Cyberbullying. Criminological and criminal law perspectives arising from Law 71/2017

Il cyberbullismo. Prospettive criminologiche e giuridico-penali a partire dalla l. 71/2017

27.12.2020

Marta Lamanuzzi

Assegnista di ricerca in Diritto penale  

Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano

 

Il cyberbullismo.

Prospettive criminologiche e giuridico-penali

a partire dalla l. 71/2017*

 

English title: Cyberbullying. Criminological and criminal law perspectives arising from Law 71/2017

DOI: 10.26350/18277942_000013

 

Sommario: 1. Definizioni e fenomenologia. 2. La cyber-devianza minorile fra “disinibizione tossica” e “snowball effect”. 3. Le fattispecie incriminatrici astrattamente applicabili. 4. Considerazioni in tema di imputabilità del cyberbullo. 5. Sussidiarietà del diritto penale e strumenti di tutela previsti dalla l. 71/2017. 6. Conclusioni.

 

 

  1. Definizioni e fenomenologia

 

L’11 febbraio, in occasione del Safer Internet Day, l’UNICEF ha ricordato che, a livello mondiale, oltre uno studente su tre fra i tredici e i quindici anni dichiara di essere stato vittima di bullismo o cyberbullismo[1]. Dalla ricerca EU Kids Online 2020, condotta su diciannove paesi europei[2], è emerso che il 14% dei ragazzi fra i nove e i sedici anni afferma di aver compiuto almeno una volta atti di bullismo o cyberbullismo e il 23% di esserne stato vittima. Per quanto concerne la situazione italiana, l’ultima rilevazione ISTAT del fenomeno risale al 2014 (è in programma una nuova indagine da condurre in collaborazione con il MIUR) e attesta che più del 50% degli intervistati, tutti fra gli undici e i diciassette anni, ha riferito di essere rimasto vittima, nei dodici mesi precedenti l’intervista, di un episodio offensivo, non rispettoso e/o violento e una percentuale significativa, quasi uno su cinque (19,8%), avrebbe subito azioni tipiche di bullismo (online o offline) una o più volte al mese[3].

La risonanza che il fenomeno del cyberbullismo ha avuto negli ultimi anni ha portato il nostro legislatore a introdurre una legge ad hoc, la legge 29 maggio 2017, n. 71 recante “Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo”. Nel presente contributo l’esame dei contenuti di tale testo normativo costituirà occasione per approfondire il fenomeno del bullismo online sotto il profilo criminologico e giuridico-penale.

Va anzitutto precisato che durante l’iter di approvazione della legge era stato proposto di estendere l’applicazione delle sue disposizioni anche al bullismo[4], emendamento che tuttavia non è stato accolto e il testo, nella sua versione definitiva, riguarda il solo cyberbullismo. Tale scelta potrebbe trovare giustificazione nelle peculiarità che gli atti di bullismo assumono quando sono compiuti online, dimensione che, come si vedrà, favorisce la genesi e la protrazione delle condotte devianti, ne rende spesso difficilmente identificabile l’autore e ne amplifica gli effetti lesivi. «Gli interventi di contrasto del cyberbullismo» – si è osservato – «sono, pertanto, molto diversi e più difficoltosi di quelli adottabili contro gli atti di bullismo, i quali avvengono tra persone conosciute e producono effetti, di regola, limitati all’ambiente in cui si sono verificati e quindi più agevolmente rimuovibili»[5]. Tuttavia, bullismo e cyberbullismo sono fenomeni strettamente legati[6] in quanto, accanto ai comportamenti tenuti direttamente ed esclusivamente online, vi sono atti compiuti offline che vengono immortalati e cui viene data diffusione in rete e, in molti casi, all’esperienza di vittimizzazione nel mondo virtuale si accompagna una parallela esperienza di vittimizzazione nel mondo reale. La definizione stessa di cyberbullismo, o meglio le varie definizioni proposte dagli esperti – come si illustrerà nel prosieguo – promanano dalla definizione di bullismo, aggiungendo a essa, quale elemento di specialità, le peculiari modalità dell’azione, ossia l’impiego di mezzi informatici o telematici. Alla luce di tali considerazioni, sarebbe stato preferibile includere nell’ambito di applicazione del testo normativo anche il bullismo face to face, pur tenendo ferma la previsione di strumenti di tutela volti specificamente a prevenire e contrastare la diffusività delle offese in rete[7].

Per quanto concerne i contenuti precettivi della legge 71/2017, essa non ha introdotto un “reato di cyberbullismo”, né ha sposato una logica repressiva. Vengono richiamate alcune fattispecie incriminatrici che possono essere integrate dalle condotte di cyberbullismo, ma viene prediletto un approccio preventivo-cautelare[8]. Nell’articolato sono infatti previste e disciplinate misure – che verranno brevemente esaminate nel penultimo paragrafo – da ricondurre a due categorie: misure ante-factum, di natura preventiva, informativa, educativa, e misure post-factum, di natura inibitorio-cautelare.

All’art. 1, comma 2, viene fornita una definizione di cyberbullismo da cui è agevole partire per offrire un primo inquadramento del fenomeno. In particolare, la norma precisa che per cyberbullismo si intende «qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti on line aventi a oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo».

Alle definizioni offerte dalla letteratura psicologica – secondo cui un soggetto è vittima di bullismo «quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive perpetrate da uno o più compagni»[9] e vittima di cyberbullismo quando tali «comportamenti di prevaricazione sono messi in atto mediante l’uso delle nuove tecnologie (smartphone e internet)»[10] – il legislatore ha preferito una definizione che richiama alcune ipotesi di reato che le condotte di cyberbullismo possono integrare, combinando in una logica meramente esemplificativa (e non esaustiva) espressioni tecniche e atecniche. Il termine «pressione», ad esempio, potrebbe essere utilizzato come sinonimo di “molestia”, che costituisce una contravvenzione punita ex art. 660 c.p. nonché una delle modalità di condotta degli atti persecutori ex art. 612-bis c.p.; il «ricatto» è semanticamente analogo alla minaccia, fattispecie autonoma di reato ex art. 612 c.p. e altra modalità di condotta degli atti persecutori; l’«ingiuria» rimanda all’omonima ipotesi criminosa di cui all’art. 594 c.p., depenalizzata nel 2016, ora illecito civile; la «diffamazione» è un delitto punito ai sensi dell’art. 595 c.p. e il termine «denigrazione» ne costituisce una variante terminologica atecnica; il «furto d’identità» allude alla fattispecie di sostituzione di persona ex art. 494 c.p. e, infine, l’«alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali» richiama il reato previsto e disciplinato dall’art. 167 codice della privacy.

