Il Green Deal europeo. Inquadramento giuridico e prospettive di attuazione
Luca Lionello
Assegnista di ricerca in Diritto dell’Unione europea,
Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Milano.
Il Green Deal europeo. Inquadramento giuridico e prospettive di attuazione*.
English title: The European Green Deal. Legal framework and implementation perspectives
DOI: 10.26350/004084_000068
Sommario - 1. Introduzione. – 2. Obbiettivi e base giuridica. – 3. Gli strumenti di attuazione del Green Deal. – 3.1. La proposta di “legge europea sul clima”. – 3.2. Lo sviluppo di nuove strategie ambientali europee e la loro attuazione normativa. – 3.3. La riforma del sistema ETS e la proposta di un meccanismo di adeguamento alle frontiere del costo del carbonio. – 3.4. La mobilitazione degli investimenti. – 3.5. Per una governance economica verde. – 3.6. La proposta di riforma della disciplina degli aiuti di Stato. – 3.7. Il contributo dell’azione esterna all’attuazione del Green Deal. – 4. Una prima valutazione del progetto di Green Deal europeo. – 4.1. Le difficoltà di un cambio di passo. – 4.2. I limiti del metodo aperto di coordinamento. – 4.3. Le difficoltà di orientare la spesa degli Stati a favore della transizione ecologica. – 4.4. La difficile mobilitazione delle risorse a livello europeo. – 4.5. Gli ostacoli allo sviluppo di una politica commerciale verde. – 5. Conclusioni.
- Introduzione.
Nel suo discorso di insediamento del 27 novembre 2019, la Presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen ha presentato il progetto di Green Deal, un insieme di misure volte ad azzerare le emissioni nette di gas serra nell’Unione entro il 2050. Tale iniziativa ha inteso rispondere alle crescenti preoccupazioni dell’opinione pubblica circa gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici in corso. Recentemente anche il Parlamento europeo ha proclamato lo stato di emergenza ambientale, esortando la Commissione ad effettuare una valutazione completa dell'impatto ambientale di tutte le proposte legislative e di bilancio, nonché a garantire la loro conformità con l'obiettivo di contenere il riscaldamento globale entro 1,5° C e di tutelare la biodiversità[1].
Il processo di “transizione ecologica” promosso dal Green Deal intende non solo raggiungere la “neutralità climatica” al fine di proteggere la salute ed il benessere dei cittadini, ma anche approfittare di questa sfida per modernizzare l’economia europea secondo un nuovo modello di sostenibilità ambientale efficiente e competitivo. Evidentemente, davanti a degli obbiettivi così ambiziosi, l’attuazione del Green Deal richiederà una profonda trasformazione non solo dei sistemi produttivi, dell’organizzazione del lavoro e dei comportamenti sociali, ma anche dell’Unione europea stessa. Quest’ultima dovrà infatti sviluppare gli strumenti idonei a tutelare l’ambiente e ridurre efficacemente le emissioni di gas serra, sostenendo allo stesso tempo la crescita economica e l’occupazione negli Stati membri. Sarà altresì necessario rafforzare la collaborazione tra le istituzioni europee, le autorità nazionali e la società civile secondo il principio di sussidiarietà verticale ed orizzontale.
Il progetto di Green Deal è stato sviluppato in una serie di comunicazioni e proposte legislative pubblicate tra la fine del 2019 ed i primi mesi del 2020[2]. Lo scopo del presente articolo è quello di analizzare quali siano gli strumenti a disposizione dell’Unione nell’attuale quadro giuridico per mettere in atto il processo di transizione ecologica e quindi interrogarsi se quest’ultimi siano idonei al perseguimento della neutralità climatica nei tempi previsti.
- Obbiettivi e base giuridica.
Nelle intenzioni della Commissione europea il progetto di Green Deal non consiste in un semplice aggiornamento delle politiche esistenti di tutela dell’ambiente, ma rappresenta una “nuova strategia di crescita mirata a trasformare l'UE in una società giusta e prospera, dotata di un'economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva che nel 2050 non genererà emissioni nette di gas a effetto serra e in cui la crescita economica sarà dissociata dall'uso delle risorse”[3]. Mentre il risultato della neutralità climatica viene eletto ad obbiettivo principale del Green Deal, la Commissione ha altresì specificato le condizioni alle quali intende raggiungerlo. Innanzitutto, il processo di transizione ecologica deve preservare il benessere e la coesione sociale dei cittadini europei e rappresentareun’occasione per ripensare e modernizzare i modelli di sviluppo e organizzazione economica e sociale[4]. In secondo luogo, l’obbiettivo della neutralità climatica dovrà essere raggiunto entro il 2050, il che rende necessario rispettare una traiettoria precisa nel contenimento delle emissioni di gas serra.
È importante notare che la neutralità climatica rappresenta un obbiettivo trasversale a gran parte degli obbiettivi specifici dell’Unione delineati dall’art. 3 TUE. Diverse aree dell’ordinamento giuridico europeo sono infatti coinvolte dall’attuazione del Green Deal: dalla politica dell’energia alla governance economica, dalla disciplina degli aiuti di stato alla politica agricola, dall’azione esterna alla politica di coesione. L’Unione dovrà pertanto adottare atti normativi diversi ed esercitare in modo complementare molte delle sue competenze, coinvolgendo allo stesso tempo soggetti pubblici e privati negli Stati membri.
Per mettere in atto le misure ambiziose del Green Deal i Trattati esistenti offrono basi giuridiche diverse. L’art. 4, par. 2, lett. e, TFUE inserisce la politica ambientale tra le competenze concorrenti, la cui disciplina è poi sviluppata nel titolo XX del TFUE. L’art. 192, par. 1, TFUE prevede che si applichi la procedura legislativa ordinaria per l’adozione di atti volti al perseguimento degli obbiettivi di politica ambientale dell’Unione, tra cui compare la lotta ai cambiamenti climatici[5]. Solo in alcune materie particolarmente sensibili– fra cui le disposizioni aventi natura fiscale, la gestione delle risorse idriche e la destinazione dei suoli e l'approvvigionamento energetico – si applica invece una procedura legislativa speciale, dove a decidere è il Consiglio all’unanimità previa consultazione del Parlamento europeo (par. 2). In entrambi i casi devono essere consultati il Comitato economico e sociale ed il Comitato delle regioni. Una norma rilevante per il finanziamento delle politiche di decarbonizzazione previste dal Green Deal, è l’art. 175 TFUE sull’adozione di azioni specifiche necessarie al di fuori dei fondi a finalità strutturale. Per quanto riguarda invece la partecipazione dell’Unione europea ad accordi globali o regionali a tutela dell’ambiente, l’art. 191, par. 4, TFUE fonda una competenza esterna concorrente tra Unione e Stati membri, entrambi i quali possono concludere trattati di questo tipo. Allo stesso tempo, si noti che la tutela dell’ambiente rileva sempre di più anche nell’ambito della politica commerciale, sulla quale l’Unione gode invece di una competenza esclusiva.
