fbevnts Nonmarital relationships: from the practice to the regulation and the possibility of a unitary interpretation

I rapporti di convivenza: l’evoluzione del fenomeno, dalla prassi al recepimento normativo, e la possibilità di una chiave di lettura unitaria

26.10.2023

Chiara Prussiani*

 

I rapporti di convivenza: l’evoluzione del fenomeno, dalla prassi al recepimento normativo, e la possibilità di una chiave di lettura unitaria**

 

English title:Nonmarital relationships: from the practice to the regulation and the possibility of a unitary interpretation

DOI: 10.26350/18277942_000147

 

Sommario: 1. Il quadro d’indagine. 2. L’emersione del fenomeno giuridico delle convivenze nel segno della solidarietà. 3. La rilettura solidaristica degli elementi costitutivi della fattispecie “convivenza”. 4. (Segue) … e della disciplina relativa ai conviventi. 5. Nuove prospettive di trattamento per le relazioni affettive di fatto. 6. Alcune considerazioni intorno agli orizzonti futuri delle convivenze similconiugali.

 

1. Il quadro d’indagine

 

Negli ultimi decenni la realtà è venuta ad aprirsi a forme di vita convissuta, che, pur ricalcando il sostrato del vincoloconiugale, si svolgono sul piano del mero fatto. Il fenomeno non è nuovo, anche se nel tempo ha attraversato fasi controverse. Superato un iniziale atteggiamento di ostilità, o comunque di diffidenza, si constata ai giorni nostri un trend crescente ad instaurare rapporti di convivenza prima del matrimonio, o in alternativa ad esso [1].

Le coppie di fatto sono emerse dall’oscurità giuridica come convivenze “more uxorio”, attraverso interventi normativi di settore e con il contributo, altresì, del diritto vivente. L’assetto è stato inciso, di recente, dalla legge 20 maggio 2016, n. 76, che ha regolato la convivenza di fatto in senso proprio, configurandola quale rapporto che, pur presentando un nucleo comune con la convivenza more uxorio, si ritaglia tra “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile” (art. 1, comma 36).

Il quadro attuale ospita così due grandi ordini di convivenze, quelle regolamentate e quelle semplici. Questo secondo gruppo di convivenze, in particolare, annovera i soggetti che non possono riconoscersi nella definizione tipica di conviventi di fatto, perché già impegnati in una relazione di coniugio con terzi, minorenni oppure non aventi piena capacità d’agire, o, ancora, perché legati da vincoli di parentela o affinità, quanto meno quelli per cui il codice civile non contempla la dispensa in caso di matrimonio. La distinzione si riflette sotto il profilo della disciplina, giacché le convivenze regolamentate risultano sottoposte alla legge n. 76 del 2016 e, per quel che resta, alla disciplina previgente, mentre le altre conservano rilevanza secondo i canoni precedentemente consolidati per le convivenze more uxorio. Ciò a dire che la novella ha preso forma dall’esigenza di dare una disciplina positiva e unitaria ai rapporti di fatto, ma l’aspirazione è rimasta in buona parte nella penna [2]. Il discorso perde, per certi versi, di consistenza laddove si consideri che il legislatore si è limitato, per la maggior parte, a raccogliere in un unico testo le attribuzioni già previste in forma sparsa nell’ordinamento, mentre poche sono le novità introdotte con la legge n. 76/2016.

Il tratto di strada fin qui compiuto, sebbene sconti la presa d’atto che l’evoluzione del tessuto sociale è inarrestabile, pare sufficiente per avviare alcune riflessioni. Nella presente analisi ci si appresterà a indagare il processo che ha condotto le convivenze ad acquisire effetti sul piano giuridico, muovendo dalla constatazione, condivisa dai più, secondo cui questo novero di relazioni è uscito dall’anomia sotto il principio di solidarietà. Significa che la convivenza è stata ritenuta meritevole di tutela in quanto sodalizio tra due persone unite da un legame solidaristico e di profonda affezione; ad un tempo, la solidarietà si è proiettata sulla disciplina del rapporto, individuando la cifra attraverso cui riguardare il fenomeno delle convivenze nel suo complesso.