Rinviando al terzo paragrafo per la rassegna delle ipotesi criminose poc’anzi menzionate e delle altre fattispecie i cui elementi costitutivi possono ravvisarsi nelle condotte di cyberbullismo, va sottolineato che tale definizione ha il pregio di individuare, in parte espressamente in parte implicitamente, i tre criteri che vengono tradizionalmente richiamati negli studi psico-pedagogici[11] per marcare il confine fra scherzo e bullismo: i)l’asimmetria: lo scherzo non presuppone un’asimmetria di “potere”, “fama” e “successo” tra chi lo attua e chi lo subisce, mentre nel bullismo spesso si assiste a un’asimmetria fra i soggetti coinvolti, il bullo appare fisicamente e/o psicologicamente più forte, a volte anche più “popolare” fra i coetanei (anche se la sua tendenza a “prevalere” sugli altri spesso cela insicurezza emotiva); ii) la sistematicità: lo scherzo consiste in un unico episodio, cambia spesso “bersaglio”, mentre il bullismo si caratterizza per la reiterazione di comportamenti vessatori o denigratori nei confronti della stessa persona; iii) l’intenzionalità: lo scherzo viene attuato per divertirsi e nello scherzo si diverte sia chi lo attua sia chi lo subisce (si ride con l’altro non dell’altro), mentre gli atti di bullismo sono posti in essere al fine di ferire, emarginare, far soffrire l’altro[12].

Per riassumere, si può parlare di bullismo, e non di scherzosità fra coetanei, quando ricorrono azioni offensive ripetute e frequenti, tenute intenzionalmente da uno o più soggetti nei confronti di un altro soggetto che si trovi in una condizione di “inferiorità” al fine di arrecargli nocumento e che costituiscano per quest’ultimo fonte di disagio[13]. Il bullismo diventa cyberbullismo, come anticipato, quando tali condotte vengono messe in atto avvalendosi delle nuove tecnologie digitali, ossia inviando messaggi o pubblicando post in rete (per lo più sui social network) per mezzo di computer o, più di frequente, di smartphone e tablet. Il confine fra scherzo e cyberbullismo talvolta è più difficile da tracciare rispetto a quello fra scherzo e bullismo, in quanto la diffusione virale che un contenuto immesso in rete può avere rischia di attribuirgli una portata diffamatoria e umiliante tale che, pur in assenza di sistematicità, secondo alcuni commentatori parrebbe forzato non ricondurre la condotta alla categoria del cyberbullismo[14].

La fenomenologia del cyberbullismo è molto ampia. Ad esempio, per flaming si intendono i litigi online che assumono toni particolarmente violenti e volgari; per harassment l’invio ossessivo di messaggi denigratori; la denigration o put down consiste nell’offendere l’altrui reputazione attraverso la condivisione di contenuti imbarazzanti; il termine masquerade o impersonation indica l’utilizzo abusivo di un indirizzo mail o di un account altrui sempre al fine di screditare il titolare; l’exposure è la rivelazione di informazioni altrui private, vere o false; il trickery è un tradimento affettivo realizzato conquistando la fiducia della vittima per poi diffondere fotografie o informazioni ottenute in via confidenziale o per ricattarla minacciando di diffonderle; l’esclusion comprende tutti quei comportamenti volti a isolare “social-mediaticamente” la vittima; il cyberstalking[15] consiste nell’invio ripetuto di messaggi offensivi e minacciosi per intimidire il destinatario e il cyberbashing nel riprendere e condividere online scene di aggressione o molestia[16].

Si distinguono, inoltre, nella letteratura psicologica[17], tre tipi di bullo e cyberbullo. Il primo è il tipo attivo/aggressivo, che è impulsivo e dotato di scarsa empatia ed elevata autostima, compie atti offensivi per accrescere la propria fama e l’ammirazione dei compagni. Il secondo è il tipo ansioso, caratterizzato da insicurezza, impopolarità, scarso rendimento scolastico e incapacità a concentrarsi. L’ultimo è il tipo passivo, ossia colui che non prende iniziativa, ma si limita a incoraggiare gli atti di bullismo altrui[18]. Al tempo stesso si possono distinguere vittime passive, che non hanno provocato in alcun modo il bullo o i bulli e sono solitamente schive, remissive e con bassissima autostima; vittime provocatrici[19], che per la loro irritabilità, irrequietezza e ostilità tendono a suscitare negli altri irritazione, rabbia ed esasperazione che talvolta si traducono in comportamenti offensivi; bulli-vittime, ossia soggetti che bullizzano e sono a loro volta bullizzati, più “deboli” dei propri bulli, più “forti” delle proprie vittime, statisticamente poco frequenti[20].

Le ripercussioni negative di bullismo e cyberbullismo sono svariate e spesso durature. Le vittime vanno frequentemente incontro ad ansia, depressione e calo di autostima. Nei casi più gravi le conseguenze comprendono disturbi alimentari e autolesionismo e, in casi estremi, il suicidio (cd. bullycide)[21].

 

  1. La cyber-devianza minorile fra “disinibizione tossica” e “snowball effect

 

«L’uso della tecnologia non è neutro, perché modifica l’identità dell’utilizzatore»[22]. Le esperienze digitali, che pervadono letteralmente il nostro quotidiano, hanno un notevole impatto sui processi psicologici, relazionali e identitari, sulla percezione di sé e dell’altro e sul rapporto fra sé reale e sé digitale, fino a portare, in casi limite, allo sviluppo di dipendenze e patologie[23].

I social network determinano oggi, soprattutto per le nuove generazioni, forti investimenti in termini di tempo e identità[24]. Se alcuni studiosi pongono l’accento sulla potenzialità dei nuovi media quali formidabili strumenti di espressione e socializzazione[25], altri evidenziano come, a livello identitario, una fruizione eccessiva e non consapevole delle piattaforme social possa limitare la propensione alla riflessione su di sé e la maturazione, poiché offre un sentiero più agevole di formazione del “Self[26] rispetto allo scambio diretto con l’altro, studiato dagli interazionisti simbolici[27], che è più impegnativo e complesso da gestire. Infatti, la possibilità di postare e comunicare con gli amici ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, e l’appartenenza a un mondo virtuale sempre attivo e recettivo e facilmente fruibile, secondo alcune ricerche, renderebbe i giovani meno capaci di gestire la solitudine e le difficoltà che le relazioni reali comportano[28]. Inoltre, lo scambio rapido di messaggi, spesso standard, in cui la parola è sovente abbreviata, tende a tradursi in contatti “superficiali”[29], che non presuppongono un reale scambio di contenuti. A ciò si aggiunge che la dimensione globale del web, che mette l’individuo in condizione di entrare in contatto con alterità infinitamente maggiori rispetto a quanto accadesse pochi decenni fa, secondo alcuni Autori, comporterebbe il rischio dell’assunzione, da parte dei giovani, di un’identità “liquida”[30], che viene a definirsi attraverso il confronto con i più disparati modelli identitari, modelli che, per altro, non possono che essere colti in via parziale e mediata, in quanto ciascuno seleziona cosa mostrare di sé e come, tendendo a palesare il sé ideale anziché il sé reale[31].

Ai nostri fini, è bene chiedersi se l’influenza che il nuovo mondo virtuale esercita sui processi identitari in atto in età adolescenziale favorisca le condotte di bullismo e se le stesse tendano ad assumere, nel cyberspazio, connotati più aggressivi e a produrre conseguenze più gravi di quelli che li caratterizzano nelle dinamiche interpersonali offline[32].