- Gli strumenti di attuazione del Green Deal.
3.1. La proposta di “legge europea sul clima”.
Un primo passo importante per dare attuazione al Green Deal è stata la proposta di regolamento, così detto “legge europea sul clima”, presentata dalla Commissione europea il 4 marzo 2020 sulla base del già citato art. 192, par. 1 TFUE[6]. Il suo scopo è quello di creare un quadro giuridico integrato per la riduzione irreversibile e graduale delle emissioni di gas serra ed il loro assorbimento[7]. Ove adottato, il regolamento prevedrebbe degli obblighi in capo sia alle istituzioni UE, sia alle autorità nazionali sulla base del principio di sussidiarietà[8].
Innanzitutto, la proposta intende rendere giuridicamente vincolante l’obbiettivo della neutralità climatica entro il 2050 ed impegnare l’Unione e gli Stati membri a prendere tutte le misure necessarie per il suo perseguimento[9]. Questo significa che i piani esistenti di contenimento delle emissioni dovranno essere rivisti. Mentre l’accordo di Parigi sul clima impegnava già l’Unione ad un abbattimento dei gas serra entro il 2030 pari al 40% rispetto ai livelli del 1990, la Commissione vuole accelerare il processo di decarbonizzazione, raggiungendo per allora una riduzione pari ad almeno il 50-55%. Conseguentemente dovrebbero essere modificati tutti gli atti legislativi e gli strumenti rilevanti in materia di protezione del clima al fine di renderli coerenti con questo nuovo traguardo intermedio[10].
La proposta di regolamento incarica quindi la Commissione di definire una traiettoria che tutti gli Stati membri devono seguire nel processo di riduzione delle emissioni[11]. Quest’ultima dovrà essere aggiornata ogni cinque anni, in corrispondenza del bilancio globale sullo stato di attuazione dall’accordo di Parigi. Allo stesso tempo, è prevista l’adozione di una “strategia di adattamento ai cambiamenti climatici” attraverso l’aggiornamento delle pratiche di gestione dei rischi da parte delle imprese e delle pubbliche amministrazioni e l’adozione di incentivi agli investimenti pubblici e privati volti al contenimento del loro impatto[12].
Onde assicurare l’efficacia del processo di transizione ecologica, la Commissione intende rafforzare il sistema di monitoraggio previsto dalla governance dell'Unione dell'energia e dell'azione per il clima disciplinata dal regolamento (UE) n. 2018/1999. Quest’ultima consiste in una serie di misure volte a conseguire gli obiettivi dell’Unione europea in materia di energia e di clima, incoraggiare la cooperazione tra gli Stati membri, assicurare la qualità delle informazioni e contribuire a garantire una maggiore certezza normativa e per gli investitori. Il meccanismo di governance già prevede l’elaborazione di strategie a lungo termine, l’adozione di piani nazionali integrati per l'energia e il clima del periodo di dieci anni, la presentazione di relazioni intermedie nazionali ogni due anni e quindi il monitoraggio da parte della Commissione[13]. Ove approvata, la legge sul clima modificherebbe la governance attraverso un rafforzamento della supervisione europea sul rispetto della traiettoria di riduzione delle emissioni e l’attuazione della strategia di adattamento.
La proposta prevede innanzitutto che gli Stati membri aggiornino i lori piani nazionali integrati per l’energia ed il clima al fine di tenere in considerazione il nuovo obbiettivo della neutralità climatica. A partire dal 2023 ed ogni cinque anni[14], la Commissione dovrebbe valutare i progressi compiuti dagli Stati membri[15]. Nel caso in cui le misure nazionali adottate per rispettare la traiettoria di riduzione delle emissioni ed attuare le strategie di adattamento fossero inadatte o insufficienti, la Commissione potrebbe adottare raccomandazioni nei confronti dello Stato membro interessato e renderle pubbliche. Quest’ultimo dovrebbe quindi introdurre misure correttive e renderne conto nella relazione intermedia nazionale da presentare entro l’anno successivo[16]. La proposta di legge sul clima prevede che il monitoraggio periodico della Commissione riguardi anche l’efficacia delle misure adottate dall’Unione stessa per il raggiungimento della neutralità climatica e l’attuazione della strategia di adattamento. In questo caso, la Commissione sarebbe chiamata ad aggiornare quegli strumenti che si siano dimostrati inadeguati al perseguimento degli obbiettivi della transizione ecologica.
Infine, la proposta di legge sul clima ha previsto che la Commissione si rivolga a tutte le componenti della società civile per coinvolgerle ed impegnarle nel processo di transizione ecologica[17]. A proposito, la comunicazione sul Green Deal proponeva l’introduzione di un “patto europeo per il clima” tra istituzioni e cittadini che venisse basato su alcune priorità: condivisione di informazioni, comprensione delle minacce ambientali ed elaborazione di soluzioni per affrontarle; creazione di spazi fisici e virtuali per la condivisione di idee e l’elaborazione di progetti; sostegno alle iniziative dal basso per la tutela del clima[18].
3.2. Lo sviluppo di nuove strategie ambientali europee e la loro attuazione normativa.
Il perseguimento degli obbiettivi fissati dalla legge sul clima richiederà l’aggiornamento di gran parte delle politiche esistenti in grado di aver un impatto sul livello di emissione dei gas serra. Nella comunicazione dell’11 dicembre 2019 sul Green Deal la Commissione ha pertanto delineato alcune strategie d’azione che l’Unione potrà sviluppare per promuovere il processo di decarbonizzazione. Fra le proposte più importanti si ricordano la riforma della normativa in materia di energia e di efficienza energetica, la strategia per una politica industriale verde e digitale, un piano per la mobilità intelligente, lo sviluppo di un modello di agricoltura sostenibile volto a realizzare un’economia circolare che riduca l’impatto ambientale dell’industria alimentare ed una nuova strategia per preservare e ripristinare gli ecosistemi e la biodiversità.
Evidentemente, l’attuazione di questi piani d’azione impegnerà sia l’Unione, sia le autorità nazionali in un’intensa attività normativa nei prossimi mesi ed anni. Oltre alla revisione degli atti già in vigore, la “legge sul clima” prevede che la Commissione valuti d’ora in poi qualsiasi suo progetto o proposta alla luce dell'obiettivo della neutralità climatica nel rispetto della traiettoria predefinita di riduzione delle emissioni. Dovrà quindi essere elaborata una valutazione d'impatto che accompagni ogni misura e proposta legislativa, i cui risultati dovranno essere resi pubblici[19]. Quanto all’azione degli Stati membri, la Commissione ha introdotto nel 2017 uno “strumento per il riesame dell'attuazione delle politiche ambientali”, con cui valutare periodicamente se le autorità nazionali stiano rispettando gli obblighi giuridici e gli impegni politici derivanti dalla partecipazione all’Unione europea[20]. Inoltre il regolamento (UE) n. 2019/1010 ha armonizzato ed esteso gli obblighi di comunicazione nella normativa nazionale in materia ambientale[21]. La trasmissione completa e tempestiva dei dati è infatti indispensabile affinché la Commissione possa monitorare, riesaminare e valutare l’efficacia delle misure nazionali rispetto agli obiettivi del Green Deal. Nell’esercizio di queste funzioni la Commissione riceverà il supporto dell’agenzia europea per l’ambiente.
