fbevnts Il lavoro dei detenuti nella legge di ordinamento penitenziario: luci, ombre e prospettive di una disciplina da rimeditare

Il lavoro dei detenuti nella legge di ordinamento penitenziario: luci, ombre e prospettive di una disciplina da rimeditare

30.10.2024

Nicola Pascucci*

 

Il lavoro dei detenuti nella legge di ordinamento penitenziario: luci, ombre e prospettive di una disciplina da rimeditare**

 

English Title: Prisoners’ work under the Italian Penitentiary Law: highlights, challenges and perspectives of a discipline to reconsider

DOI: 10.26350/18277942_000204

 

Sommario: 1. Il “nuovo volto” del lavoro dei detenuti. – 2. Ripartizione del lavoro: il ruolo dell’amministrazione penitenziaria e delle imprese. – 3. Criticità e anacronismi del lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. – 4. Il lavoro intramurario e all’esterno alle dipendenze di imprese: opportunità e ostacoli. – 5. Il lavoro autonomo e il lavoro a domicilio. – 6. Le attività affini al lavoro e la necessità di implementare la formazione professionale. – 7. Criticabili divieti d’accesso alle misure alternative e inevitabili riflessi sul lavoro. – 8. I limiti al lavoro all’esterno e alle misure alternative per i reati “ostativi”: un deciso passo indietro rispetto alla finalità risocializzante della pena. – 9. Luci e ombre dei recenti disegni di legge in tema di lavoro penitenziario. – 10. Conclusioni.

 

1. Il “nuovo volto” del lavoro dei detenuti

 

Solo in tempi relativamente recenti il lavoro dei detenuti ha definitivamente abbandonato la tradizionale logica afflittiva, che lo vedeva come parte integrante della sanzione penale[1], abbracciando una funzione esclusivamente risocializzante, come elemento essenziale per realizzare la finalità rieducativa della pena ex art. 27 c. 3 Cost. e, in generale, per riaffermare la dignità della persona[2].

Esso costituisce un elemento fondamentale nel trattamento rieducativo dei detenuti, ove condannati in via definitiva, e degli internati (cioè i sottoposti a misure di sicurezza detentive), ai sensi dell’art. 15 ord. penit.[3]. Il trattamento, infatti, «è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, della formazione professionale, del lavoro, della partecipazione a progetti di pubblica utilità, della religione, delle attività culturali, ricreative, sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia» (art. 15 c. 1 ord. penit.).

La centralità del lavoro emerge dal c. 2 del medesimo articolo, in base al quale, per realizzare il «trattamento rieducativo», al condannato e all’internato «è assicurato il lavoro», eccetto i «casi d’impossibilità» (art. 15 c. 2 ord. penit.).

Il ruolo fondamentale dell’attività lavorativa nel trattamento rieducativo è del resto confermato dal CNEL, che stima un crollo del tasso di recidiva da oltre il 60% al 2% per coloro che beneficiano di percorsi formativi e lavorativi[4].

La disciplina sul lavoro dei detenuti è contenuta principalmente negli artt. 20 ss. legge n. 354 del 1975[5] (ord. penit.), integrata dagli artt. 47 ss. del d.p.R. n. 230 del 2000[6] (reg. esec.).

Non solo i condannati in via definitiva e gli internati, ma anche gli indagati e gli imputati, quando detenuti perché sottoposti a custodia cautelare in carcere, sono ammessi a «svolgere attività lavorativa o di formazione professionale, possibilmente di loro scelta e, comunque, in condizioni adeguate alla loro posizione giuridica», «salvo giustificati motivi o contrarie disposizioni dell’autorità giudiziaria». Dato che gli indagati e gli imputati non sono considerati colpevoli fino alla condanna definitiva (art. 27 c. 2 Cost.) non possono essere rieducati cosicché, per accedere al lavoro, occorre la previa richiesta degli stessi (art. 15 c. 3 ord. penit.)[7]. La finalità del trattamento è, in tal caso, «sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali» (art. 1 c. 1 reg. esec.), considerato l’insostituibile valore di promozione umana insito nell’attività lavorativa.

Le caratteristiche e le modalità di espletamento del lavoro penitenziario sono contenute innanzitutto nell’art. 20 ord. penit., su cui sono di recente intervenuti i d.lgs. n. 123 e 124 del 2018.

Tre sono le connotazioni principali: è volontario[8] e, come anticipato, non ha carattere afflittivo. Il lavoro, infatti, non è uno strumento per rendere più gravosa l’esecuzione della pena, ma per fornire al detenuto strumenti utili a reinserirsi nella società. Esso è inoltre remunerato. Nello specifico, la remunerazione del lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria è pari a due terzi del trattamento economico previsto dalla contrattazione collettiva (art. 22 ord. penit.). Per questo motivo, non si parla di “retribuzione”, ma di “remunerazione” (il d.lgs. n. 124 del 2018 ha eliminato il vecchio termine “mercede”). Nonostante le condivisibili critiche della dottrina, che prospetta la violazione del «principio costituzionale dell’equa retribuzione»[9], la decurtazione rispetto a quanto previsto dalla contrattazione collettiva viene giustificata in ragione della minore produttività di una persona detenuta rispetto a chi si trovi in libertà, pur non potendo comunque tradursi in un trattamento di molto inferiore rispetto a quello del lavoro comune[10]. Sorgono tuttavia problemi di compatibilità tra l’art. 22 ord. penit. e il lavoro intramurario prestato non alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, bensì di terzi. L’art. 2 legge n. 193 del 2000 (c.d. legge Smuraglia) prescrive che le convenzioni tra l’amministrazione penitenziaria e i datori di lavoro privati, che stabiliscono anche il corrispettivo, non possono determinare una somma inferiore a quella prevista dalla disciplina sul lavoro in carcere. La norma pare quindi richiamare anche l’art. 22 ord. penit. e la relativa decurtazione di un terzo. Tuttavia, qualora si intendesse la previsione nel senso di consentire una deroga al ribasso dei contratti collettivi per il lavoro carcerario, parte della dottrina paventa problemi di illegittimità costituzionale, considerando altresì che la Corte[11] ha “salvato” l’art. 22 ord. penit. in base a considerazioni calibrate su un rapporto instaurato con l’amministrazione penitenziaria, che mal si adattano al lavoro alle dipendenze di datori di lavoro esterni[12]. Inoltre, la predetta pronuncia equipara al lavoro comune l’attività del detenuto alle dipendenze di privati, svolta «sotto il diretto controllo della direzione dell’istituto», perlomeno quanto agli elementi essenziali del rapporto, tra cui la retribuzione. L’espressione relativa al «diretto controllo» da parte della direzione è attinta dall’art. 21 c. 3 ord. penit. in tema di lavoro all’esterno, ma nulla esclude che lo stesso concetto possa estendersi a fortiori al lavoro intramurario alle dipendenze di imprese, in cui il controllo dell’istituto è, per ovvi motivi, ancor più penetrante.

Nelle altre ipotesi, il compenso è parametrato ai contratti collettivi, senza decurtazioni.

Vengono in ogni caso effettuati i prelievi di cui all’art. 24 ord. penit. (somme dovute a titolo risarcitorio e di rimborso delle spese del procedimento, spese di mantenimento in carcere ex art. 2 commi 2 e 3 ord. penit.), pur dovendo rimanere al detenuto una somma pari almeno ai tre quinti del totale. È possibile sequestrare e pignorare anche questa quota solo per assolvere alle obbligazioni in materia di alimenti e per risarcire i danni arrecati dal detenuto alle cose mobili o immobili all’interno dell’istituto (art. 24 commi 2 e 3 ord. penit.; art. 56 reg. esec.).

Il datore di lavoro non versa la remunerazione al detenuto, ma alla direzione dell’istituto (art. 47 c. 1, quinto periodo, reg. esec.; art. 48 c. 10, primo periodo, reg. esec.), al netto delle trattenute e degli assegni familiari (art. 55 reg. esec.).

Non è ammesso il pagamento diretto al detenuto/internato, né in contanti né con altri mezzi.

La parte di remunerazione riservata ai detenuti ai sensi dell’art. 24 ord. penit. confluisce nel peculio, costituito anche dal denaro posseduto dal medesimo al momento dell’ingresso in carcere, nonché da quello ricavato dalla vendita di beni o a lui trasferito dai familiari. Esso è «tenuto in deposito dalla direzione dell’istituto» (art. 25 ord. penit., art. 57 reg. esec.).

I datori di lavoro devono dimostrare alla direzione dell’istituto l’assolvimento degli obblighi assicurativi e previdenziali (art. 47 c. 1, sesto periodo, reg. esec.; art. 48 c. 10, secondo periodo, reg. esec.).

In linea con le indicazioni del Consiglio d’Europa, che raccomanda, per quanto possibile, l’equiparazione del lavoro dei detenuti a quello libero[13], il legislatore italiano dispone che il lavoro deve rispecchiare, nell’organizzazione e nei metodi, quello praticato nella società libera, «al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale» (art. 20 c. 3 ord. penit.).

Nel lavoro all’esterno sono garantiti tutti i diritti di cui godono i lavoratori liberi, con gli unici limiti derivanti dagli «obblighi inerenti alla esecuzione della misura privat(iv)a della libertà» (art. 48 c. 11 reg. esec.). Stessa cosa per il lavoro effettuato nell’ambito di misure alternative alla detenzione.

Invece, nel lavoro intramurario sono riconosciuti espressamente solo determinati diritti: si applicano le disposizioni lavoristiche generali relative all’orario di lavoro, al riposo festivo, alle ferie annuali retribuite, alla tutela assicurativa e previdenziale (art. 20 c. 13 ord. penit.) e si riconosce il diritto agli assegni familiari (art. 23 ord. penit.).

Il presente lavoro si concentra sui profili penitenziari del lavoro dei detenuti, tralasciando i pur fondamentali aspetti di natura giuslavoristica.

 

2. Ripartizione del lavoro: il ruolo dell’amministrazione penitenziaria e delle imprese

 

La Costituzione, agli artt. 4 e 36, non opera alcuna distinzione tra lavoratori liberi e detenuti ed è da questa base normativa che il legislatore ordinario deve partire[14]. Considerate, tuttavia, le diverse condizioni di partenza tra un lavoratore libero e uno privato della libertà personale, alcune caratteristiche del lavoro prestato da quest’ultimo divergono rispetto all’archetipo generale, in primis il profilo operativo[15].

Una differenza rilevante tra il lavoro dei detenuti e quello libero sta nel fatto che il primo non può essere scelto. È l’amministrazione penitenziaria a ripartire i posti disponibili.

