatum penoris, cit., p. 1171 e nt. 38, pur ritenendo che il legato di vettovaglienon debba considerarsi «un legado peculiarmente femenino», riconosce tuttavia che in D.32.60.2 esso sia a favore della vedova dell’ereditando. Si rileva infine come riguardo alla penus il legato sia per damnationem («… heredes legatario darent …»): sul punto v. in generale A. Ormanni, Penus legata, cit., p. 652 s. e nt.157; A. Russo, Osservazioni, cit., p. 4832 s.

[18] In proposito v. brevemente A. Watson, The Law of Succession, cit., p. 92 e nt. 1.

[19] In primo luogo, sul fatto che qui si esprima il parere di Alfeno dopo l’introduzione del responso apparentemente riferibile a Servio v. M. Miglietta, «Servius respondit», cit., vol. I, p. 17 nt. 15. Secondo R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 267, invece, la soluzione dovrebbe essere attribuita a Servio (v. nt. 5 del presente contributo). In secondo luogo, ad avviso di M.A. Ligios, Merci e legati, cit., p. 101, Alfeno in D.32.60.2 applica in modo analogico il medesimo criterio indicato per il legato di penus in D.33.9.4.1 e 2 Paul. 4 ad Sab. e stabilisce perciò la quantità dei beni rientranti nella disposizione sulla scorta del fabbisogno di un anno della legataria (per l’esegesi proposta dall’Autrice di D.33.9.4.1 e 2, v. pp. 88 ss., 91 ss. della stessa op. ult. cit.). Si vedano anche L. De Sarlo, Alfeno Varo, cit., p. 189; F. Scotti, Il testamento, cit., pp. 638, 639 nt. 313; D.33.2.32.2 Scaev. 15 dig.; D.34.2.32.4 Paul. 2 ad Vitell. (su cui v. J.G. Wolf, Die Scaevola-Responsen in Paulus’ Libri ad Vitellium, in Studi per Giovanni Nicosia, vol. VIII, Milano, 2007, pp. 441 e nt. 40, 465 ss., 469, 476 s.). A parere di R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 267, il legato sarebbe nullo per indeterminatezza dell’oggetto; tuttavia, giacché in questo caso i beni legati servivano a soddisfare il bisogno fondamentale di vestirsi, la giurisprudenza tardo repubblicana, nella persona di Servio, rifacendosi per analogia a ciò che era stato deciso per il legato di penus, avrebbe individuato la quantità dell’oggetto del legato commisurandola alle esigenze della vedova. Sempre R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 268, sostiene che il tratto conclusivo «Sic mihi placet-causa paratum esset» esprima il rifiuto di Servio della tesi (a questi contemporanea o precedente) relativa all’opportunità di assegnare alla legataria il residuo dopo l’avvenuta asportazione di quanto sarebbe stato indispensabile per soddisfare le esigenze del pater familias.

[20] In merito v. recentemente E. Pezzato, Si sanctitas, cit., p. 35 s.

[21] Si veda al riguardo L. Larsson Lovén, From royal ladies to female slaves: Roman women and spinning, in Antenor Quaderni 51. Lanifica. Il ruolo della donna nella produzione tessile attraverso le evidenze funerarie, a cura di M.S. Busana - C. Rossi - D. Francisci, Padova, 2022, p. 293.

[22]Cfr. R.J. Forbes, Studies in Ancient Technology, vol. IV, Leiden, 1956, p. 162; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 12.

[23]Ma non si possono nemmeno dimenticare le c.dd. “laudationes funebres”, consistenti nelle trascrizioni delle orazioni che venivano pronunciate durante i funerali degli esponenti delle classi sociali più elevate, in cui le defunte si mostrano come le incarnazioni del modello femminile di mogli e madri dalle più alte virtù domestiche, quali “modestia”, “probitas”, “pudicitia”, “comitas”, “obsequium”, “diligentia”, “fides”, “lanificium” (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 69). Tra le più famose, in cui compare l’aggettivo “lanifica” (che qui più interessa), si ricordano quelle di Turia (risalente al periodo compreso fra la fine della repubblica e l’inizio del principato) e di Murdia (di età augustea). Si vedano, in merito, C. Pepe, La fama dopo il silenzio: celebrazione della donna e ritratti esemplari di bonae feminae nella laudatio funebris romana, in Le parole dopo la morte, (eds.) C. Pepe - G. Moretti, Trento, 2015, p. 179 ss.; D. Mantzilas, Laudationes mulierum: Lives and Virtues of Five Exceptional Women, in Carpe diem, 2.2 (2017), p. 297 ss.; C.M. Arranz Hierro, Breves reflexiones acerca del papel del amor en el matrimonio del derecho romano, in Revista General de Derecho Romano,in Iustel 31 (2018) (https://www.iustel.com/v2/revistas/detalle_revista.asp?id_noticia= 421012), p. 20 ss.; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 69.

[24]Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 13.

[25] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 13, 22 s. Del resto, le sole occupazioni ammissibili ed elogiabili per la matrona romana “casta”, “pia”, “pudica”, “frugi” e “domiseda” erano la supervisione dei lavori domestici (“domum servare”) e la filatura e tessitura della lana (“lanam facere”): v. sul punto F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 13; ancheT.E. Rihll, Technology and Society in the Ancient Greek and Roman Worlds, in American Historical Association - Society for the History of Technology. Historical Perspectives on Technology, Society and Culture. A series Edited by P.O. Long and R.C. Post, Washington, 2013, p. 53.

[26] Si tratta, da un lato, di D.33.7.12.5 e 6 Ulp. 20 ad Sab.; D.33.7.16.2 Alf. 2 a Paul. epitomat. (su questi passi v. C.A. Maschi, Studi, cit., pp. 46 e nt.1, 47, 70 s.; R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, pp. 3 e nt. 7, 5 s., 8, 20 s.; A. Watson, The Law of Succession, cit., p. 142 s.; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 44 ss.; in part. su D.33.7.16.2 Alf. 2 a Paul. epitomat. v. L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., pp. 399 e nt. 30, 400; A. Watson, The Law of Succession, cit., p. 145; A. Montañana Casaní, La veuve, cit., p. 441 s.); dall’altro, di D.24.1.29.1 Pomp. 14 ad Sab.; D.24.1.30 Gai. 11 ad ed. prov.; D.24.1.31 pr. e 1 Pomp. 14 ad Sab. (su questi testi v. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 36 ss.; in part. su D.24.1.29.1 Pomp. 14 ad Sab. e D.24.1.31 pr. e 1 v. M.J. García Garrido, IVS VXORIVM, cit., p. 94 ss.; Id., El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 75 ss.; su D.24.1.31.1 v. T.J. Chiusi, Zu Archaismen und „Wiederkehrungen“ im Schenkungsrecht, in Iura, 60 (2012), pp. 236 e nt. 5, 242 e nt. 2; P. Buongiorno, Il divieto di donazione fra coniugi nell’esperienza giuridica romana. I. Origini e profili del dibattito giurisprudenziale fra tarda repubblica ed età antonina, Lecce, 2018, p. 99 ss.).

[27]Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 12.

[28] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 13 s.; v. già L.C. Nevett, Domestic Space in Classical Antiquity, Cambridge, 2010, p. 7.

[29] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 19.

[30] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 16 ss. Per il caso di Pompei v. ad es. C. Lázaro Guillamón, Mujer, comercio y empresa en algunas fuentes jurídicas, literarias y epigráficas, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité, 3ème Serie, 50 (2003), p. 169; R. Ciardiello, Donne imprenditrici a Pompei. Eumachia e Giulia Felice, in The Material Side of Marriage. Women and Domestic Economies in Antiquity, edited by R. Berg, Roma, 2016, p. 225.

[31] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 18; da ultimo L. Larsson Lovén, From royal ladies to female slaves, cit., p. 290.

[32] Cfr. R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 162; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 18 s.; L. Larsson Lovén, From royal ladies to female slaves, cit., p. 290.

[33] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 20; v. anche C. Lázaro Guillamón, Mujer, cit., pp. 172 ss., 192. Non si deve infatti dimenticare che gli stessi proprietari di schiavi e i patroni di liberti finanziavano le imprese tessili dei loro subalterni, dati i divieti, di carattere sia morale che giuridico, per i membri della nobilitas, di svolgere in prima persona attività imprenditoriali o commerciali (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 20 s.). Pare anche che ricche matrone solessero finanziare le attività dei propri liberti rimanendo intenzionalmente nell’ombra (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 21).

[34] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 19. Si vedano tuttavia le due «lastre iscritte» (di cui una custodita nel Paul Getty Museum di Malibu, l’altra nel Medelhauvsmuseet di Stoccolma) del sepolcro di T. Aelius Evangelus: si tratta, come sottolinea A. Buonopane in A. Buonopane - C. Corti, T. Aelius Evangelus: due iscrizioni, una compagna, una figlia naturale, una moglie e un lanificium. T. Aelius Evangelus: two inscriptions, a partner, a natural daughter, a wife and a lanificium, in Sylloge Epigraphica Barcinonensis (SEBarc), 16 (2018), pp. 127, 129 s., di due lapidi che Aelius Evangelus, titolare di un lanificium, avrebbe fatto erigere in tempi diversi, di cui la prima (che si trova oggi nel Paul Getty Museum di Malibu) per sé e la compagna Gaudemia Nice (sua liberta, da cui ebbe una figlia, Gaudemia Marcellina), la seconda (conservata nel Medelhauvsmuseet di Stoccolma) per sé e la moglie legittima, Ulpia Fortunata (sposata forse dopo essersi separato dalla compagna o in seguito alla morte di questa), accordando l’uso di entrambe alla filia naturalis Gaudemia Marcellina e a M. Ulpius Telesphorus (probabilmente suo genero o suo amico e collaboratore), oltre che ai liberti, alle liberte e ai loro discendenti. Non si sa – precisa A. Buonopane (p. 130) – se entrambe le lastre fossero state poste sul medesimo monumento o su due distinte tombe; sembrerebbe comunque che la scultura del J. Paul Getty Museum sia stata creata in un’officina di Ostia all’incirca nel 180 d.C.; di conseguenza, si ipotizza che l’altra (del Medelhauvsmuseet di Stoccolma) risalga allo stesso torno di tempo. Ciò che soprattutto importa sottolineare in questa sede è che da ambedue le rappresentazioni del lavoro che si svolgeva nel lanificium di Aelius Evangelus si trae che ivi non ci si limitava a filare la lana, ma si svolgevano anche la pettinatura e la successiva pesatura delle porzioni quotidiane di lana da assegnare per la filatura alle varie quasillariae (cfr. C. Corti in A. Buonopane - C. Corti, T. Aelius Evangelus: due iscrizioni, cit., p. 130 ss.).

[35]Cfr. F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 14; v. già R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 233.

[36] Cfr. F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 14; v. anche G. Cascarino, Ornatus. L’abbigliamento dei Romani, Rimini, 2021, p. 34 s.

[37]Cfr. E. Bevis, Looking Between Loom and Laundry: vision and communication in Ostian fulling workshops, in Greek and Roman Textiles and Dress. An interdiciplinary anthology, edited by M. Harlow and L. Nosch, Oxford - Havertown, 2014, p. 307; F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 14 s.

[38]Cfr. F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 15 s.

[39]Cfr. F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 16; G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 37. Sui lanarii v. anche G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 17.

[40] Cfr. F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 16.

[41] Cfr. J.P. Morel, L’artigiano, in L’uomo romano (a cura di A. Giardina), Bari, 1989, p. 238.

[42] Cfr. F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 22 s. Sul ruolo simbolico della filatura, dalla monarchia alla prima metà del iii sec. d.C., v. L. Larsson Lovén, From royal ladies to female slaves, cit., p. 288 s.

[43] Dal periodo repubblicano fino all’età imperiale (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 23).

[44] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 22 s.; anche A.T. Croom, Roman Clothing and Fashion, 1st paperback edition, Stroud Gloucestershire GL5 2QG (UK), 2002, p. 19.

[45] La filatura domestica, del resto, poteva avere luogo un po’ ovunque e non necessariamente entro le mura di casa: per lo svolgimento di questa attività, infatti, erano richiesti strumenti poco ingombranti e leggeri (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 23). Essa pertanto poteva eseguirsi anche all’aria aperta, senza che vi fosse la necessità di stanze all’uopo attrezzate o di laboratori (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 23). Per le matres familias che filassero personalmente in casa, questo lavoro poteva compiersi anche per periodi limitati, in alternanza soprattutto alle faccende domestiche e alla cura dei figli (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 23 s.). Là dove invece fossero le schiave a filare sotto la guida della matrona, data la facilità con cui si poteva interrompere e riprendere questa attività, è probabile che tali ancillae vi provvedessero nei ritagli di tempo fra un impegno e l’altro (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 24).

[46] Destinati agli esponenti delle classi più disagiate e agli schiavi (cfr. R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 231; F. Vicari, Produzione e commercio dei tessuti nell’Occidente romano, in British Archaeological Reports International Series, 916 (2001), pp. 2, 8, 16).

[47] Cfr. D.K. Kaufman, Roman Tailors and Clothiers, in The Classical Weekly, 25 - fasc. 23 (1931), p. 182; R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 234; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 24.

[48] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 24. Questa più vasta scelta di materiali e colori rendeva i prodotti tessili delle botteghe più attraenti e paradossalmente era meno costoso acquistare un abito pronto all’uso che farlo in casa (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 24). Siamo ormai in un’epoca in cui Roma è una potenza commerciale, il che comporta un aumento della ricchezza, soprattutto nell’ambito delle classi dominanti, e il cambiamento dei costumi: la società romana abbandona l’austerità e il rigore morale, propri di un popolo agricolo, per la ricerca del lusso e dei piaceri mondani (cfr. A. Montañana Casaní, La veuve, cit., p. 424).

[49] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 25.

[50] Su entrambi i passi v. C.A. Maschi, Studi, cit., pp. 46 e nt. 1, 47, 70 s.; R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, pp. 3 e nt. 7, 5 s., 8, 20 s.; A. Watson, The Law of Succession, cit., p. 142 s.; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 44 ss. In part. su D.33.7.16.2 Alf. 2 a Paul. epitomat. v. L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., pp. 399 e nt. 30, 400; A. Watson, The Law of Succession, cit., p. 145; A. Montañana Casaní, La veuve, cit., p. 441 s.

[51] Cfr. F. Vicari, Produzione e commercio, cit., p. 5, che sospetta che nell’arco della storia romana, dalla monarchia all’impero (incluso), la tessitura domestica avesse nelle aree agricole a bassa densità abitativa una maggiore diffusione rispetto alle città, come parrebbe essere comprovato dai ripetuti ritrovamenti di pesi da telaio là dove avevano sede minuscoli vici o piccoli villaggi (cfr. F. Vicari, Produzione e commercio, cit., pp. 5, 8; M.S. Busana in M.S. Busana - D. Cottica - P. Basso, La lavorazione della lana nella Venetia, in Antenor Quaderni 27. La lana nella Cisaplina romana. Economia e società. Studi in onore di Stefania Pesavento Mattioli. Atti del Convegno (Padova-Verona, 18-20 Maggio 2011), a cura di M.S. Busana e P. Basso con la collaborazione di A.R. Tricomi, Padova, 2012, p. 418; F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 35, 56).

[52] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 26 s.

[53] Quanto alla testimonianza senecana, si può notare che questa si trova in un passaggio delle Verrine (iv 59).L’oratore (iv 58), dopo aver dichiarato che in Sicilia non c’era alcuna «domus» facoltosa presso cui Verre non avesse allestito un laboratorio di tessuti («... Nulla domus in Sicilia locuples fuit ubi iste non textrinum instituerit»), racconta (iv 59) che a Segesta viveva una donna ricchissima e nobile, di nome “Lamia”, che per tre anni di seguito aveva fatto confezionare per Verre coperte e vestiti nella sua casa piena di tessuti: in questo caso le stoffe, dopo la tessitura, venivano affidate a tintori per essere colorate con la porpora che forniva Verre medesimo. Ecco allora che in Verre si potrebbero riscontrare le caratteristiche tipiche del c.d. “mercante imprenditore”, cioè di chi predisponeva le fasi iniziali della manifattura, rifornendo della materia prima le officine artigianali, stabilendo la qualità e il volume degli articoli da realizzare e infine occupandosi del recupero dei prodotti e della loro sistemazione negli horrea ai fini dell’esportazione. In proposito v. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 25.

[54] Cioè “ricamatori”. Sui plumarii v. M. Besnier, s.v. Phrygio. Brodeur. - Phrygium Opus, in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines d’après les textes et les monuments (sous la direction de Edm. Saglio avec le concours de Edm. Pottier), Tome Quatrième, Première partie (N-Q), Paris, 1873, p. 448 ss.

[55] In base a Vitr. De arch. vi 4.2, i laboratori di tessitura e di ricamo («... textrina pictorumque officinae, ...») dovevano essere costruiti rivolti a nord per godere di una luce costante.