3.3. La riforma del sistema ETS e la proposta di un meccanismo di adeguamento alle frontiere del costo del carbonio.
A fini di disincentivare la produzione di gas serra, l’Unione europea è stata la prima economia avanzata a servirsi del sistema di “scambio delle quote di emissione” (Emission Trading System o ETS). Quest’ultimo prevede l’assegnazione, per asta o a titolo gratuito, di “quote di emissioni” agli operatori di impianti inquinanti. Una volta rilasciate, le quote possono essere vendute e comprate sul mercato anche grazie alla partecipazione di intermediari. Facendo pagare un prezzo alla produzione di carbonio (carbon pricing), gli operatori economici vengono obbligati a farsi carico del processo di riduzione delle emissioni[22].
L’Unione ha istituito il sistema ETS, previsto dall’art. 17 del Protocollo di Kyoto[23], con la Direttiva 2003/87/CE ed ha progressivamente esteso la sua applicazione[24]. Attualmente esso limita le emissioni prodotte da circa 11.000 impianti ad alto consumo di energia e dalle compagnie aeree che operano nell’Unione[25]. Mentre inizialmente erano previsti tetti di emissione per ciascun Stato membro definiti nei piani nazionali per l’ambiente, il sistema di scambio è ora centralizzato con la fissazione di un unico massimale di emissioni a livello europeo[26]. Per lo stesso motivo le operazioni di scambio non vengono più annotate in registri nazionali, bensì in un unico registro UE gestito dalla Commissione[27]. Progressivamente, le quote di emissioni disponibili si sono ridotte[28] ed è stato ampliato il sistema di assegnazione per aste che vengono gestite a livello nazionale secondo regole comuni[29]. Parte dei proventi di queste aste alimenta il “fondo di modernizzazione”, che fornisce sostegno ai sistemi energetici degli Stati membri a basso reddito[30], ed il “fondo per l'innovazione”, che finanzia progetti di tecnologie, processi o prodotti che presentino un elevato potenziale di riduzione delle emissioni di gas serra[31]. Nel 2015 è stata istituita una riserva volta a ridurre l’eccedenza delle quote di emissioni sul mercato del carbonio e a stabilizzarne il prezzo[32].
L’attuazione del Green Deal prevede alcuni importanti sviluppi del sistema ETS. In particolare la Commissione europea intende estenderlo a nuovi settori, per esempio ai trasporti su strada e marittimi e all’edilizia. Le quote assegnate gratuitamente alle compagnie aeree dovranno essere ridotte[33]. Per quanto riguarda i proventi delle aste delle quote di emissione, oltre a finanziare i fondi esistenti, dovrebbero alimentare in parte il bilancio UE alla luce degli oneri più rilevanti che quest’ultimo dovrà sostenere per mettere in atto le politiche di decarbonizzazione[34]. Un problema specifico, che la Commissione vuole affrontare nell’ambito del potenziamento del sistema ETS, è il così detto rischio di “fuga di carbonio” (carbon leakage), ovvero la possibile delocalizzazione delle produzioni inquinanti in Paesi che prevedono regole ambientali meno stringenti rispetto a quelle europee[35]. Attualmente i settori più esposti a questo fenomeno sono esentati dal sistema ETS oppure ricevono quote di emissione a titolo gratuito[36]. Ebbene, nella comunicazione sul Green Deal la Commissione ha proposto una soluzione diversa per evitare il rischio di carbon leakage senza dover limitare l’applicazione del sistema ETS: la creazione di un “meccanismo di adeguamento alle frontiere del costo del carbonio” (Carbon Border Adjustment Mechanism o CBAM) che adatti il prezzo dei beni importati alla quantità di carbonio necessaria per la loro produzione fuori dall’Unione[37]. Il CBAM imporrebbe quindi una tassa su quei beni prodotti in Paesi terzi sulla base di una tecnologia più inquinante in termini di emissioni di CO 2 rispetto a quella disponibile in Europa. L’introduzione di questo meccanismo per determinati settori porterebbe alcuni vantaggi. Innanzitutto, sfavorirebbe i trasferimenti delle produzioni verso quei mercati che impongono standard ambientali poco esigenti, permettendo così di estendere il sistema ETS a settori molti più vasti dell’industria europea. I produttori di beni destinati al mercato europeo pagherebbero infatti lo stesso prezzo sul carbonio indipendentemente dal luogo dove sono stabiliti. Allo stesso tempo, si creerebbe un forte incentivo per le imprese extra-UE interessate ad esportare nell’Unione a rispettare gli standard europei di protezione dell’ambiente[38].
Accanto all’estensione del sistema ETS e all’introduzione del CBAM, la Commissione ha proposto l’introduzione di nuovi incentivi fiscali al processo di decarbonizzazione attraverso una riforma della Direttiva sulla tassazione dei prodotti energetici, che prevede livelli minimi di imposte sui carburanti, i combustibili per il riscaldamento e l’elettricità[39]. Lo scopo è quello di armonizzare le politiche di tassazione delle produzioni e dei consumi più inquinanti per quei settori che rimarrebbero comunque esclusi dal sistema ETS, evitando i rischi di carbon leakage all’interno del mercato interno[40].
3.4. La mobilitazione degli investimenti.
Il perseguimento degli obbiettivi ambiziosi del Green Deal richiede la mobilitazione di risorse ingenti. La Commissione europea ha calcolato che solo per arrivare al traguardo intermedio del 2030, ovvero alla riduzione delle emissioni pari al 50-55% rispetto ai livelli del 1990, serviranno investimenti supplementari rispetto a quelli attuali pari a circa € 260 miliardi l’anno, il cui flusso dovrà mantenersi costante nel tempo. Alla luce di queste previsioni, nel gennaio 2020, la Commissione ha lanciato un “piano di investimenti per un'Europa sostenibile” (Sustainable Europe Investment Plan o SEIP) fondato su tre parole d’ordine: “finanziare”, “incentivare” e “mettere in opera”[41].