Presso ogni istituto è presente un’apposita commissione per il lavoro penitenziario, composta dal direttore del carcere o da un suo delegato, dal direttore del centro per l’impiego o da un suo delegato e dagli altri soggetti indicati nell’art. 20 c. 4 ord. penit. Essa forma due elenchi (uno generico e uno per qualifica) ai fini dell’assegnazione dei detenuti al lavoro, tenuto conto di determinati criteri («anzianità di disoccupazione maturata durante lo stato di detenzione e di internamento», «carichi familiari» e «abilità lavorative possedute»; si privilegiano «a parità di condizioni, i condannati, con esclusione dei detenuti e degli internati sottoposti al regime di sorveglianza particolare di cui all’articolo 14-bis»). Essa stabilisce inoltre i «criteri per l’avvicendamento nei posti di lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria» (art. 20 c. 4 ord. penit.). In base all’art. 49 reg. esec., il direttore dell’istituto garantisce «imparzialità» e «trasparenza» nelle assegnazioni lavorative, «avvalendosi anche del gruppo di osservazione e trattamento».

Sono poi istituite commissioni regionali per il lavoro penitenziario, ai sensi dell’art. 25-bis ord. penit.

La direzione dell’istituto elenca in una tabella i posti di lavoro concernenti le «lavorazioni interne industriali, agricole» e i «servizi di istituto», i posti disponibili all’esterno presso imprese pubbliche o private e cooperative e quelli all’interno del carcere relativi a produzioni gestite direttamente da imprese private o cooperative (art. 25-bis commi 3 e 4 ord. penit., v. anche l’art. 47 c. 10 reg. esec.). La tabella non si occupa dei posti di lavoro per i soggetti sottoposti a misure alternative alla detenzione.

Annualmente la direzione dell’istituto approva il piano di lavoro, in considerazione del numero dei detenuti, del personale civile e di polizia penitenziaria disponibile e delle strutture produttive (art. 25-bis c. 5 ord. penit.).

Il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria approva la tabella e il piano di lavoro, dopo aver sentito la suddetta commissione regionale (art. 25-bis c. 6 ord. penit.).

Dal canto loro, le imprese pubbliche o private e le cooperative sociali che intendano assumere lavoratori detenuti stipulano una convenzione con l’amministrazione penitenziaria, a livello centrale o territoriale.

Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) pubblica le proposte di convenzione sul proprio sito. I soggetti privati interessati ad accettarle trasmettono al DAP i loro «progetti di intervento», assieme al curriculum dell’ente. Tale documentazione, a sua volta, è pubblicata sul sito del DAP. Le convenzioni in seguito stipulate, cui viene data pubblicità nelle medesime forme, «disciplinano l’oggetto e le condizioni di svolgimento dell’attività lavorativa, la formazione e il trattamento retributivo, senza oneri a carico della finanza pubblica». Agli operatori privati che agiscono per conto degli enti convenzionati si applica la disciplina di cui all’art. 78 ord. penit. sugli assistenti volontari, che possono essere autorizzati dalla direzione dell’istituto, su proposta del magistrato di sorveglianza, a partecipare all’opera di rieducazione dei detenuti all’interno del carcere (art. 20 c. 8 ord. penit.).

 

3. Criticità e anacronismi del lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria

 

La legge n. 354 del 1975 (ord. penit.) prevede diversi tipi di lavoro penitenziario: tra i rapporti di natura subordinata, sono annoverabili il lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, il lavoro intramurario (cioè all’interno dell’istituto penitenziario) alle dipendenze di imprese o cooperative sociali, il lavoro all’esterno (o extramurario) alle dipendenze di imprese o cooperative sociali (art. 21 ord. penit.). Anche il detenuto, inoltre, può accedere al lavoro autonomo e al lavoro a domicilio. Si prevedono infine attività affini al lavoro penitenziario, come il lavoro di pubblica utilità (art. 20-ter ord. penit., introdotto dal d.lgs. n. 124 del 2018); le attività dei detenuti a favore delle vittime dei reati da loro commessi (c. 4-ter dell’art. 21 ord. penit., modificato dal d.lgs. n. 124 del 2018) e la formazione professionale (art. 19 ord. penit.).

Il lavoro subordinato alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria è la tipologia di gran lunga più diffusa, che nel 2023 coinvolgeva circa l’85% dei detenuti impegnati in attività lavorative[16]. Si tratta spesso di lavoro intra moenia (che impegna l’82,5% dei detenuti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria)[17], ma potrebbe essere anche extramurario, come nel caso in cui le tenute agricole dell’istituto siano collocate al di fuori di esso. Nonostante sia la forma di lavoro più diffusa, essa ha spesso ad oggetto attività poco qualificanti sotto il profilo professionale e per di più caratterizzate da un elevato turn over, a causa della scarsità del lavoro e della necessità di coinvolgere, almeno per poche ore, il maggior numero di detenuti e internati possibile[18]. Vengono svolte attività “domestiche” necessarie nell’istituto penitenziario (cioè i “servizi di istituto”: ad es. barbiere, addetto alle pulizie, addetto alla distribuzione dei pasti), le lavorazioni penitenziarie per il consumo interno all’istituto (e agli istituti sul territorio nazionale: corredo, vestiario, arredi, per i quali sono necessari sarti, calzolai, falegnami), per la produzione di beni e la prestazione di servizi[19]. Tra di esse, sono previste anche le attività nelle colonie agricole e nei “tenimenti” agricoli (ad esempio, apicoltori e ortolani)[20].

Di regola, l’amministrazione penitenziaria deve utilizzare le lavorazioni penitenziarie per «forniture di vestiario e corredo», per «forniture di arredi» e per «quant’altro necessario negli istituti». Secondo il regolamento penitenziario, queste forniture possono essere effettuate da imprese esterne solo in presenza di una «significativa convenienza economica», considerando altresì l’importanza delle lavorazioni penitenziarie nel trattamento rieducativo (art. 47 c. 4 reg. esec.). La disposizione non dovrebbe intendersi nel senso di escludere le imprese dalle lavorazioni penitenziarie, bensì nel senso di valorizzare l’apporto dei detenuti, i quali dovrebbero essere coinvolti in tali produzioni intramurarie a prescindere da chi sia il datore di lavoro (l’amministrazione penitenziaria o imprese esterne). Ciò che si vuole evitare è che dette lavorazioni vengano svolte da terzi senza l’apporto dei detenuti. Se si attribuisse alla norma il significato di escludere tout court dall’istituto, salvo guadagni economici rilevanti, le imprese e le cooperative, quand’anche assumessero detenuti, la disposizione si rivelerebbe del tutto anacronistica e in contrasto con la ratio di favorire il lavoro penitenziario sia pure con il sostegno della comunità esterna.

L’amministrazione penitenziaria promuove la vendita dei prodotti di tali lavorazioni, eventualmente affidandone la commercializzazione a imprese pubbliche o private, attraverso convenzioni (art. 20-bis ord. penit.).

Per incoraggiare la vendita o la fornitura di beni e servizi dei detenuti, la direzione dell’istituto, previa autorizzazione del Ministero della giustizia, può venderli o fornirli anche ad un prezzo pari o inferiore al loro costo (art. 20 c. 9 ord. penit., art. 47 c. 9 reg. esec.).

 

4. Il lavoro intramurario e all’esterno alle dipendenze di imprese: opportunità e ostacoli

 

Le lavorazioni penitenziarie interne all’istituto (ma pure quelle esterne: v. art. 47 c. 1, primo periodo, reg. esec.) possono essere «organizzate e gestite» non solo dalla direzione dell’istituto, ma anche da imprese pubbliche o private, in particolare da cooperative sociali. Al fine di incentivare gli imprenditori, è prevista la possibilità di ottenere in comodato locali e attrezzature all’interno dell’istituto. Ciò avviene sulla base di convenzioni, che, oltre a questi aspetti, regolano altresì «le modalità di addebito all’impresa, delle spese sostenute per lo svolgimento della attività produttiva» (art. 47 c. 1, secondo e terzo periodo, reg. esec.). Nonostante la chiara scelta legislativa nel senso della «privatizzazione»[21], il lavoro alle dipendenze di imprese, all’interno o all’esterno dell’istituto, non è mai decollato: nel 2023, soltanto l’1% dei detenuti coinvolti in attività lavorative prestava la propria opera presso imprese private, il 4% presso cooperative sociali[22].

Per evitare il pericolo di sfruttamento dei lavoratori, è vietato l’appalto di manodopera da parte dell’istituto alle imprese esterne. Queste ultime devono infatti assumere direttamente i detenuti/internati (art. 47 c. 1, quarto periodo, reg. esec.).

Ove previsto dalle predette convenzioni, il lavoro intramurario alle dipendenze di imprese, soprattutto quello alle dipendenze di cooperative sociali, può avere ad oggetto anche i “servizi di istituto”, come «la somministrazione del vitto», i servizi di «pulizia» e quelli di «manutenzione dei fabbricati» (art. 47 c. 3 reg. esec.).

Per quanto riguarda il lavoro all’esterno alle dipendenze di imprese, la cui disciplina è contenuta nell’art. 21 ord. penit. e nell’art. 48 reg. esec., i datori di lavoro sono le imprese e le cooperative sociali. I soggetti coinvolti sono ancora un’esigua minoranza: nel 2023, si trattava solo del 5% dei detenuti impegnati in percorsi lavorativi[23].

Non ci sono tempi minimi di accesso, ma occorre prima formulare il programma di trattamento, che va poi approvato dal magistrato di sorveglianza. Quest’ultimo deve inoltre approvare con decreto il provvedimento di ammissione al lavoro all’esterno (art. 69 c. 5 ord. penit.). Per i detenuti non ancora condannati in via definitiva non è previsto il programma di trattamento, ma occorre fare domanda per essere ammessi al lavoro all’esterno.

La legge sancisce criticabili eccezioni, che rendono più difficoltoso l’accesso al lavoro all’esterno, privando in parte l’esecuzione penale delle sue potenzialità risocializzanti, in particolare della sua capacità di modellarsi sui bisogni e sulle attitudini professionali del singolo individuo.

I condannati per i gravi delitti dei commi 1, 1-ter e 1-quater dell’art. 4-bis ord. penit. possono beneficiarne solo dopo aver scontato almeno un terzo della pena e comunque non oltre cinque anni (art. 21 c. 1 ord. penit.[24]). I condannati all’ergastolo possono accedere al lavoro all’esterno dopo aver scontato almeno dieci anni di pena (art. 21 c. 1 ord. penit.), mentre i condannati per il delitto di evasione (art. 385 C.P.) e coloro ai quali sia stata revocata una misura alternativa per comportamento contrario alla legge o alle prescrizioni non possono fruirne per tre anni dal momento in cui è ricominciata l’esecuzione della custodia cautelare o della pena (art. 58-quater commi 1, 2, 3 ord. penit.). I condannati per i gravi delitti dei commi 1, 1-ter e 1-quater dell’art. 4-bis ord. penit. non possono accedervi per cinque anni dal momento in cui è ricominciata l’esecuzione della custodia cautelare o della pena, quando si procede o è pronunciata condanna contro di loro per un delitto doloso punibile con la reclusione non inferiore a tre anni nel massimo, commesso da chi ha posto in essere la condotta di evasione ex art. 385 C.P. o durante la fruizione di benefici all’esterno (art. 58-quater commi 5-7 ord. penit.).