Per quanto concerne la propensione alla devianza, agire attraverso la “maschera” del pc o del cellulare, anziché “face to face”, spesso utilizzando uno pseudonimo, da una parte, ingenera nel cyberbullo l’“illusione dell’anonimato” (“illusione” in quanto la polizia postale può risalire quantomeno all’indirizzo IP o MAC da cui è promanato il comportamento) che si traduce in un senso di deresponsabilizzazione, dall’altra, impedisce il contatto visivo con la vittima, determinando l’impossibilità di coglierne le reazioni e gli eventuali segnali espressivi di disagio e diminuendo così fortemente le possibilità di cessazione o moderazione “empatica” degli attacchi[33]. In particolare, diversi studi attestano che il cd. “effetto anonimato” che l’agire online produce sull’utente può favorire l’aggressività. La convinzione di non poter essere individuati, infatti, porta a comportarsi in maniera più disinibita, meno condizionata da convenzioni e norme sociali. Il che può essere positivo, in certe situazioni, poiché consente di discutere liberamente di argomenti anche molto intimi, ma negativo in altre, potendosi tradurre in comportamenti aggressivi che il soggetto non terrebbe nelle relazioni face to face (cd. “disinibizione tossica”)[34].

L’“effetto anonimato”, secondo un’interessante prospettiva che mette in relazione i due aspetti poc’anzi richiamati, si riconnette a diverse caratteristiche delle interazione in rete. La prima caratteristica consiste nella non identificabilità, ossia nella percezione di non poter essere individuati in relazione al contesto di appartenenza (posizione geografica, professione, genere, età, etnia). Talvolta, pur usando il proprio nome o addirittura una propria immagine, l’utente non si sente identificabile, in quanto ritiene impossibile per gli interlocutori risalire alle altre informazioni necessarie per “inquadrarlo”. Altra caratteristica è la non visibilità che ricorre quando ci si rapporta online senza usare la webcam e senza mostrare una propria fotografia. Come nei contesti di vita reale l’invisibilità creata dal buio determina disinibizione, così avviene in rete. Ancora, a contribuire all’effetto anonimato nelle relazioni virtuali è la mancanza di contatto visivo. Anche nelle video-conversazioni, infatti, a ben vedere, non ci si può guardare direttamente negli occhi, in quanto ciascun interlocutore deve scegliere se guardare verso la webcam o verso la parte dello schermo in cui si collocano gli occhi dell’interlocutore, punti che solitamente non coincidono. Un’interessante ricerca per valutare l’incidenza di tali variabili sulla disinibizione tossica e sulla litigiosità ha dimostrato che quella che favorisce maggiormente l’aggressività è proprio la mancanza di contatto visivo[35].

Il dato da ultimo riportato trova conferma nel noto esperimento di Stanley Milgram, volto a studiare la propensione dell’individuo sottoposto ad autorità a compiere azioni che contrastano con la propria coscienza morale. In particolare, i soggetti coinvolti nella ricerca, convinti di partecipare a un test di verifica di un nuovo metodo di potenziamento della memoria, dovevano somministrare (false) scosse elettriche di intensità crescente agli “studenti” che non rispondevano correttamente a domande di rievocazione mnemonica, studenti che, d’accordo con lo sperimentatore, simulavano, in risposta alle scosse, reazioni di dolore sempre più intense. La modifica delle condizioni dell’esperimento ha consentito di valutare l’incidenza di diverse variabili situazionali sulle remore a somministrare scosse potenzialmente mortali nonostante le richieste degli “studenti” si sospendere l’esperimento. Fra gli elementi che maggiormente avevano favorito la somministrazione di scosse di notevole intensità vennero individuati la distanza della vittima e il mancato contatto visivo con la stessa che ne derivava, che impedivano di percepirne i segnali esteriori di sofferenza[36].

Altro esperimento interessante è lo Stanford Prison Experiment, condotto da Philip Zimbardo, in cui ventiquattro studenti sono stati divisi in guardie e prigionieri, ruoli che avrebbero dovuto interpretare per quattordici giorni in un finto carcere. Tuttavia, al sesto giorno lo sperimentatore ha deciso di interrompere l’attività per via dell’escalation di comportamenti aggressivi dei primi nei confronti dei secondi. Le risultanze più interessanti, in relazione al cyberbullismo, consistono nell’incidenza delle regole del gruppo sociale di appartenenza (nello specifico del gruppo delle “guardie”) e della percezione dell’anonimato/impunità del proprio agire (derivante in quel caso dal contesto sperimentale) sulla propensione all’aggressività e alla de-umanizzazione della vittima[37].

Gli studiosi si sono inoltre chiesti se la dimensione cyber favorisca i meccanismi di disimpegno morale, ossia quei processi attraverso i quali un individuo “si autogiustifica”, vale a dire neutralizza o attenua i sensi di colpa e supera la dissonanza cognitiva fra i valori in cui crede e le proprie azioni, disattivando parzialmente o totalmente il controllo morale e mettendosi così “al riparo” da sentimenti di svalutazione e vergogna[38]. Alcuni agiscono sulla condotta immorale, rendendola “più accettabile” tramite il richiamo a principi e valori morali superiori, come la cd. giustificazione morale (es. richiamo alla libertà di espressione),o svilendone il disvalore attraverso la deformazione linguistica, cd. etichettamento eufemistico (es. “era solo uno scherzo”), o, ancora, mettendola a confronto con azioni peggiori, cd. confronto vantaggioso (es. “non ho ucciso nessuno”). Altri meccanismi operano ridefinendo la responsabilità dell’azione compiuta che viene suddivisa tra più persone, cd. diffusione della responsabilità (es. “lo prendevamo in giro tutti”)[39], o riversata su altri, cd. dislocamento della responsabilità (es. attribuzione della colpa alla famiglia, alla scuola, alla società), o minimizzando le conseguenze dannose delle azioni, cd. distorsione delle conseguenze (es. “non pensavo se la prendesse tanto”). Infine, ci sono due meccanismi che si concentrano sulla vittima, la cd. de-umanizzazione della vittima, che consiste nel rappresentare la vittima come “meno umana”, priva di sentimenti, di sensibilità e di dignità, parificata a un essere inferiore che merita di essere vittimizzato, e la cd. attribuzione di colpa alla vittima, per cui la vittima è ritenuta responsabile, colpevole di ciò che le accade e che subisce, avendo “provocato” il suo aggressore[40].

Vicina alla teoria del disimpegno morale poc’anzi richiamata è la teoria criminologica delle neutralizzazioni, che individua fra le cause della delinquenza giovanile meccanismi psicologici di neutralizzazione dei sensi di colpa che consistono nella negazione della responsabilità, che viene attribuita a forze fuori dal proprio controllo (es. “ero ubriaco”), del danno (es. “nessuno si è fatto male”) o della vittima (es. “se l’è meritato, è un poco di buono”), nonché nella condanna dei condannanti (enfasi posta sull’inadeguatezza delle autorità, es. “chi solo loro per giudicarmi?”) e nel richiamo a fedeltà superiori (es. “l’ho fatto per difendere un amico”)[41].