[56] Vecilius Verecundus era titolare di un’officina in cui si producevano feltro e vestiti (su questa figura v. succintamente R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 25 s.; più diffusamente F. Vicari, Produzione e commercio, cit., p. 88 e nt. 15), come si ricava dall’affresco sul pilastro tra i numeri 6 e 7 del suo laboratorio (IX.7.5-7), ove sono raffigurati, in alto, la dea Venere, protettrice di Pompei, sotto, sette operai, di cui tre impegnati a pettinare il vello (pectinarii) e gli altri quattro, in piedi, intenti a creare il feltro (coactores), mentre Verecundus, in una raffinata lunga tunica con cappuccio viola (caracalla) e scarpe di feltro (impilia) all’ultima moda, mostra a potenziali acquirenti un elegante tessuto marrone a bande pupuree (cfr. W.O. Moeller, The Wool Trade of Ancient Pompeii, in Studies of the Dutch Archaeological and Historical Society, edited by J.G.P. Best - A.B. Breebaart - M.F. Jongkees-vos, 3 (1976), p. 54; É. Dubois-Pelerin, Le luxe privé à Rome et en Italie au ier siècle après J.-C., Naples, 2008, p. 229; per una descrizione ancor più dettagliata dell’affresco v. A. Varone, Iscrizioni e dipinti lungo Via dell’Abbondanza: uno spaccato di vita reale nella Pompei del I sec. d.C., in, Pompei, Via dell’Abbondanza. Ricerche, restauri e nuove tecnologie, a cura di S.A. Curuni - N. Santopuoli, Milano, 2007, p. 126 s.; B.J. Lowe, The Dye Shops of Pompeii, in Purpureae Vestes V. Textiles, Baskestry and Dyes in the Ancient Mediterranean World, edited by C. Alfaro Giner - J. Ortiz García - L. Turell, València, 2016, p. 5). Sotto l’immagine di Verecundus è dipinto il nome di questo (CIL IV, 7839), che compare anche in un graffito (CIL IV, 9084; ma v. pure CIL IV, 9085): cfr. W.O. Moeller, The Wool Trade, cit. p. 54 e nt. 126. Nel contempo, il nome per intero, «M. Vecilius Verecundus verstiar(ius)», è inciso in un altro graffito sito in un diverso quartiere di Pompei, nella casa di Gavius Rufus (VII.2.16; CIL IV, 3130): cfr. W.O. Moeller, The Wool Trade, cit. p. 54 e nt. 127. Che Vecilius Verecundus fosse anche uno stimato «vestiarius» si desume, del resto, dall’affresco appena descritto, ove si riscontra un graffito che menziona una «tunica lintea aur(ata)», cioè un abito di lino senza dubbio molto costoso, proveniente forse dall’Egitto e ricamato con fili d’oro (CIL IV, 9083; cfr. W.O. Moeller, The Wool Trade, cit., p. 54 e nt. 126). Il fatto che la tunica fosse ricamata con fili d’oro è sostenuto sia da F. Vicari, Produzione e commercio, cit., p. 88, che da É. Dubois-Pelerin, Le luxe privé, cit., p. 229; contra A. Varone, Iscrizioni e dipinti lungo Via dell’Abbondanza, cit., p. 161 e nt. 441, secondo cui la «tunica lintea aur(ata)» sarebbe consistita in un vestito interamente «intessuto di fili d’oro». Dunque Verecundus produceva e commerciava il feltro nel suo laboratorio, in cui erano impiegati vari artigiani, e intanto vendeva panni diversi dal feltro e abiti, autodefinendosi «vestiarius» (cfr. F. Vicari, Produzione e commercio, cit., p. 88; G. Grimaldi Bernardi, Botteghe romane. L’arredamento, in Vita e costumi nel mondo antico. Collana edita con il patrocinio della Presidenza della Regione Lazio, XXVII, Roma, 2005, pp. 32, 43 ntt. 4 e 5). Probabilmente l’attività di quest’uomo si svolgeva secondo i seguenti passaggi: 1) approvvigionamento della lana grezza o semilavorata; 2) controllo della produzione del feltro; 3) rifornimento di altri tipi di stoffa; 4) commercializzazione del feltro e di altri panni (cfr. F. Vicari, Produzione e commercio, cit., p. 88).

[57] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 27.

[58] Le più giovani, infatti,tra cui la figlia Giulia, furono educate a filare e a tessere la lana, mentre si diffuse la voce che l’imperatore stesso indossasse, tranne che in occasioni speciali, abiti confezionati in casa dalla sorella, dalla moglie, dalla figlia e dalle nipoti (cfr. R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 22; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 28). Il progetto era pertanto di riproporre l’immagine della mater familias che lavorava la lana entro le mura domestiche come emblema di colei che gestiva in modo virtuoso la casa rappresentando così i valori tradizionali romani (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 29). Di conseguenza, tutte le donne che si fossero impegnate in compiti tipicamente femminili come il lanificium sarebbero state giudicate buoni esempi di moralità da seguire; viceversa, quelle che non si fossero occupate di tale attività sarebbero state considerate espressione di decadenza e di declino morale (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 29).

[59] Presenti nei cdd. “colombari”, che erano i grandi luoghi di tumulazione collettiva, destinati ai membri del personale servile e libertino alle dipendenze della famiglia imperiale e delle grandi famiglie aristocratiche romane, tra i quali, soprattutto, si ricordano quelli di Livia – Monumentum Liviae –, degli Statilii e dei Volusii, attivi tutti tra la fine del principato di Augusto e quello di Claudio (sui quali v. brevemente R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 23; L. Larsson Lovén, From royal ladies to female slaves, cit., p. 290; diffusamente S. Dixon, Familia Veturia. Towards a lower-class economic prosopography, in Childhood, Class and Kin in the Roman World, edited by S. Dixon, London and New York, 2001, p. 115 s.; F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 20 nt. 34, 28 nt. 77, 31 s. nt. 91, 33 s.).

[60] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 31.

[61] In merito v., da ultimo, L. Larsson Lovén, From royal ladies to female slaves, cit., p. 290 ss. Nel resto d’Italia le testimonianze epigrafiche, malgrado offrano un quadro che non si discosta radicalmente da quello delle iscrizioni funebri dei colombari delle familiae urbanae di Roma, presentano tuttavia una gamma di occupazioni delle ancillae più diversificata rispetto a quella vigente nell’ambito delle famiglie benestanti della capitale (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 32).

[62] Al riguardo v., fra gli altri, L. Larsson Lovén, From royal ladies to female slaves, cit., p. 290.

[63] Sul punto v., per tutti, L. Larsson Lovén, From royal ladies to female slaves, cit., p. 291.

[64] Cfr. R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 232; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 31 s.; v. anche A.T. Croom, Roman Clothing, cit., p. 19. Secondo un altro orientamento (sostenuto da F. Vicari, Produzione e commercio, cit., pp. 19 s., 76), che si basa su una diversa lettura dei colombarii delle principali famiglie di Roma, dei quali sottolinea il numero esiguo di filatrici e tessitori a fronte di uno maggiore di schiavi le cui funzioni erano soprattutto di tipo sartoriale e collegate alla manutenzione dell’abbigliamento, si potrebbe ipotizzare che le famiglie altolocate della città di Roma comprassero direttamente le stoffe nei mercati per poi farle tramutare in vestiti dai loro schiavi (v. in proposito F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 33 s.). Ma non si può nemmeno escludere, sempre sulla scorta di questa corrente (cfr. Vicari, Produzione e commercio, cit., pp. 20, 90), che a Roma i cittadini fossero abituati a comprare abiti già fatti, come proverebbe una sorta di reticolato di officinae e botteghe (per la maggior parte dedite a rispondere più ai bisogni interni che alle esigenze dell’esportazione), testimoniato dalla preminenza, che emerge dalle iscrizioni, dell’attività artigianale e commerciale su quella domestica: si pensi, ad es., alla notevole quantità di attestazioni inerenti a “vestiarii” (sarti) e “sagarii” (commercianti di mantelli di lana).

[65] Su questi testi v. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 36 ss. In part. su D.24.1.29.1 Pomp. 14 ad Sab. e D.24.1.31 pr. e 1 v. M.J. García Garrido, IVS VXORIVM, cit., p. 94 ss.; El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 75 ss. Su D.24.1.31.1 v. T.J. Chiusi, Zu Archaismen, cit., pp. 236 e nt. 5, 242 e nt. 2; P.Buongiorno, Il divieto di donazione fra coniugi, cit., vol. I, p. 99 ss. Secondo C. Lázaro Guillamón, Mujer, cit., p. 173, invece, da D.24.1.31 pr. e 1 si dovrebbe trarre che la donna protagonista di quei passi fosse dedita alla vendita della lana oggetto di lavorazione nel laboratorio di proprietà del marito (!) e che le schiave di costei (!) fossero preposte al compito di trasformare la lana lavorata in vestiti.

[66] Si pensi ad es. a Vitr. De arch. vi 4.2, ove si afferma la necessità della costruzione di «textrina» rivolti a nord ai fini del godimento di una luce costante, oppure alle osservazioni dei principali agronomi latini dell’età classica, che trovano conferma nella distribuzione capillare dei pesi da telaio nei territori sia italici che provinciali (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 42). Sull’attività di tessitura nelle aziende agricole v., per cenni, A. McClintock, La ricchezza femminile e la ‘lex Voconia’, Napoli, 2022, p. 119 s.

[67] Cfr. Colum. De re rust. xii praef. 9 e 10.

[68] Nello specifico Columella (De re rust. xii praef. 9 e 10) lamenta con tono polemico che la maggior parte delle donne del suo tempo è talmente dedita al lusso e all’ozio da non occuparsi della filatura e tessitura della lana per il confezionamento dei vestiti di tutti i membri della famiglia (“lanificium”), ma guarda con disprezzo agli abiti confezionati in casa preferendo le vesti costose dei negozi (in merito v. R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 22 s.; A. Montañana Casaní, La veuve, cit., p. 424; A.T. Croom, Roman Clothing, cit., p. 19; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 42 ss.). Non ci si deve stupire, aggiunge l’Autore (De re rust. xii praef. 9), se queste donne (mogli di proprietari terrieri) avvertano come un peso la cura del fondo agricolo e della sua attrezzatura e anzi considerino sgradevolissimo dimorare anche soltanto qualche giorno «in villa» (in questo periodo la vita si dispiegava nel mondo urbano, la matrona abbandonava la campagna e cominciava a condurre una vivace vita sociale in città: assisteva agli spettacoli pubblici, andava alle terme, partecipava ai neonati circoli letterari; le donne, pertanto, erano presenti nella vita sociale che si svolgeva insieme ai rispettivi mariti sia tra le mura di casa, sia al di fuori di queste: cfr. A. Montañana Casaní, La veuve, cit., p. 424).E così – prosegue Columella (De re rust. xii praef. 10; ma v. anche xii 3.6) –, giacché l’antico costume delle matrone romane e sabine è passato di moda, è divenuto via via indispensabile, soprattutto nelle residenze di campagna, l’impegno operoso della “vilica”, che si assuma il compito, che era della “matrona”, di sopraintendere al lavoro di filatura e tessitura delle ancillae lanificae per la confezione dell’abbigliamento destinato alla vilica stessa, agli schiavi sorveglianti e agli altri degni di rispetto, in modo che i conti del padrone siano alleggeriti. Sulla funzione delle vilicae e delle schiave lanificae e sul rapporto di equivalenza fra vilicae e lanipendae domestiche di città v. L. Larsson Lovén, From royal ladies to female slaves, cit., p. 291.

[69] Su questi testi v. nt. 50 del presente saggio.

[70] La ragione di tali perplessità risiede nell’ambiguità dei consigli forniti dagli agronomi su come sfruttare al meglio i fondi rustici sul piano economico: si tratta infatti di suggerimenti spesso divergenti fra loro e privi di indicazioni circa i reali scopi per cui vengono forniti (v. al riguardo P. Basso in P. Basso - J. Bonetto - M.S. Busana, Allevamento ovino e lavorazione della lana nella Venetia: spunti di riflessione, in Antenor Quaderni 20. Tra protostoria e storia. Studi in onore di Loredana Capuis, Roma, 2011, p. 402; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 48 ss.; pure F. Vicari, Produzione e commercio, cit., p. 87). Ad avviso di altri (ad es. F. De Martino, Storia economica di Roma antica, vol. II, Firenze, 1980, p. 312; F. Vicari, Produzione e commercio, cit., p. 87) è comunque possibile che nelle familiae rusticae (sempre nel periodo imperiale) la creazione delle stoffe fosse finalizzata anche al commercio con l’esterno.

[71] Cfr. nt. 51.

[72] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 56.

[73] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 56, 57 e nt. 215.

[74] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 58 ss.; L. Larsson Lovén, From royal ladies to female slaves, cit., p. 290.

[75] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 61 e nt. 225.

[76] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 29 ss., 81.

[77] Tra cui J.P. Morel, L’artigiano, cit., p. 238; L. Larsson Lovén, Lanam fecit. Woolworking and female virtue, in Aspects of Women in Antiquity. Procedeedings of the First Nordic Symposium on Women’s Lives in Antiquity. Göteborg 12-15 June 1997, edited by L. Larsson Lovén and A. Strömberg, Jonsered, 1998, p. 93; L.C. Nevett, Domestic Space, cit., p. 7; H. Di Giuseppe, Lanifici e strumenti della produzione nell’Italia centro-meridionale, in Antenor Quaderni 27. La lana nella Cisaplina romana. Economia e società. Studi in onore di Stefania Pesavento Mattioli. Atti del Convegno (Padova-Verona, 18-20 Maggio 2011), a cura di M.S. Busana e P. Basso con la collaborazione di A.R. Tricomi, Padova, 2012, pp. 480, 486 ss.

[78] Si pensi che a Pompei, ad es., su centoventidue case riportate alla luce, più della metà includeva negozi, trentadue comprendevano laboratori e meno di un terzo non rivelava alcun segno di attività economica ivi svolta (v. sul punto B.J. Lowe, The Dye Shops, cit., p. 5; anche J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma. Traduzione di E.O. Zona, 18a ed., Bari-Roma 2021, p. 207 s.; R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 232).

[79] Cfr. R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 232; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 62 e nt. 228.

[80] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 62 s. e nt. 230.

[81] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 62 s.

[82] Tra cui, ad es., W.O. Moeller, The Wool Trade, cit., p. 5.

[83] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 63.

[84] Cfr. R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 233; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 63 s.

[85] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 26.

[86] Q. Remnius Palémon è descritto da Svetonio(De Gramm. 23) come un uomo non soltanto per certi aspetti spregevole, ma anche dinamico e intraprendente, che, nato a Vicetia (nella zona di Patavinum, in Veneto) in schiavitù, durante l’infanzia fu addetto alla tessitura nella familia della sua domina (v. anche R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 234) e, una volta raggiunta l’età adulta e ottenuta la manomissione, insegnò la grammatica sotto Tiberio, Claudio e Nerone, accumulando grandi ricchezze. Queste ultime gli consentirono, prima, di acquistare vigne che riuscì a far fruttare in modo straordinario grazie al ricorso a tecniche innovative, poi, di creare nell’ager Nomentanus (su cui v. S. Panella - R. Simonetti, Ager Nomentanus: nuovi dati sulla viabilità antica, in Lazio a Sabina 10 (Atti del Convegno “Decimo Incontro di Studi sul Lazio e la Sabina”, Roma, 4-6 giugno 2013),a cura di E. Calandra - G. Ghini - Z. Mari (Lavori e Studi della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio, 10), Roma, 2014, pp. 297 ss.) una catena di laboratori che provvedevano alla tessitura, alla follatura, al finissaggio e alla cucitura degli indumenti, le cdd. “officinae promercalium vestium”, da cui uscivano ogni anno varie decine di migliaia di capi, con un ritorno economico enorme (cfr. D.K. Kaufman, Roman Tailors, cit., p. 182 e nt. 27; R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 234; F. Vicari, Produzione e commercio, cit., pp. 41, 88; J.P. Morel, L’artigiano, cit., p. 244; A. Tchernia, The Romans and Trade (transl. by J. Grieve), Oxford, 2016, p. 147; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 27 e nt. 69). La morte di Q. Remnius Palémon risale al 76 d.C. (cfr. R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 234). Per ulteriori approfondimenti sull’organizzazione della produzione tessile gestita dai “mercanti imprenditori” v. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 25. Questi mercanti imprenditori, cioè alcuni dei più agiati vestiarii, sagarii e lintiarii, erano senza dubbio commercianti, non produttori in senso stretto perché altrimenti sarebbero stati denominati in modo più preciso, in relazione a ciascuno degli stadi della manifattura tessile (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 25 s.). Fra l’altro, la pressoché totale assenza nella documentazione epigrafica di piccoli produttori o di singoli artigiani impiegati nel ciclo manifatturiero può dipendere, oltre che da scrupoli ideologici, anche da una fragilità finanziaria di questi soggetti, che impediva loro di mostrarsi come economicamente autonomi, dovuta forse alla subordinazione ai mercanti imprenditori, per i quali in forma diretta o indiretta tali produttori o artigiani lavoravano (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 26). Ecco perché si potrebbe ipotizzare che i vestiarii, sagarii e lintiarii, di cui invece le fonti epigrafiche conservano numerose testimonianze, fossero effettivamente mercanti imprenditori capaci di amministrare un sistema complesso, talvolta di notevoli proporzioni, che includeva tanto la produzione quanto il commercio delle stoffe (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 26).