Dal punto di vista procedurale, i condannati definitivi e gli internati sono ammessi al lavoro esterno dalla direzione dell’istituto, nei soli casi in cui il programma di trattamento lo consenta e per realizzare le finalità del trattamento ex art. 15 ord. penit. L’ammissione diventa esecutiva quando il magistrato di sorveglianza approva il provvedimento (artt. 21 c. 4 e 69 ord. penit., art. 48 c. 1 reg. esec.). Gli indagati/imputati, per i quali non è prevista la formulazione del programma di trattamento, sono ammessi al lavoro all’esterno dalla direzione, su autorizzazione dell’autorità giudiziaria procedente. Il provvedimento è comunicato al magistrato di sorveglianza (art. 21 c. 2 ord. penit., art. 48 c. 2 reg. esec.). Si deve ritenere possibile il reclamo dinanzi al tribunale di sorveglianza contro il provvedimento del magistrato di sorveglianza che ha approvato la revoca del lavoro all’esterno, considerata la natura di provvedimento idoneo a limitare i diritti fondamentali del detenuto[25]. Tale interpretazione pare preferibile rispetto a quella opposta, che nega il reclamo facendo leva sull’asserita natura amministrativa dei relativi provvedimenti del magistrato di sorveglianza, che impedirebbe l’applicazione dei mezzi di impugnazione ordinari[26]. La giurisdizionalizzazione del controllo è infatti conforme al rango costituzionale dei diritti coinvolti, in linea con quanto affermato dal giudice delle leggi, secondo cui «la collocazione topografica di una disposizione non può mai essere considerata decisiva ai fini dell’individuazione dello statuto costituzionale di garanzia ad essa applicabile»[27].

La direzione dell’istituto deve motivare la richiesta di approvazione del provvedimento al magistrato di sorveglianza o la richiesta di autorizzazione al giudice procedente, presentando tutta la documentazione necessaria (art. 48 c. 3 reg. esec.).

Il magistrato di sorveglianza o il giudice procedente, nel decidere, tengono conto del tipo di reato, della durata della privazione di libertà e dell’esigenza di prevenire la commissione di altri reati da parte del detenuto, se ammesso all’esterno (art. 48 c. 4 reg. esec.).

Sotto il profilo operativo, il DAP, nei limiti della disciplina vigente, promuove forme di collaborazione con le autorità competenti per consentire ai detenuti/internati il lavoro all’esterno (art. 48 c. 8 reg. esec.).

Il detenuto/internato riceve dalla direzione dell’istituto copia del provvedimento di ammissione al lavoro all’esterno (art. 48 c. 14 reg. esec.).

Il regolamento penitenziario precisa che i detenuti/internati ammessi al lavoro all’esterno indossano abiti civili e non possono essere obbligati a tenere le manette (art. 48 c. 5 reg. esec.). La previsione pare pleonastica, considerato che, di fatto, i detenuti italiani indossano abiti civili anche all’interno degli istituti penitenziari. Inoltre, è evidente il carattere stigmatizzante e desocializzante delle manette ai polsi nel tragitto dal carcere al luogo di lavoro e viceversa. La norma testimonia la necessità di interventi di revisione generalizzata sulle norme penitenziarie, finalizzati ad eliminarne i tratti anacronistici.

I detenuti e gli internati prestano l’attività lavorativa senza scorta, eccetto le ipotesi in cui essa risulti necessaria per ragioni di sicurezza (art. 21 c. 2, primo periodo, ord. penit.), nei quali casi viene effettuata dal Corpo di polizia penitenziaria (art. 48 c. 6, primo periodo, reg. esec.). La direzione dell’istituto deve motivare, nella richiesta al magistrato di sorveglianza o al giudice procedente, l’eventuale opportunità della scorta (art. 48 c. 3 reg. esec.). Il lavoro all’esterno presso imprese private si svolge sotto il «diretto controllo della direzione dell’istituto», che si serve dei propri dipendenti e dei servizi sociali per verificare se il detenuto osservi le prescrizioni e se il lavoro si svolga rispettando i diritti e la dignità della persona (artt. 21 c. 3 ord. penit. e 48 c. 16 reg. esec.). La polizia penitenziaria, ove specificamente comandata, la polizia di Stato e i carabinieri «possono effettuare controlli del detenuto durante il lavoro all’esterno» (art. 48 c. 6, secondo periodo, reg. esec.). La disposizione necessiterebbe di modifiche e precisazioni attuative, al fine di scongiurare il rischio che controlli troppo penetranti o svolti con modalità inopportune stigmatizzino il detenuto/internato nel luogo di lavoro. L’obiettivo, anche in questo caso, dovrebbe essere quello di parificarlo il più possibile al lavoratore libero.

In caso di lavoro esterno presso le imprese pubbliche, la direzione prende accordi con i responsabili di tali imprese per la segnalazione di comportamenti del detenuto/internato che necessitano di controlli (art. 48 c. 18 reg. esec.).

Nel provvedimento di ammissione al lavoro all’esterno senza scorta vanno indicate le prescrizioni che la persona deve impegnarsi per iscritto ad osservare, gli orari di uscita e di rientro, «tenuto anche conto della esigenza di consumazione dei pasti e del mantenimento dei rapporti con la famiglia, secondo le indicazioni del programma di trattamento». L’orario di rientro va determinato entro una fascia oraria che consideri anche la possibilità di ritardo per forza maggiore. Il mancato rientro entro la scadenza del termine integra il delitto di evasione ex art. 385 C.P. (art. 48 c. 13 reg. esec.). Gli orari di lavoro devono ricalcare, per quanto possibile, quelli dei lavoratori liberi.

Il direttore dell’istituto provvede all’eventuale modifica delle prescrizioni e alla revoca del provvedimento di ammissione al lavoro all’esterno. Quest’ultima diventa esecutiva quando è approvata dal magistrato di sorveglianza. Nelle more dell’approvazione, il direttore dell’istituto può sospendere l’efficacia del provvedimento di ammissione (art. 48 c. 15 reg. esec.). Può peraltro verificarsi anche la situazione opposta: nel caso in cui sia il magistrato di sorveglianza ad accertare il venir meno in itinere delle condizioni per la concessione del lavoro all’esterno, non può revocare autonomamente l’atto di ammissione, di competenza dell’amministrazione penitenziaria, ma può “ritirare” la sua precedente autorizzazione, privando così di efficacia esecutiva il predetto atto di ammissione[28].

 

5. Il lavoro autonomo e il lavoro a domicilio

 

Nonostante la legge li consenta, la diffusione dei lavori autonomo e a domicilio è da sempre limitata, anche per la fisiologica necessità di avere una clientela, cosa alquanto difficile.

Nel programma di trattamento, i detenuti e gli internati possono comunque essere ammessi a svolgere, per conto proprio, attività artigianali, intellettuali o artistiche, considerate le loro attitudini (art. 20 c. 11 ord. penit., art. 51 reg. esec.).

Il lavoro autonomo all’esterno è ammesso solo quando la persona è autorizzata a svolgerlo dagli organi competenti, possiede le attitudini necessarie e può dedicarvisi con «impegno professionale». In questo caso, il detenuto/internato deve versare i relativi proventi alla direzione dell’istituto e su di essi vengono effettuati i prelievi a titolo di risarcimento, di rimborso delle spese di procedimento e di mantenimento in carcere (art. 48 c. 12 reg. esec.). La direzione dell’istituto, tramite il proprio personale dipendente o i servizi sociali, effettua controlli durante lo svolgimento del lavoro (art. 21 c. 3 ord. penit., richiamato dall’art. 48 c. 17 reg. esec.). La necessaria autorizzazione al lavoro autonomo, che prevede al contempo un esonero da quello ordinario, mal si concilia con il nuovo spirito dell’art. 20 ord. penit., che sancisce la natura volontaria del lavoro e supera la passata concezione afflittiva dello stesso[29].

Il lavoro a domicilio all’interno dell’istituto penitenziario è regolato dall’art. 52 reg. esec., che prescrive il «rispetto della normativa in materia» e rinvia all’art. 51 reg. esec. sulle attività artigianali, intellettuali e artistiche. È possibile l’invio dei prodotti al di fuori dell’istituto e sugli eventuali proventi si effettuano i prelievi a titolo di risarcimento, di rimborso delle spese di procedimento e di mantenimento in carcere. Secondo parte della dottrina, la retribuzione dovrebbe essere parametrata a quella del lavoro libero, cui si estende di regola la disciplina, in quanto l’applicazione delle regole del lavoro autonomo riguarda soltanto le relative modalità di effettuazione[30].

 

6. Le attività affini al lavoro e la necessità di implementare la formazione professionale

 

Come anticipato, il legislatore ha di recente disciplinato attività affini al lavoro penitenziario, animate dalla medesima ratio rieducativa ma caratterizzate dalla gratuità: il lavoro di pubblica utilità e le attività a favore delle vittime.

Il lavoro di pubblica utilità, innanzitutto, è previsto dall’art. 20-ter ord. penit., introdotto dal d.lgs. n. 124 del 2018, e si configura come una prestazione «svincolata dalle logiche della produzione e del profitto», la cui valenza risocializzante risiede non nella capacità di riprodurre le cadenze del lavoro libero, bensì nella partecipazione a un «progetto» con finalità sociali[31]. La partecipazione a progetti di pubblica utilità, cui i detenuti/internati sono ammessi previa richiesta, si svolge a favore di Stato, regioni, province, comuni, aziende sanitarie locali, enti di volontariato ed è regolata da apposite convenzioni. Essa può realizzarsi all’interno o al di fuori dell’istituto. Se effettuate all’interno, queste attività «non possono in alcun caso avere ad oggetto la gestione o l’esecuzione dei servizi d’istituto» (art. 20-ter c. 2, secondo periodo, ord. penit.). La vera e propria attività lavorativa rimane comunque centrale: il lavoro di pubblica utilità deve svolgersi senza recare pregiudizio alle «esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dei condannati e degli internati» (art. 20-ter c. 4 ord. penit.).

Il c. 4-ter dell’art. 21 ord. penit., modificato dal d.lgs. n. 124 del 2018, regola le attività dei detenuti a favore delle vittime dei reati da loro commessi. Per lo svolgimento di tali attività sussistono tuttavia delle preclusioni: non possono accedervi i detenuti e gli internati per il delitto di associazione mafiosa (art. 416-bis C.P.) o per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal medesimo articolo o per agevolare l’attività di tali associazioni.