Tali meccanismi di disimpegno morale e di neutralizzazione, spesso efficaci nella spiegazione della devianza minorile face to face, sono stati richiamati a maggior ragione per spiegare la genesi delle condotte devianti in rete, argomentando che il contesto virtuale faciliti la “neutralizzazione” della responsabilità (grazie all’“effetto anonimato”), del danno e della vittima (grazie alla distanza fra agente e conseguenze lesive della propria azione e fra agente e vittima)[42].

Alcune ricerche, al contrario, registrano un ricorso inferiore ai meccanismi di disimpegno morale nei casi di cyberbullismo, che si spiegherebbe sulla base di diverse considerazioni. In primo luogo, il cyberspazio verrebbe percepito come una dimensione ricreativa in cui i comportamenti non vengono vissuti da chi li compie come seri e significativi, e quindi tali da entrare in conflitto con i propri valori tanto quanto i comportamenti tenuti nello spazio reale. In tal senso, si è osservato come la “disinibizione on line”[43], dovuta anche al frequente impiego di pseudonimi, porti i giovani a scindere un sé virtuale, che agisce “liberamente” in rete, dal sé reale che, invece, agisce attenendosi alle norme morali e alle convenzioni sociali.

A ciò si aggiunge che nel mondo virtuale il confine fra lecito e illecito, fra ciò che è moralmente e socialmente approvato e ciò che è riprovevole tende a sbiadire. Se insulti e ostilità in classe sono stigmatizzati dagli insegnanti, in rete rischiano di avere una notevole eco, grazie a “like” apposti superficialmente e alle logiche di visibilità dei contenuti, e quindi di essere interpretati dall’autore come atti meritevoli, fonte di notorietà e successo sociale anziché di stigma. Del resto, il cyberbullismo, al pari del bullismo, è un fenomeno fortemente “sociale”, che si protrae nel tempo nella misura in cui il cyberbullo gode del sostegno del gruppo dei pari, sostegno che determina la sua mancata o affievolita percezione di un “giudizio morale negativo”, proprio e altrui, da “neutralizzare”. In altri termini, il seguito e gli apprezzamenti di cui i post offensivi spesso – malauguratamente – godono sui social trasmettono al cyberbullo l’idea (distorta) che il proprio agire sia lodevole e non moralmente riprovevole.

Ancora, l’assenza di un contatto diretto con il destinatario delle proprie azioni nel cyberspazio ostacola l’istaurazione di un legame empatico fra aggressore e vittima, rendendo così meno accentuati i sensi di colpa e, di conseguenza, non egualmente impellente il ricorso a meccanismi di neutralizzazione e disimpegno morale. Per concludere sul punto – si è osservato persuasivamente che – «nel bullismo elettronico sembra sussistere un’effettiva diluizione morale, ma che si esercita a livello emotivo più che cognitivo»[44].

Infine, vale la pena di sottolineare come la facilità e la velocità dell’azione in rete operino a detrimento della ponderazione dei contenuti creati, condivisi, e, a maggior ragione, apprezzati, in quanto, secondo diversi studi, attiverebbero quello che Daniel Kanehman definisce il sistema 1, ossia il Self intuitivo, che decide rapidamente sulla scorta di impressioni e sensazioni del momento, in luogo del sistema 2, ossia il Self razionale, lento e riflessivo[45].

Per quanto concerne la maggiore dannosità del bullismo online rispetto al bullismo face to face, se è vero che nelle sole dinamiche interpersonali in presenza si può assistere ad aggressioni contro l’incolumità fisica, è altrettanto vero che le offese alla reputazione perpetrate face to face rimangono circoscritte nello spazio e nel tempo, mentre messaggi, video e immagini denigratori inviati o postati attraverso i social media possono avere una diffusione rapidissima e potenzialmente enorme. In tal senso, utilizzando un’efficace metafora, si parla dello snowball effect[46] per indicare che un contenuto immesso in rete, anche mediante l’invio a una sola persona, può repentinamente diventare virale come una palla di neve che si va via via rapidamente ingrandendo nel rotolare giù dal pendio. Inoltre, è nota l’espressione “internet never forgets”, riferita al fatto che anche qualora si rimuova un contenuto dalla sua sede virtuale originaria, non si avrà mai la certezza di averlo eliminato definitivamente, in quanto il destinatario (o i destinatari), o chiunque sia venuto a contatto con esso, può averlo memorizzato o condiviso con terzi o in un altro ambiente del web.

A ciò si aggiunge che nel cyberbullismo le prepotenze possono avvenire ovunque, non solo a scuola o nei pressi della scuola. Il cyberbullo può agire anche da casa e la vittima non è “al sicuro” nemmeno a casa[47]. Ancora, come dimostrano alcuni drammatici fatti di cronaca[48], alla diffusione di immagini e contenuti umilianti o intimidatori possono concorrere soggetti che non conoscono la vittima, che abitano in un’altra città o in un altro Stato.

Infine, tornando al rapporto fra cyberspazio e processi identitari, le offese subite in rete possono avere un notevole impatto emotivo sulla vittima. Dal momento che i giovani di oggi sono “iperconnessi”, ossia vivono in simbiosi con i device elettronici, primo fra tutti lo smartphone, anche i processi identitari, come anticipato, rischiano di avere come set principale la realtà virtuale, il che dimostra la notevole portata offensiva che il cyberbullismo può esplicare sulla vittima e sulla sua autostima. Se infatti i giovani sono abituati a cercare principalmente nelle interazioni con i pari sui social network le risposte alle proprie domande su di sé e sul proprio valore, qualora le risposte siano negative, dalla denigrazione fino all’istigazione al suicidio, è evidente che l’individuo possa percepire come azzerate le proprie chances di costruirsi un’identità e una reputazione di segno positivo[49].

 

  1. Le fattispecie incriminatrici astrattamente applicabili

 

L’evoluzione informatica e social-mediatica ha dato vita a straordinarie opportunità prima impensabili, ma ha fatto altresì insorgere nuove modalità di offesa a beni giuridici meritevoli di tutela e ha amplificato le conseguenze lesive di condotte già penalmente rilevanti. Il legislatore è così intervenuto, in taluni casi, introducendo nuove ipotesi di reato, che puniscono comportamenti resi possibili solo dall’avvento delle nuove tecnologie digitali (si pensi all’accesso abusivo a un sistema informatico o telematico, di cui all’art. 615-ter c.p.), in altri, aggravando il trattamento sanzionatorio nel caso in cui il fatto tipico venga commesso attraverso strumenti informatici o telematici (si pensi agli atti persecutori, ex art. 612-bis, comma 2, c.p.) in ragione della sua maggiore offensività.