[87] Cfr. F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 7 nt. 86; v., da ultimo, G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 13.

[88] Si vedano Varr. De re rust. ii 2.3; Colum. De re rust. vii 3.8; Plin. Nat. Hist. viii 75.198.

[89] Cfr. E. Andersson Strand, The textile chaîne opératoire: using a multidisciplinary approach to textile archaeology with a focus on the Ancient Near East, in Paléorient 38, 1-2 (2012), p. 30; F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 89.

[90] Cfr. F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 89 s.

[91] Cfr. F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 90; v. anche G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 13 s.

[92] Cfr. R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 4; T.E. Rihll, Technology and Society, cit., p. 53; F. Scotti, Lana, Linum, cit., pp. 90, 93.

[93] La lappola è una pianta erbacea con foglie triangolari e frutti con uncini che si attaccano con facilità al vello degli animali. Ancora oggi le lappole costituiscono un problema nel processo di lavorazione della lana: esiste infatti una procedura, detta “slappolatura” (successiva all’asciugatura della fibra e precedente l’imballaggio funzionale al trasporto della lana da filare) che ha lo scopo di staccare le lappole dalla fibra per mezzo di una macchina detta “slappolatrice” (cfr. F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 90 nt. 42).

[94] Cfr. Varr. De re rust. ii 2.18.

[95] Cfr. F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 90 s.

[96] Cfr. F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 93.

[97] Cfr. F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 94.

[98] Cfr. Colum. De re rust. vii 2.3 e 4.

[99] Cfr. F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 94.

[100] Nel territorio dei Liguri Statielli (attuale Piemonte): cfr. F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 94 nt. 74.

[101] Cfr. Colum. De re rust. vii 2.4; F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 94 ss.; v. già R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, pp. 20, 22, 24 s., 26, 232; A.T. Croom, Roman Clothing, cit., p. 26; F. Meo, L’attività tessile a Herakleia di Lucania tra il III e il I secolo a.C., Roma, 2015, p. 9.

[102] Cfr. Colum. De re rust. vii 2.4.

[103] Cfr. Mart. Epigr. xiv 157 (titolo:«Lanae Pollentinae»): «Non tantum pullo lugentes uellere lanas,/sed solet et calices haec dare terra suos».

[104] Cfr. Sil. It. Pun. viii 597 («Vercellae, fucisque ferax Pollentia uilli»).

[105] Cfr. Plin. Nat. Hist. viii 73.191.

[106] Cfr. F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 96.

[107]Tra cui, ad es., F. Vicari, Produzione e commercio, cit., p. 44.

[108] Cfr. Colum. De re rust. vii 2.3.

[109] Cfr. F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 97 ss.; v. R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, pp. 20, 23 s., 232; F. Meo, L’attività tessile a Herakleia, cit., p. 9; G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 17.

[110] Cfr. Plin. Nat. Hist. viii 73.190.

[111] Cfr. F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 99 s. Sulla fama delle lane della Pianura Padana v. anche R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, pp. 22, 24 s., 232.

[112] Cfr. Plin. Nat. Hist. xxix 9.33; F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 100 s.

[113] Cfr. Strab. Geogr. v 1.12.

[114] Cfr. Mart. Epigr. xiv 158.

[115] F. Vicari, Produzione e commercio, cit., pp. 44, 72 (ma v. anche p. 90), informa che, dopo Strabone (la cui morte si colloca fra il 21 e il 24 d.C.), le fonti non parlano più delle lane liguri nell’insieme, ma soltanto di quelle di Pollentia (Pollenzo), probabilmente il mercato più importante delle lane della Liguria. Ad avviso dell’Autore (p. 44 s.), le lane liguri si potevano equiparare, sul piano della qualità e del colore, a quelle di Pollenzo, il cui ricordo tuttavia cessa di essere tramandato nei testi antichi dalla fine del i sec. d.C. Sulla base di Strab. Geogr. v 1.12 e Mart. Epigr. xiv 158, si può supporre un’intensa attività di esportazione di lana dalla Liguria nel resto del territorio italico a causa del notevole afflusso di schiavi nella penisola a cavaliere del i sec. a.C. e di quello successivo dell’era cristiana, anche se le aree appenniniche erano in grado di offrire notevoli quantità di lana poco pregevole dal momento che l’allevamento delle pecore era molto comune in quei luoghi (cfr. F. Vicari, Produzione e commercio, cit., pp. 44, 72). Ad es., sul versante appenninico, soprattutto centromeridionale, l’allevamento ovino facilitava il fiorire di attività artigianali legate alla lavorazione della materia prima fino alla conversione in filato (cfr. F. Vicari, Produzione e commercio, cit., p. 90). Forse allora la predilezione per le lane liguri rispetto a quelle appenniniche si potrebbe spiegare alla luce di un costo di mercato molto più concorrenziale delle prime rispetto alle seconde (cfr. F. Vicari, Produzione e commercio, cit., p. 44). Ma si potrebbe anche ipotizzare che la lana ligure fosse preferita per la naturalezza del suo colore, che faceva sì che l’abbigliamento servile si distinguesse da quello dei liberi, dei liberti o degli schiavi di grado più elevato per il fatto di essere confezionato con lane scure (cfr. F. Vicari, Produzione e commercio, cit., p. 44). In proposito v. anche R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 24; F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 102.

[116] Come, ad es., la lana ligure (su cui v. F. Vicari, Produzione e commercio dei tessuti nell’Occidente romano, in British Archaeological Reports International Series, 916 (2001), pp. 44, 72, 90; in proposito v. altresì R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 24; F. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 102) o, soprattutto durante la tarda repubblica e l’età augustea, la lana marrone di Canosa (cfr. J.L. Sebesta, Tunica Ralla, Tunica Spissa: The Colors and Textiles of Roman Costume, in The World of Roman Costume, edited by J.L. Sebesta and L. Bonfante, Madison - Wisconsin, 2001, p. 70; contra F. Vicari, Produzione e commercio, cit., p. 27 s. e nt. 57, il quale, sulla scorta anche di A. Acri, Sulla produzione laniera di Canosa, in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, 25-26 (1982-1983), p. 189 ss., rileva che dalle fonti antiche emergerebbe che, soprattutto fra la tarda repubblica e l’età augustea, la lana marrone di Canosa fosse considerata di elevata qualità e venisse utilizzata per l’abbigliamento degli schiavi di alto rango appartenenti a famiglie molto benestanti, se non aristocratiche). Ma si osservi che gli schiavi, alla fine della repubblica, si abbigliavano altresì con vestiti usati o fatti di stracci rammendati insieme e venduti dai c.dd. “centonarii” (cfr. J.L. Sebesta, Tunica Ralla, Tunica Spissa, cit., p. 67; ma v. altresì F. Vicari, Produzione e commercio, cit., p. 12).

[117] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 102 s., 110 nt. 165, 210, 212 ss., 371.

[118] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 363.

[119] Su questi tipi di “lana” v. brevemente, di recente, G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 17 s.

[120] Cfr. Th. Mommsen, Editio maior, vol. II, p. 93 ntt. 1, 2, 3, 5, 6; Editio minor, p. 494 ntt. 7, 8, 9, 12, 13.

[121] Cfr. P. Bonfante - C. Fadda - C. Ferrini - S. Riccobono - V. Scialoia, Digesta Iustiniani Augusti, Mediolani, 1931, p. 800 ntt. 1, 2, 3, 6, 7 (nelle prossime note la citazione di questa edizione del Digesto sarà indicata con l’espressione “Digesto Milano” e senza la menzione dei nomi degli editori).

[122] Cfr. O. Lenel, Palingenesia Iuris Civilis, vol. II, Lipsiae, 1889 (rist. Roma, 2000), col. 1093, fr. 2639, nt. 3.

[123] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 2, 367.

[124] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 2, 367.

[125] Si veda specialm. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 171 ss.

[126] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 367.

[127] Nel principium del frammento, in base alla lezione dei manoscritti, si legge: «Si cui lana legetur, id legatum videtur quod tinctum non est, sed ατοφνές:». Rende conto della proposta di spostamento delle parole “et constabat apud veteres lanae appellatione versicoloria non contineri” site all’inizio della lezione attuale del § 12 anche R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 243; I libri tres, cit., p. 96.

[128] Nel § 1 della lezione tràdita è detto: «Sive autem facta est sive infecta, lanae appellatione continetur».

[129] Nella versione attuale del § 2 è scritto: «Quaesitum est, utrum lanae appellatione ea sola contineatur quae neta non est an et ea quae neta est, ut puta stamen et subtemen: et Sabinus et netam contineri putat, cuius sententia utimur».

[130] Il testo tràdito dai manoscritti del § 11 si presenta così: «Lino autem legato tam factum quam infectum continetur quodque netum quodque in tela est, quod est nondum detextum. ergo aliud in lino quam in lana est. et quidem si tinctum linum sit, credo lino continebitur».

[131] Ecco la versione corrente del § 12: Versicoloribus videndum est. et constabat apud veteres lanae appellatione versicoloria non contineri, sed ea omnia videri legata, quae tincta sunt, et neta, quae neque detexta neque contexta sunt. proinde quaeritur, an purpura appellatione versicolorum contineatur. et ego arbitror ea, quae tincta non sunt, versicoloribus non adnumerari et ideo neque album neque naturaliter nigrum contineri nec alterius coloris naturalis: purpuram autem et coccum, quoniam nihil nativi coloris sunt, contineri arbitror, nisi aliud sensit testator.

[132] Raffronto dettagliatamente eseguito in F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 171 ss.

[133] D.32.70 pr.-4 Ulp. 22 ad Sab.: «Si cui lana legetur, id legatum videtur quod tinctum non est, sed ατοφνές: et constabat apud veteres lanae appellatione versicoloria non contineri. 1. Sive autem pectita est sive inpectita, lanae appellatione continetur. 2. Quaesitum est, utrum lanae appellatione ea sola contineatur quae neta non est an et ea quae neta est, ut puta stamen et subtemen: et Sabinus et netam contineri putat, cuius sententia utimur netam autem esse quae neque detexta neque contexta sit. 3. Lanae appellationem eatenus extendi placet, quoad ad telam pervenisset. 4. Et sciendum sucidam quoque contineri et lotam, si modo tincta non sit».

[134] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 7 nt. 86. Sui tipi di lana e le loro caratteristiche in base alle fonti agronomiche e alla letteratura antichistica, v. O. Giudici, s.v. Lana, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti pubblicata sotto l’alto patronato di Sua Maestà il Re d’Italia, XX (ITE-LET), Roma, 1933, p. 462; R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, pp. 4, 20, 22, 23 ss., 26, 232; A.T. Croom, Roman Clothing, cit., p. 26; T.E. Rihll, Technology and Society, cit., p. 53; E. Andersson Strand, The textile chaîne opératoire, cit., p. 30; F. Meo, L’attività tessile a Herakleia, cit., p. 9; F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 85 ss., 97 ss., 102 s., 110 nt. 165, 210 ss., 371.

[135] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 3 s., 172 ss., passim. Quest’ultima precisazione si chiarisce alla luce di Colum. De re rust. vii 2.3 e 4, ove non soltanto si esaltano la natura pregiata e l’estrema utilità del mantello bianco ma si enumerano anche le diverse razze ovine dell’Italia e delle province che forniscono velli neri e rossicci, e di Plin. Nat. Hist. viii 73.191, in cuisi menzionano, fra le lane naturalmente colorate e incolori allevate in Italia e in provincia, quelle nere, bianche, rosse, fulve e di una tonalità scura particolare.

[136] È forse preferibile usare qui il termine generale “spola”, dal momento che gli antichisti esprimono opinioni diverse sulla conformazione e la denominazione esatta di questo strumento, anche a seconda del tipo di telaio considerato: v., in merito, nt. 151.

[137] Anche se non tutti gli studiosi convengono sul punto, in quanto alcuni, ad es., ritengono che si cominciasse con la “tosatura”: v., al riguardo, F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 109 e ntt. 156 e 157 (con bibl.). Sulla tosatura v. Varr. De re rust. ii 11.6,9; Plin. Nat. Hist. viii 73.191; xxix 9.34; 10.35,38; T.E. Rihll, Technology and Society, cit., p. 53; F. Meo, L’attività tessile a Herakleia, cit., p. 11; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 104 ss.; G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 14; anche E. Andersson Strand, The textile chaîne opératoire, cit., p. 30.

[138] Non vi è accordo tra gli specialisti sull’identificazione del momento in cui normalmente avveniva la colorazione nel ciclo di lavorazione della lana. Alcuni (M. Besnier, s.v. Purpura, in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines d’après les textes et les monuments, Tome Quatrième, Première partie (N-Q), Paris, 1873, p. 773 – a proposito, nello specifico, della colorazione con la porpora – ; R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, pp. 21, 81; J.P. Wild, Textile Manifacture in the Northern Roman Provinces, Cambridge, 1970, pp. 23, 80; Id., Textiles, in Roman Crafts, edited by D. Strong and D. Brown, London, 1976, p. 175; Id., Textiles in Archaeology, Merlins Bridge, Haverfordwest, Pembrokeshire (reprint.), 2003, p. 59; J.L. Sebesta, Tunica Ralla, cit., p. 66; E.J.W. Barber, Weaving the Social Fabric, in Ancient Textiles. Production, Craft and Society. Proceedings of the First International Conference on Ancient Textiles, held at Lund, Sweden, and Copenhagen, Denmark, on March 19-23, 2003, edited by C. Gillis and M.-L.B. Nosch, Singapore, 2007 (reprint. 2008), p. 175) sostengono che la colorazione si svolgesse prima della filatura senza tuttavia specificare se la lana da tingere fosse semplicemente lavata e grossolanamente districata oppure già cardata o pettinata; altri (R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 162; M. Hughes - M. Forrest, Book II. How the Greeks and Romans made cloth, Cambridge - New York - Melbourne, 1984, pp. 12, 25, 63 s.; F. Vicari, Produzione e commercio, cit., p. 5; H. Di Giuseppe, I tessuti e la tessitura: aspetti storici della produzione nell’Europa e nel bacino del Mediterraneo, in Il mondo dell’archeologia. Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, vol. II, Roma, 2002, p. 923; Ph. Borgard - M.-P. Puybaret, Le travail de la laine au début de l’Empire: l’apport du modèle pompéien. Quels artisans? Quels équipements? Quelles techniques?, in Purpureae vestes. Actas del I Symposium Internacional sobre Textiles y Tintes del Mediterráneo en época romana (Ibiza, 8 al 10 de noviembre, 2002), (Eds.) C. Alfaro - J. P. Wild - B. Costa, València, 2004, p. 47 s.; B. Orsini, Alle origini del tessuto, in Il filo della storia. Tessuti antichi in Emilia Romagna, a cura di M. Cuoghi Costantini - I. Silvestri, Bologna, 2005, p. 24; Ead., Decori, colori e filati di Roma antica, in Il filo della storia. Tessuti antichi in Emilia Romagna, a cura di M. Cuoghi Costantini - I. Silvestri, Bologna, 2005, p. 40), invece, affermano che la tintura aveva luogo una volta che il vello fosse stato lavato e sottoposto a una prima districatura; altri ancora (E. Wipszycka, L’industrie textile dans l’Egypte romaine, Wrocław - Warszawa - Kraków, 1965, p. 145; J.P. Morel, La laine de Tarente (De l’usage des textes anciens en histoire économique), in Ktema. Civilisations de l’Orient, de la Grèce et de Rome antiques. Revue annuelle, 3 (1978), p. 105 e nt. 38; Ch. Macheboeuf, Pourpre et matières textiles: des ateliers aux tabernae, in Purpureae vestes. Actas del I Symposium Internacional sobre Textiles y Tintes del Mediterráneo en época romana (Ibiza, 8 al 10 de noviembre, 2002), (Eds.) C. Alfaro - J.P. Wild - B. Costa, València, 2004, p. 138) soltanto dopo la cardatura o la pettinatura. A ogni modo, era indispensabile che il vello, prima della colorazione, fosse lavato, come si ricava dalle fonti agronomiche latine (v. in part. Varr. De re rust. ii 2.18, secondo cuiil vello sporco non poteva essere tinto bene; Plin. Nat. Hist. ix 62.133, da cui emerge che, nel caso di tintura con la porpora, la relativa procedura doveva avere per oggetto il «vellus elutriatum», cioè il vello lavato dopo essere stato tosato – cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 91 e nt. 46, 115 – ). Infine, non è nemmeno da escludere che la colorazione potesse in alternativa avere per oggetto il filato o la stoffa appena tessuta (cfr. R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 80; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 114 e nt. 186). In questa sede si preferisce collocare questa operazione subito dopo la lavatura e la prima districatura del vello, conformemente alla tesi prevalente. Ma si avrà modo di soffermarsi sulla tintura in occasione dell’esame di D.32.70.12 e 13 (riguardanti i legati rispettivamente di “versicoloria” e di “purpura”).