L’art. 19 ord. penit., dedicato all’istruzione, contiene inoltre una specifica norma sulla formazione professionale, in base alla quale sono agevolati i tirocini di cui alla legge n. 92 del 2012 (art. 19 c. 6 ord. penit., introdotto dal d.lgs. n. 123 del 2018). La direzione dell’istituto favorisce la partecipazione dei detenuti a corsi di formazione professionale, anche mediante accordi con la regione e con gli enti locali. Una grave criticità è rappresentata dal fatto che, in molti casi, il detenuto con pene brevi o a fine pena potrebbe non riuscire a terminare il corso in tempo utile, con una conseguente interruzione dell’attività formativa e il mancato conseguimento della certificazione finale. Per far fronte a questo grave problema, il legislatore tenta di garantire al medesimo «la continuità della frequenza e la possibilità di conseguire il titolo di qualificazione anche dopo la dimissione», attribuendo all’amministrazione penitenziaria l’obbligo di promuovere protocolli d’intesa tra l’amministrazione penitenziaria e gli enti locali (art. 42 reg. esec.). La norma, tuttavia, assume in concreto una mera valenza orientativa, rimettendo di fatto all’amministrazione tale compito. A coloro che effettuano corsi di formazione professionale o tirocini «è garantita, nei limiti degli stanziamenti regionali, la tutela assicurativa e ogni altra tutela prevista dalle disposizioni vigenti» (art. 20 c. 13, secondo periodo, ord. penit.). Per la frequenza dei corsi è prevista la corresponsione di un sussidio orario determinato con decreto ministeriale e, qualora il detenuto/internato abbia superato il corso, un premio di rendimento nella misura stabilita dal DAP (art. 45 reg. esec.). A coloro che partecipano a corsi di formazione professionale all’esterno si applicano anche le disposizioni sul lavoro all’esterno, in particolare i commi 1, 2, 3, 4 dell’art. 21 ord. penit., nonché, in tema di tutela previdenziale e assicurativa, l’art. 20 c. 13, secondo periodo, ord. penit. (v. il rinvio contenuto nell’art. 21 c. 4-bis ord. penit.).

Le norme appena analizzate suggeriscono che, sotto questo profilo, la disciplina necessita di ulteriori interventi per incrementarne l’effettività e le capacità risocializzanti. La formazione professionale va infatti implementata, rappresentando uno degli elementi più significativi nel trattamento rieducativo del detenuto/internato. È infatti noto che, secondo alcuni studi, non tutte le occupazioni prevengono in egual modo la recidiva: risultano più efficaci sotto tale profilo quelle maggiormente qualificate[32], che richiedono però, salvo eccezioni, un adeguato periodo di addestramento. Al fine di promuovere una formazione professionale di questo livello, la disciplina dovrebbe quindi consentire non soltanto l’effettuazione di corsi all’interno del carcere, ma anche all’esterno, al pari di quanto avviene per il lavoro.

 

7. Criticabili divieti d’accesso alle misure alternative e inevitabili riflessi sul lavoro

 

Un discorso a parte merita il lavoro del detenuto nell’ambito delle misure alternative alla detenzione. Trattandosi di modalità particolari di esecuzione della pena (o della misura di sicurezza), le misure alternative sono riservate ai condannati in via definitiva e, in alcuni casi, agli internati[33]. Non possono accedervi gli indagati e gli imputati sottoposti a custodia cautelare in carcere, non essendo stati ancora condannati con sentenza irrevocabile.

Nelle misure alternative è direttamente l’interessato a ricercare il lavoro (anche con l’aiuto del proprio avvocato, dei propri conoscenti, dei centri per l’impiego e di apposite strutture interne agli istituti penitenziari, ove esistenti) e, sotto il profilo operativo, all’istanza al tribunale di sorveglianza in cui si chiede la misura alternativa, può allegarsi una dichiarazione di disponibilità del datore di lavoro.

Non si tratta, in questi casi, di declinazioni particolari del lavoro penitenziario, bensì di attività lavorative disciplinate in toto dalle regole ordinarie, che il condannato svolge al pari di qualsiasi lavoratore libero. Le uniche limitazioni riguardano i controlli sul buon andamento dell’esecuzione penale (il lavoro, oltre ad essere un mezzo di sostentamento, è pur sempre un elemento del percorso risocializzante dell’individuo, soggetto a valutazione) e, in alcune ipotesi, i rapporti con le modalità di svolgimento della misura (la semilibertà, ad esempio, esige che una parte della giornata sia trascorsa in istituto, cosicché anche gli orari dell’attività professionale esterna vanno adattati di conseguenza).

Mentre la detenzione domiciliare ha ben pochi contenuti rieducativi (il giudice può comunque autorizzare il soggetto a recarsi fuori dal domicilio per il tempo strettamente necessario, in ipotesi di assoluta necessità, comprese le esigenze lavorative: v. l’art. 47-ter c. 4 ord. penit., che richiama l’art. 284 C.P.P. sulla misura cautelare degli arresti domiciliari), alcune misure sono incentrate proprio sul rispetto di prescrizioni risocializzanti, nelle quali il lavoro assume fondamentale importanza.

Nell’affidamento in prova al servizio sociale ex art. 47 ord. penit., invece, la componente lavorativa è fondamentale.

Il soggetto non possiede lo status di detenuto, in quanto l’affidamento in prova è una misura alternativa totalmente sostitutiva del regime carcerario, che consente di espiare la pena definitiva (o parte di essa) in libertà, nel rispetto di determinate prescrizioni. Il beneficiario può prestare la propria opera presso qualsiasi datore di lavoro, compatibilmente con le prescrizioni, ed è anche possibile svolgere il lavoro autonomo.

Per quanto concerne i tempi, l’accesso al lavoro nell’affidamento in prova dipende ovviamente dall’accesso alla relativa misura alternativa alla detenzione. Possono fruirne i condannati con pena residua, al momento della richiesta, non superiore a tre anni (affidamento in prova “tradizionale”) o a quattro anni (affidamento in prova “allargato”) (art. 47 ord. penit.) ed occorre di regola una previa osservazione della personalità (art. 47 c. 2 ord. penit., per le eccezioni v. i commi 3 e 3-bis). Il limite di pena è elevato a sei anni in relazione all’affidamento in prova terapeutico per tossicodipendenti e alcoldipendenti (quattro anni per i delitti ex art. 4-bis ord. penit.) e la disciplina è contenuta nell’art. 94 d.p.R. n. 309 del 1990 (testo unico stupefacenti).

Anche in questo caso, tuttavia, la legge contempla discutibili limitazioni all’accesso[34]. I condannati per il delitto di evasione (art. 385 C.P.) e coloro ai quali sia stata revocata una misura alternativa per comportamento contrario alla legge o alle prescrizioni non possono accedervi per tre anni dal momento in cui è ricominciata la detenzione o è stata revocata la misura (art. 58-quater commi 1, 2, 3 ord. penit.)[35]. I condannati per i gravi delitti dei commi 1, 1-ter e 1-quater dell’art. 4-bis ord. penit. non possono accedervi per cinque anni dal momento in cui è ricominciata l’esecuzione della custodia cautelare o della pena, quando si procede o è pronunciata condanna contro di loro per un delitto doloso punibile con la reclusione non inferiore a tre anni nel massimo, commesso da chi ha posto in essere la condotta di evasione ex art. 385 C.P.  o durante la fruizione di benefici all’esterno (art. 58-quater commi 5-7 ord. penit.).

Per accedere a questa misura alternativa, il detenuto deve presentare un’istanza al tribunale di sorveglianza[36]. All’atto dell’affidamento viene redatto un verbale con le prescrizioni che il soggetto deve rispettare, anche in ordine al lavoro (art. 47 commi 5, 6, 7 ord. penit.). L’ordinanza di affidamento in prova ha effetto dal momento in cui l’interessato sottoscrive il verbale. Se il condannato è detenuto, il verbale è sottoscritto davanti al direttore dell’istituto (art. 97 c. 3 reg. esec.)[37].

Il datore di lavoro corrisponde la retribuzione direttamente al lavoratore in affidamento in prova, al pari di qualsiasi lavoratore libero.

Il lavoro, come le altre attività, può essere prestato anche in un luogo diverso rispetto a quello dell’istituto nel quale la persona era detenuta e, se la modifica interviene in corso di espletamento della misura, cambia la competenza dell’ufficio di sorveglianza (v. art. 97 c. 5 reg. esec.).

Il servizio sociale controlla il comportamento della persona e la aiuta a superare eventuali «difficoltà di adattamento alla vita sociale», anche relazionandosi «con la sua famiglia e con gli altri suoi ambienti di vita» (compreso, quindi, quello lavorativo) (art. 47 c. 9 ord. penit.).

Qualora invece venga concessa la misura alternativa della semilibertà, la persona conserva lo status di detenuto. Infatti, com’è noto, la semilibertà consente al condannato/internato di trascorrere parte della giornata fuori dall’istituto «per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale» (art. 48 ord. penit.), mentre la parte rimanente della giornata deve essere trascorsa in carcere. Al pari dell’affidamento in prova, la persona può comunque prestare la propria opera presso qualsiasi datore di lavoro e può svolgere anche un lavoro autonomo. Al lavoro in semilibertà è dedicato uno specifico articolo del regolamento penitenziario, l’art. 54 reg. esec.

L’accesso al lavoro in semilibertà dipende, com’è noto, dall’accesso alla relativa misura alternativa alla detenzione[38].

Per accedere a questa misura alternativa, il condannato/internato deve presentare un’istanza al tribunale di sorveglianza[39]. Entro cinque giorni dall’emissione del provvedimento, l’équipe di osservazione e trattamento (o il direttore dell’istituto in via provvisoria) formula un programma di trattamento che contiene le prescrizioni, compresi gli orari di uscita e di rientro nell’istituto (art. 101 c. 2 reg. esec.).

I datori di lavoro versano la retribuzione alla direzione dell’istituto, al netto delle ritenute di legge, e l’importo degli assegni familiari. I datori di lavoro devono anche dimostrare alla direzione di aver assolto agli obblighi di tutela assicurativa e previdenziale. I lavoratori semiliberi sono titolari degli stessi diritti dei lavoratori liberi, «con le sole limitazioni che conseguono agli obblighi inerenti alla esecuzione della misura privativa della libertà» (art. 54 commi 1 e 2 reg. esec.).

Se invece il semilibero svolge un lavoro autonomo, questi è tenuto a versare immediatamente i corrispettivi ricevuti alla direzione dell’istituto, al netto delle ritenute (art. 54 c. 3 reg. esec.).

La liberazione condizionale, invece, è una misura alternativa che presuppone il “sicuro ravvedimento” della persona e che si svolge nelle forme della libertà vigilata[40]. Dura un periodo pari al tempo della pena residua da scontare, oppure cinque anni in caso di ergastolo[41]. Il soggetto non possiede lo status di detenuto e, in caso di violazione delle prescrizioni relative alla libertà di movimento, non risponde di evasione, ma, ai sensi dell’art. 190 c. 4 disp. att. C.P.P., è punibile per il delitto di inosservanza degli obblighi imposti ex art. 231 C.P.

La centralità dell’attività lavorativa compare anche in questa misura alternativa, con una previsione fugace ma dalle conseguenze pervasive sulla struttura dell’istituto: la vigilanza è effettuata dall’autorità di pubblica sicurezza (art. 228 c. 1 C.P.) e «deve essere esercitata in modo da agevolare, mediante il lavoro, il riadattamento della persona alla vita sociale» (art. 228 c. 4 C.P.), con modalità tali «da non rendere difficoltosa alla persona che vi è sottoposta la ricerca di un lavoro e da consentirle di attendervi con la necessaria tranquillità» (art. 190 c. 6 disp. att. C.P.P.).