Anche gli atti di bullismo, commessi o trasposti in rete, come si è visto, assumono nuove caratteristiche fenomenologiche e ulteriori potenzialità lesive[50]. La l. 71/2017, insieme alle condotte richiamate in maniera esemplificativa e atecnica all’art. 1, comma 2, menziona espressamente nelle sue disposizioni solo l’abrogato delitto di ingiuria (art. 594 c.p.), ora illecito civile, la minaccia (art. 612 c.p.) e l’illecito trattamento di dati personali (art. 167 codice della privacy). Tuttavia, l’elenco delle fattispecie incriminatrici i cui estremi possono essere ravvisati negli atti di cyberbullismo, anche alla luce dell’interpretazione “evolutiva” condotta dalla giurisprudenza in aderenza al nuovo contesto social-mediatico, è ben più ampio[51]. Nel presente paragrafo ci si propone di passare in rassegna quelle più frequentemente integrate.

Partendo dagli atti di cyberbullismo che incidono sulla reputazione della vittima, va richiamato anzitutto il delitto di diffamazione[52], espressamente richiamato dalla l. 71/2017, integrato, ad esempio, ogniqualvolta venga pubblicato in un social network o comunque in rete un contenuto (testo, immagine, fotografia, video) idoneo a offendere la reputazione di taluno[53]. La condotta deve essere tenuta in assenza della persona offesa, requisito, quest’ultimo, che differenzia la diffamazione dall’ingiuria[54] (ex art. 594 c.p., parimenti richiamata dalla l. 71/2017, benché depenalizzata nel 2016[55]) e che non deve essere inteso in senso rigorosamente fisico-spaziale – precisa la giurisprudenza – ma come incertezza circa l’immediata percezione dell’addebito diffamatorio[56]. In altri termini, sebbene fra i potenziali fruitori del contenuto offensivo diffuso mediante internet vi sia anche la persona offesa, ciò non depone nel senso di ricondurre la condotta all’illecito civile di ingiuria, anziché al delitto di diffamazione, in quanto, la percezione dell’offesa è solo eventuale, mancando la certa compresenza di agente e soggetto vilipeso[57]. Qualora invece l’offesa venga diretta, ad esempio tramite sistemi di messaggeria istantanea, al destinatario, anche in una chat di gruppo – secondo un recente orientamento – non ricorre diffamazione ma ingiuria, in quanto l’offeso è posto in condizione di potersi immediatamente difendere[58]. La diffamazione è aggravata, a norma del terzo comma dell’art. 595 c.p., fra l’altro, quando l’offesa è recata con un qualsiasi «mezzo di pubblicità», categoria cui, sulla base di un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, vanno ricondotte le piattaforme social e la rete in generale, dal momento che i contenuti che vi sono veicolati possono avere una diffusione potenzialmente enorme[59].

La reputazione va indubbiamente annoverata fra i beni giuridici tutelati dal nuovo delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, di cui all’art. 612-ter c.p. (cd. “revenge porn[60]), sebbene tale fattispecie sia stata inserita nella Sezione III, Capo III, del Titolo XII, dedicata ai delitti contro la libertà morale. È infatti indubbio che le condotte punite, che consistono nell’invio, nella consegna, nella cessione, nella pubblicazione e nella diffusione di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito[61], destinati a rimanere privati, senza il consenso della persona rappresentata, possano avere un notevole impatto sulla reputazione di quest’ultima[62].

In particolare, la norma contempla due ipotesi criminose che si differenziano sulla base della “genesi” dei contenuti sessualmente espliciti: nella prima sono stati realizzati o sottratti dall’agente, che è punito a prescindere dal fine per il quale li ha ceduti o ne ha dato diffusione (comma 1); nella seconda, l’agente ha ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video ed è punito solo qualora abbia agito al fine di recare nocumento alla persona raffigurata (comma 2). Questa seconda ipotesi, a ben vedere, è destinata a trovare applicazione in tutti i casi in cui il contenuto sessualmente esplicito sia stato autoprodotto e trasmesso ab origine dalla stessa persona raffigurata, nell’ambito di un fenomeno piuttosto diffuso fra i giovani (e non solo), il cd. sexting. Tale neologismo indica l’invio di messaggi (text) di contenuto erotico (sex) che possono includere anche immagini e video[63]. Qualora tali contenuti vengano ceduti a terzi o pubblicati senza il consenso esplicito della persona raffigurata e, come avviene in caso di cyberbullismo, al fine di recarle nocumento[64], verrà integrata la fattispecie in esame[65].

È bene precisare che, nei casi, presumibilmente più rari, di cessione o diffusione di materiale pornografico relativo a un minore che l’agente stesso abbia realizzato, per effetto della clausola di riserva (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”) posta all’incipit dell’art. 612-ter c.p., anziché il primo comma di detta norma, potrebbe trovare applicazione la più grave ipotesi di pornografia minorile di cui all’art. 600-ter, comma 4, c.p.[66], che invece, secondo l’orientamento prevalente[67] della Corte di Cassazione, non opera, poiché altrimenti si assisterebbe a un’interpretazione analogica in malam partem, nei casi in cui il materiale pedopornografico ceduto o diffuso senza il consenso della persona rappresentata sia stato prodotto dalla stessa (ipotesi ora coperta dall’art. 612-ter, secondo comma, c.p.), difettando il requisito di fattispecie dell’utilizzo del minore per la sua realizzazione previsto dal comma 1 dell’art. 600-ter c.p. cui il comma 4 rimanda[68].

Fra le degenerazioni abusive e penalmente rilevanti del sexting merita di essere menzionata anche la fattispecie di violenza sessuale, di cui all’art. 609-bis c.p. Le condotte tipiche di costrizione a compiere atti sessuali mediante minaccia (comma 1) e di induzione a compiere tali atti abusando della condizione di inferiorità fisica o psichica o sostituendosi ad altra persona (comma 2) possono infatti essere messe in atto anche “a distanza”, costringendo o inducendo la persona offesa a compiere “in diretta”, tramite videochat o webcam, atti di autoerotismo o a realizzare e inviare immagini o video raffiguranti tali atti[69]. Anche qualora il compimento di atti di autoerotismo e l’eventuale invio di immagini o video a essi relativi non sia avvenuto per effetto di minaccia o di induzione con approfittamento dell’altrui inferiorità ma spontaneamente, il fatto potrebbe integrare il delitto di atti sessuali con minori di cui all’art. 609-quater c.p. ove la persona che li compie abbia meno di quattordici anni (salvo che abbia compiuto i tredici anni e anche il “destinatario” sia minorenne)[70].