[139] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 109 e nt. 158 (con bibl.).

[140] Cfr. R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 81; F. Meo, L’attività tessile a Herakleia, cit., p. 12; F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 106, 109 s.; anche E. Andersson Strand, The textile chaîne opératoire, cit., p. 31.

[141] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 110.

[142] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 110 s.

[143] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 111.

[144] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 110 s.; v. G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 14 s. I criteri di selezione potevano essere il «colore, la lunghezza, la resistenza, la finezza, il grado di increspatura» della fibra (cfr. F. Meo, L’attività tessile a Herakleia, cit., p. 13).

[145] Cfr. E. Andersson Strand, The textile chaîne opératoire, cit., p. 31; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 122.Ad avviso diT.E. Rihll, Technology and Society, cit., p. 53, benché la pettinatura fosse usuale, essa, tuttavia, era facoltativa.

[146] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 122; v. R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 21; F. Meo, L’attività tessile a Herakleia, cit., p. 13, il quale spiega in particolare che la cardatura o pettinatuta serviva a dividere le fibre lunghe, adatte alla filatura, da quelle corte; G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 15 s. Sugli strumenti usati per la cardatura (cardi selvatici, cioè il c.d. «Dipsacus fullonum», o cardi di metallo consistenti in pettini con più denti e provvisti di manici) e la pettinatura (una specie di un pettine con denti uncinati) v. R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 21; F. Meo, L’attività tessile a Herakleia, cit., p. 13; F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 122, 123 e nt. 236, 124.

[147] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 123 s.

[148] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 125; v. R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 159; F. Meo, L’attività tessile a Herakleia, cit., p. 13; G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 24. Gli strumenti impiegati erano la “conocchia” o “rocca” e il “fuso” (cfr. R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 159; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 126). Sulla conocchia o rocca o “colus” v. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 126 s.; G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 25; anche F. Meo, L’attività tessile a Herakleia, cit., p. 14 s. Sul fuso v. F. Meo, L’attività tessile a Herakleia, cit., p. 15; F. Scotti, Lana, Linum, cit., pp. 127 ss. (sui ritrovamenti di fusi nel sito archeologico di Herakleia, in Lucania, fra il iii e il i sec. a.C., v. F. Meo, L’attività tessile a Herakleia, cit., p. 16); G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 25. Faceva parte del fuso anche il c.d. “fusaiolo” (o “verticillus”) su cui v. F. Meo, L’attività tessile a Herakleia, cit., p. 16; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 129 nt. 263 (per qualche esempio di ritrovamenti di fusaiole v. E.M. Menotti, Fusaiole. Dal filo all’abito, in È l’eleganza che ci conquista. Moda, costumi e bellezza nelle collezioni del Museo Archeologico Nazionale di Mantova, a cura di E.M. Menotti, Mantova, 2003, p. 113 s.; Scotti, Lana, linum, cit., p. 128 s.); G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 25. Sul processo vero e proprio di filatura v. R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 165; E. Andersson Strand, The textile chaîne opératoire, cit., p. 32 s.; G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 26 ss.; in modo conciso F. Meo, L’attività tessile a Herakleia, cit., p. 15, e A.T. Croom, Roman Clothing, cit., p. 19; diffusamente F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 130 ss. Sulle tipologie di fili che si ottenevano “stamen” (ordito), “trama” (trama) e “subtemen” (quest’ultimo presumibilmente un genere differente di trama) v. stringatamente F. Meo, L’attività tessile a Herakleia, cit., p. 16 s., e G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 27; più estesamente F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 132 s.

[149] Oscura e a tratti contraddittoria mi pare l’interpretazione di D.32.70.3,11-13 proposta da R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 242 s., 245; nemmeno quella di M.A. Ligios, Merci e legati, cit., p. 101, pare accoglibile nella parte in cui essa stabilisce che nel legato di lana questa, se montata sul telaio, debba essere «ancora in lavorazione». Per le ragioni alla base della lettura del § 3 qui sostenuta v. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 190 s.

[150] Cfr. Scotti, Lana, linum, cit., p. 190. Nell’antichità si tesseva al telaio c.d. “verticale”: i più diffusi erano quello “a pesi” e quello “a doppio subbio”, di cui il primo tipico del contesto romano (e, prim’ancora, fenicio) e dell’area mediterranea in generale, il secondo dell’ambito egiziano, anche se presente pure a Roma a partire dal i sec. d.C. (cfr. A.T. Croom, Roman Clothing, cit., p. 19; M. Gleba, Linen production in Pre-Roman and Roman Italy, in Purpureae vestes. Actas del I Symposium Internacional sobre Textiles y Tintes del Mediterráneo en época romana (Ibiza, 8 al 10 de noviembre, 2002),(eds.) C. Alfaro - J.P. Wild - B. Costa, València, 2004, p. 34; E. Andersson Strand, The textile chaîne opératoire, cit., p. 35; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 133). Nel telaio a pesi la pezza (di tessuto) si tesseva dall’alto verso il basso, in quello a doppio subbio dal basso verso l’alto (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 133 s.; anche A.T. Croom, Roman Clothing, cit., p. 20). Chi lavorava al telaio a pesi di regola stava in piedi (ma talvolta anche seduto), mentre chi lavorava al telaio a doppio subbio si sedeva (cfr. E. Andersson Strand, The textile chaîne opératoire, cit., p. 35 – fig. 14 – ; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 134). Sulla struttura, sulle caratteristiche e sul funzionamento del telaio a pesi v. R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, pp. 192, 198 ss., 202; A.T. Croom, Roman Clothing, cit., p. 19 s.; M. Gleba, Linen production, cit., p. 34; F. Meo, L’attività tessile a Herakleia, cit., p. 17 ss.; F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 134 s., 137 ss., 141 s. (due disegni di telaio a pesi), 146, 148, 182 s. nt. 32.; G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 29 ss. Sulla struttura, sulle caratteristiche e sul funzionamento del telaio a doppio subbio o “tubolare” v. R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, pp. 192, 195 ss.; A.T. Croom, Roman Clothing, cit., p. 20; in modo sintetico F. Meo, L’attività tessile a Herakleia, cit., p. 28;diffusamente F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 149 ss., 154 (disegno di telaio a doppio subbio); G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 33 s.

[151] Cfr. Scotti, Lana, Linum, cit., p. 133; v. anche G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 28. Secondo H. Di Giuseppe, I tessuti e la tessitura: aspetti storici, cit., p. 924, l’inserimento del filo di trama nel passo dell’ordito sarebbe avvenuto in origine tramite il semplice scorrimento della matassa, mentre soltanto in seguito sarebbe stato utilizzato un legnetto, corrispondente alla “spola”, una bacchetta corta intorno a cui il filo della trama veniva avvolto a mano (v. anche R. Patterson, Filatura e tessitura, in Storia della tecnologia. II. Le civiltà mediterranee e il Medioevo. Circa 700 a.C.-1500 d.C.,a cura di C. Singer - E.J. Holmyard - A.R. Hall - T.I. Williams, Tomo 1, Torino, 2012, pp. 211, 214): d’altronde Vicari, Produzione e commercio, cit., p. 10, ricorda il ritrovamento di piccole spole per telai nei vari siti archeologici dell’impero. Forse è più tarda la “navetta” (cfr. A. Ferdière, Le travail du textile en Région Centre de l’Age du Fer au Haut Moyen-Age, in Revue Archéologique du Centre de la France, 23 (1984), p. 220); essa era il contenitore in cui a un certo punto venne introdotta la spola: la navetta, grazie alla sua struttura, consentiva uno scorrimento veloce del filo di trama sopra e sotto l’ordito (cfr. H. Di Giuseppe, I tessuti e la tessitura: aspetti storici, cit., p. 924 s.). Di tutt’altro avviso è J.P. Wild, Textile Manifacture, cit., p. 65, secondo cui la spola consisteva in una matassa di filo con una “testa” compatta, paragonabile a una “bambolina”: la spola (nel latino medievale “navicula”), infatti, era sconosciuta ai Romani e quella greca (“πηνίον”), simile a un bastoncino, è raramente menzionata nel periodo romano. A sua volta, la “rocchetta” consisteva in uno strumento d’osso (in genere il metatarso o il metacarpo di una pecora o di una capra forato trasversalmente in mezzo o nell’estremità più larga): resti archeologici di bobine di osso per i fili sono stati trovati nel sito di Magdalensberg, in Austria, come testimonia K. Gostenčnik, Textile Production and Trade in Roman Noricum, in Making Textiles in Pre-Roman and Roman Times. People, Places, Identities (edited by M. Gleba and J. Pásztókai-Szeőke), Oxford, 2013, p. 82. In Ovid. Metamorph. vi 55-58 e nella relativa versione lievemente modificata di Sen. Epist. moral. ad Lucil. xiv 90.20, ambedue riguardanti le modalità di funzionamento del telaio a doppio subbio (cfr. R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 198; J.P. Wild, Textile Manifacture, cit., p. 71), in merito alla tessitura degli arazzi si parla del filo di trama colorato che veniva avvolto intorno a una serie di “rocchette” (“radii” o “broches”): cfr. J.P. Wild, Textile Manifacture, cit., p. 71. Per qualche esempio di ritrovamento di rocchetti v. E.M. Menotti, Rocchetti. Dal filo all’abito, in È l’eleganza che ci conquista. Moda, costumi e bellezza nelle collezioni del Museo Archeologico Nazionale di Mantova, a cura di E.M. Menotti, Mantova, 2003, p. 115 s.; Scotti, Lana, linum, cit., p. 132.

[152] Cfr.brevemente R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 241 s.; diffusamente F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 5 e nt. 10, 77 ss., 188 s., 194, passim.

[153] Si vedano sul punto F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 181, ss., 186 ss., 191, passim; analogamente già R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, pp. 242 s., 246 ss; M.A. Ligios, Merci e legati, cit., p. 101 nt. 165; da ultimo, un cenno in A. McClintock, La ricchezza femminile, cit., p. 119 s. e nt. 33.

[154] Si veda in proposito F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 19 s. e nt. 29, 120 s. nt. 226, 127 s. nt. 260, 131 s. nt. 283, 330.

[155] Cfr. F. Scotti, Legati di lana, lino e vestiti nei testi della giurisprudenza romana: discipline a confronto, in Jus. Rivista di Scienze Giuridiche, 3 - Anno LXIV (sett.-dic. 2017), p. 334 s.; Ead. Lana, Linum, cit., p. 156 e nt. 402; v. Plin. Nat. Hist. xix 1.2. Sulla morfologia della pianta del lino e su ciò che da questa si ricavava v. E. Andersson Strand, The textile chaîne opératoire, cit., p. 24; T.E. Rihll, Technology and Society, cit., p. 53; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 156; G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 20 s. Il lino coltivato al tempo dei Romani era di una qualità (“Linum usitatissimum”) che si era sviluppata nel tempo da diverse varietà di lino selvatico (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 157; sulle diverse modalità con cui si coltivava il lino nel Nord e nel Sud d’Italia, v. M. Gleba, Linen production, cit., p. 33 s.).

[156] R. Patterson, Filatura,cit., II.1, p. 194.

[157] Cfr. F. Scotti, Legati di lana, lino e vestiti, cit., p. 259. Data dunque la diversa natura del lino rispetto a quella della lana, il primo veniva trattato in modo differente e con strumenti particolari (cfr. F. Meo, L’attività tessile a Herakleia, cit., p. 10). La raccolta delle piante dipendeva dallo stadio del loro sviluppo, dal momento che, una volta raggiunta la piena maturazione, le fibre si indurivano divenendo difficili da lavorare (cfr. E. Andersson Strand, The textile chaîne opératoire, cit., p. 25 s.; T.E. Rihll, Technology and Society, cit., p. 53; F. Meo, L’attività tessile a Herakleia, cit., p. 10). Sul cotone e la sua lavorazione in epoca romana v. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 252 ss.; succintamente, di recente, G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 21 s.

[158] D.32.70.10 e 11 Ulp. 22 ad Sab.: «10. Linum autem lana legata untique non continebitur. 11. Lino autem legato tampectitum quam inpectitum continetur quodque netum quodque in tela est, quod est nondum detextum. ergo aliud in lino quam in lana est. et quidem si tinctum linum sit, credo lino continebitur». Sulla presunta paternità di questi due paragrafi a Sabino v. R. Astolfi, I libri tres, cit., p. 96.

[159] La filatura del lino (su cui v. succintamente R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 155) era considerata un’attività dignitosa anche per gli uomini (cfr. Plin. Nat. Hist. xix 3.18; R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 162; M. Gleba, Linen production, cit., p. 34; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 158 e nt. 416), a differenza di quella della lana, che era prerogativa esclusiva delle donne (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 60).

[160] La tessitura del lino veniva in genere svolta sia dalle donne che dagli uomini (cfr. M. Gleba, Linen production, cit., p. 34 s.); una volta terminata di essere tessuta, la pezza di tela veniva battuta con un bastone per essere migliorata (cfr. Plin. Nat. Hist. xix 3.18; ma anche2.13: su entrambi i testi v. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 159 e nt. 418).

[161] Si veda in merito M.A. Ligios, Merci e legati, cit., p. 101 nt. 165.

[162] Cfr. Plin. Nat. Hist. xvi 30.73; xix 4.21 (su questi passi v. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 159 e ntt. 417, 422).

[163] Cfr. A.T. Croom, Roman Clothing, cit., p. 26; M. Gleba, Linen production, cit., p. 34; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 159.

[164] Cfr. R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 81. Ad es., sulla scorta della testimonianza di Apul. Florid. iv 18 e 19, si può pensare che i fili di lino previamente tinti di porpora fossero impiegati nella confezione delle subuculae (cfr. Ch. Macheboeuf, Pourpre et matières textiles, cit., p. 139 e nt. 7). Sulla subucula, l’archetipo della camicia, v. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 160 e nt. 428. Tra l’altro si osserva come non sia mai stata trovata dagli archeologi alcuna tela o frammento di tessuto di lino colorati di porpora, anche se alcune fonti letterarie dell’età classica parlano di ampie stoffe tinte con questo colorante, destinate a essere trasformate in lenzuola, tovaglie o vestiti (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 159). Del resto, alcuni studiosi (come, ad es., Ch. Macheboeuf, Pourpre et matières textiles, cit., p. 139) nutrono seri dubbi sul fatto che grandi pezze di lino già tessuto vennissero tinte con la porpora dal momento che, a fronte di risultati così mediocri, lo spreco di questo costoso colorante sarebbe stato inevitabile: la loro conclusione, pertanto, è che forse, in realtà, il lino tessuto non venisse affatto tinto con la porpora (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 159 s. e nt. 426 e 427). Inoltre, pur non avendo mai effettuato gli scienziati moderni prove di colorazione del lino con la porpora, si può tuttavia ammettere che la tintura di porpora rendesse il lino ancora più ruvido, visto che Alessandro Severo era solito considerare gli indumenti di lino tinti di porpora particolarmente ispidi a causa di questo tipo di colorazione (cfr. M. Cassia, La seta nella Historia Augusta: soltanto un simbolo di luxus?, in Commentaria Classica, 7 (2020), p. 95 e nt. 17; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 160). Forse per tutte queste ragioni il lino veniva indossato per lo più nel suo colore naturale, un marrone grigiastro (il lino, ad es., in Egitto si lavorava di preferenza al naturale: del resto, la stessa spiegazione pliniana, priva di qualsiasi accenno alla tintura, darebbe, a detta di R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 29 s., una rappresentazione integrale delle operazioni degli antichi artigiani egiziani: al riguardo v. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 160 e nt. 433). Sui possibili metodi adottati per la “sbianca” del lino a partire già dal iv sec. a.C., v. A.T. Croom, Roman Clothing, cit., p. 26; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 160 s. Sulla peculiare testimonianza di Plin. Nat. Hist. xix 4.21; xx 79.207 (probabilmente ispirata a Theophr. Hist. Plant.ix 12.5) sull’uso di un certo papavero per sbiancare il lino, v. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 160 s.