Come nelle precedenti misure alternative, il soggetto può lavorare alle dipendenze di qualsiasi datore di lavoro e può anche svolgere attività di lavoro autonomo[42]. Per beneficiare di questa misura alternativa, occorre presentare istanza al tribunale di sorveglianza. La domanda, presentata al direttore dell’istituto, è trasmessa senza indugio al tribunale di sorveglianza. Quest’ultimo, in presenza dei presupposti dell’art. 176 C.P., accoglie con ordinanza la domanda. Il magistrato di sorveglianza, dopo la scarcerazione dell’interessato, stabilisce con decreto le prescrizioni riguardanti la libertà vigilata, ivi comprese quelle attinenti al lavoro. Il decreto è trasmesso sia all’UEPE sia alla questura, la quale redige il «verbale di sottoposizione dell’interessato alle prescrizioni». L’ordinanza del tribunale di sorveglianza fissa il termine entro cui la persona deve presentarsi all’ufficio di sorveglianza del luogo di esecuzione della misura alternativa (v. art. 104 reg. esec.). Come accennato, la liberazione condizionale si svolge nelle forme della libertà vigilata (v. art. 230 c. 1 C.P.)[43].

La revoca dell’affidamento in prova, della semilibertà e della liberazione condizionale ha riflessi negativi sullo svolgimento del lavoro; il licenziamento o l’inosservanza della prescrizione lavorativa, invece, non necessariamente condizionano la misura alternativa in esecuzione.

 

8. I limiti al lavoro all’esterno e alle misure alternative per i reati “ostativi”: un deciso passo indietro rispetto alla finalità risocializzante della pena

 

La disciplina dell’art. 4-bis ord. penit., in conseguenza delle ripetute pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo[44] e della Corte costituzionale[45], è stata ampiamente modificata dal d.l. n. 162 del 2022, conv. in legge n. 199 del 2022[46]. Dal punto di vista formale, si è superato il precedente sistema di preclusioni assolute per l’accesso ai benefici penitenziari (permessi premio, lavoro all’esterno, misure alternativedel capo VI ord. penit., esclusa la liberazione anticipata) nei confronti dei detenuti e degli internati per gravi delitti non collaboranti con la giustizia. Il legislatore, però, ha introdotto una disciplina complessa e tortuosa, che rende comunque estremamente difficile, in concreto, ottenere tali benefici per i detenuti e gli internati non collaboranti[47].

I delitti “ostativi” sono suddivisibili in quattro gruppi, a ciascuno dei quali il legislatore ha attribuito specifiche previsioni limitative ad intensità decrescente.

Un primo gruppo di fattispecie è rappresentato, ai sensi dell’art. 4-bis commi 1 e 1-bis ord. penit., dai delitti con finalità di terrorismo o di eversione, delitti di natura mafiosa, associazione per delinquere in materia di stupefacenti, delitti connotati da una struttura associativa criminale[48], delitti commessi per eseguire od occultare uno dei predetti reati «ovvero per conseguire o assicurare al condannato o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero l’impunità di detti reati», associazione per delinquere finalizzata alla commissione dei delitti del secondo gruppo (art. 4-bis c. 1-bis.2. ord. penit.). Per l’accesso ai benefici penitenziari, i detenuti e gli internati devono, in alternativa, collaborare con la giustizia[49] o provare le seguenti circostanze: dimostrare «l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’assoluta impossibilità di tale adempimento» ed allegare «elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile. Al fine della concessione dei benefici, il giudice accerta altresì la sussistenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa». In altre parole, il legislatore, pur evitando di configurare formalmente una preclusione assoluta, non consentita né dalla Corte EDU né dal giudice delle leggi, richiede una difficilissima prova “in negativo”, che rischia di compromettere di fatto l’accesso ai benefici.

Il secondo gruppo di reati, in base all’art. 4-bis commi 1 e 1-bis.1 ord. penit., consiste nella riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, tratta di persone, acquisto e alienazione di schiavi, alcune ipotesi di prostituzione minorile e di pornografia minorile, alcuni gravi delitti di natura sessuale, sequestro di persona a scopo di estorsione[50]. In questo caso, per accedere ai benefici penitenziari, i detenuti e gli internati devono, in alternativa, collaborare con la giustizia[51] oppure provare le stesse circostanze del primo gruppo di reati, ad eccezione del suddetto “pericolo di ripristino”. Per il resto, si tratta anche in questo caso di una prova “in negativo”, estremamente ardua.

I reati del terzo gruppo sono indicati nell’art. 4-bis c. 1-ter ord. penit. Tra di essi compaiono l’omicidio, alcune ipotesi di prostituzione minorile e di pornografia minorile, la rapina aggravata, l’estorsione aggravata, il traffico di stupefacenti aggravato, l’associazione per delinquere finalizzata alla violenza sessuale. I benefici penitenziari possono essere concessi «purché non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva».

Il quarto gruppo, delineato dall’art. 4-bis commi 1-quater e 1-quinquies ord. penit., comprende delitti contro la vita, l’incolumità e la libertà sessuale. Per queste fattispecie, l’accesso ai benefici penitenziari è subordinato all’osservazione scientifica della personalità per almeno un anno in istituto (art. 4-bis c. 1-quater ord. penit.) e alla positiva partecipazione a un programma di trattamento psicologico con scopi di recupero e di sostegno in istituto, quando il delitto è commesso in danno di un minorenne (art. 4-bis c. 1-quinquies ord. penit.).

La disciplina in esame, soprattutto in relazione ai delitti del primo e del secondo gruppo, determina sperequazioni difficilmente giustificabili, sia sotto il profilo della ragionevolezza che dal punto di vista della finalità rieducativa della pena, impedendo o comunque rendendo estremamente arduo l’accesso ai benefici penitenziari, imprescindibili per realizzare gli scopi del trattamento penitenziario delineati dall’art. 27 c. 3 Cost.[52].

 

9. Luci e ombre dei recenti disegni di legge in tema di lavoro penitenziario

 

Il lavoro penitenziario è oggi al centro di approfondite riflessioni, alla luce di una maturata consapevolezza sulla sua centralità nel trattamento rieducativo.

Di recente presentazione sono un disegno di legge da parte del CNEL, dedicato specificamente al lavoro in carcere, e un disegno di legge in materia di sicurezza pubblica, che contiene anche norme aventi ad oggetto il tema in esame.

Il disegno di legge del CNEL fa seguito a un accordo interistituzionale firmato il 13 giugno 2023 con il Ministero della giustizia riguardante l’impatto positivo dell’istruzione, della formazione e del lavoro sull’abbattimento della recidiva, e recepisce gli esiti della giornata di lavoro “Recidiva Zero. Studio, formazione e lavoro in carcere e fuori dal carcere. Dalle esperienze progettuali alle azioni di Sistema”, organizzata dal CNEL il 16 aprile 2024[53]. Il 19 marzo 2024, il CNEL, sulla scorta della citata intesa, ha inoltre sottoscritto un ulteriore accordo interistituzionale con il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, che ha ad oggetto il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti e che presta attenzione alla condizione dello straniero privato della libertà. L’accordo prevede la costituzione di un Segretariato permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa presso il CNEL, al fine di rapportarsi con datori di lavoro, sindacati e terzo settore[54]. Il Segretariato permanente, tra l’altro contemplato nel suddetto disegno di legge, è già stato costituito ed ha fin da subito concluso accordi e protocolli di intesa con varie associazioni del terzo settore[55]. Il disegno di legge in esame mira a parificare sotto diversi profili il lavoro penitenziario a quello libero e a rendere maggiormente individualizzata la scelta professionale, al fine di conferirle una più elevata capacità risocializzante. Ci si limita in questa sede a considerare le proposte di riforma alla legge di ordinamento penitenziario, tralasciando i seppur fondamentali profili di natura giuslavoristica, concernenti le agevolazioni fiscali e contributive alle imprese e il collocamento mirato dei giovani che, uscendo dal circuito penitenziario, abbiano frequentato con successo corsi di formazione professionale[56].

Le proposte di modifica agli artt. 20 e 22 ord. penit. prevedono innanzitutto di applicare al lavoro penitenziario i contratti collettivi nazionali e di eliminare la decurtazione di un terzo nella remunerazione delle attività alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Si vuole inoltre intervenire sull’art. 24 ord. penit. per adeguare la percentuale impignorabile del corrispettivo alla normativa generale, elevandola dagli attuali tre quinti alla frazione valevole per i lavoratori liberi, cioè i quattro quinti.

In linea astratta le proposte citate sono condivisibili, eliminando ingiustificate sperequazioni tra i lavoratori liberi e detenuti. Del resto, gli artt. 4 e 36 Cost. non distinguono tra tali lavoratori liberi e detenuti.

Occorre tuttavia considerare che, nelle condizioni attuali, una simile parificazione costituirebbe di fatto un importante disincentivo per le imprese, molte delle quali non riterrebbero più conveniente l’assunzione di detenuti e internati, considerata, a parità di corrispettivo, la loro minor produttività. Attualmente, infatti, l’interpretazione testuale dell’art. 2 legge n. 193 del 2000 fa propendere per l’estensione del trattamento economico ex art. 22 ord. penit. (con relativa decurtazione di un terzo rispetto ai contratti collettivi) al lavoro intramurario alle dipendenze di privati[57]. Entrano in gioco concrete questioni di opportunità: in assenza di una reale convenienza economica per le imprese, queste ultime non sono disposte ad assumere detenuti, potendosi così determinare un’endemica carenza di offerta di lavoro privata, che rappresenta tradizionalmente uno dei maggiori ostacoli all’accesso al lavoro penitenziario[58].

La questione, però, si colloca sul versante della patologia del sistema e non dipende dalla volontà del detenuto: la sua minor produttività è spesso legata a problemi finanziari e organizzativi dell’istituto, in particolare alla carenza di spazi adeguati negli istituti e all’assenza di attrezzature idonee e al passo con i tempi[59]. Considerato che una situazione di concreta ed endemica carenza di mezzi da parte degli istituti non può pregiudicare i diritti dei lavoratori privati della libertà, occorre risolvere tali problemi non rinunciando a perseguire, sotto il profilo normativo, la parificazione del lavoro penitenziario a quello libero negli artt. 20, 22 e 24 ord. penit. Le argomentazioni con cui la Corte costituzionale nel 1988 reputava non fondata la questione di legittimità dell’art. 22 ord. penit. destano dubbi[60]. Essa adduceva ad esempio la scarsa qualificazione della manodopera e i prodotti finali non sempre «curati» e «rifiniti». I problemi di qualificazione andrebbero risolti mediante una più efficiente e razionale suddivisione delle mansioni che consideri le reali capacità dei singoli detenuti – aspetto, come si vedrà, su cui vuole intervenire proprio il disegno di legge del CNEL – e attraverso un deciso rafforzamento dei programmi di formazione professionale[61]. Non si può dunque far gravare sul detenuto l’inefficienza normativa e organizzativa dello Stato[62]. Il fatto, poi, che il lavoro penitenziario manifesti una vocazione marcatamente risocializzante non può in alcun modo giustificare una disparità di trattamento rispetto ai lavoratori liberi, come vorrebbe invece la Corte[63], ma al contrario fa propendere per la piena equiparazione dei rapporti lavorativi. Una remunerazione – e, in generale, un trattamento – deteriori rispetto alla contrattazione collettiva, in ragione del relativo carattere discriminatorio, rischiano infatti di perdere, almeno in parte, la loro capacità rieducativa.