Per sottolineare l’attinenza al tema del cyberbullismo delle fattispecie poc’anzi richiamate, e in particolare della diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, è interessante osservare come, prima dell’introduzione dell’art. 612-ter c.p., la casistica che la fattispecie ricomprende venisse ricondotta ora al delitto di diffamazione[71] ora al delitto di illecito trattamento di dati personali di cui all’art. 167 codice della privacy[72], espressamente richiamati dalla l. 71/2017. Quest’ultima fattispecie, posta a tutela del diritto alla protezione dei dati personali, ricorre infatti ogniqualvolta taluno[73] “tratti” – ossia, fra l’altro, estragga, usi, comunichi, trasmetta, diffonda – dati altrui, senza il consenso del soggetto cui tali dati si riferiscono, al fine di trarre per sé o per altri profitto ovvero di danneggiare l’interessato, arrecandogli così nocumento[74]. Si tratta di un delitto che, in forza della nozione ampia di nocumento adottata dai giudici di legittimità, quale «insieme delle conseguenze negative in senso lato, ivi comprese le ripercussioni sgradevoli o disonorevoli»[75] e dell’interpretazione estensiva che viene data alla finalità di profitto – oggetto del dolo specifico – come avente natura anche non patrimoniale, potrebbe ricorrere in caso di sottrazione, trasmissione e condivisione da parte del cyberbullo di dati della vittima, vale a dire informazioni, ma anche immagini o video[76], a esclusione di quelli sessualmente espliciti la cui diffusione, come si è detto, ricade oggi nella nuova previsione incriminatrice di cui all’art. 612-ter c.p.[77].

Passando agli atti di cyberbullismo che offendono principalmente la libertà morale, viene in rilievo il delitto di minaccia di cui all’art. 612 c.p., espressamente menzionato dalla l. 71/2017 e posto a tutela, in particolare del «diritto a starsene quieti e sicuri»[78]. La nozione tecnica di minaccia è quella di prospettazione ad altri di un male ingiusto, il cui verificarsi dipende dall’autore della minaccia. Il primo comma dell’art. 612 c.p. punisce con la multa la minaccia “semplice”, che si distingue dalla minaccia aggravata, di cui al secondo comma, in quanto quest’ultima è “grave” – ossia tale da aver determinato, anche in considerazione del contesto in cui è profferita, un turbamento psichico di notevole entità[79] – o viene realizzata con armi o da più persone riunite. Si tratta di un reato di pericolo che si perfeziona quando la prospettazione, potenzialmente idonea a incidere sulla libertà psichica del destinatario, giunge, con qualsiasi modalità, a conoscenza di quest’ultimo, a prescindere dal fatto che egli ne rimanga effettivamente intimidito.

Quando la condotta consiste in minacce o molestie reiterate, che ingenerino nella persona offesa un perdurante e grave stato di ansia o di paura o un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o che la costringano ad alterare le proprie abitudini di vita, si configura la fattispecie di atti persecutori (o stalking) di cui all’art. 612-bis c.p. Si tratta di un reato abituale, ossia per la cui integrazione non è sufficiente una condotta isolata, ma occorre una reiterazione di condotte di minaccia o di molestia, laddove la minaccia va intesa nel senso già illustrato e la molestia consiste in un modo di agire pressante e indiscreto, tale da interferire sgradevolmente nella sfera privata altrui[80]. Il bene giuridico tutelato consiste in quella declinazione della libertà morale che si sostanzia nella libertà da intrusioni moleste e assillanti, da ansie, timori eccessivi e turbamenti idonei a stravolgere l’equilibrio psicologico di chi li prova[81].

In caso di cyberbullismo, la fattispecie si applicherà in forma aggravata, in quanto la norma dispone che la pena è aumentata se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici (cd. cyberstalking)[82], ad esempio attraverso l’invio di messaggi e/o la pubblicazione di post di carattere intimidatorio[83], e se il fatto è commesso a danno di un minore (in tal caso la pena è aumentata fino alla metà).

Trattandosi, secondo l’interpretazione prevalente, di un reato di danno, non di pericolo, è necessario, affinché il comportamento possa essere sussunto nella fattispecie di atti persecutori, che dal fatto derivi almeno uno dei tre eventi descritti dalla norma. Il più facile da accertare è la costrizione al cambio di abitudini. Si pensi, con riferimento al cyberbullismo, alla reiterata pubblicazione di post denigratori e minacciosi attraverso i social network che costringa la vittima a eliminare il proprio account. Maggiori criticità sotto il profilo probatorio ricorrono in relazione al fondato timore per l’incolumità propria o di un congiunto, nonché allo stato di grave e perdurante ansia e paura che richiedono l’accertamento di un evento di natura psichica e del suo legame causale con la condotta del cyberbullo[84]. È interessante sottolineare come, proprio al fine di contrastare i fenomeni di bullismo, sia stata avanzata la proposta di modificare l’art. 612-bis c.p. nel senso di aggiungere fra gli eventi alternativi che devono scaturire dalle molestie e/o minacce reiterate la riduzione della vittima in condizione di emarginazione[85].

Nel novero delle fattispecie che puniscono condotte con effetti destabilizzanti sull’equilibrio psichico della vittima, merita un cenno anche la contravvenzione di molestia, ex. art. 660 c.p., inserita nella sezione dedicata alle contravvenzioni contro l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica. La norma punisce chi reca molestia o disturbo a taluno per petulanza o altro biasimevole motivo, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono. La Corte di Cassazione ha statuito che chi posta contenuti offensivi, inequivocabilmente rivolti a una persona, su una pagina facebook aperta a tutti integra il reato in esame non tanto per l’assimilabilità della comunicazione telematica alla comunicazione telefonica, quanto per la natura di facebook quale «luogo virtuale» aperto all’accesso di chiunque utilizzi la rete e quindi assimilabile a un luogo pubblico[86]. Le stesse considerazioni possono essere estese alle altre piattaforme social e a tutti gli spazi del web open access.

Proseguendo con la disamina, gli episodi di cyberbullismo che hanno avuto maggiore eco mediatica sono stati quelli con esito fatale, ossia che hanno portato la vittima a togliersi la vita (cd. bullycide). La fattispecie che viene in rilievo in tali casi è l’istigazione al suicidio, di cui all’art. 580 c.p., delitto contro la vita e l’incolumità che ricorre quando l’agente determina la vittima al suicidio o ne rafforza il proposito suicidario purché questa effettivamente si suicidi o, nel tentare di suicidarsi, si provochi una lesione personale grave o gravissima.

Alcuni recenti casi di cronaca, legati al cyberbullismo e ad altri allarmanti fenomeni che coinvolgono i giovani (come il suicide game chiamato Blue Whale) hanno portato gli studiosi a interrogarsi sulla possibilità di punire l’istigazione al suicidio a titolo di tentativo[87], ossia anche nei casi in cui la vittima, pur tentando il suicidio, grazie al sopravvenire di interventi salvifici, non riporti lesioni o riporti lesioni lievi. Tuttavia, in tema di istigazione, la scelta del legislatore è stata quella di punire, quale forma di concorso morale nel reato (ex. art. 110 c.p.), la sola istigazione a commettere un reato accolta dal destinatario (art. 115, comma 3, c.p.), mentre solo in via eccezionale e tassativa, ossia nei casi espressamente previsti, è punita la mera istigazione (artt. 266, 302, 414, 414-bis, 415 c.p.) e, nei termini stringenti di cui all’art. 580 c.p., l’istigazione a compiere atti autolesivi. In tal caso, il legislatore, secondo una recente interpretazione giurisprudenziale, avrebbe fissato quale soglia minima di rilevanza penale le lesioni gravi riportate dalla persona offesa, escludendo ulteriori anticipazioni della tutela derivanti dall’applicazione della disciplina del tentativo[88]. Sulla scorta di tali considerazioni, ad esempio, nei casi di Blue Whale in cui la vittima, pur convinta dal “curatore” a praticarsi tagli sul corpo e a salire sul cornicione determinata a togliersi la vita, non abbia poi realizzato il proprio intento grazie all’intervento di terzi, esclusa la sussistenza di istigazione al suicidio[89], sono state formulate a carico dell’agente imputazioni alternative, quale quella di atti persecutori (art. 612-bis c.p.) e quella di violenza privata (art. 610 c.p.) [90].