Sotto il primo profilo (“finanziare”) il SEIP vuole mobilitare un’ingente quantità di risorse per finanziare l’obbiettivo della neutralità climatica, pari ad almeno € 1 trilione di investimenti sostenibili pubblici e privati tra il 2020 e il 2030. Nelle intenzioni della Commissione, tale somma verrà raggiunta attingendo soprattutto al bilancio dell’UE: circa un quarto delle sue risorse, pari a € 503 miliardi tra il 2021 e il 2030, dovrebbe infatti essere destinato al processo di transizione ecologica[42]. Ciò avrà l’effetto di mobilitare un cofinanziamento nazionale aggiuntivo di € 114 miliardi nello stesso periodo. Il programma InvestEU, garantito dal bilancio dell’UE, dovrà quindi mobilitare investimenti sul mercato per una somma di € 279 miliardi tra il 2021 e il 2030[43]. Altre risorse verranno raccolte dal “Meccanismo per la transizione giusta”, un nuovo strumento, finanziato congiuntamente dal bilancio UE, dagli Stati membri, da InvestEU e dalla BEIper un valore di circa € 100 miliardi tra il 2021 e il 2027, con cui la Commissione intende fornire risorse alle regioni ed ai settori dell’economia più esposti ai costi del processo di decarbonizzazione. Anche i fondi per l’innovazione e la modernizzazione finanziati con le aste del sistema ETS contribuiranno alla transizione ecologica con circa € 25 miliardi. Infine la BEI dovrà raggiungere un 50% di operazioni dedicate al clima ed alla sostenibilità ambientale entro il 2025. Altri investimenti saranno comunque necessari da parte dei bilanci nazionali e dei privati. Al fine di mobilitare maggiori risorse a livello europeo, si ricorda la proposta della Commissione di incrementare le risorse proprie del bilancio UE assegnandogli il 20% dei proventi delle aste nell’ambito del sistema ETS e creando tasse sui rifiuti costituiti dagli imballaggi in plastica non riciclati[44].
Sotto il secondo profilo (“incentivare”), il SEIP intende predisporre un quadro giuridico che permetta alle pubbliche amministrazioni e alle aziende di identificare e scegliere investimenti sostenibili. Fra gli strumenti più importanti che la Commissione vuole predisporre a tale scopo si ricorda la proposta di sistema di etichettatura chiara dei prodotti di investimento al dettaglio (tassonomia UE per le informative sulle attività sostenibili del settore finanziario e per gli indici di riferimento relativi al clima)[45], il lancio di una nuova piattaforma internazionale sulla finanza sostenibile, la previsione di obblighi di divulgazione dei dati climatici ed ambientali per le aziende[46] e la definizione di standard europei per l’emissione di green bonds. Come verrà meglio spiegato in seguito, è prevista anche una riforma della governance economica e della disciplina degli aiuti di Stato volta a favorire politiche di decarbonizzazione a livello nazionale attraverso la fissazione di criteri che orientino la spesa pubblica.
La terza ed ultima linea d’intervento del SEIP (“mettere in opera”) prevede l’istituzione di meccanismi di supporto per le amministrazioni pubbliche e gli investitori privati nell’attuazione di progetti sostenibili. Innanzitutto, il programma di sostegno alle riforme fornirà agli Stati membri sostegno tecnico per l'elaborazione e l'attuazione delle misure volte a perseguire la transizione climatica e digitale[47]. Il polo di consulenza InvestEU sarà a disposizione dei promotori di progetti pubblici e privati e degli intermediari finanziari al fine di attuare operazioni di finanziamento e di investimento a vantaggio di soggetti che incontrano difficoltà nell'ottenere l'accesso ai finanziamenti. Infine, verrà predisposto un strumento di monitoraggio europeo sulla sostenibilità ambientale degli appalti pubblici per la realizzazione di progetti infrastrutturali[48].
Attenzione particolare merita la proposta, già menzionata, di “meccanismo per una transizione giusta”, il cui scopo è quello di sostenere i territori ed i settori maggiormente esposti alle sfide legate al processo di decarbonizzazione. Il meccanismo si basa su vari strumenti in grado di mobilitare circa € 100 miliardi di investimenti nel periodo 2021-2027. Un “fondo per una transizione giusta”, da istituirsi sulla base dell’art. 175 TFUE[49], fornirà investimenti nelle regioni con un’occupazione altamente dipendente da carbone, lignite, petrolio ed altri combustibili fossili, così come nei territori dove operano industrie che producono ampie quantità di CO2[50]. Il fondo verrà attuato nell'ambito della politica di coesione e verrà gestito in stretta collaborazione con le autorità ed i portatori di interessi nazionali, regionali e locali. In secondo luogo, InvestEU lancerà un piano di investimenti per sostenere progetti di riconversione nelle regioni più esposte alle ripercussioni della transizione. Questi comprenderanno infrastrutture nel settore dell'energia e dei trasporti, programmi di decarbonizzazione e piani di diversificazione economica e sostegno all’adattamento dei modelli di produzione[51]. Infine, anche il gruppo BEI istituirà uno strumento di prestito per il settore pubblico a favore delle regioni e dei settori più svantaggiati dal processo di riconversione ecologica[52].
3.5. Per una governance economica verde.
Secondo le previsioni della Commissione europea, le amministrazioni pubbliche giocheranno un ruolo fondamentale nell’attuazione del Green Deal. Infatti esse sono gli unici soggetti in grado di mobilitare ampie risorse a favore di quei progetti strategici per il processo di decarbonizzazione che gli investitori privati considerano eccessivamente rischiosi o incapaci di generare sufficiente profitto, almeno nel breve termine[53].
Un primo modo con cui la Commissione pensa di coinvolgere le autorità nazionali nell’attuazione del Green Deal è una riforma delle norme che disciplinano il coordinamento europeo sulle politiche economiche. Il “semestre europeo”, in particolare, sembrerebbe lo strumento di governance più adatto a tale scopo. Il suo funzionamento, disciplinato dal regolamento (UE) n. 1175/2011[54], prevede un ciclo di supervisione di sei mesi, da gennaio a luglio, sulle politiche macroeconomiche e sociali dei singoli Stati membri, sulla cui base, nella seconda parte dell’anno, essi dovranno adottare la legge di bilancio ed una serie di riforme strutturali[55]. Il coordinamento si basa sulla pubblicazione da parte della Commissione di un’“analisi annuale della crescita” e di relazioni specifiche per ogni Paese che identificano la presenza di eventuali squilibri sulla base di “indicatori” macroeconomici e sociali[56]. Per far sì che il semestre europeo dia il suo contributo al perseguimento della transizione ecologica, la Commissione dovrebbe aggiornare gli indicatori esistenti affinché prendano in considerazione anche gli squilibri ambientali. Le scelte nazionali di bilancio e l’attuazione delle riforme strutturali verrebbero così rese compatibili con gli obbiettivi di riduzione delle emissioni secondo la traiettoria prestabilita. In secondo luogo, la Commissione dovrebbe coordinare il semestre europeo con le procedure esistenti della governance dell'Unione dell'energia e dell'azione per il clima disciplinata dal regolamento (UE) n. 2018/1999[57]. Si noti che, in attesa di un emendamento formale del regolamento (UE) n. 1175/2011, la Commissione ha già deciso di introdurre alcune importanti innovazioni in linea con gli obbiettivi del Green Deal nell’attuazione del semestre europeo 2020. Al posto dell’“analisi annuale della crescita” è stata pubblicata una “strategia annuale per la crescita sostenibile” che ha eletto la sostenibilità ambientale tra le priorità dell’economia europea accanto alla stabilità, alla produttività e all’equità[58]. Nelle sue raccomandazioni agli Stati membri la Commissione ha altresì dato maggiore attenzione al ruolo degli investimenti verdi, alla tassazione del carbonio ed alle misure di riduzione delle emissioni.