Ad ogni modo, è presente il rischio che un allineamento tout court del lavoro penitenziario a quello comune disincentivi ulteriormente le imprese, già ben poco inclini ad assumere detenuti e internati. È per questo che la mera modifica degli artt. 20 e 22 ord. penit. non basta e, anzi, può rivelarsi di fatto controproducente. Occorre inserire tali previsioni nell’ambito di una più generale ristrutturazione della normativa sulla formazione professionale e sul lavoro in carcere, accompagnando le riforme ad azioni concrete per renderli più attrattivi, procurare spazi e mezzi idonei negli istituti e ampliare le possibilità di formazione professionale[64]. Non possono trascurarsi neppure i riflessi del cronico sovraffollamento carcerario sull’accesso e sull’effettiva produttività del lavoro: questa condizione, infatti, determina spesso il venir meno delle già scarse risorse lavorative disponibili, in termini sia di posti di lavoro intra moenia che di materiale fruibilità degli spazi e delle attrezzature per svolgere le proprie prestazioni. Il problema del lavoro penitenziario, quindi, si inserisce in un contesto ben più ampio, le cui criticità andrebbero affrontate unitariamente.

Il disegno di legge del CNEL, seppur privo di questa visione di ampio respiro, mira ad intervenire su alcuni dei citati profili riguardanti il lavoro dei detenuti, prestando particolare attenzione agli aspetti normativi che coinvolgono gli enti pubblici e i loro rapporti con datori di lavoro e sindacati.

Si prevede che le commissioni per il lavoro penitenziario costituite presso ogni istituto siano presiedute dal direttore e si riuniscano almeno ogni due mesi. Inoltre, ad esse verrebbero attribuite competenze in ordine al censimento delle «competenze formative e professionali di detenuti e internati», anche per la profilazione finalizzata alla stipula di convenzioni con cooperative e soggetti pubblici e privati ex art. 20 c. 8 ord. penit. In tal modo, si tenta di distribuire il lavoro in base alle reali inclinazioni dei singoli detenuti, valorizzando le capacità rieducative del lavoro.

Emerge la volontà di coinvolgere sindacati e imprese: la proposta di modifica dell’art. 25-bis ord. penit. mira a far entrare nelle commissioni regionali per il lavoro penitenziario[65] i rappresentanti delle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale e territoriale, nonché un rappresentante di enti del terzo settore. Inoltre, tali commissioni dovrebbero certificare le competenze formative e professionali, sia pregresse che acquisite durante l’esecuzione della pena, previamente censite dalle commissioni presenti negli istituti penitenziari.

Al fine di favorire il coordinamento delle citate commissioni locali e regionali con il tessuto sociale, il CNEL propone di riformare gli artt. 74, 75 e 77 ord. penit. e di abrogare l’art. 76 ord. penit., ormai desueti. Il nuovo art. 74 dovrebbe prevedere la possibilità, per Stato e regioni, di istituire «cabine di regia tematiche» per «l’inclusione socio-lavorativa dei detenuti», con la partecipazione, anche in questo caso, non solo dell’amministrazione penitenziaria, dell’ANCI, dei Garanti locali dei diritti dei detenuti e degli enti locali, ma anche dei rappresentanti delle organizzazioni sindacali e del terzo settore. Date la genericità e la facoltatività della previsione, il suo successo, qualora venisse approvata, sarebbe purtroppo rimesso all’iniziativa dei vari soggetti locali.

Nell’ottica di implementare il lavoro penitenziario mediante iniziative concrete, il disegno di legge de quo propone, con il nuovo art. 75 ord. penit., di istituire un «Fondo per il reinserimento socio-lavorativo delle persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria limitativi o privativi della libertà personale», sulla falsariga di iniziative analoghe, come il «Fondoper il contrasto della Povertà educativa minorile» e il «Fondo per la Repubblica digitale»[66].

Infine, l’art. 77 ord. penit., come riformulato nel disegno di legge, disciplina il summenzionato Segretariato permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale, costituito presso il CNEL con lo specifico obiettivo di perseguire «l’obiettivo della “recidiva zero” attraverso l’accesso al lavoro» dei detenuti e degli internati, con vari compiti, tra cui l’effettuazione di attività informative, l’attivazione di banche dati sulle attività disponibili, l’elaborazione di linee guida, il monitoraggio delle esigenze formative e lavorative dei detenuti, la verifica del rispetto dei trattamenti contrattuali. In diverse attività, si prevede il necessario coordinamento con le commissioni regionali di cui all’art. 25-bis ord. penit.

In definitiva, l’approvazione di questo disegno di legge costituirebbe un passo avanti nel conferire dignità al lavoro dei detenuti, benché, come osservato, sia condizionato da limiti legati al carattere circoscritto e poco puntuale della proposta.

Si occupa del tema anche un altro recentissimo disegno di legge: è quello in materia di sicurezza pubblica presentato dai Ministri dell’interno, della giustizia e della difesa, approvato dalla Camera dei deputati il 18 settembre 2024 e ora in esame al Senato[67]. Si tratta di un disegno di legge più ampio, ma che lambisce altresì il lavoro dei detenuti/internati. Anche qualora venisse approvato, tuttavia, esso esplicherebbe effetti immediati soltanto sotto i profili più marcatamente fiscali e giuslavoristici, attraverso l’estensione degli incentivi alle imprese e dell’apprendistato professionalizzante[68].

Il disegno di legge de quo non contiene una riforma in materia, ma prevede che sia il governo, entro un anno, a modificare le norme regolamentari sull’organizzazione del lavoro contenute nel d.p.R. n. 230 del 2000. L’art. 37 d.d.l. n. 1236 detta semplicemente i criteri cui il governo dovrebbe adeguarsi: promuovere il lavoro penitenziario e coinvolgere l’«iniziativa economica privata» in base al principio di sussidiarietà orizzontale; semplificare i rapporti tra l’amministrazione penitenziaria e le imprese, favorendo l’interazione tra datori di lavoro privati e direzione dell’istituto penitenziario; rendere possibili per l’amministrazione penitenziaria «modelli organizzativi di cogestione, privi di rapporti sinallagmatici», in relazione ad attività con «spiccata valenza sociale»; riconoscere il lavoro svolto dai detenuti/internati per finalità curriculari e formative; implementare «commesse di lavoro provenienti da soggetti privati»; potenziare la collaborazione con il CNEL, con il Garante nazionale dei diritti dei detenuti e con i Consigli nazionali di avvocati, dottori commercialisti e consulenti del lavoro, per scopi divulgativi.

Si pone quindi l’accento sulla promozione del terzo settore, rafforzando i rapporti con i datori di lavoro privati, anche mediante la semplificazione della farraginosa disciplina regolamentare. In tale disegno di legge, come in quello del CNEL, emerge la necessità di valorizzare il percorso curriculare del detenuto, certificando le prestazioni lavorative da lui svolte.

Ad ogni modo, la riforma indicata dall’art. 37 d.d.l. n. 1236 sarebbe tutta da formulare, considerata la vaghezza dei citati criteri. Inoltre, l’intervento in esame risulterebbe limitato sotto un profilo diverso rispetto alla proposta del CNEL: esso non incide affatto sulla disciplina legislativa, prevedendo modifiche solo sul piano regolamentare. Anche qualora venissero davvero approvate, si dubita che tali variazioni della normativa secondaria, peraltro “a costo zero”[69], possano risultare decisive nel dare impulso alle assunzioni di detenuti da parte di privati.

 

10. Conclusioni

 

Come si è osservato, il lavoro penitenziario rappresenta un insostituibile strumento del trattamento risocializzante, sul quale occorre investire per abbattere il tasso di recidiva. Si assiste tuttavia ad un consistente scarto tra le norme, che intendono il lavoro come cardine del trattamento, e la realtà, in cui l’accesso al medesimo è ancora precluso ai più[70]. Secondo le più recenti statistiche aggiornate al 30 giugno 2024, solo il 32,92% dei detenuti (meno di uno su tre) svolge infatti attività lavorative e, nella grande maggioranza dei casi (quasi l’85%), presta la propria opera alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, spesso in attività poco attrattive sul mercato[71]. Un modo per estendere il lavoro dei detenuti è la sua parziale privatizzazione, coinvolgendo imprese e cooperative nelle attività intra moenia e valorizzando il lavoro all’esterno. Un fattore centrale è poi la scelta delle professioni, che deve considerare sia le effettive abilità dei detenuti/internati – e in questo senso va salutata con favore la proposta di riforma contenuta nel disegno di legge del CNEL, volta a vagliarne le competenze[72] – sia le tipologie di lavoro, compatibili con l’ambiente detentivo e al contempo utili ai medesimi una volta tornati in libertà. Se è vero che, secondo alcuni studi, le attività professionali qualificate contribuiscono a far decrescere in modo più sensibile il tasso di recidiva, occorre incentivare una formazione professionale mirata, sia a livello normativo che sotto i profili organizzativo ed economico[73].

Al momento, però, oltre a persistenti diffidenze culturali, restano gravi carenze strutturali e finanziarie che minano alla radice l’effettività di questo percorso[74]. Inoltre, come si è visto, sono ancora troppi gli ostacoli legislativi all’interno della normativa penitenziaria che rendono estremamente difficoltoso l’accesso al lavoro, soprattutto per alcune categorie di detenuti, compromettendo così la possibilità di individualizzare la pena e dunque, in ultima analisi, le potenzialità rieducative di quest’ultima.

 

 

Abstract: Prisoner work is one of the cornerstones for social reintegration and the main route toward lowering the recidivism rate. The author examines the various types of prison work, both inside and outside prison facilities, analysing the pros and cons of Italian Penitentiary law. Finally, prospects for legislative reform are highlighted, studying recent reform proposals on the subject.

 

Keywords: Prison work – re-education – recidivism – intra moenia work – outside work –alternative measures to detention

 


* Università degli Studi di Urbino Carlo Bo (nicola.pascucci@uniurb.it).

** Il presente articolo, sottoposto a double blind peer review, è stato realizzato nell’ambito del “Progetto di supporto al reinserimento lavorativo dei detenuti”, finanziato dall’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo. Esso si pone in ideale complementarità con il contributo di Luciano Angelini sui profili giuslavoristici del lavoro dei detenuti, elaborato nel medesimo progetto e di prossima pubblicazione.

[1] Per questa iniziale concezione, ancora invalsa nel regolamento penitenziario del 1931, v. E. Fassone, Sfondi ideologici e scelte normative nella disciplina del lavoro penitenziario, in Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, a cura di V. Grevi, Bologna, 1981, p. 158; G. Tranchina, Vecchio e nuovo a proposito di lavoro penitenziario, ivi, p. 143.