[165] Cfr. Plin. Nat. Hist. xix 3 (su cui v. M. Gleba, Linen production, cit., p. 34). Del resto, è Mommsen stesso a indicare in Plinio la base della sua proposta di emendazione (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 174 e nt. 8, 196 nt. 80). Per una esposizione fedele del resoconto pliniano v. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 157 ss.; in modo stringato F. Meo, L’attività tessile a Herakleia, cit., p. 10 s., il quale riferisce anche della scoperta, in una villa romana nei pressi di Saetabis (corrispondente all’attuale Játiva, in Spagna, nella provincia di Valencia), città nota nell’antichità per la produzione del lino, di una presumibile struttura per la lavorazione di questa fibra, costituita da due vasche connesse l’una all’altra da un lungo canale per il transito delle acque. Si noti, tra l’altro, che la lavorazione del lino oggi non si discosta molto dal metodo applicato nell’antichità (cfr. E. Andersson Strand, The textile chaîne opératoire, cit., p. 25). Per una descrizione ancora più dettagliata di quella pliniana v. E. Andersson Strand, The textile chaîne opératoire, cit., p. 26 ss.; per una spiegazione concisa v. T.E. Rihll, Technology and Society, cit., p. 53.

[166] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 8, 196.

[167] Cfr. M. Gleba, Linen production, cit., p. 34.

[168] Si veda sul punto F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 161, 167 s. e ntt. 496-499. M. Gleba, Linen production, cit., p. 34, invece, sostiene che i lintiones fossero anche commercianti di lino.

[169] Cfr. R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 25 (ma anche p. 232 s.). Su tutte queste categorie professionali coinvolte nella manifattura e vendita del lino nell’iconografia romana, v. M. Gleba, Linen production, cit., p. 35 s.

[170] Cfr. J.P. Morel, L’artigiano, cit., p. 238.

[171] D.32.70.12 Ulp. 22 ad Sab.: «Versicoloribus videndum est. versicoloribus legatis constat ea omnia videri legata, quae tincta sunt, et neta, quae neque detexta neque contexta sunt. proinde quaeritur, an purpura appellatione versicolorum contineatur. et ego arbitror ea, quae tincta non sunt, versicoloribus non adnumerari et ideo neque album neque naturaliter nigrum contineri nec alterius coloris naturalis: purpuram autem et coccum, quoniam nihil nativi coloris sunt, contineri arbitror, nisi aliud sensit testator».

[172] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 197 ss., 375. Ambigua, a mio avviso, appare la lettura offerta da R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 245, di D.32.70.12.

[173] D.32.70.13 Ulp. 22 ad Sab.: «Purpurae autem appellatione omnis generis purpuram contineri puto: sed coccum non continebitur, fucinum et ianthinum continebitur. purpurae appellatione etiam subtemen factum contineri nemo dubitat: lana tinguendae purpurae causa destinata non continebitur».

[174] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 339.

[175] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 339 s.

[176] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 115.

[177] Cfr. É. Dubois-Pelerin, Le luxe privé, cit., p. 230; J. Pérez González, Purpurarii et vestiarii. El comercio de púrpuras y vestidos en Roma, in Studia Antiqua et Archeologica, 22.2 (2017), p. 157; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 263 s. Oggi, peraltro, la terminologia appare invertita rispetto a quella degli antichi: il “murex” o “bucinum” corrisponde all’attuale “Thais (= “Purpura”) haemastoma”, mentre il “bucinum minor” all’odierno “Heraplex trunculus”, ex“Murex Trunculus”, il murice comune (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 272; G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 42). La “purpura”, invece, coincide con il “Murex (= “Bolinus”) brandaris” di adesso (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 272; v. già M. Gleba - I. Vanden Berghe - L. Cenciaioli, Purple for the masses? Shellfish purple-dyed textiles from the quarry workers’ cemetery at Strozzacapponi (Perugia/Corciano), Italy, in Ancient Textiles Series 30, Treasures from the Sea. Sea Silk and Shellfish Purple Dye in Antiquity, edited by H.L. Enegren and F. Meo, Oxford & Philadelphia, 2017, p. 13; J. Pérez González, Purpurarii et vestiarii, cit., p. 157; recentemente G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 42). Questo rovesciamento della terminologia è una delle ragioni delle incertezze, delle domande e degli errori che dall’epoca moderna in poi hanno avuto luogo nell’ambito degli studi in materia (cfr. J. Pérez González, Purpurarii et vestiarii, cit., p. 157; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 272). Disegni del murex e del bucinum, accompagnati dalle rispettive denominazioni attuali, si trovano in F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 273 ss.

[178] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 263 s., 405 s. Le porpore marine venivano estratte lungo tutto il perimetro del Mediterraneo (sulla storia della diffusione della porpora nel bacino del Mediterraneo sin dai tempi più antichi v. C. Kremer, The spread of purple dyeing in the Eastern Mediterranean – a transfer of technological knowledge?, in Ancient Textiles Series 30, Treasures from the Sea. Sea Silk and Shellfish Purple Dye in Antiquity, edited by H.L. Enegren and F. Meo, Oxford & Philadelphia, 2017, p. 96 ss.). Il “coracinum”, invece, pur essendo una lumaca di mare consistente a sua volta in un mollusco gasteropode, non era tuttavia annoverato dagli antichi fra le porpore marine, forse perché da esso si traeva un colore ben diverso: il nero corvino.

[179] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 276; v. anche G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 42.

[180] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 276.

[181] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 276.

[182] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 276.

[183] Cfr. Liv. Ab urb. cond. xxxiv 3.9 (arg. ex xxxiv 4.1-10,14,18-21; xxxiv 6.1 e 2,9,15); Plin. Nat. Hist. ix 60.124; I. Boesken Kanold, Dyeing wool and sea silk with purple pigment from Heraplex Trunculus, in Ancient Textiles Series 30, Treasures from the Sea. Sea Silk and Shellfish Purple Dye in Antiquity, edited by H.L. Enegren and F. Meo, Oxford & Philadelphia, 2017, p. 67; É. Dubois-Pelerin, Le luxe privé, cit., pp. 230, 272 s.; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 265 e nt. 32. Sulle ragioni del costo elevanto di questo colorante v. É. Dubois-Pelerin, Le luxe privé, cit., pp. 230, 232; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 277 s. In Plinio(Nat. Hist. ix 60.127; xix 4.21) si riscontra una forte disapprovazione per l’uso della porpora, dall’Autore considerata una delle principali deprorevoli manifestazioni del lusso, in netta contrapposizione alle virili regole dei mores maiorum (cfr. É. Dubois-Pelerin, Le luxe privé, cit., p. 230, che menziona, oltre a Plinio, altri esponenti della letteratura latina avversi all’uso della porpora e altri a favore; A.T. Croom, Roman Clothing, cit., p. 26). Nello specifico, in Plin. Nat. Hist. ix 60.127 si parla di una sorta di “follia” della porpora («... purpurae ... insania ...»), data l’inspiegabilità del prezzo elevato dinanzi al cattivo odore e alle tonalità non particolarmente attraenti di tale colorante (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 159 e nt. 420, 221 e nt. 73, 305 e nt. 297).

[184] Cfr.F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 344; v. già É. Dubois-Pelerin, Le luxe privé, cit., p. 230 (anche p. 231 ove si dice che nella letteratura augustea la porpora è il simbolo della regalità, degli eroi mitologici e delle divinità); A.T. Croom, Roman Clothing, cit., p. 26 (che aggiunge che in età imperiale la porpora divenne emblema del princeps); I. Boesken Kanold, Dyeing wool and sea silk with purple, cit., p. 67; C. Kremer, The spread of purple dyeing, cit., p. 95; ultimamente G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 42.

[185] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 265; v. anche G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 41.

[186] Cfr. soprattutto Plin. Nat. Hist. v 17.76, ove si ricorda la rinomanza di Tiro per i “colori di conchiglia” e la porpora.

[187] Si veda, in proposito, G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 41.

[188] Cfr.É. Dubois-Pelerin, Le luxe privé, cit., p. 230; A.T. Croom, Roman Clothing, cit., p. 26 s.; sui passi del Digesto e delle Istituzioni gaiane citati nel testo v., in part., F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 267 ss. Su D.34.2.4 Paul. 54 ad ed. v. M.J. García Garrido, El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 100 s.

[189] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 269 s. nt. 53; v. già U.E. Paoli, s.v. Porpora, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti pubblicata sotto l’alto patronato di Sua Maestà il Re d’Italia, XXVII (PETH-PORTH), Roma, 1935, p. 949 (e riguardo al territorio di Taranto v. special. J.P. Morel, La laine de Tarente, cit., pp. 105, 110); da ultimo G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 41. Ad es., i resti archeologici di località come l’Eretria romana, Ostia e Pompei lascerebbero supporre l’esistenza di laboratori con stanze i cui pavimenti sono stati riportati alla luce ricoperti di frammenti di conchiglie di porpora accanto a vani in cui si producevano sia la tintura che il pigmento della porpora (cfr. L. Hughes, ‘Dyeing’ in Ancient Italy? Evidence from the purpurarii, in Ancient Textiles. Production, Craft and Society. Proceedings of the First International Conference on Ancient Textiles, held at Lund, Sweden, and Copenhagen, Denmark, on March 19-23, 2003, edited by C. Gillis and M.-L.B. Nosch, Singapore, 2007 (reprint. 2008), p. 88; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 327).

[190] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 285 nt. 136, 287.

[191] Su tutto ciò, tuttavia, Plinio tace (v., in merito, C. Cooksey, Recent advances in the understanding of the chemistry of Tyrian purple production from Mediterranean molluscs, in Ancient Textiles Series 30, Treasures from the Sea. Sea Silk and Shellfish Purple Dye in Antiquity, edited by H.L. Enegren and F. Meo, Oxford & Philadelphia, 2017, p. 74). Si vedano anche I. Boesken Kanold, Dyeing wool and sea silk with purple, cit., p. 67; C. Cooksey, Recent advances, cit., p. 73; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 284. In C. Cooksey, Recent advances, cit., p. 75 s., si trova la spiegazione scientifica delle trasformazioni di colore del Murex trunculus (anche se alcuni dubbi permangono su quest’ultimo: v. in part. p. 77). Si ricorda che il Murex trunculus (ora detto Heraplex Trunculus) corrisponde al bucinum minor (v. nt. 177 di questo contributo).

[192] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 284. Per una spiegazione scientifica sui vari passaggi di colore culminanti nel blu dell’attuale Murex brandaris (identificabile con la purpura: v. nt. 177 del presente lavoro) v. C. Cooksey, Recent advances, cit., p. 74 ss.

[193] Cfr. F., Scotti, Lana, linum, cit., p. 287 ss., 342 s.; v. anche G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 43.

[194] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 287.

[195] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 287 ss.

[196] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 343.

[197] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 289 s., 303. Sulla preziosità di questa tinta v. É. Dubois-Pelerin, Le luxe privé, cit., p. 230 (anche p. 231, ove si citano alcuni autori latini che menzionano la porpora tiriana nelle rispettive opere); A.T. Croom, Roman Clothing, cit., p. 27; I. Boesken Kanold, Dyeing wool and sea silk with purple, cit., p. 67.

[198] Su cui v. laconicamente R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 22.

[199] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 297, 303, 343. I nobiles indossavano vestiti tinti di porpora tiriana e ametistina, considerate di maggior pregio, per sfoggiarne lo sfarzo (cfr.É. Dubois-Pelerin, Le luxe privé, cit., p. 231).

[200] Cfr. A.T. Croom, Roman Clothing, cit., p. 27; F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 297, 303, 343.

[201] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 292 ss.

[202] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 295 s.; v. anche É. Dubois-Pelerin, Le luxe privé, cit., p. 232; G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 44.

[203] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 298 ss.; v. A.T. Croom, Roman Clothing, cit., p. 28; G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 45 s.

[204] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 298 s.

[205] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 300.

[206] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 301, 309 s., 350, 377; v. anche É. Dubois-Pelerin, Le luxe privé, cit., p. 232; G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 45.

[207] Su cui v. Plin. Nat. Hist. xvii 4.45; xxxv 58.199.

[208] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 301; v. I. Boesken Kanold, Dyeing wool and sea silk with purple, cit., p. 70.

[209] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 301 s. Per la descrizione di una procedura di colorazione più semplice di quella pliniana, v. I. Boesken Kanold, Dyeing wool and sea silk with purple, cit., p. 70.

[210] Cfr. G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 44.

[211] Cfr. É. Dubois-Pelerin, Le luxe privé, cit., p. 232; A.T. Croom, Roman Clothing, cit., pp. 26, 28; F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 278, 296 s., 303 ss., 306 ss. Sui paludamenta v., fra gli altri, N. Goldman, Reconstructing Roman Clothing, in The World of Roman Costume, edited by J.L. Sebesta and L. Bonfante, Madison, Wisconsin, 2001, p. 232 s.; B. Orsini, Decori, cit., p. 44.

[212] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 304 s.; v. A.T. Croom, Roman Clothing, cit., p. 26.

[213] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 305.

[214] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 305 s.

[215] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 306.

[216] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 306.

[217] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 308; v. anche É. Dubois-Pelerin, Le luxe privé, cit., p. 232; G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 44 s. La robbia, alta più di sette centimetri e mezzo, presentava molte radici che, dopo che la pianta aveva raggiunto un’età compresa fra i diciotto e i ventotto mesi, in autunno (in seguito alla caduta delle foglie) venivano tagliate, fatte seccare, private dello sporco e della pelle esterna e infine polverizzate (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 309).

[218] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 309. Ma il rosso si poteva altresì ottenere con l’“Anchusa”, il “Phykos” o“Lichen rocella” e il “Sandyx” (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 309; v. G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 46). Vi erano inoltre l’“alcanna spuria”, la cui radice era d’un rosso violetto, e il fiore del melograno selvatico, tendente pure al rosso (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 309). Tra i coloranti vegetali non rientranti nella nozione di “porpore erbacee” si ricordano: (1) l’indaco (che dava l’azzurro o il blu), su cui v. G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 48; (2) l’erba di guado (da cui pure si traeva il blu; sull’erba di guado v. G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 47 s.); (3) l’erba guada o reseda (“reseda luteola”), lo scotano, il cartamo, lo zafferano, la curcuma, la ginestrella o baccellina (o “Genista tinctoria”), il croco, il bagolaro ( “lotus”) – che producevano il giallo (su cui v. G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 46 s.) –; (4) il mallo delle noci (che, durante la tintura, forniva prima il giallo scuro, poi il nocciola, infine il marrone); (5) la mescolanza (da cui risultava il verde) fra erba reseda (che dava un giallo puro) e indaco (che offriva l’azzurro, su cui v. G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 47); (6) altri coloranti vegetali (che sviluppavano un verde tuttavia non molto solido); (7) la noce di galla (che dava il nero se unita all’atramentum, cioè il solfato di ferro o di rame), su cui v. stringatamente G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 48. Si veda, al riguardo, F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 310. Sul processo di colorazione che dava le tinte appena descritte v. G. Cascarino, Ornatus, cit., pp. 38 ss., 44.

[219] Alcuni studiosi (tra cui Ch. Macheboeuf, Pourpre et matières textiles, cit., p. 142) si sono domandati che senso avesse acquistare il colore liquido per tingere in casa, se il purpurarius vendeva già la lana tinta. La risposta è reperibile in Silio Italico (Punic. xvi 567-569), là dove questi evoca la fortuna di un certo Burnus, la cui schiava era in grado di colorare in casa la lana con la porpora dei Getuli (cfr. Ch. Macheboeuf, Pourpre et matières textiles, cit., p. 142). E il privilegio di quest’uomo doveva essere proprio grande, considerato che l’attività tintoria era notoriamente avvolta nel segreto (cfr. Ch. Macheboeuf, Pourpre et matières textiles, cit., p. 142). Ma, benché non si riuscisse a riprodurre a livello domestico l’esatto colore dei laboratori della Getulia, si potevano comunque ricreare tutte le possibili sfumature di colore della porpora grazie al contenuto delle bottiglie poste in vendita dai purpurarii (cfr. Ch. Macheboeuf, Pourpre et matières textiles, cit., p. 142). Su tutto ciò v. anche Scotti, Lana, linum, cit., p. 57 nt. 214 in fine; 330 s.

[220] A Roma, fino al 1992, si contava una decina di iscrizioni risalenti al periodo compreso tra la metà del i sec. a.C. ca. e il i sec. d.C. riguardanti “purpurarii” di (probabile o espressa) origine libertina (cfr. G.L. Gregori, Purpurarii, in Epigrafia della produzione e della distribuzione. Actes de la VIIe Rencontre franco-italienne sur l’épigraphie du monde romain organisée par l’Université de Roma - La Sapienza et l’École française de Rome sous le patronage de l’Association internationale d’épigraphie grecque et latine. Rome, 5-6 juin 1992, Paris - Roma, 1994, p. 740 e ntt. 2 e 3).

[221] Cfr. G.L. Gregori, Purpurarii, cit., p. 740; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 324 s.; tuttavia si può ammettere che il purpurarius non si occupasse soltanto della tintura della lana, ma anche della produzione del colorante della porpora per la tintura delle fibre e del pigmento della porpora per la pittura: ad es., i resti archeologici di località come l’Eretria romana, Ostia e Pompei lascerebbero supporre l’esistenza di laboratori con stanze i cui pavimenti sono stati riportati alla luce ricoperti di frammenti di conchiglie di porpora accanto a vani in cui si producevano sia la tintura che il pigmento della porpora (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 327).