Un altro modo con cui la governance economica potrebbe favorire il processo di decarbonizzazione sarebbe una riforma delle norme sulla stabilità della finanza pubblica[59]. Al fine di favorire una spesa mirata al raggiungimento degli obbiettivi del Green Deal, è stato ipotizzato di scorporare gli investimenti verdi dal calcolo del deficit, creando una sorta di green golden rule[60]. Si noti che al momento la Commissione europea gode di una certa flessibilità nell’attuazione della disciplina fiscale e può già autorizzare deviazioni dall’obbiettivo di bilancio quando “gli investimenti pubblici [producono] effetti a lungo termine positivi, diretti e verificabili sulla crescita e sulla sostenibilità delle finanze pubbliche”[61]. Sarebbe, tuttavia, opportuno un emendamento formale del Patto di stabilità e crescita al fine di chiarire se e a quali condizioni investimenti nazionali nel processo di decarbonizzazione possano essere esclusi dal calcolo del deficit.
3.6. La proposta di riforma della disciplina degli aiuti di Stato.
Un altro modo con cui la Commissione intende veicolare la spesa pubblica nazionale per l’attuazione del Green Deal è la riforma della disciplina degli aiuti di Stato. Ferma la necessità di preservare l’unità del mercato interno ed evitare distorsioni della concorrenza, un incremento mirato degli investimenti pubblici nazionali potrebbe contribuire in modo decisivo alla riduzione graduale delle emissioni di gas serra secondo la traiettoria prestabilita[62]. Infatti, alcuni processi di riconversione e adattamento della tecnologia industriale, così come anche gli interventi strutturali nel settore dell’edilizia e delle infrastrutture pubbliche richiedono l’assunzione di rischi tali per cui il settore privato, senza un sistema di garanzie ed incentivi sufficiente, non riuscirebbe a tenere il passo con il processo di decarbonizzazione. Si ricordi che negli ultimi anni la Commissione ha già autorizzato gli Stati membri a fornire aiuti rilevanti alla produzione di energia rinnovabile[63].
Il regolamento generale di esenzione per categoria[64] e la comunicazione sulla disciplina in materia di aiuti di Stato a favore dell’ambiente e dell’energia[65] dovrebbero pertanto essere modificati al fine di autorizzare le misure nazionali necessarie al raggiungimento degli obbiettivi del Green Deal. Tra gli aiuti a finalità settoriale che la Commissione intende consentire rientrano sicuramente i finanziamenti pubblici alle imprese che decarbonizzano i loro sistemi industriali e passano all’uso dell’energia elettrica, gli investimenti volti a migliorare l’efficienza energetica degli edifici ed aumentare la produzione domestica di energia rinnovabile[66], gli aiuti allo sviluppo di infrastrutture strategiche che non hanno un impatto su concorrenza e commercio e soprattutto gli incentivi per la chiusura delle centrali a carbone[67]. Allo stesso tempo, la riforma della disciplina degli aiuti di Stato dovrà prendere in considerazione la disparità del livello di sviluppo all’interno dell’Unione, oltre che i diversi costi che ciascuna regione dovrà sostenere per portare a compimento il processo di transizione ecologica. La Commissione sta valutando a tale proposito di introdurre procedure speciali per l’approvazione degli aiuti di Stato a favore delle regioni beneficiarie del meccanismo per una transizione giusta[68].
Si noti che, in attesa di una revisione formale della disciplina, la Commissione ha già promesso di garantire la flessibilità necessaria, in conformità alla normativa vigente, per autorizzare quegli investimenti pubblici che permettano di avviare il processo di decarbonizzazione fin da subito. Al fine di sostenere le aree per le quali il processo di transizione ecologica è maggiormente oneroso, accanto allo stanziamento dei fondi di coesione, la Commissione potrà autorizzare aiuti specifici sulla base dell’art. 107, par 3, lett. a e lett. c, TFUE[69].
3.7. Il contributo dell’azione esterna all’attuazione del Green Deal.
Lo sviluppo di comportamenti virtuosi all’interno dell’Unione e l’adozione di norme aventi (limitata) efficacia extraterritoriale[70] possono sicuramente stimolare una maggiore attenzione ai temi ambientali da parte degli altri Paesi[71]. Allo stesso tempo, gli sforzi europei per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 non riusciranno a fare la differenza nella lotta ai cambiamenti climatici se le altre maggiori economie del mondo non seguiranno lo stesso esempio, attuando anch’esse un percorso di transizione ecologica. Inoltre, senza un’azione coordinata a livello internazionale a favore del processo di decarbonizzazione, il Green Deal europeo rischia di ridursi ad un grande processo di delocalizzazione delle produzioni inquinanti verso quei Paesi dove gli standard ambientali sono più bassi. La Commissione è evidentemente consapevole di questi rischi e ha deciso di mettere in atto una serie di misure strategiche volte ad impedire fenomeni di fuga del carbonio ed incoraggiare i partner dell’Unione ad attuare misure adeguate per la riduzione delle emissioni e la protezione della biodiversità.
Il progetto di Green Deal sottolinea l’importanza dell’azione diplomatica dell’UE per rafforzare il dialogo bilaterale con gli Stati terzi sui temi ambientali, in particolare la Cina ed i Paesi africani, e finanziare politiche di decarbonizzazione nelle economie meno sviluppate[72]. La priorità è spingere gli altri Paesi a rispettare l’accordo di Parigi sul clima dando attuazione alla graduale riduzione delle emissioni di gas serra.
Particolarmente interessante è poi il ruolo della politica commerciale nel favorire la transizione ecologica[73]. Forte di un mercato di mezzo miliardo di consumatori, l’Unione può esercitare una certa pressione sui Paesi con i quali intrattiene un importante interscambio di beni e servizi, potendo fissare norme che si applicano a tutte le catene del valore globali. Già nella comunicazione dell’ottobre 2015 sulla politica commerciale e di investimento più responsabile[74], la Commissione sottolineava l’importanza di portare avanti istanze ambientali nei negoziati commerciali. Il progetto di Green Deal ha quindi previsto che la Commissione faccia un uso più ampio delle clausole ambientali negli accordi internazionali, tra cui l’obbligo di ratificare l’accordo di Parigi, garantire il principio di sostenibilità nel commercio delle materie prime e rispettare gli standard di qualità ambientale dei prodotti[75]. Si noti che l’attuale sistema di preferenze generalizzate, che permette ad alcuni Paesi in via di sviluppo di esportare in Europa godendo di un’esenzione totale o parziale dei dazi, già prevede una sospensione temporanea dei regimi preferenziali in caso di “violazioni gravi e sistematiche dei principi contenuti” in alcuni trattati internazionali sull’ambiente[76].