[2] F. Malzani, Le dimensioni della dignità nel lavoro carcerario, Torino, 2022, pp. 45 s.

[3] Secondo alcuni, si tratta dell’elemento più importante del trattamento penitenziario (M. Canepa - S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario. Le norme, gli organi, le modalità dell’esecuzione delle sanzioni penali, Milano, 2010, p. 121), o comunque di una delle sue componenti (M.G. Coppetta, voce Ordinamento penitenziario, in Enc. dir., Agg.,IV, Milano, 2000, p. 886).

[4] Detta stima è stata elaborata da The European House - Ambrosetti, in uno studio effettuato per conto del CNEL: The European House - Ambrosetti, Recidiva zero. Studio, formazione e lavoro in carcere: dalle esperienze progettuali alle azioni di sistema, in www.cnel.it, 16 aprile 2024, p. 4. V. altresì Ente Nazionale per il Microcredito - Centro Studi e Progettazione, Avvio d’impresa, i progetti formativi per i detenuti in stato di fine pena, in I documenti del Sole 24 Ore, 1° maggio 2024, n. 14, p. 30 s. Sul punto, v. altresì G. Giostra, Sovraffollamento carceri: una proposta per affrontare l’emergenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1 (2013), p. 61. Il ruolo benefico del lavoro è noto da molto tempo anche in diversi ordinamenti, nonostante le differenti stime sulla riduzione del tasso di recidiva: v., tra i tanti, M. Baader-E. Shea, Le travail pénitentiaire, un outil efficace de lutte contre la récidive?, in Champ pénal, 2007, che, riferendosi al sistema francese, stimano una diminuzione dal 20 al 50%.

[5] Legge 26 luglio 1975, n. 354, Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione di misure privative e limitative della libertà.

[6] D.p.R. 30 giugno 2000, n. 230, Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà.

[7] L’obbligo dell’amministrazione penitenziaria di garantire un posto di lavoro agli indagati e agli imputati è attenuato: G. Santalucia - M.R. Marchetti, Sub art. 20 ord. penit., in Ordinamento penitenziario commentato, a cura di G. Giostra - F. Della Casa, 6ª ed., Milano, 2019, p. 322.

[8] In caso contrario, non solo si violerebbe il divieto di lavori forzati ex art. 4 CEDU, ma si frustrerebbe la stessa finalità rieducativa della pena: F. Fiorentin - A. Marcheselli, L’ordinamento penitenziario, Torino, 2005, p. 14, secondo cui la rieducazione, «per essere genuina, deve fondarsi sulla libera e consapevole adesione degli interessati».

[9] M. Ruotolo, Diritti dei detenuti e Costituzione, Torino, 2002, p. 175.

[10] L. Ferluga, Lavoro carcerario e competenza del magistrato di sorveglianza, in Riv. it. dir. lav., II (2000),p. 404.

[11] Corte cost., 13 dicembre 1988, n. 1087.

[12] Sul punto, v. Santalucia - M.R. Marchetti, Sub art. 20 ord. penit., cit., p. 328. Ritiene che le decurtazioni retributive in esame non dovrebbero valere per il lavoro intramurario alle dipendenze di privati M. Pavarini, La disciplina del lavoro dei detenuti, in L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, a cura di V. Grevi, Padova, 1994, p. 233.

[13] Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa R (87) 3, 12 febbraio 1987, nel cui punto 72.1 si afferma che «l’organizzazione e il metodo di lavoro negli istituti devono ravvicinarsi nella misura del possibile a quelli che regolano un lavoro analogo nella società esterna, al fine di preparare il detenuto alle condizioni normali del lavoro libero. Il lavoro dovrebbe comunque rispondere alle regole giuridiche e tecniche in vigore ed essere organizzato nel quadro dei moderni metodi di gestione e produzione». Il concetto è stato poi ribadito dal punto 26.7 Raccomandazione R (2006)2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulle Regole penitenziarie europee.

[14] G. Santalucia - M.R. Marchetti, Sub art. 20 ord. penit., cit., p. 321.

[15] Parla di «specialità soggettiva» F. Marinelli, Il lavoro dei detenuti, in Working Papers CSDLE “Massimo D’Antona”.IT, 234 (2014), p. 11, secondo la quale la valutazione di questa peculiarità è «imprescindibile nella fase di organizzazione dell’attività lavorativa», ma non può riflettersi «sui diritti e doveri nascenti dallo svolgimento della prestazione di lavoro».

[16] The European House - Ambrosetti, Recidiva zero, cit., p. 8.

[17] The European House - Ambrosetti, Recidiva zero, cit., p. 8.

[18] Sul punto, v. P. Bronzo, Lavoro e risocializzazione, in Leg. pen., 12 novembre 2018, p. 1 s. V. altresì, in riferimento al lavoro intra moenia, F. Gianfilippi, Il DDL Sicurezza e il carcere, in Giustizia insieme. Rivista telematica (giustiziainsieme.it), 29 ottobre 2024.

[19] V. P. Bronzo, Il lavoro, in M. Ruaro - P. Bronzo, Gli elementi del trattamento, in Manuale di diritto penitenziario, a cura di G. Giostra - F. Della Casa, 3ª ed., Giappichelli, Torino, 2023, p. 94.

[20] V. www.giustizia.it/giustizia/en/mg_2_3_0_3.wp# (consultato il 28 maggio 2024).

[21] M. Pavarini, La disciplina del lavoro dei detenuti, cit., p. 232.

[22] The European House - Ambrosetti, Recidiva zero, cit., p. 8.

[23] The European House - Ambrosetti, Recidiva zero, cit., p. 8.

[24] Questo limite non si applica ai collaboratori di giustizia ai sensi dell’art. 58-ter ord. penit.

[25] Cass., sez. I, 17 novembre 2022, n. 1449, in CED Cass., n. 283896.; Cass., sez. I, 27 aprile 2021, n. 21546, in CED Cass., n. 281285.

[26] Secondo questo orientamento giurisprudenziale, il  provvedimento del magistrato di sorveglianza riguardante l’ammissione o la revoca del lavoro all’esterno avrebbe natura meramente amministrativa, cosicché non sarebbero applicabili i mezzi di impugnazione previsti dal codice di procedura penale, né opererebbe l’art. 111 Cost., non rientrando la materia, attribuita all’autorità carceraria, tra quelle concernenti la libertà personale: Cass., sez. I, 10 gennaio 2017, n. 4979, in CED Cass., n. 272284; Cass., sez. I, 19 maggio 1995, n. 3063, in CED Cass., n. 202083; Cass., sez. I, 23 giugno 1993, n. 195965.

[27] Corte cost., 26 febbraio 2020, n. 32. In argomento, v. A. Perruccio, La Cassazione scioglie i nodi interpretativi sulla natura dei poteri del magistrato di sorveglianza nel lavoro extra-murario, in Giur. pen. Rivista telematica (giurisprudenzapenale.com), 11 (2021), passim, spec. pp. 7 s.

[28] Cass., sez. I, 16 marzo 2021, n. 27374, in CED Cass., n. 281636.

[29] F. Malzani, Il lavoro dei detenuti oltre la subordinazione, in Lavoro Diritti Europa, 3 (2021), p. 5. Per considerazioni storiche, v. V. Lamonaca, Profili storici del lavoro carcerario, in Rass. penit. crim., 3 (2012), pp. 43 ss. 

Per i tempi, le preclusioni e l’iter del lavoro autonomo all’esterno, v. il lavoro all’esterno alle dipendenze di imprese (§ 4).

[30] M. Barbera, voce Lavoro carcerario, in Dig. priv. sez. comm., vol. VIII, 1992, p. 224; G. Santalucia - M.R. Marchetti, Sub art. 20 ord. penit., cit., p. 330.

[31]P. Bronzo, Lavoro e risocializzazione, cit., p. 5.

[32] Al riguardo, v. ad esempio A. Ramakers - P. Nieuwbeerta - J. Van Wilsem - A. Dirkzwager, Not Just Any Job Will Do: A Study on Employment Characteristics and Recidivism Risks After Release, in International Journal of Offender Therapy and Comparative Criminology, 16 (2017), pp. 1795 ss. Ritiene necessario investire nella formazione anche V. Lamonaca, Il lavoro penitenziario tra qualificazione giuridica e tutela processuale, in Lavoro e previdenza oggi, 8-9 (2010), p. 833.

[33] Per gli internati, v. gli artt. 47-quater c. 10 e 50 c. 2 ord. penit.

[34] Per tutti, v. G. Giostra, Sovraffollamento carceri, cit., p. 62.

[35] La Corte cost., 20 maggio 2010, n. 180, lascia però dei margini per una lettura costituzionalmente orientata, in base alla quale il giudice, con specifica motivazione, valuta caso per caso la possibilità di concessione.

[36] In caso di grave pregiudizio determinato dal protrarsi della detenzione, l’istanza può essere proposta al magistrato di sorveglianza, che decide in via provvisoria con ordinanza, trasmettendo gli atti al tribunale di sorveglianza, il quale a sua volta si pronuncia entro sessanta giorni (art. 47 c. 4 ord. penit.). L’istanza è materialmente presentata al direttore dell’istituto, che la trasmette al magistrato di sorveglianza (art. 96 c. 1 reg. esec.). Nell’affidamento in prova terapeutico, l’istanza va presentata al direttore dell’istituto, che la trasmette senza ritardo al pubblico ministero competente per l’esecuzione (art. 99 c. 1 reg. esec.).

[37] Per la richiesta direttamente dalla libertà, l’istanza presentata al pubblico ministero, che la trasmette al tribunale di sorveglianza (art. 656 C.P.P.). In casi particolari è proposta direttamente al tribunale di sorveglianza: v. art. 96 c. 3 reg. esec.

[38] Possono beneficiare di questa misura alternativa, ai sensi dell’art. 50 ord. penit., i condannati alla pena dell’arresto, senza limiti temporali minimi; i condannati a pene inferiori a sei mesi, senza limiti temporali minimi, purché non fruiscano del più favorevole affidamento in prova al servizio sociale; i condannati dopo aver espiato almeno metà della pena (o due terzi per i condannati per i gravi delitti di cui ai commi 1, 1-ter e 1-quater dell’art. 4-bis ord. penit.; il limite di due terzi non si applica ai collaboratori di giustizia ai sensi dell’art. 58-ter ord. penit.); gli internati in ogni tempo; i condannati per delitti diversi da quelli ex art. 4-bis c. 1 ord. penit. anche prima di metà pena, quando residui una pena di non oltre quattro anni e, pur non sussistendo i presupposti per l’affidamento in prova, la persona, nell’anno precedente, abbia comunque serbato un comportamento tale da far ritenere che la semilibertà contribuisca alla sua rieducazione e prevenga il rischio di recidiva; i condannati all’ergastolo dopo venti anni di pena.