[222] Come visto poco sopra nel testo, ad Ancona, Aquino, Pozzuoli, Taranto e Siracusa. Si vedaanche F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 328 e nt. 496.

[223] Cfr. G.L. Gregori, Purpurarii, cit., p. 740.

[224] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 328.

[225] Per i diversi generi di tintori e officinae in cui rispettivamente l’ars tinctoria e quella purpuraria si svolgevano si rinvia alla relativa letteratura antichistica indicata in F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 119 ss., 316 ss., 324 ss.; ma v. anche R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 21; É. Dubois-Pelerin, Le luxe privé, cit., p. 232; B.J. Lowe, Purpurarii in the Western Mediterranean, in Ancient Textiles Series 30, Treasures from the Sea. Sea Silk and Shellfish Purple Dye in Antiquity, edited by H.L. Enegren and F. Meo, Oxford & Philadelphia, 2017, p. 154 ss.; J. Pérez González, Purpurarii et vestiarii, cit., p. 160 ss. Per i resti di officinae purpurariae a Thessaloniki, nella provincia romana della Macedonia, v. E. Zimi, Purple Dye in the Roman Province of Macedonia. The Evidence from Northern Greece, in Textiles and Dress in Greece and the Roman East: A Technological and Social Approach. Edited by I. Tzachili and E. Zimi. Proceedings of a Conference held at the Department of History, Archaeology and Cultural Resources Management of the University of Peloponnese in Kalamata in collaboration with the Department of History and Archaeology of the University of Crete on March 18-19, 2011, s.l., 2012, p. 150 s.

[226] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 325.

[227] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 325 s.

[228] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 326. La testimonianza iconografica più importante di cui si dispone attualmente relativa alla figura del purpurarius titolare di taberna purpuraria è la stele funeraria, conservata nel Museo Archeologico di Parma, del purpurarius Caius Pupius Amicus, la quale non riproduce soltanto il mezzo busto del defunto, ma anche gli strumenti del mestiere da quest’ultimo svolto in vita, dai quali si ricava che Caius Pupius vendeva con ogni probabilità non soltanto matasse di filo colorato di porpora, ma anche il colorante stesso (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 329 ss.; v. anche brevemente G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 43).

[229] Sul punto, si può rimandare ai passi degli agronomi romani in cui si distinguono le diverse tipologie di lana in base al colore naturale che le caratterizza: bianco, nero, grigio, fulvo, marrone etc. (su cui v. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 94 ss.).

[230] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 375.

[231] Si vedano, ad es., J. André, Etude sur les termes de couleur dans la langue latine, Paris, 1949, p.116; J.L. Sebesta, Tunica Ralla, cit., p. 69.

[232] Soprattutto R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 246.

[233] Come si è già visto, i colori tratti dalle porpore marine erano comprensivi sia delle tinte di porpora e buccino, sia delle tinte di conchiglia. Tra le tinte di porpora e buccino si annoveravano: 1) quelle che nascevano dall’unione, in proporzioni diverse, di bucinum e pelagium (i succhi coloranti rispettivamente dei murici e delle porpore), come il coccum, l’ametisthynum (detto anche, quest’ultimo, “ianthinum”, “hyacinthinum” o “violacea purpura”); 2) quelle che derivavano dalla sovrapposizione di bagni di succhi di molluschi differenti, come la purpura Tyria, risultato del bagno prima nel pelagium, poi nel bucinum, e il Tyrianthinum, ottenuto da un primo bagno nel hyantinum seguito da un doppio bagno tiriano. Le tinte di conchiglia erano invece il frutto dell’unione, per metà, di purpura calculense mescolata ad acqua e urina in parti uguali, per l’altra, in genere, di phycos thalassion. Ma è anche possibile che nell’omnis generis purpurae Ulpiano faccia rientrare sia il purpurissimum, nato dall’aggiunta alle porpore marine o terrene di creta argentaria, sia l’hysginum,derivante dal bagno nel colore tratto dal Coccus ilicis seguito dal doppio bagno tiriano, data la prevalenza, in entrambi i casi (purpurissimum e hysginum), della porpora marina o erbacea che fosse. In argomento v. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 342 s.

[234] Tra le porpore erbacee si ricordano il fucus, il coccum, il Vaccinium Uliginosum, la radice della Robbia, l’unione di Indigo e Kermes o di Robbia e Indigo, l’erba di guado, l’Anchusa, il Phykos o Lichen rocella, il Sandyx, l’Alcanna spuria (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 303 ss.).

[235] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 375.

[236] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 343, 375.

[237] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 375; G. Cascarino, Ornatus, cit., p. 41.

[238] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 375.

[239] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 375 s.

[240] Che l’allusione qui sia al filo della trama era già stato sostenuto da J. Cujacius, Opera ad Parisiensem Fabrotianam editionem diligentissime exacta in tomos xiii distributa. Auctiora atque emendatiora, Pars Prima, tom. i, Prati, 1836, p. 472, secondo cui l’espressione ulpianea «subtemen factum» si riferiva al “subteminis panus”, cioè alla spola (o bambolina) in cui si avvolgeva il filo di trama. Un’interpretazione più ampia, invece, delle parole «subtemen factum» si riscontra in Ch. A. Weinlig, Industria Romanorum Digestorum et Codicum locis nonnulis explanata, Particula ii, Erlangae, 1846, p. 5, secondo cui da D.32.70.2-13, D.34.2.22 e D.32.78.5 si poteva inferire che i Romani tingessero la lana grezza lavata, i fili o i vestiti. Su entrambe le interpretazioni e le tesi contrarie v. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 345 s.

[241] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 339 s.

[242] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 346 s.

[243] Ad es., M. Besnier, s.v. Purpura, cit., p. 141, e Ch. Macheboeuf, Pourpre et matières textiles, cit., p. 141.

[244] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 346 e nt. 44, 376.

[245] Tra cui Ch. Macheboeuf, Pourpre et matières textiles, cit., p. 139 e nt. 7.

[246] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 346 e nt. 45, 376.

[247] Cfr. Thesaurus Linguae Latinae, s.v. Coccum, vol. III (C-COMVS), Lipsiae, 1906-1912, col. 1394, in cui si identifica in questo passo il termine “coccum” con le «res cocco tinctae»; Forcellini, s.v. Coccum, tom. i, Bononiae, 1965, p. 663, ove si ammette che, fra i vari significati, “coccum” possa avere anche quello di «filum cocco tinctum»; contra Oxford Latin Dictionary, edited by P.G.W. Glare, s.v. Coccum, vol. I (A-L), 2nd edit. print. with correct., Oxford, 2015-2016, p. 373, nel quale si cita D.32.70.12 come fonte in cui “coccum” alluderebbe a «scarlet wool or cloth».

[248] Non condivisibile, pertanto, mi pare l’affermazione di M.A. Ligios, Merci e legati, cit., p. 101 nt. 165, che «la purpura, al pari delle lane tinte, costituirebbe un genere a parte».

[249] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 346, 376. R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 245, al contrario, nega che tra i “versicoloria” si annoveri il filato di lino tinto, desumendo tale conclusione dal tenore dei §§ 10 e 11 D.32.70, nei quali, invece, come rilevato nel testo, si ammette la possibilità di legare il lino filato e «tinctum».

[250] Tra cui, ad es., Ch. Macheboeuf, Pourpre et matières textiles, cit., p. 139 s.

[251] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 346 e nt. 46, 376.

[252] Su questo passo v. R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, pp. 236 s. nt. 14, 244; M.J. García Garrido, El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 86.

[253] Cfr. L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., p. 377 nt. 24; R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, pp. 214, 232 s., 244; A. Guarino, Labeone giurista meridionale, in Pagine di diritto romano, vol. V, Napoli, 1994, p. 11 s.

[254] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 351 s.

[255] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 352.

[256] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 352.

[257] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 352 s.

[258] Si vedano, in proposito, R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 244 (il quale, tra l’altro, ritiene sospetta la chiusa «si non appareat-fuisse»); F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 352.

[259] In merito v. R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 244; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 352.

[260] Cfr. F. Scotti, Sui legati di lana e di vestimentum: opinioni giurisprudenziali a confronto, in Revistas@iustel.com, Revista General de Derecho Romano, 29 (2017), p. 3; Legati di lana, lino e vestiti, cit., p. 309; Lana, Linum, cit., pp. 5, 77 ss., passim.

[261] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 177 s. nt. 17.

[262] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 352.

[263] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 352.

[264] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 352 s.

[265] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 377.

[266] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 363.

[267] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 347 e nt. 48.

[268] Si veda a tale riguardo A. Weinlig, Industria Romanorum, cit., p. 5.

[269] Per la relativa bibl. v. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 262 nt. 5, 306 ss.

[270] Cfr. A. Weinlig, Industria Romanorum, cit., p. 5; J. Napoli, Art purpuraire et législation à l’époque romaine, in, Purpureae vestes. Actas del I Symposium Internacional sobre Textiles y Tintes del Mediterráneo en época romana (Ibiza, 8 al 10 de noviembre, 2002), (Eds.) C. Alfaro - J.P. Wild - B. Costa, València, p. 132 e nt. 61, che, in questo frammento di Paolo, considera il termine «coccum» in contrapposizione a “purpura”, nel senso, cioè, di colore rosso scarlatto ottenuto dal Kermes.

[271] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 347 s.

[272] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 376.

[273] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 376.

[274] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 376.

[275] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., pp. 348 ss., 376 s.

[276] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 350. E, del resto, se anche si ammettesse che l’hysginum citato nel passo paolino fosse ciò che era tinto del rosso violaceo derivante dal bagno nel rosso scarlatto tratto dal coccum (cioè dalla cocciniglia) seguito dal doppio bagno tiriano (prima nel pelagium, poi nel bucinum), apparirebbe inspiegabile la distinzione instaurata da Paolo fra «purpura» e «hysginum» a fronte della forte componente di porpora marina contenuta nel secondo (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 350 s.).

[277] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 351. Tra l’altro, in D.32.78.5 Paul. 2 ad Vitell., l’uso generico del neutro («Coccum ... coracinum aut hysginum aut melinum ... coccum ...») e la mancanza di indicazioni, come quelle di cui in D.32.70.12 Ulp. 22 ad Sab., che lascino chiaramente intendere che i versicoloria sono filati («Versicoloribus videndum est. et constabat apud veteres lanae appellatione versicoloria non contineri, sed ea omnia videri legata, quae tincta sunt, et neta, quae neque detexta neque contexta sunt. ...»),possono indurre a ipotizzare che ad avviso di Paolo rientrino nella nozione di “versicoloria” sia la lana grezza che quella filata, nonché gli stessi tessuti. E in effetti dal sopra esaminato D.34.2.32.6 Paul. 2 ad Vitell. è desumibile che Paolo includa nella categoria dei “versicoloria” sia la lana grezza che quella filata e tessuta e che a suo avviso tra i “versicoloria” non si annoveri ciò che è stato tinto di porpora.

[278] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 363.

[279] Cfr. Paul. 5 ad leg. Iul. D.32.88 pr. (su cui v. F. Scotti, Sui legati di lana, cit., p. 14 s.; indicazioni bibl. su D.32.88 si trovano in B. Santalucia, Il contributo di Paolo alla dottrina della specificazione di mala fede, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano «Vittorio Scialoja», 72 (1969), p. 121 nt. 7): «Lana legata vestem, quae ex ea facta sit, deberi non placet» (sia A. Calonge, Breve exégesis en materia di especificación, in Studi in onore di Giuseppe Grosso, vol. II, Torino, 1968, p. 209, sia B. Santalucia, Il contributo di Paolo, cit., p. 122 e nt. 80, ipotizzano che il «deberi» alluda al legato per damnationem; per la bibl. contraria, v. A. Calonge, Breve exégesis, cit., p. 209 nt. 41). Come si vede, il giurista qui non ha dubbi: la “vestis” confezionata prima della morte del testatore con la lana da questi lasciata in legato non spetta al legatario (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 206). Il vestito, infatti, consiste sempre in un tessuto finito (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 206). Dunque, anche se nel caso di specie l’abito è formato da una stoffa confezionata con la lana legata, esso, malgrado ciò, non è dovuto (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 206). Del resto, pure in Paul. Sent. III 6.79 (su cui v. velocemente R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 218) e 6.85 (su cui v. in modo sintetico R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 211, la cui prospettiva interpretativa, tuttavia, è quella della specificatio), ammesso che questi due passi riflettano il reale pensiero del giurista classico, si afferma che il legato di “lana” deve rimanere distinto da quello di “vestimentum”. Nella parte introduttiva di Paul. Sent. III 6.79, infatti, si afferma che nel legato di abbigliamento rientra ciò che è stato tessuto con la lana, il lino o la seta serica e bombicina. Viceversa, in Paul. Sent. III 6.85 si dice che i «vestimenta» non possono rientrare nel legato di lana proprio perché la “lana”, ai fini dell’identificazione dell’oggetto del relativo legato, consiste in ciò che non è stato tessuto (cfr. F. Scotti, Legati di lana, lino e vestiti, cit., pp. 310, 328;Lana, linum, cit., p. 187). In particolare, in questo testo si osserva che, se è stato legato dell’argento, sarà dovuta soltanto la massa di metallo, non i «vasa» realizzati con questa, perché oggetto della disposizione sono soltanto i blocchi d’argento, non il prodotto finito, che si distingue dall’argento per il fatto di avere una propria denominazione specifica (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 187). Così, se è stata legata della lana, non spettano al legatario vestiti di lana perché oggetto della disposizione è la sola lana, non vestiti confezionati, che sono una cosa specifica, diversa dalla lana (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 187).

[280] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 363 s.

[281] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 364.

[282] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 364.

[283] Sulla scorta di un’eventuale analogia con la disciplina ulpianea di cui in D.32.70.11.

[284] Sul punto v. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 325 ss. Si vedano i passi appena esaminati di Paolo; v. anche, del resto, Ulp. 22 ad Sab. D.32.70.13, da cui traspare che il legato di porpora potesse avere per oggetto il colorante stesso, il filato tinto di porpora (v. altresì R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 246) o la lana (lavata) colorata di porpora.

[285] Si veda già M.A. Ligios, Merci e legati, cit., p. 101 s.

[286] Sull’esistenza di simili figure v. J.P. Morel, L’artigiano, cit., p. 238.

[287] Per le ragioni di questa tesi v. nt. 8 del presente contributo.

[288] Forse, data la modestia di questa impresa, la tessitura professionale poteva essere eseguita in un ambiente adiacente alla residenza del pater familias piuttosto che in un vero e proprio laboratorio separato di tessitura (arg. ex F. Vicari, Produzione e commercio, cit., p. 5).

[289] Cfr. S. Dixon, Familia Veturia, cit., p. 121 (ma si veda anche l’analisi condotta da p. 115 a p. 124 su quattro epigrafi funerarie concernenti la famiglia di modeste condizioni“Veturia”, che, a detta dell’Autrice, p. 121, corroborerebbero la tesi dominante nell’ambito dell’epigrafia romana dell’esistenza di imprese a conduzione familiare coinvolte nella filiera tessile).

[290] Su situazioni di questo genere v., ad es., J.P. Morel, L’artigiano, cit., p. 238.

[291] Su questo tipo di contesti v. A.T. CROOM, Roman Furniture, Stroud - Gloucestershire - UK, 2007 (reprint 2010), p. 175; L.C. Nevett, Domestic Space, cit., p. 7. Meno probabile, invece, è che questo pater familias lavorasse la porpora e con i relativi succhi tingesse le fibre, i filati o i tessuti in casa, dal momento che l’ars purpuraria (cioè la produzione della porpora e la relativa colorazione delle fibre, dei filati o dei tessuti) richiedeva di norma strutture apposite in cui fossero impegnati più operai (c.dd. “officinae purpurariae”) e preferibilmente dislocate nelle periferie delle città a causa dell’aria irrespirabile che di solito si diffondeva nelle aree circostanti a causa della macerazione dei molluschi (cfr. M. Besnier, s.v. Purpura, cit., p. 773; R.J. Forbes, Studies, cit., vol. IV, p. 118; L.C. Nevett, Domestic Space, cit., p. 7; T. Pedrazzi, La lavorazione della porpora e dei tessuti, in I Fenici in Algeria. Le vie del commercio tra il Mediterraneo e l’Africa Nera, a cura di L.-I. Manfredi - A. Soltani, Bologna, 2011, p. 118; E. Zimi, Purple Dye in the Roman Province of Macedonia, cit., p. 150 s.; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 325 ss.). Sulla natura prevalentemente non domestica dell’attività di colorazione in generale, sin dall’epoca della monarchia, v. L. Larsson Lovén, From royal ladies to female slaves, cit., p. 289.