Sempre nell’ambito dei contributi della politica commerciale all’attuazione del Green Deal, si ricorda la proposta di “meccanismo di adeguamento alle frontiere del costo del carbonio”, il cui scopo è quello di tassare le importazioni prodotte sulla base di una tecnologia più inquinante rispetto a quella disponibile in Europa. Come è stato già spiegato, un simile meccanismo intende non solo scoraggiare la delocalizzazione delle produzioni inquinanti fuori dall’Unione, ma anche spingere le imprese di Paesi terzi ad adeguarsi agli standard europei di protezione dell’ambiente.
- Una prima valutazione del progetto di Green Deal europeo.
4.1. Le difficoltà di un cambio di passo.
L’analisi precedente ha cercato di spiegare in che modo il Green Deal europeo intende fare la differenza nella lotta ai cambiamenti climatici. L’abbattimento pressoché totale della produzione dei gas serra attraverso l’attuazione di politiche diverse, ma complementari tra loro rappresenta una sfida epocale da cui dipenderà il benessere e la salute di milioni di cittadini. È cruciale pertanto domandarsi se gli strumenti predisposti dall’Unione europea siano effettivamente idonei a perseguire gli obbiettivi della transizione ecologica entro i tempi previsti.
Guardando alle proposte presentate finora, l’attuazione del Green Deal europeo sembra ispirarsi ad una duplice strategia. Innanzitutto, la Commissione vuole esercitare un potere regolatore sull’azione degli attori pubblici e privati negli Stati membri onde riorientare le loro azioni a favore del processo di decarbonizzazione dell’economia e della società. Ciò avverrà attraverso la supervisione sul rispetto della traiettoria di riduzione delle emissioni, la riforma della disciplina degli aiuti di stato, l’aggiornamento delle norme del semestre europeo e l’adozione di nuove strategie verdi paneuropee che fissino linee guida ed obbiettivi comuni di politica ambientale. In secondo luogo, la Commissione sta cercando di sviluppare nuovi strumenti per promuovere l’attuazione del Green Deal in modo autonomo rispetto agli Stati membri. Ciò avverrà soprattutto attraverso la mobilitazione delle risorse disponibili nel quadro del bilancio UE e della BEI per finanziare gli investimenti strategici necessari alla transizione ecologica. Anche la politica commerciale può rappresentare uno strumento utile nelle mani dell’Unione per convincere i Paesi terzi a mettere in atto politiche ambiziose di decarbonizzazione.
L’analisi seguente intende riflettere sulle principali difficoltà che questo duplice approccio potrà incontrare alla luce delle più recenti esperienze di governance e di attuazione delle politiche europee che l’Unione ha sperimentato negli ultimi anni.
4.2. I limiti del metodo aperto di coordinamento.
Un primo strumento che il progetto di Green Deal vuole utilizzare per monitorare il processo di graduale riduzione dei gas serra da parte degli Stati membri è il così detto “metodo aperto di coordinamento”[77]. Questo modello prevede che le istituzioni UE fissino standard e linee guida per il raggiungimento di obbiettivi comuni, a cui i governi cercano di dare attuazione in modo autonomo. I risultati raggiunti da ciascun Paese vengono quindi valutati e confrontati (benchmarking) permettendo uno scambio delle migliori pratiche. Un simile approccio è caratterizzato dall’adozione di atti di soft-law e dalla mancanza di strumenti sanzionatori con cui le istituzioni UE possano censurare la violazione degli impegni assunti dalle autorità nazionali. L’adozione del metodo aperto di coordinamento per lo sviluppo della governance ambientale è coerente con la lettera dell’art. 192, par. 4 TFUE secondo cui, fatte salve talune misure adottate dall'Unione, sono gli Stati membri a provvedere al finanziamento e all'esecuzione della politica in materia ambientale.
Il metodo aperto di coordinamento non rappresenta affatto una novità nell’ordimento giuridico UE, essendo stato già ampiamente utilizzato negli anni 90 e 2000 per lo sviluppo di strategie comuni nell’ambito delle politiche dell’occupazione, della protezione sociale e dell’istruzione, oltre che per la supervisione preventiva sui bilanci nazionali nel quadro della governance economica. In questo modo l’Unione pensava di poter assicurare un alto livello di convergenza tra gli Stati membri attraverso una logica di competizione virtuosa, secondo cui i comportamenti nazionali più efficienti sarebbero diventati un esempio per gli altri. Tuttavia, proprio le prime esperienze di applicazione del metodo aperto di coordinamento hanno rivelato le profonde lacune di questo modello. La maggior parte degli Stati membri, infatti, non è riuscita a dare un’attuazione spontanea alle raccomandazioni dell’Unione europea, specialmente quando ciò richiedeva riforme economiche e sociali importanti in grado di incidere su consolidati interessi nazionali. Il progressivo deterioramento della finanza pubblica in molti Paesi durante il primo decennio di vita dell’euro, così come i risultati deludenti nell’attuazione dei grandi piani europei per il progresso economico e sociale, quali la “Strategia di Lisbona” o “Europa 2020”[78], hanno mostrato i limiti di un metodo di coordinamento fondato essenzialmente sugli strumenti non vincolanti ed il confronto tra pari[79].
Una seconda problematica che ha ridotto l’efficacia del metodo aperto di coordinamento riguarda la confusione determinata dalla proliferazione delle regole e delle procedure di supervisione. Prendendo in considerazione il tema della tutela dell’ambiente, sono numerosi gli strumenti di governance a livello europeo ed internazionale a cui gli Stati membri hanno deciso di sottoporsi: dalla strategia “Europa 2020” ai piani nazionali per l’azione del clima e dell’energia, dallestrategie nazionali a lungo termine previste dall’accordo di Parigi ai piani di gestione dei bacini fluviali[80], dall’attuazione della direttiva sulla conservazione degli habitat naturali[81] ai piani strategici della politica agricola comune[82]. La sovrapposizione delle regole e degli impegni ha reso molto spesso difficile per gli Stati membri organizzare un’azione coerente ed efficace per il raggiungimento degli obbiettivi di tutela ambientale. Specularmente, anche la frammentazione della supervisione in una miriade di procedure gestite da soggetti diversi ha impedito di stigmatizzare gli inadempimenti delle autorità nazionali e prendere misure sufficienti per contrastarli[83].
Al fine di ovviare a queste problematiche strutturali, i governi potrebbero prendere in considerazione alcune riforme del modello di governance ambientale. Un primo importante miglioramento potrebbe essere l’adozione del metodo così detto “chiuso” di coordinamento. A differenza del metodo “aperto”, esso si basa sull’assunzione di obblighi giuridicamente vincolanti da parte degli Stati membri e, cosa ancora più importante, sull’uso di strumenti coercitivi da parte delle istituzioni UE per sanzionare la violazione delle regole[84]. Ciò è avvenuto recentemente nel quadro del rafforzamento della supervisione preventiva sui bilanci pubblici nel quadro della governance economica. La Commissione e il Consiglio sono ora in grado di adottare sanzioni semiautomatiche nei confronti dei Paesi che non rispettano le raccomandazioni sulla correzione degli squilibri macroeconomici e sul raggiungimento degli obbiettivi di bilancio di medio termine[85]. Mentre il Trattato non prevede al momento alcuna base giuridica per introdurre sanzioni nei confronti dei Paesi che non rispettano la traiettoria di riduzione delle emissioni di gas serra, una forma di penalità che potrebbe applicarsi nel quadro della governance ambientale potrebbe essere la perdita dell’accesso ai fondi del SEIP e quelli previsti nell’ambito della politica di coesione[86]. Resta ovviamente la difficoltà per la Commissione ed il Consiglio di trovare la volontà politica di sanzionare uno Stato membro inadempiente, come si vedrà in relazione all’attuazione della governance economica. La sola predisposizione di strumenti coercitivi, tuttavia, potrebbe già produrre un qualche effetto deterrente e rendere la supervisione europea sulla riduzione delle emissioni più efficace.