Infine, in casi limite, potrebbero ricorrere negli atti di cyberbullismo gli estremi del nuovo delitto di tortura di cui all’art. 613-bis c.p., che punisce «chi con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». La fattispecie, introdotta sulla scia della risonanza mediatica che hanno avuto gravi violenze perpetrate nei confronti di detenuti (uno fra tutti il caso Cucchi) potrebbe essere integrata dal cyberbullo che inviasse e/o pubblicasse sistematicamente contenuti intimidatori rivolti a un compagno in condizioni di minorata difesa, ad esempio per le sue caratteristiche personali (si pensi a un soggetto portatore di handicap o vulnerabile per altre ragioni), cagionandogli così «acute sofferenze psichiche o un verificabile trauma psichico»[91].

Esempi di circostanze aggravanti che potrebbero qualificare i reati integrati al cyberbullo sono la cd. minorata difesa, di cui all’art. 61, n. 5, c.p., che ricorre quando l’agente ha profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa (si pensi alle vittime particolarmente vulnerabili per la propria giovanissima età o le proprie caratteristiche caratteriali o disabilità), e l’aggravante di odio razziale, di cui all’art. 604-ter c.p., che si applica quando il reato è commesso per finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso.

Altre fattispecie potrebbero venire in gioco nel corso delle attività lato sensu prodromiche o strumentali al compimento di atti di cyberbullismo. Ad esempio, talvolta tali atti vengono posti in essere usando un “account fake”, ossia creato in modo da non consentire l’immediata identificazione dell’utilizzatore. Se l’account rimanda chiaramente a un’altra persona (poiché ad es. ne viene utilizzato il nome, il soprannome o una fotografia), la condotta potrebbe integrare il delitto di sostituzione di persona ex art. 494 c.p.[92]. Se il cyberbullo si introduce abusivamente nel sistema informatico (computer, smartphone, casella mail o account di social network) della vittima – immaginiamo per estrarre immagini o per postare contenuti offensivi – o di altri (ad esempio di un compagno dal cui account agire per far ricadere su di lui la responsabilità), il reato integrato è l’accesso abusivo a sistema informatico, di cui all’art. 615-ter c.p.[93]. Ancora, se il cyberbullo diffonde immagini o video senza il consenso della persona raffigurata dopo essere stato lui stesso a realizzarli «mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora» (come uno smartphone) e in «momenti attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi» di privata dimora (i bagni della scuola e gli spogliatoi della palestra, ad esempio, potrebbero essere ricondotti alla nozione lata di “privata dimora” adottata dalla giurisprudenza[94]), può incorrere nel reato di interferenze illecite in vita privata, ex art. 615-bis c.p. Come ultimo esempio, si pensi al cyberbullo che, una volta fatto accesso al dispositivo o al profilo social della vittima, con o senza il suo consenso, cancelli o alteri arbitrariamente dati o contenuti di sorta. In tal caso si configurerebbe il reato di danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici, previsto all’art. 635-bis c.p., norma che punisce chiunque «distrugge, deteriora, cancella, altera o sopprime informazioni, dati o programmi informatici altrui»[95].

 

  1. Considerazioni in tema di imputabilità del cyberbullo

 

L’approfondimento dei profili criminologici e giuridico-penali del cyberbullismo non può prescindere da qualche cenno in tema di imputabilità dei minori.

Se infatti è vero che con la l. 71/2017 il legislatore ha condivisibilmente optato per una strategia che fa leva su strumenti preventivi e inibitorio-cautelari, anziché sulla sanzione penale, la configurabilità, almeno in astratto, di numerose fattispecie incriminatrici negli atti del cyberbullo, la notevole potenzialità lesiva di tali atti e le proposte di legge volte ad abbassare l’età imputabile[96] rendono opportuno soffermarsi brevemente sulla capacità dei minori di cogliere il disvalore della propria condotta deviante e sull’influenza che l’attuale contesto digitale e social-mediatico esercita su detta capacità secondo interessanti studi psicologici, sociologici e neuroscientifici.

Come noto, l’art. 97 del codice penale prevede per gli infra-quattordicenni una presunzione assoluta, iuris et de iure, di non imputabilità. Pertanto, qualora il cyberbullo al momento del fatto non avesse compiuto i quattordici anni, l’istaurazione di un procedimento penale a suo carico è legislativamente esclusa, potendo il giudice, al più, in casi limite, applicare al minore, purché risulti certamente autore del fatto addebitatogli e socialmente pericoloso, una misura di sicurezza[97]. Per quanto concerne la fascia d’età che va dai quattordici ai diciassette anni, invece, il legislatore, all’art. 98, non ha previsto alcuna presunzione, attribuendo al giudice il compito di accertare caso per caso la capacità di intendere e di volere del minore al momento del fatto e in relazione al fatto[98]. Detta capacità, con riferimento ai minori, viene tradizionalmente fatta coincidere il concetto di “maturità mentale”[99], intesa quale «capacità di comprendere adeguatamente gli elementi di una scelta comportamentale e di controllare le componenti emotive e motivazionali»[100].

Prima dell’introduzione del D.P.R. n. 448 del 1988, per evitare l’ingresso dei minori nel circuito penale, la giurisprudenza tendeva a fare frequente ricorso al proscioglimento ex art. 98 c.p. per difetto di imputabilità, individuando, paradossalmente, nella stessa condotta criminosa il principale indice di mancata socializzazione e di immaturità e abdicando così, sostanzialmente, a quell’accertamento in concreto che la norma impone al giudicante[101]. Con l’introduzione della nuova disciplina del processo penale minorile, il giudice può pronunciare sentenza di non luogo a procedere in caso di irrilevanza del fatto (art. 27 del D.P.R.) o sospendere il processo per mettere alla prova il minore (art. 28 del D.P.R.) con conseguente estinzione del reato in caso di esito positivo della prova, evitando così al minore la condanna e i suoi effetti stigmatizzanti e talvolta addirittura criminogeni. In tale nuovo contesto, l’accertamento della capacità di intendere e di volere, lungi dall’essere sostanzialmente obliterata come avveniva in passato, viene condotto con scrupolo, svolgendo specifiche indagini sulle condizioni e le risorse personali, familiari, sociali e ambientali del minore, prescritte in via obbligatoria dall’art. 9 del D.P.R. n. 448, e avvalendosi, eventualmente[102], della collaborazione di esperti in pedagogia, psicologia, sociologia e criminologia[103].