[292] Cfr. M.J. García Garrido, IVS VXORIVM, cit., pp. 30, 161. Secondo M.J. García Garrido, El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 26, in genere, insieme a queste fibre, altri beni di famiglia, destinati pure alla gestione dell’attività domestica, rientravano nella nozione di “cose destinate all’uso della moglie”, come, ad es., le derrate alimentari («penus»).

[293] Cfr. M.J. García Garrido, IVS VXORIVM, cit., pp. 30, 112; Id., El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 26; L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., p. 377 ss. Si veda anche D.34.2.28 Alf. Var. 7 dig., da cui si ricava che, nel caso del legato di un bene destinato all’uso di una persona, si intende legato il bene riservato all’impiego quotidiano da parte di questa (cfr. R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 260 s.; A. Watson, The Law of Succession, cit., p. 152 e nt. 3).

[294] Cfr. P. Bonfante, Corso di diritto romano, cit., vol. I, p. 262 s.; M.J. García Garrido, IVS VXORIVM, cit., p. 121; Id., El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 81 s.; A. Montañana Casaní, La veuve, cit., p. 417; R. Astolfi, Il matrimonio, cit., p. 328; F. Lamberti, La famiglia romana, cit., p. 12 s.

[295] Si veda, in merito, M.J. García Garrido, IVS VXORIVM, cit., p. 109 ss.

[296] Cfr. Gai. II 159; anche I.111,115b,118,137; M.J. García Garrido, El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, pp. 5, 25 s., 130; C. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari. Sponsalia matrimonio dote, vol. II, Roma, 2005, pp. 185, 200 ss.; C.F. Amunátegui Perelló, Origen de los poderes del paterfamilias. El pater familias y la patria potestas, Madrid, 2009, p. 357 s.; T.A.J. Mcginn, s.v. Manus, in The Encyclopedia of Ancient History, edited by R.S. Bagnall, K. Brodersen, G.B. Champion, A. Erskine and S.R. Huebner, New Jersey - United States of America, 2013, p. 4270; F. Lamberti, La famiglia romana e i suoi volti. Pagine scelte su diritto e persone in Roma antica, Torino, 2014, pp. 38 s., 155 ss.; L. Fascione, Alcune osservazioni sul matrimonio nel diritto romano, in Scritti in ricordo di Giovanna Mancini, Tom. i, 2019, Lecce, p. 411. Per una panoramica delle discussioni dottrinali sui rapporti fra manus e patria potestas nel caso della uxor loco filiae e sul significato dell’espressione “loco filiae” riferita alla donna in manu v. C.F. Amunátegui Perelló, Origen de los poderes, cit., p. 255 ss., 341 ss.

[297] Cfr. M.J. García Garrido, IVS VXORIVM, cit., pp. 29 s., 109 ss., 121, 123, 161 s.; Id., El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, pp. 82, 84; F. Lamberti, La famiglia romana, cit., p. 40 s.; P.Buongiorno, Il divieto di donazione fra coniugi, cit., vol. I, pp. 89, 91 s., 94, il quale specifica che fra i beni destinati all’uso della donna rientravano anche quelli che la moglie aveva ricevuto in dono da terzi con il consenso del marito. Si veda anche F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 378. Sull’equiparazione della moglie in manu del pater familias alla filia familias v. per tutti R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano classico, Padova, 2014, p. 327; L. Peppe, Civis Romana. Forme giuridiche e modelli sociali dell’appartenenza e dell’identità femminili in Roma antica, Lecce, 2016, p. 152. Si ricorda che, quando la quantità dei beni spettanti alla legataria era riferita al momento: 1) del perfezionamento del testamento, il disponente impiegava il verbo al perfetto o al presente (v., ad es., le forme “quae paravi” oppure “quae parata sunt”); 2) dell’apertura della successione, l’ereditando impiegava il verbo al futuro (v., ad es., le formule “quae parata erint, fuerint”) oppure non si esprimeva con «alcun verbo di tempo finito (uxoris causa parata heres dato)» (P. Voci, Diritto ereditario, cit., vol. II, 2a ed. rif., p. 303).

[298] Al riguardo v., ad es., M.G. Scacchetti, La presunzione muciana, Milano, 2002, p. 305; M.J. García Garrido, IVS VXORIVM, cit., pp. 81, 123; Id., El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 61 ss., 97 s.; ultimamente Buongiorno, Il divieto di donazione fra coniugi, cit., vol. I, p. 42.

[299] P. Buongiorno, Il divieto di donazione fra coniugi, cit., vol. I, p. 91. Sul punto v. anche P. Voci, Diritto ereditario, cit., vol. II, 2a ed. rif., p. 303; M.J. García Garrido, El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 97; A. López Pedreira, Orígenes de la prohibición de donaciones «inter virum et uxorem», in Index. Quaderni camerti di studi romanistici. International Survey of Roman Law. In memoria di Giambattista Impallomeni, 27 (1999), p. 441 s.; M.G. Scacchetti, La presunzione muciana, cit., p. 221. Nelle fonti sono presenti il termine “confirmatio” e il verbo “confirmo” per spiegare che il legato a favore della vedova dell’“id quod eius causa paratum est” sana la precedente donazione di quell’id alla consorte, di per sé nulla perché posta in essere per aggirare il divieto di donazioni fra coniugi: si vedano a tal proposito D.24.1.32.1 e 2 Ulp. 33 ad Sab. (su cui v. L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., p. 383 e nt. 67; M.G. Scacchetti, La presunzione muciana, cit., p. 298 s.); Scaev. 15 dig. D.32.33.1 e D.34.2.13, Afric. 6 quaest. D.30.109 pr. e Pap. 8 resp. D.31.77.17 (su cui v. Buongiorno, Il divieto di donazione fra coniugi, cit., vol. I, pp. 222 s., 224 e nt. 48, 225; su Scaev. 15 dig. D.32.33.1 v. M.J. García Garrido, El patrimonio de la mujer casada, vol. I, cit., p. 98; su Scaev. 15 dig. D.32.33.1 e D.34.2.13 v. brevemente P. Bonfante, Corso di diritto romano. Volume primo. Diritto di famiglia, rist. corr. della Ia ed. a cura di G. Bonfante e di G. Crifò e con l’aggiunta degli indici delle fonti, Milano, 1963, p. 299 e nt. 4; su D.30.109 pr. Afric. 6 quaest. v. A. Montañana Casaní, La veuve, cit., p. 435): v. in proposito L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., p. 376 s. e ntt. 18 – con bibl. essenziale più risalente –), 21. R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 270 s., sulla scia di V. Giuffrè, L’utilizzazione degli atti giuridici mediante «conversione» in diritto romano, Napoli, 1965, pp. 248, 250, sembra non condividere questo significato di “confirmatio” e “confirmo”, optando piuttosto per l’idea che il legato di cose acquistate o preparate per l’uso personale della vedova avrebbe sostituito ex nunc, come valido negozio mortis causa, la precedente donazione, nulla in quanto posta in essere contro il divieto di donazione fra coniugi. Inoltre, ad avviso di R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 272 nt. 97, il legato avrebbe avuto questa funzione in presenza indifferentemente di un matrimonio in manu o sine manu. Affascinante la scelta esplicativa di F. Lamberti, Suggestioni in tema di «praesumptio Muciana», in Rivista di Diritto Romano, 5 (2005) (https://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano05lamberti.pdf), p. 11, la quale afferma che il tipo di legato di cui si tratta era volto «a restituire validità a un’attività diffusa nella prassi (ma priva di effetti giuridici), quale la messa a disposizione alla uxor da parte del marito di oggetti e denaro» (v. così anche in F. Lamberti, La famiglia romana, cit., p. 153).

[300] Si vedano già, analogamente, R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 271 s.; A. López Pedreira, Orígenes de la prohibición, cit., p. 445 s., secondo cui il divieto di donazione inter vir et uxor sarebbe stato introdotto per la prima volta dalla legislazione augustea; M.G. Scacchetti, La presunzione muciana, cit., p. 294 ss.; F. Lamberti, La famiglia romana, cit., p. 153; ultimamente P. Buongiorno, Il divieto di donazione fra coniugi, cit., vol. I, pp. 29 s., 32 ss., 41 ss., 49 ss. Sin dall’età arcaica, il pater familias-marito lasciava alla moglie quei beni che consentissero a questa di mantenere il livello di vita di cui aveva goduto durante il matrimonio (cfr. A. Montañana Casaní, La veuve, cit., pp. 417, 448; E. Pezzato, Si sanctitas, cit., p. 36 e nt. 41).

[301] In merito v. M.J. García Garrido, IVS VXORIVM, cit., p. 121 ss.; Id., El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 96 s.

[302] Si vedano ad es. D.31.35 Mod. 16 resp.; D.32.45 Ulp. 22 ad Sab.; D.32.46 Paul. 2 ad Vitell.; D.32.47 Ulp. 22 ad Sab.; D.32.48 Paul. 4 ad Sab.; D.32.49 pr.-3,5 e 6 Ulp. 22 ad Sab.; D.32.58 Ulp. 4 disp.; D.32.60.2 Alf. 2 dig. a Paul. epitomat.; D.32.78.6 Paul. 2 ad Vitell.; D.32.100.2 Iav. 2 ex post. Lab. (su cui v. C.A. Maschi, Studi, cit., p. 103 s.; L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., p. 382 e nt. 65; R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, pp. 194 nt. 79, 236 s., 266 nt. 79, 236 s.; A. Watson, Narrow, Rigid and Literal Interpretation of the Later Roman Republic, in Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis/Legal History Review, 37.3 (1969), p. 362 s.; Id., The Law of Succession, cit., p. 152 e nt. 6; A. Montañana Casaní, La veuve, cit., p. 438; su Ulp. 22 ad Sab. D.32.47 e 32.49.2 v. M.J. García Garrido, El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 98 s.); D.34.2.2 Afric. 2 quaest. (su cui v. incidentalmente R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, pp. 265 e nt. 76, 267; sommariamente M.J. García Garrido, El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 85); D.34.2.3 Cels. 19 dig. (su cui v. R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, pp. 246 e nt. 36, 270 nt. 86; M.J. García Garrido, El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 102; F. Nasti, Papyrus Hauniensis de legatis et fideicommissis. Pars Prior (Phaun. III 45 recto + CPL 73 A e B recto), Napoli, 2010, p. 108 ss.; N. Cornu Thénard, Le duel entre fait et droit chez les giuristes classiques, in Carmina iuris. Mélanges en l’honneur de Michel Humbert, édites par E. Chevreau, D. Kremer, A. Laquerrière-Lacroix, Paris, 2012, p. 196 s.); D.34.2.4 Paul. 54 ad ed. (su cui v. C.A. Maschi, Studi, cit., p. 50; R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, pp. 233, 264 s.; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 359 ss.); D.34.2.5 Afric. 2 quaest. (su cui v. R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, pp. 233 e nt. 5, 267 nt. 80); D.34.2.10 Pomp. 5 ad Q. Muc. (su cui v. A. Watson, The Law of Succession, cit., p. 152 e nt. 2, 5; M.J. García Garrido, El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 85 s.; A. Montañana Casaní, La veuve, cit., p. 439); D.34.2.13 Scaev. 15 dig. (su cui v. P. Voci, Diritto ereditario, cit., vol. II, 2a ed. rif., p. 303 e nt. 186; R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, pp. 233 e nt. 6, 234 nt. 7, 236 s. nt. 14, 262 e nt. 73, 266 nt. 79, 271 nt. 88; M.J. García Garrido, El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 98); D.34.2.34.1 e 2 Pomp. 9 ad Q. Muc. Si vedano, su alcuni di questi testi, M.J. García Garrido, IVS VXORIVM, cit., p. 110 ss.; Id.,El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 86; E. Quintana Orive, En torno al deber legal, cit.,p. 185 e s. e nt. 24-26. Su D.34.2.4 Paul. 54 ad ed., D.34.2.34.1 e 2 Pomp. 9 ad Q. Muc. e D.34.2.3 Cels. 19 dig. v. J.M. Piquer Mari, La revocación tácita de legados por venta de cosa legada: de Q. Mucio Escevola a Pomponio, in Revista general de derecho romano. Iustel 13 (2009) (http://www.iustel.com/v2/revistas/detalle_revista.asp?id=11& numero=13), pp. 7 ss., 15 ss., 23 s., 33 ss. Su D.34.2.13 Scaev. 15 dig. e D.32.49 pr.-2 Ulp. 22 ad Sab. v. M.A. Ligios, Merci e legati, cit., pp. 74 ss., 76 nt. 88. Su D.32.49 pr.-2 Ulp. 22 ad Sab. v. M.J. García Garrido, El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 102. Per una sintesi delle varie tipologie di legati di beni destinati o acquistati per l’uso della moglie v. A. Montañana Casaní, La veuve, cit., p. 444 ss.

[303] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 356 s. Come ricorda P. Buongiorno, Il divieto di donazione fra coniugi, cit., vol. I, p. 91, sin dall’antichità i beni «quae uxoris causa parata emptave sunt» consistevano in tutto ciò che il marito acquistava o predisponeva a uso della moglie, per assicurare a questa lo stesso treno di vita di cui aveva goduto durante il rapporto coniugale. Per ulteriori indicazioni bibl. su questo tipo di legato v. E. Pezzato, Si sanctitas, cit., p. 32 nt. 30. Tra l’altro, ad avviso di M.J. García Garrido, El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, pp. 84, 98, 131 s., in età classica, quando ormai era prevalente il matrimonio sine manu, questo tipo di legato era disciplinato da una serie di regole che ne confermerebbero il carattere originario e la sua connessione con il regime del peculio della moglie in manu (considerata loco filae o loco neptis) avente per oggetto le cose «quae eius causa parata sunt».

[304] Su questo testo v. L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., pp. 379 s. e nt. 44, 383 e nt. 66; R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, pp. 234 nt. 8, 261 s., 266 e nt. 78, 269, 270 e nt. 87, 272 e nt. 97, 234 nt. 8; A. Watson, The Law of Succession, cit., p. 152 e nt. 5; M.J. García Garrido, El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 84 s.; M.G. Scacchetti, La presunzione muciana, cit., p. 190 ss.; F. Lamberti, Suggestioni, cit., p. 14.

[305] Su questo aspetto v. F. Lamberti, La famiglia romana, cit., p. 158.

[306] Ad avviso di Mommsen (Editio maior, vol. II, p. 149 nt. 5; Editio minor, p. 523 nt. 3), sarebbe opportuno eliminare «sed». Questa proposta di emendazione non è invece accolta nel “Digesto Milano”.

[307] Si veda in part. R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 261.

[308] Su cui v. L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., p. 379 e nt. 40 e 41; R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 234; Id., I libri tres, cit., p. 95 s.; E. Sciandriello, I libri XX-XXII del commentario ulpianeo ad Sabinum, cit., p. 14 ss.; E. Pezzato, Si sanctitas, cit., p. 33 s. nt. 32; molto velocemente, da ultimo, A. McClintock, La ricchezza femminile, cit., p. 123 s.

[309] In Th. Mommsen, Editio maior, vol. II, p.87 nt. 1, si propone come lezione alternativa alla tràdita «parata sint» l’altra “paratum sit” grammaticalmente più corretta.Si vedano anche Th. Mommsen, Editio minor, p. 491, nt. 4; Digesto Milano, p. 794 nt. 4.

[310] Cfr. P. Voci, Diritto ereditario, cit., vol. II, 2a ed. rif., p. 303; A. Montañana Casaní, La veuve, cit., p. 438. Si aggiunga che qui il legato generale, in quanto ingloba in sé i legati speciali, avvalora la tesi secondo cui questi erano concepiti a beneficio della vedova per consentire a costei di continuare a utilizzare ciò di cui ella aveva goduto in vita del marito (cfr. R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 234; anche F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 357).

[311] Al riguardo, invece, Modestino, in D.31.35 16 resp., si mostra più rigido là dove sostiene, ad es., che la legataria non possa ottenere gli schiavi adibiti all’uso di entrambi i coniugi (cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 357; v. anche P. Voci, Diritto ereditario, cit., vol. II, 2a ed. rif., p. 303 e nt. 184; L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., p. 380 nt. 45; M.J. García Garrido, El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 102). Si veda pure D.34.2.13 Scaev. 15 dig., ove si interpreta il fedecommesso disposto da un pater familias a favore della moglie dell’intero corredo femminile, di tutti gli ornamentie di qualsiasi cosa l’ereditando da vivo avesse dato, donato, comprato o fatto fare per l’uso di lei («… ‘mundum muliebrem omnem, ornamenta et quidquid vivus dedi donavi comparavi confeci eius causa id omne dari volo’»): questo caso suscita due ordini di problemi. Il primo è capire se sia dovuta la carrozza solitamente impiegata nei viaggi notturni (insieme alle mule che la trainavano), dal momento che la mogliese ne serviva sempre: a parere di Scevola essa è dovuta se era stata destinata all’uso della donna. L’altro dubbio è se spettino alla fedecommissaria i vestiti che il testatore aveva comprato o fatto confezionare per le schiave e per i portatori di lettiga: il giureconsulto è dell’opinione che essi siano dovuti (e la ratio decidendi si basa verosimilmente sul fatto che i vestiti sono assegnati a schiave preposte alla cura della donna e a portatori di lettiga impiegati per il trasporto di costei); v. D.32.49 pr. Ulp. 22 ad Sab. (su cui v. brevemente L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., p. 379 e nt. 43); ma anche i §§ 1 e 2 D.32.49, ove Ulpiano ammette che dovranno “in qualche modo” essere considerate come “destinate all’uso della donna” anche le cose tipicamente maschili che il pater familias abbia donato in vita alla moglie (§ 1) oltre che quelle di uso indifferenziato che il marito era solito prendere in prestisto dalla consorte (§ 2). Su D.34.2.13 Scaev.15 dig. e D.32.49.2 Ulp. 22 ad Sab. v. succintamente L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., p. 379 s. e nt. 42, 45.