Per quanto riguarda invece i rischi derivanti dalla sovrapposizione delle procedure e degli impegni di politica ambientale, è auspicabile una razionalizzazione ed una fusione degli strumenti giuridici, almeno quelli previsti nel quadro dell’ordinamento UE. A proposito sarebbe utile che la Commissione incorporasse nel semestre europeo alcune procedure previste dalla governance dell'Unione dell'energia e dell'azione per il clima disciplinata dal regolamento (UE) n. 2018/1999[87].
4.3. Le difficoltà di orientare la spesa degli Stati a favore della transizione ecologica.
Un altro modo con cui la Commissione intende perseguire la transizione ecologica è orientare la spesa pubblica nazionale verso obbiettivi di politica ambientale. Sono innanzitutto gli strumenti di governance economica a dover essere usati per verificare, oltre il livello di deficit e di debito pubblico consentito, anche la destinazione delle risorse che vengono spese dalle autorità nazionali. Allo stesso tempo, la disciplina degli aiuti di Stato dovrebbe prevedere nuove deroghe per autorizzare incentivi e finanziamenti pubblici alle imprese che investono nel processo di decarbonizzazione. Si tratta sicuramente di una strategia valida, anche se non priva di difficoltà attuative.
Quanto all’uso della governance economica è opportuno fare chiarezza su alcune delle sue debolezze croniche nel momento in cui le si chiede di prendersi cura della transizione ecologica. Da quando è stato introdotto il Patto di stabilità e crescita solo una minoranza degli Stati è riuscita a rispettare in modo costante e sistematico le regole di finanza pubblica ivi previste. Mentre sono state aperte numerose procedure per infrazione (così dette “procedure per deficit o debito pubblico eccessivo”), non sono mai state comminate sanzioni, notoriamente a causa della difficoltà di trovare un consenso politico sufficiente in seno al Consiglio. Perfino l’introduzione di procedure semi-automatiche, secondo cui una sanzione può essere applicata quando la Commissione la propone ed una maggioranza qualificata di governi non si oppone entro un termine preciso, non sembra aver prodotto alcun miglioramento significativo. Negli ultimi dieci anni, nonostante la crisi del debito sovrano, il risanamento della finanza pubblica nella zona euro è avvenuto con eccessiva lentezza, cosa che ha mantenuto molti Paesi vulnerabili agli shock economici. Simili considerazioni valgono anche per l’efficacia del semestre europeo. Studi recenti hanno dimostrato che la maggior parte degli Stati membri continua a dare un’applicazione alquanto parziale delle raccomandazioni sulla correzione degli squilibri macroeconomici e l’attuazione di riforme strutturali[88]. In generale, nonostante la governance economica disponga ormai di procedure di supervisione efficienti e strumenti coercitivi, manca purtroppo la volontà politica di darvi applicazione, soprattutto da parte del Consiglio.
Anche la riforma della disciplina degli aiuti di Stato resta uno strumento necessario per permettere ai governi di investire nel processo di decarbonizzazione attraverso un aiuto mirato alle aziende. È opportuno, tuttavia, segnalare alcuni possibili abusi a cui un’estensione delle deroghe previste dall’art. 107 TFUE rischia di prestarsi. Innanzitutto, i governi potrebbero approfittare di questa apertura per fornire aiuti ed incentivi formalmente in linea con le politiche di decarbonizzazione, ma il cui effetto principale sia quello di dare un forte vantaggio competitivo alle produzioni nazionali. Per evitare tutto questo la Commissione dovrà vigilare attentamente sulla proporzionalità e la pertinenza degli aiuti agli obbiettivi di riduzione delle emissioni nel rispetto dei criteri previsti dalla comunicazione sulla disciplina in materia di aiuti di Stato a favore dell’ambiente e dell’energia[89]. A tal fine, sarebbe opportuno che le autorizzazioni della Commissione venissero concordate ex ante nei programmi nazionali per l’energia ed il clima. Per lo stesso motivo si potrebbe aggiungere un controllo a posteriori per verificare che gli aiuti pubblici siano stati effettivamente coerenti con il perseguimento delle politiche di decarbonizzazione[90]. Una seconda possibile distorsione a cui si presta l’allentamento dei divieti di aiuti di Stato per favorire la transizione ecologica dipende dalla differente situazione finanziaria in cui si trovano i singoli Paesi. I governi con margini fiscali ridotti rischiano di non poter investire sufficienti risorse a favore di quelle imprese che vogliono attuare progetti di riconversione ecologica. Si noti che molto spesso gli Stati membri meno ricchi, come la Bulgaria o la Romania, sono anche quelli maggiormente dipendenti dal consumo di carbonio. Per questo motivo, è molto importante che il meccanismo per una transizione giusta riesca effettivamente a mobilitare risorse sufficienti per le regioni dell’Unione, che non possono contare su un sostegno adeguato da parte dei loro governi nazionali.
4.4. La difficile mobilitazione delle risorse a livello europeo.
Come è stato già ricordato, l’attuazione del processo di decarbonizzazione richiederà la mobilitazione di risorse ingenti. Nella comunicazione sul Green Deal, la Commissione ha calcolato che serviranno investimenti supplementari pari a € 260 miliardi all’anno per rispettare la traiettoria di riduzione delle emissioni fino al raggiungimento della neutralità climatica. Purtroppo l’Unione non dispone attualmente di queste risorse. Notoriamente, non esiste una competenza fiscale europea che permetta di indebitarsi o raccogliere tasse in modo autonomo. Anche il bilancio UE non è paragonabile a quello degli Stati membri, potendo contare solo su risorse modeste, pari a circa l’1% del PIL europeo, attribuite dai governi con una decisione presa all’unanimità[91].In queste condizioni, una svolta verde dell’attuale politica di coesione UE potrebbe fare la differenza solo per quei Paesi che dipendono da essa per una parte importante del loro reddito nazionale[92].
Consapevole di questi limiti strutturali, la Commissione spera comunque di raccogliere i finanziamenti necessari per l’attuazione del Green Deal facendo ricorso al mercato dei capitali europeo. Il Piano di investimenti per un'Europa sostenibile (SEIP) si basa in gran parte sull’effetto moltiplicatore che la mobilitazione delle risorse disponibili nel bilancio UE può determinare: a fronte di uno stanziamento o di una garanzia europea a favore di un progetto strategico, investitori privati dovrebbero partecipare finanziando o cofinanziando il suo completamento.