Anche per questa misura vi sono dei limiti all’accesso, legati a specifiche condizioni soggettive. I condannati per il delitto di evasione e coloro ai quali sia stata revocata una misura alternativa per comportamento contrario alla legge o alle prescrizioni non possono beneficiarne per tre anni dal momento in cui è ricominciata la detenzione o è stata revocata la misura (art. 58-quater commi 1, 2, 3 ord. penit.). Inoltre, ai condannati per i gravi delitti dei commi 1, 1-ter e 1-quater dell’art. 4-bis ord. penit. è precluso l’accesso per cinque anni dal momento in cui è ricominciata l’esecuzione della custodia cautelare o della pena, quando si procede o è pronunciata condanna contro di loro per un delitto doloso punibile con la reclusione non inferiore a tre anni nel massimo, commesso da chi ha posto in essere la condotta di evasione ex art. 385 C.P. o durante la fruizione di benefici all’esterno (art. 58-quater commi 5-7 ord. penit.).

[39] In presenza di un grave pregiudizio determinato dal protrarsi della detenzione, l’istanza può essere proposta al magistrato di sorveglianza, secondo le modalità già viste per l’affidamento in prova, considerato il rinvio dell’art. 50 c. 6, secondo periodo, ord. penit. all’art. 47 c. 4 ord. penit. Per la richiesta direttamente dalla libertà, l’istanza è presentata al pubblico ministero, che la trasmette al tribunale di sorveglianza ai sensi dell’art. 656 C.P.P.

[40] La relativa disciplina è contenuta negli artt. 176 e 177 C.P., nell’art. 190 disp. att. C.P.P. e negli artt. 104-105 reg. esec.

[41] Dieci anni per alcuni gravi reati: v. art. 2 c. 2 d.l. n. 152 del 1991.

[42] Ai sensi dell’art. 176 C.P., possono beneficiare alla liberazione condizionale (art. 176 C.P.) i condannati che abbiano scontato «almeno trenta mesi e comunque almeno metà della pena», ove il periodo residuo «non superi i cinque anni»; in caso di recidiva aggravata o reiterata, i condannati che abbiano scontato almeno 4 anni e tre quarti della pena inflitta; i condannati all’ergastolo dopo almeno ventisei anni di pena; i condannati per i delitti dell’art. 4-bis commi 1, 1-ter, 1-quater ord. penit., ove non collaborino con la giustizia, dopo due terzi di pena (se condannati a pena temporanea) o dopo 30 anni (se ergastolani) (art. 2 commi 2 e 3 d.l. n. 152 del 1991).

[43] Sono previste stringenti prescrizioni attinenti alla libertà di movimento, in quanto «il vigilato non può, senza autorizzazione del magistrato di sorveglianza, trasferire la propria residenza o dimora in un comune diverso e deve informare gli organi ai quali è stata affidata la vigilanza di ogni mutamento di abitazione nell’ambito del comune» (art. 190 c. 3 disp. att. C.P.P.). Le prescrizioni devono essere «idonee ad evitare le occasioni di nuovi reati» (art. 228 c. 2 C.P.).

[44] C.E.D.U., sent. 13 giugno 2019, Viola contro Italia (n. 77633/16).

[45] Corte cost., 4 dicembre 2019, n. 253; Corte cost., 11 maggio 2021, n. 97; Corte cost., ord. 13 maggio 2022, n. 122.

[46] Per i reati commessi prima dell’entrata in vigore della riforma, si applicano ancora le vecchie disposizioni sulla collaborazione impossibile, inesigibile o irrilevante, che non richiedono l’attuale – più gravoso – onere dimostrativo. Sugli effetti della riforma, destinata ad operare solo nel lungo periodo, v. E. Dolcini, L’ergastolo ostativo riformato in articulo mortis, in Sist. pen., 7 novembre 2022, p. 10, il quale afferma in maniera condivisibile che la riforma dell’art. 4-bis ord. penit. presenta una componente di natura «declamatoria, volta cioè a trasmettere un messaggio politico più che ad incidere sulla condizione di chi oggi si trova in carcere in espiazione della pena inflitta per un reato ostativo».

[47] Si passa, in altre parole, «dalla presunzione assoluta di pericolosità sociale alla prova impossibile di non pericolosità»: R. De Vito, Finisce davvero il “fine pena mai”? Riflessioni e interrogativi sul decreto-legge che riscrive il 4-bis, in Quest. giust. Rivista telematica (questionegiustizia.it), 2 novembre 2022; Fa. Siracusano, Tanto tuonò che non piovve: la logica conservativa nella riscrittura delle preclusioni penitenziarie, in Riv. AIC, 3 (2023), p. 45.

[48] Per la puntuale elencazione, v. l’art. 4-bis c. 1-bis ord. penit.

[49] La collaborazione è accertata dal tribunale di sorveglianza ai sensi dell’art. 58­-ter ord. penit.

[50] Per un elenco puntuale, v. l’art. 4-bis c. 1-bis.1 ord. penit.

[51] Anche in tale ipotesi la collaborazione è accertata dal tribunale di sorveglianza ex art. 58­-ter ord. penit.

[52] In senso critico rispetto alla novella, v., per tutti, P. Corvi, Ergastolo ostativo: la risposta del legislatore alla Consulta, in Proc. pen. giust. Rivista telematica (processopenaleegiustizia.it), 3 (2023), p. 728 s.; Fa. Siracusano, Tanto tuonò che non piovve, cit., pp. 57 ss.; S. Mastrapasqua, La riforma del regime ostativo ex art. 4-bis ord. penit.: prime applicazioni, implicazioni e prospettive, in Sist. pen. Rivista telematica (sistemapenale.it), 25 giugno 2024, pp. 29 ss.; F. Moro, L’art. 4-bis o.p. riformato dal d.l. 162/2022, conv., con modifiche, dalla l. 199/2022: un passo avanti e due indietro, in Sist. pen. Rivista telematica (sistemapenale.it), 5 (2023), pp. 123 s. Parla di «una corsa a ostacoli difficilmente percorribile sino al traguardo», R. De Vito, Finisce davvero il “fine pena mai”?, cit., il quale invita tuttavia a «non perdere la speranza»: data la genericità delle norme, si rimette all’interprete il compito di «riempirle di concreto significato».

[53] Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro – Disegno di legge ai sensi dell’art. 99, comma 3, della CostituzioneDisposizioni per l’inclusione socio-lavorativa e l’abbattimento della recidiva delle persone sottoposte a provvedimenti limitativi o privativi della libertà personale emanati dall'Autorità Giudiziaria – Approvato dall’Assemblea del 29 maggio 2024. Il disegno di legge e il resoconto della giornata di lavoro sono reperibili in www.cnel.it.

[54] Comunicato stampa n. 74 del 19 marzo 2024 – Accordo CNEL e Garante persone private libertà personale, in www.garantenazionaleprivatiliberta.it.

[55] Carceri. Costituito al CNEL il Segretariato permanente per l’inclusione sociale, economica e lavorativa dei detenuti, in www.cnel.it, 31 luglio 2024.

[56] Esse sono contemplate negli artt. 2 e 3 del disegno di legge in esame. Per alcune osservazioni, v. Relazione illustrativa, in Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro – Disegno di legge, cit., p. 5.

[57] V. supra, § 1.

[58] Sull’offerta lavorativa «gravemente deficitaria», v. F. Della Casa, voce Ordinamento penitenziario, Enc. dir., Ann., II, t. II, Milano, 2008, p. 804.

[59] Al riguardo, v. F. Della Casa, voce Ordinamento penitenziario, cit., p. 797.

[60] Ci si riferisce alla già citata Corte cost. n. 1087/1988.

[61] L’Avvocatura dello Stato evidenziava altresì problemi di continuità lavorativa dovuti a «motivi processuali» e ai «colloqui con i familiari». Neppure questi motivi paiono idonei a giustificare sperequazioni: anche i lavoratori liberi possono essere coinvolti in procedimenti civili e penali ed hanno esigenze familiari che vanno conciliate con il lavoro. Pure in questo caso, si tratta di questioni attinenti a profili organizzativi dell’istituto.

[62] Le attuali cadenze del carcere sono ben espresse da P. Bronzo, Lavoro e risocializzazione, cit., p. 4, secondo cui «i tempi del carcere, in cui ad un certo momento della giornata tutti i detenuti devono rientrare nelle loro celle, non sono quelli della ‘produzione’. I nostri istituti di pena sono strutturati secondo paradigmi custodialistici, e sono adatti a segregare e contenere persone, assai meno ad ospitare opifici».

[63] Si tratta di una posizione che, ad avviso di parte della dottrina, si inserisce «nel processo di “infantilizzazione” che non risparmia nemmeno l’attività lavorativa, in particolare quella svolta a favore dell’Amministrazione penitenziaria»: F. Malzani, Il lavoro dei detenuti, cit.,pp. 77 s.

[64] Per alcune osservazioni, v. supra, § 6.

[65] Su cui v. supra, § 1.

[66] Il parallelismo tra tali fondi è enunciato nella Relazione illustrativa, cit., p. 5.

[67] Atto Senato n. 1236 – XIX Legislatura – Disegno di legge presentato dal Ministro dell’interno (Piantedosi), dal Ministro della giustizia (Nordio) e dal Ministro della difesa (Crosetto) – Approvato dalla Camera dei deputati il 18 settembre 2024 – Trasmesso dal Presidente della Camera dei deputati alla Presidenza il 19 settembre 2024 – Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario, in www.senato.it.

[68] Favorevole a tali modifiche è F. Gianfilippi, Il DDL Sicurezza, cit.

[69] Servizio del bilancio-Senato della Repubblica, Nota di lettura – XIX legislatura – A.S 1236: Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell'usura e di ordinamento penitenziario (Approvato dalla Camera dei deputati), ottobre 2024, n. 190, pp. 61 s.

[70] P. Bronzo, Lavoro e risocializzazione, cit., p. 1, per il quale per nessun altro elemento del trattamento risocializzante lo iato tra norme e realtà è così consistente.

[71] Per tali statistiche, v. Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria - Ufficio del Capo del Dipartimento – Segreteria Generale - Sezione Statistica, Detenuti Lavoranti Serie Storica - Anni 1991 - 2024, in www.giustizia.it, 30 giugno 2024.

[72] V. supra, § 9.

[73] V. supra, § 6. Si pensi ad attività a basso contenuto tecnologico ma ad elevata qualificazione, come quelle di restauro. Secondo V. Lamonaca, Il lavoro penitenziario, cit., pp. 833 s., le attività intramurarie di produzione di beni e servizi vanno rivitalizzate, puntando sulla formazione, razionalizzando gli spazi e le attrezzature dedicati al lavoro, evitando di intraprendere lavorazioni con poche prospettive sul mercato esterno, riconvertendo quelle già esistenti ma ormai superate, accordando una più ampia autonomia tecnico-amministrativa all’amministrazione penitenziaria. In generale, secondo l’A., occorre superare la concezione fondata esclusivamente «sull’abbattimento del costo del lavoro».

[74] Tanto che, secondo parte della dottrina, «non sono le norme il problema maggiore», anche se «qualche modifica normativa sarebbe utile»: P. Bronzo, Lavoro e risocializzazione, cit., p. 5.

Pascucci Nicola



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