Ricostruito il fenomeno delle convivenze secondo questa chiave di lettura, l’indagine sarà indirizzata a sondare le nuove prospettive. Mette conto osservare, infatti, che l’approccio solidaristico, se in passato ha consentito di ritagliare spazio alle coppie di fatto, oggi alimenta la spinta ad allargare il raggio della tutela fuori e oltre il perimetro vigente, chiamando l’interprete a interrogarsi sugli orizzonti futuri dentro un’ottica di tenuta del sistema [3].

2. L’emersione del fenomeno giuridico delle convivenze nel segno della solidarietà

 

Nel nostro ordinamento la convivenza sentimentale, sia essa regolamentata o meno, è venuta ad assumere rilevanza in quanto si estrinseca in una cohabitation sans mariage. La stessa si mantiene, ad un tempo, “altro” dal matrimonio, giacché i conviventi rifiutano di formalizzare la propria unione con il compimento dell’atto negoziale, e, per l’effetto, non assumono lo status di coniuge.

La questione non è di mero ordine formale, poiché la convivenza, proprio in quanto prescinde da un’investitura esterna, presuppone che la volontà di stare insieme sia rinnovata giorno per giorno; quanto meno, è fatta riserva della possibilità di revocare tale volontà in ogni momento, senza formalità. Il consenso che alimenta il rapporto di fatto costituisce così il fondamento e, ad un tempo, il limite della relazione, colorando la convivenza all’insegna di un tratto di intrinseca precarietà o, quanto meno, di minore stabilità rispetto al vincolo di coniugio.

Le differenze tra la convivenza e il vincolo coniugale valgono a giustificare l’applicazione di trattamenti non omogenei [4]. Logico corollario è che risulta inibito il ricorso all’analogia, salvo quelle ipotesi in cui è dato riscontrare caratteristiche tanto comuni tra le situazioni messe a confronto da postulare un’identità di disciplina. In questi frangenti, appare fondato il controllo di ragionevolezza alla luce dell’art. 3 Cost., onde rimediare al vulnus che altrimenti verrebbe recato al principio di uguaglianza [5].

Stando così le cose, il fenomeno delle convivenze similconiugali trascende una pretesa assimilazione al rapporto di coniugio, pena il rischio di ledere la libera autodeterminazione delle parti. La copertura della convivenza è ricercata altrove e, sul terreno della riflessione costituzionale, è individuata all’art. 2 Cost. Si ravvisa nei rapporti affettivi stabili, ancorché di fatto, la costituzione di formazioni sociali idonee a ospitare lo sviluppo della personalità umana, legittimando la pretesa di vedere rispettate le istanze più profonde dei partner. La convivenza, d’altro canto, trova un sostegno anche nella parte in cui l’ordinamento richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà [6].

Il principio solidaristico, in sinergia con il principio personalista, offre dunqueil sostrato per inquadrare i cambiamenti che si sono succeduti nelle relazioni sociali dentro un ambiente costituzionalmente protetto, nel quale gli stessi possono assurgere a realtà giuridica. Il rilievo della solidarietà, segnatamente, si spiega in quanto quest’ultima esprime un concetto di “cooperazione e si caratterizza per una valenza etica, identificandosi con un’ “ideale di partecipazione piena all’altrui vicenda” che non può non assumere aspetti di reciprocità. La persona è inseparabile dalla solidarietà che non può essere pertanto limitata alla sfera dei rapporti economici dato che il principio solidaristico, oltre a svolgere una funzione emancipatoria ed a garantire l’adempimento dei doveri del singolo verso la comunità, assume valenza anche nei rapporti interindividuali[7]. Il valore della solidarietà, in altre parole, rientra “tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, tanto da essere solennemente riconosciuto e garantito, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, dall’art. 2 della Carta costituzionale come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente[8].