Per capire se un simile approccio sia efficace, si può prendere in considerazione la recente esperienza del fondo europeo per gli investimenti strategici (FEIS), con cui la Commissione europea guidata da Jean Claude Juncker ha cercato di rilanciare la crescita economica nell’Unione a partire dal 2015. Anche il FEIS si basava su un meccanismo simile a quello proposto per il SEIP: grazie ad un finanziamento dal bilancio UE e dal gruppo BEI per un totale di € 21 miliardi, il fondo ha cercato di attrarre investimenti privati su dei progetti strategici di alta qualità. Ufficialmente sono stati mobilitati in questo modo circa € 500 miliardi tra il 2015 e il 2020. Si tratta sicuramente di risultati rilevanti. La Commissione è riuscita a potenziare al massimo l’impatto sull’economia reale facendo leva sulle risorse di cui poteva effettivamente disporre. Il fondo è stato quindi istituzionalizzato attraverso la creazione del già citato programma InvestEU, che rappresenta oggi uno dei possibili meccanismi di finanziamento del SEIP.
Nonostante gli innegabili successi, proprio l’esperienza del FEIS permette di non sopravvalutare l’impatto macroeconomico dei programmi di finanziamento che si basano sull’effetto moltiplicatore. Innanzitutto, è stato notato che parte dei progetti sostenuti dal fondo non siano qualificabili come “addizionali”: sebbene il FEIS potesse assumersi un rischio di investimento più elevato rispetto a quello normalmente sostenuto dal gruppo BEI, una relazione della Corte dei conti europea ha fatto notare che circa un terzo delle operazioni sarebbe stato realizzato comunque anche senza l’intervento del fondo[93]. Al posto di fungere da catalizzatore di risorse aggiuntive, il contributo del FEIS si è sostanziato in molti casi nella riduzione dei costi di finanziamento rispetto alle fonti commerciali di capitali di prestito[94]. In secondo luogo, il modus operandi della BEI ha fatto sì che gran parte delle risorse disponibili presso il FEIS confluissero verso quelle regioni dell’Unione che disponevano delle banche e degli istituti di promozione più attivi e sviluppati[95]. D’altra parte, disponendo di risorse limitate, il FEIS ha cercato di potenziare i suoi effetti premiando la qualità e la rilevanza strategica dei progetti presentati, il che ha impedito di investire risorse rilevanti nelle aree più arretrate e meno competitive dell’Unione. Gli effetti reali di stimolo sull’economia europea sono stati nel loro complesso modesti e pro-ciclici ed hanno potuto manifestarsi solo dopo diversi anni dal lancio del fondo[96].
Alla luce di questa esperienza è improbabile che le risorse mobilitate nel quadro del SEIP riescano a contribuire in modo decisivo alla decarbonizzazione dei sistemi produttivi ed energetici nell’Unione europea. Il coinvolgimento del mercato dei capitali in questo processo è reso ancora più complesso considerando che gli investimenti ambientali producono normalmente un ritorno economico limitato[97]. È stato giustamente notato che la transizione ecologica si sostanzia in gran parte nel ricollocamento delle risorse umane e materiali disponibili e nello sviluppo di nuove tecnologie, piuttosto che nell’aumento della capacità di produrre e consumare beni e servizi[98]. La generazione di profitto non è d’altra parte lo scopo principale del Green Deal. In conclusione, l’azione della BEI e di InvestEU nel quadro del SEIP saranno sicuramente preziosi per attrarre risorse nel finanziamento di progetti di qualità e di alto valore strategico. Tuttavia, il sostegno necessario per una massiccia riduzione dei gas serra ed una riconversione dell’economia nei tempi previsti può venire solo attraverso la mobilitazione di fondi pubblici a livello nazionale o, meglio, a livello europeo. Se si vuole trasformare la BEI in una vera banca per il clima bisognerà allora aumentare il suo capitale e permetterle di erogare finanziamenti con un profilo di rischio molto più elevato[99]. Anche il bilancio dell’Unione europea ha bisogno di nuove e maggiori risorse se vuole esercitare un ruolo determinante nel processo di decarbonizzazione.
4.5. Gli ostacoli allo sviluppo di una politica commerciale verde.
Un’ultima riflessione sull’attuazione del Green Deal riguarda l’uso della politica commerciale per spingere i Paesi terzi a comportamenti virtuosi di riduzione delle emissioni.
Si noti che recentemente l’Unione europea ha già stipulato alcuni accordi preferenziali con Paesi terzi[100] ed organizzazioni internazionali che prevedono una maggiore tutela dell’ambiente. Questo obbiettivo è stato perseguito in particolare tramite il richiamo al principio dello sviluppo sostenibile, il divieto di ridurre o derogare agli standard nazionali esistenti per la protezione dell’ambiente e l’obbligo di rispettare i trattati multilaterali sul clima[101].
L’uso strumentale di questi accordi per la lotta ai cambiamenti climatici è sicuramente una strategia valida, ma presenta in concreto una serie di difficoltà. Innanzitutto, alcune disposizioni dei trattati commerciali di ultima generazione, specialmente in tema di investimenti esteri, non rientrano nella competenza esclusiva dell’Unione, il che porta tali accordi ad essere qualificati come “misti” e ad aver bisogno della ratifica da parte sia delle istituzioni UE, sia degli Stati membri[102]. La necessità di passare dall’approvazione di tutti i Parlamenti nazionali, tuttavia, rischia di allungare i tempi per l’attuazione dei singoli accordi, i quali possono restare in balia delle polemiche politiche interne a ciascuno Stato membro[103]. In secondo luogo, anche se gli accordi venissero ratificati in un tempo accettabile, si noti che i capitoli sullo sviluppo sostenibile sono sprovvisti di meccanismi di esecuzione efficaci da attivarsi in caso di inadempimento. Non è infatti previsto il ricorso delle parti a corti arbitrali per comporre eventuali contrasti, né tanto meno la possibilità di adottare misure commerciali a titolo di contromisura[104]. Il rimedio tipico consiste invece nell’adozione di procedure di consultazione e nella creazione di panel di esperti, che potranno inviare raccomandazioni alla parte che sta violando gli impegni[105]. Questa soluzione è stata motivata sulla base della difficoltà di dimostrare il nesso di causalità tra l’infrazione delle norme sullo sviluppo sostenibile e la tutela dell’ambiente, da un lato, e il danno economico, dall’altro[106]. Un’eccezione rilevante è data dal già citato “sistema di preferenze generalizzate”, disciplinato dal regolamento (UE) n. 978/2012, secondo cui l’Unione può sospendere il trattamento preferenziale verso quei Paesi in via di sviluppo che violano i loro impegni internazionali in materia di ambiente. Fra i trattati presi in considerazione a tal proposito manca, tuttavia, l’accordo di Parigi sul clima<
Lionello Luca
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