[312] Cfr. R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 262 s.

[313] Sul punto v. già L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., p. 48 e nt. 46; A. Montañana Casaní, La veuve, cit., p. 438. R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 262 s., sostiene che l’opinione di Sabino riferita da Ulpiano rispecchi il contenuto di una norma risalente a un’epoca anteriore a Sabino stesso; ad avviso dell’Autore (p. 263 s.), tale principio sarebbe perfino precedente a Cascellio e Trebazio e ciò sarebbe provato da D.32.29 pr. Lab. 2 post. a Iav. epitomat. e D.32.4.9 Ulp. 22 ad Sab. Per inciso, riguardo all’irrilevanza del momento in cui le cose sono state allestite (se cioè prima o dopo il matrimonio), si può citare il principium del fr. 47 D. 32 Ulp. 22 ad Sab., ove si afferma che, se il marito ha acquistato alcune cose prima del matrimonio e poi le ha consegnate dopo le nozze alla consorte perché se ne servisse, è come se le avesse comperate e consegnate dopo il matrimonio: in base al legato di cose destinate alla uxor, infatti, spettano altresì quelle comprate, preparate e trattenute per la donna, nelle quali sono inclusi ad es. anche i beni della prima moglie, della figlia, della nipote o della nuora (su questo passo v. stringatamente L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., p. 380 e nt. 47). Rispetto, infine, alla possibilità di far rientrare fra gli oggetti devoluti all’uso della moglie pure quelli che, propri del marito(nel campo dell’abbigliamento, ad es., se è stata legata «‘vestem suam’», è chiaro che con queste parole l’ereditando intendeva alludere al vestito che teneva per uso proprio: v. D.34.2.25.6 Ulp. 44 ad Sab.), sono stati riservati alla consorte in vita del testatore, si possono citare alcuni passi del Digesto. Ad es., D.32.49.1 e 2 Ulp. 22 ad Sab., in cui, secondo il giureconsulto, anche se per caso, quando era in vita, il marito ha donato alcune cose maschili alla moglie, queste saranno in un modo o nell’altro da ritenere allestite a uso della donna (§ 1),con la conseguenza che, malgrado alcune siano di impiego indifferenziato e il marito fosse solito prenderle per così dire “in prestito” dalla consorte per utilizzarle, si dovrà ammettere che queste si debbano considerare allestite per l’uso di lei (§ 2). Nel secondo caso, infatti, si trattava di beni che, benché di uso indistinto, venivano comunque utilizzati dalla uxor, tant’è che ogni tanto il coniuge li prendeva in un certo senso “in prestito” da lei. Si veda in proposito da ultimo Scotti, Lana, linum, cit., p. 357.

[314] Su cui si vedano M.J. García Garrido, IVS VXORIVM, cit., p. 127; Id., El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 101; L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., p. 381 e nt. 58, 382; R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 233 s.; A. Montañana Casaní, La veuve, cit., p. 438; E. Sciandriello, I libri XX-XXII del commentario ulpianeo ad Sabinum, cit., p. 15 s.; E. Pezzato, Si sanctitas, cit., p. 32 s. nt. 31. Si veda anche D.34.2.30 Paul. sing. de adsign. libert. (su cui v. in modo conciso L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., p. 381 e nt. 58, 382; M.J. García Garrido, El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 101 s.; A. Montañana Casaní, La veuve, cit., p. 442).

[315] In merito v. già M.J. García Garrido, IVS VXORIVM, cit., p. 127 s.; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 358 nt. 87.

[316] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 358 nt. 87.

[317] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 358 nt. 87; v. anche P. Voci, Diritto ereditario, cit., vol. II, 2a ed. rif., p. 303; R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 235.

[318] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 358 nt. 87; v. già R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 235.

[319] Su quest’ultimo v. stringatamente P. Voci, Diritto ereditario, cit., vol. II, 2a ed. rif., p. 304 e nt. 87; A. Montañana Casaní, La veuve, cit., p. 438.

[320] Su cui v. in breve L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., p. 380 nt. 48.

[321] In Th. Mommsen, Editio maior, vol. II, p. 87 nt. 9; Id., Editio minor, p. 491 nt. 14, si dà conto della proposta congetturale di Aloandro di sostituire alla lezione «empta» la forma “emptis”; così anche in Digesto Milano, p. 795 nt. 9.

[322] Si vedano D.34.2.4 Paul. 54 ad ed.; D.32.58 Ulp. 4 disp.; D.34.2.2 Afric. 2 quaest. Su questi testi v. succintamente P. Voci, Diritto ereditario, cit., vol. II, 2a ed. rif., p. 303 e nt. 185; L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., p. 380 nt. 48 e 49; più approfonditamente F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 356 ss.

[323] Cfr. R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 265; ma v. anche L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., p. 380 nt. 48.

[324] Cfr. R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 265.

[325] Cfr. R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 265; v. già L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., p. 380 nt. 48.

[326] B VII p. 79.

[327] Si vedano Th. Mommsen, Editio maior, vol. II, p. 87 nt. 3; Editio minor, p. 491 nt. 8.

[328] Digesto Milano, p. 795 nt. 3.

[329] Accolgono la proposta di lettura del testo avanzata da Krüger sulla base dei Basilici (v.ntt. 326 e 327), “in empto non continuo paratum inesse, in parato emptum contineri”, sia L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., p. 380 nt. 48, sia R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 265 nt. 77.

[330] In Th. Mommsen, Editio minor, p. 491 nt. 9, si propone, in alternativa al tratto «eius causa parata sunt», la forma “eius causa paravisse videtur: quaeque eius causa parata sunt”.

[331] Ad avviso di Mommsen (Editio minor, p. 491 nt. 10), sarebbe preferibile “item” all’attuale «ita».

[332] Cfr. D.32.49.3 Ulp. 22 ad Sab. (su cui v. M.J. García Garrido, El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 100 s.).

[333] Al riguardo v. già R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 265 e nt. 77.

[334] Si consideri ad es. D.32.29 pr. Lab. 2 post. a Iav. epitomat. (su cui v. A. Watson, The Law of Succession, cit., p. 152 s.; M.J. García Garrido, El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 99 s.), ove Giavoleno riporta il caso, tratto dal secondo libro dei posteriores di Labeone, di un tale che, dopo aver concesso alla seconda concubina l’uso delle vesti della prima, aveva legato alla seconda concubina le “vesti che erano state comprate e predisposte per lei”. Si dubita della validità del legato dal momento che questo, ai fini della sua esecuzione, presupporrebbe l’applicazione alla seconda concubina del regime dei legati a favore della moglie, che in un caso analogo otterrebbe gli indumenti a lei destinati utilizzati dalla prima consorte (v. anche D.32.47.1 Ulp. 22 ad Sab. e D.32.48 Paul. 4 ad Sab.: sul secondo dei due testi v. M.J. García Garrido, El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 102 s.; A. Montañana Casaní, La veuve, cit., p. 438). A parere di Cascellio e Trebazio, non si doveva estendere alla concubina la disciplina prevista per la moglie. Questi due giureconsulti, infatti, intendevano proteggere la dignitas della moglie, convinti che il matrimonio avesse una maggiore rispettabilità del concubinato, per quanto quest’ultimo a Roma fosse ammesso. In altri termini, a loro parere sarebbe stato contrario alla dignitas del matrimonio concedere alla concubina lo stesso diritto di cui godeva la moglie legittima. Tuttavia Giavoleno informa che Labeone disapprovava la soluzione di Cascellio e Trebazio dal momento che in un legato del genere non bisognava tanto seguire il «ius uxorium» come punto di riferimento e paragone, quanto piuttosto interpretare le parole dell’ereditando e ciò avrebbe dovuto valere anche nei confronti della figlia o di qualsiasi altra persona, come a dire che in legati di questo tipo non rilevava affatto il rapporto giuridico familiare del legatario con l’ereditanto (cfr. R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 263; v. già P. Voci, Diritto ereditario, cit., vol. II, 2a ed. rif., p. 303 e nt. 182). Giavoleno condivide il parere di Labeone, che, nella sua “veridicità”, consente di realizzare al meglio il fine che ogni giurista si propone di perseguire tramite l’interpretazione di una disposizione ambigua, cioè una ricostruzione tendenzialmente conforme alla voluntas testantis. La decisione di Labeone viene ripetuta in Ulp. 22 ad Sab. D.32.49.4,7 (su cui v. R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 263 s.). Nel § 4 fr. 49 D. eod. (su cui v. M.J. García Garrido, El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 99 s.) Ulpiano ribadisce che rileva poco se alla moglie o alla concubina taluno leghi le cose che sono state predisposte per l’una o per l’altra: fra costoro, infatti, non c’è alcuna differenza se non la posizione sociale. Nel § 7 fr. 49 D. eod. egli afferma che il legato che ha per oggetto “... le cose che sono state destinate a lui/a lei” può essere lasciato sia al figlio che alla figlia, ma anche allo schiavo e alla schiava. E aggiunge che vi saranno contenute le cose che sono state assegnate o destinate alla persona stessa. Dunque, benché sul piano sociale e morale la matrona e la concubina fossero considerate l’una all’opposto dell’altra, ciò non rilevava tuttavia sul piano giuridico ai fini della validità di questo tipo di legato.

[335] Si veda già R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 262.

[336] A sostegno di questa tesi si vedano innanzi tutto D.24.1.51 Pomp. 5 ad Q. Muc. (su cui v. M.G. Scacchetti, La presunzione muciana, cit., p. 162 ss., passim); C.5.16.6 (su cui v. M.G. Scacchetti, La presunzione muciana, cit., p. 186 ss.); R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 268 s.; F. Lamberti, Suggestioni, cit., pp. 11 ss., 18 ss., 22;Ead., La famiglia romana, cit., p. 135 ss., 153 ss.; P. Buongiorno, Il divieto di donazione fra coniugi, cit., vol. I, pp. 30 s., 51 s., 91 ss. (con note bibl. aggiornate al 2018); limitano invece l’applicazione della presunzione alle mogli in manu M.J. García Garrido, IVS VXORIVM, cit., p. 119 ss.; Id., El patrimonio de la mujer casada, cit., vol. I, p. 94; A. Watson, The Law of Succession, cit., p. 153.Dal canto suo, L. Boyer, La fonction sociale des legs, cit., p. 383 e nt. 68, sembra non distinguere, ai fini dell’applicazione della praesumptio Muciana, fra matrimonio cum manu e matrimonio sine manu (così anche, di recente, E. Pezzato, Si sanctitas, cit., p. 34 s. e nt. 37).

[337] Cfr. Scotti, Lana, linum, cit., p. 364.

[338] Si segnala che Mommsen (Editio Maior, vol. II, p. 111 nt. 3; Editio minor, p. 503 nt. 8) contemplava l’eventualità di espungere dal testo le parole «mercis causa paratae», ipotesi non recepita, invece, dagli editori del “Digesto Milano”. In questa sede si ritiene opportuno attenersi alla lezione attuale, quale risulta dal testo dell’edizione critica del Digesto.

[339] «Erant» nella Litera Florentina (cfr. Th. Mommsen, Editio maior, vol. II, p. 111; Id., Editio minor, p. 503 nt. 9; Digesto Milano, p. 816 nt. 2) probabilmente perché questo plurale si riferisce sia alla “lana” che alla “purpura”.

[340] Sulle ragioni della scelta di lasciare all’uxor l’usufrutto per garantire alla beneficiaria una certa sicurezza economica e nel contempo evitare una eccessiva parcellizzazione del patrimonio ereditario, v. C. Nitsch, «Exceptio firmat regulam», cit., p. 3807 s.

[341] Sull’identificazione in questo passo di “argentum” con “pecunia”, “denaro contante”, v. Nitsch, «Exceptio firmat regulam», cit., p. 3810 ss.

[342] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 365; v. già C. Nitsch, «Exceptio firmat regulam», cit., p. 3807. Sul legato di usufrutto a favore delle mogli v. da ultimo E. Pezzato, Si sanctitas, cit., p. 38 ss.

[343] Cfr. C. Nitsch, «Exceptio firmat regulam», cit., pp. 3807, 3809; F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 365.Al contrario, M.A. Ligios, Merci e legati, cit., p. 80 ss., nella sua esegesi del passo di Scevola, ignora l’altro presunto oggetto del diritto di usufrutto: la purpura.

[344] Sulle ragioni per cui è escluso l’argentum dal legato di usufrutto v. C. Nitsch, «Exceptio firmat regulam», cit., p. 3809 ss.

[345] Cfr. C. Nitsch, «Exceptio firmat regulam», cit., pp. 3807, 3809, 3811 s. Si può citare un altro frammento in cui si riscontra l’applicazione del metodo che esclude dal legato i beni che in vita del testatore erano destinati ai commerci. Si tratta di D.34.2.32.4 Paul. 2 ad Vitell. (esaminato da R. Astolfi, Studi, cit., vol. II, p. 238 ss.; C. Lázaro Guillamón, Mujer, cit., p. 168; dettagliatamente da M.A. Ligios, Merci e legati, cit., pp. 58 ss., 79), ove Paolo riporta un caso su cui era già stato interrogato Scevola (cfr. A. Watson, The Digest of Justinian, vol. II, rev. Engl. lang. ed., Philadelphia, 1998, sub hoc titulo). Una madre aveva disposto un legato a favore della figlia in questi termini: “Figlia mia dolcissima, prendi inoltre dal residuo e trattieni per te ogni mio ornamento femminile insieme all’oro e a qualunque altra cosa muliebre che salterà fuori”. Si chiedeva, qualora la testatrice fosse stata una negoziante, se appartenga al legato non soltanto l’argenteria che si trovava nella casa o nei ripostigli a uso della disponente, ma anche l’argenteria che era in vendita nella bottega a uso femminile. La risposta di Scevola(cfr. A. Watson, The Digest, cit., vol. II, sub hoc titulo) fu che, se la donna era proprietaria di argenteria acquistata a uso personale, non è da ritenere legata quella che ella era solita mettere in vendita a scopo di lucro, a meno che chi pretende l’argenteria del negozio non dimostri che la disponente intendesse lasciare anche questa. Sul punto v. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 365 nt. 101.

[346] Cfr. M.A. Ligios, Merci e legati, cit., p. 80 e nt. 102.

[347] Cfr. C. Nitsch, «Exceptio firmat regulam», cit., p. 3812 s. Secondo, G. Crifò, Studi sul quasi-usufrutto romano. I. Problemi di datazione, Padova, 1977, p. 176 s., il motivo dell’esclusione della lana non dipenderebbe né dal fatto che questa possa essere soltanto oggetto di quasi-usufrutto (v. ad es. D.7.5.11 Ulp. 18 ad Sab.), né dalla sua espressa destinazione da parte del de cuius agli scambi commerciali: la ragione, piuttosto, risiederebbe nell’applicazione analogica dell’esclusione dell’argentum dal legato al prezzo che la vedova avrebbe potuto conseguire dalla vendita della lana (di per sé lecita perché coerente con la finalità voluta dal de cuius).

[348] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 365.

[349] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 365.

[350] In proposito v. B.W. Frier - T.A.J. McGinn, A Casebook on Roman Family Law, New York, 2004, p. 398.

[351] Si veda, in merito, F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 324 ss. (alle testimonianze epigrafiche indicate ivi, devono aggiungersi quelle esaminate da C. Lázaro Guillamón, Mujer, cit., p. 175 s.).

[352] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 366.

[353] Si pensi soltanto ai testi gaiani del Digesto in tema di specificatio, dai quali emerge che una cosa è la lana, un’altra è il vestimentum con questa confezionato: Gai II 79; D.41.1.7.7 Gai. 2 rer. cott.

[354] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 365 s.

[355] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 365 s.

[356] Cfr. F. Scotti, Lana, linum, cit., p. 365 s.

[357] Su questo tipo di imprenditore v. già J.P. Morel, L’artigiano, cit., p. 243 ss.

[358] J.P. Morel, L’artigiano, cit., p. 244 (per un’interessante carrellata di «capitani d’industria» realmente vissuti nel mondo romano a partire dall’età augustea, v. p. 243 ss.).

Scotti Francesca



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