Parallelamente a tale evoluzione si è assistito al graduale superamento, a partire dagli anni Settanta, della precedente tendenza a «sposare il mito del pauperismo economico con l’incapacità»[104], ossia dell’idea che l’inadeguatezza dell’ambiente familiare e sociale si riflettesse automaticamente nell’inadeguatezza/immaturità dei giovani che vi crescono. Si è così assistito all’istaurazione di un «“doppio registro”, che individua il giudizio sull’imputabilità come un esame complesso che non può fare a meno della valutazione dei fattori psicologico-individuali, nel determinare, in concreto, lo sviluppo della personalità del minore». Oggi si ritiene pertanto che «la capacità di intendere e di volere dell’imputato vada assunta sotto un doppio aspetto, “esogeno ed endogeno”: il primo trae le basi dall’ambiente familiare e micro-sociale nel quale ha vissuto l’imputato, mentre il secondo profilo trova riscontro nella sua immaturità psicofisica»[105].

Partendo dagli aspetti endogeni del giudizio, gli studi di psicologia evolutiva tendono a ravvisare il raggiungimento della maturità da parte del minore nel «compimento del processo di maturazione a livello fisico, con l’adeguato sviluppo dell’organismo psichico, comprensivo della componente emotiva e di quella cognitiva, morale, con il raggiungimento dell’autonomia per avvenuta interiorizzazione dell’obbligazione, e sociale, con la capacità di interagire con i propri simili a partire dalla comune accettazione di norme super-individuali». Di conseguenza, «ogni deficienza o ritardo nei processi di integrazione dei vari tratti della personalità in ordine all’età cronologica decide il grado di immaturità, che può essere globale o relativa a uno degli aspetti che connotano la maturità complessiva»[106]. In tal senso, nella letteratura psichiatrico-forense vengono distinti quattro tipi di maturità: biologica (armonico sviluppo del corpo); affettiva (capacità di controllare le pulsioni e di integrare, incanalare ed esprimere le emozioni); intellettiva (capacità di utilizzare la dotazione intellettiva per affrontare e risolvere i problemi dell’esistenza); sociale-relazionale (capacità di adattamento alla realtà, di inserimento sociale gratificante e assertività)[107].

Gli esperti mettono in evidenza la mancanza di «sicuri indicatori sui quali il tecnico si possa obiettivamente fondare per formulare un siffatto giudizio, che rimane sempre e solo affidato alla capacità, all’abilità, alla preparazione, alla sensibilità e alla serietà dell’osservatore»[108]. Esistono tuttavia alcuni test in grado di fornire dati indicativi che andranno sempre messi in correlazione con le altre valutazioni destinate a concorrere all’accertamento complessivo.

Il Risk Sophistication Treatment-Inventory (RST-I)25, ad esempio, è uno strumento che studia il grado di maturità del minore in relazione a tre parametri: la sua autonomia, la sua maturità cognitiva e la sua maturità emotiva. L’autonomia viene valutata osservando l’indipendenza da genitori e coetanei nel prendere decisioni e la capacità di riconoscere le motivazioni alla base dei propri comportamenti. Per verificare la maturità cognitiva si guarda alla capacità di riconoscere l’esistenza di norme condivise e di comprenderne la funzione per la società, di prevedere gli effetti delle proprie azioni, nonché di identificare azioni alternative rispetto a quanto messo in atto e di regolare il proprio comportamento sulla base di una adeguata anticipazione delle prevedibili conseguenze. Infine, la maturità emotiva dipende dalla capacità di ritardare la gratificazione, dalla possibilità di esercitare qualche forma di controllo sulla propria vita emotiva, dalla tollerabilità dei conflitti e delle ambivalenze e dal modo di entrare in relazione con gli altri[109].

Qualora uno degli “indicatori” di immaturità sia presente, esso inciderà nel giudizio non automaticamente[110], ma tenendo conto delle sue ricadute complessive «sulla crescita del minore, sul suo bilancio evolutivo, cioè a dire i livelli maturativi da lui raggiunti rispetto ai sistemi psico-sociali più ampi e complessi del minore; […] sulle sue competenze cognitive-sociali, emotive al momento dei fatti; sulle capacità soggettive del minore di anticipare, comprendere e sostenere le conseguenze sociali e giudiziarie del fatto di reato commesso; […] sulla capacità/incapacità del/della minore di svincolarsi dalle dinamiche di gruppo o di coppia nel/nella quale e/o con il quale/la quale è stato commesso il reato, ecc.»[111]. In altri termini, «la maturità è “accertabile” ogniqualvolta un soggetto, pur assediato da fattori perturbanti, è in grado tuttavia di mantenere integro un nucleo che garantisce una certa autonomia della sfera emotivo-affettiva-istintiva e di quella dell’integrazione sociale»[112].

Negli ultimi decenni anche le neuroscienze hanno dato un importante contributo alla comprensione dei processi di maturazione psico-fisica dei giovani facendo luce, in particolare, sugli aspetti neurobiologici[113]. Gli studi neuroscientifici condotti sullo sviluppo cerebrale in età adolescenziale dimostrano che in tale fase permane una fisiologica immaturità, in quanto vi sono alcune aree dell’encefalo in corso di sviluppo. In particolare, a essere interessate da processi di rimodellamento sono la corteccia prefrontale e il sistema limbico, rispettivamente deputati all’autoregolazione emozionale e cognitiva. Il sistema limbico tende a evolversi più rapidamente della corteccia cerebrale, portando a quello che viene definito effortful control, termine utilizzato per indicare un’eccessiva rapidità nell’attivazione emozionale, specie di carattere aggressivo, accompagnata dalla mancanza di capacità di autoregolazione cognitiva. Ciò spiega la spiccata reattività emotiva dei giovani, che «si manifesta nell’estrema sensibilità agli stimoli sociali, il cd. “dramma sociale degli adolescenti”, e nell’intensa risposta ai rinforzi positivi e alle gratificazioni»[114], ma anche nella ricerca di esperienze ed emozioni “forti”. Solo con il pieno sviluppo della corteccia cerebrale, che, per il suo ruolo, viene definita “regista del comportamento”, il soggetto riesce a gestire al meglio le attivazioni emotive e affettive che promanano dal sistema limbico.

Con riferimento all’agire online, alcune ricerche neuroscientifiche sembrano dimostrare come, se un uso equilibrato di device elettronici e videogame può potenziare le ragioni cerebrali responsabili dell’attenzione, delle abilità visuo-spaziali e delle capacità motorie, un uso eccessivo, soprattutto durante l’infanzia, può modificare il funzionamento e alterare le strutture dell’encefalo. Inoltre, i videogiochi con trame violente possono provocare alterazioni biochimiche a livello neuro-trasmettitoriale a carico della noradrenalina, influenzar

Lamanuzzi Marta



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