L’orientamento riferito si è fatto strada nella giurisprudenza delle Supremi Corti, chiamate a pronunciarsi sulle pretese avanzate dai conviventi nei diversi settori dell’ordinamento [9]. I giudici si sono misurati inizialmente con le coppie eterosessuali; ben presto, la lente si è allargata alle coppie same sex, che sono state riportate sotto la nozione costituzionalmente rilevante di formazione sociale intesa come “ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico[10]. Lo stesso orientamento trova, oggi, conferma nella legge n. 76 del 2016 [11]. Malgrado sia riservata alle unioni civili la qualificazione di formazione sociale ai sensi dell’art. 2 Cost., pur restando inespresso il richiamo al principio della solidarietà, sembra infatti ragionevole ritenere che la novella valga a inquadrare negli stessi termini anche il fenomeno delle convivenze regolamentate [12].

Va precisato, per bisogno di completezza, che, nell’arco del tempo, la formula “convivenza more uxorio” è stata soppiantata da quella di famiglia di fatto, utilizzata per designare relazioni aperte perlopiù alla presenza di figli (almeno di uno dei conviventi). Questo mutamento, oltre ad avere una valenza terminologica, sottende una più profonda riflessione intorno alla possibilità di ravvisare una dimensione “familiare” fuori dal matrimonio. L’art. 29 Cost., come si ricorderà, riconosce la famiglia come società naturale radicata nel matrimonio, mentre, secondo la lettura originalista, lascerebbe fuori dalle garanzie offerte ogni altro aggregato socialmente apprezzabile. Negli anni, si è posto il problema di capire se questa impostazione sia ancora predicabile, oppure vada attualizzata così da far rientrare nell’art. 29 Cost. anche la convivenza paraconiugale [13]. Se la prassi, da un lato, si è aperta alla nozione di famiglia di fatto, il legislatore, dall’altro lato, si è astenuto dall’indicare le coppie di fatto come famiglia, anche da ultimo con la legge n. 76 del 2016.

I termini del discorso, ad ogni modo, non sembrano scardinare i presupposti della presente analisi. La convivenza denota la scelta di sottrarsi alla regolamentazione prevista per la famiglia fondata sul matrimonio, mostrandosi refrattaria ad una sostanziale equiparazione [14]. Si conferma, così, il convincimento secondo cui essa rivendicherebbe un riconoscimento suo proprio nel segno della solidarietà e della garanzia dei diritti fondamentali della persona. Ciò anche laddove la convivenza passi sotto l’indicazione di famiglia di fatto; tale espressione, anzi, avrebbe l’effetto di enfatizzare l’idea secondo cui il nucleo costituzionalmente protetto nella convivenza sarebbe dato dalla affectio familiaris, ovvero dal sentirsi famiglia [15], in quanto luogo improntato a “un insieme di valori di stretta solidarietà, di spessore più ampio di quelli di cui era portatrice la mera convivenza come coniugi, e che possono quindi trovare rilievo solo in una famiglia, anche se di fatto[16].

3. La rilettura solidaristica degli elementi costitutivi della fattispecie “convivenza”

 

Il fenomeno delle convivenze, come si è visto, ha ottenuto riconoscimento nel prisma della solidarietà; ad un tempo, sembra definire la propria identità alla luce di tale principio.

Si ha misura di quanto si va affermando laddove si consideri che le convivenze more uxorio sono tradizionalmente raffigurate come rapporti di fatto; si assumono, cioè, fondate sulla libera volontà delle parti e, perciò, affrancate dall’assolvimento di oneri formali. Ritengono in molti che la stessa rappresentazione valga anche per le convivenze regolamentate dalla legge n. 76/2016; in particolare, ragiona in questi termini chi, valorizzando la formulazione letterale del comma 37, riconosce all’iscrizione come famiglia anagrafica ai sensi dell’art. 4 del D.P.R. n. 223/1989 valore meramente probatorio [17].

Orbene, il rifiuto di una rigida istituzionalizzazione del rapporto di convivenza è una scelta che si colora in chiave eminentemente solidaristica. Significa che l’ordinamento non si ferma dinanzi alla volontà dei privati di sottrarsi alla stipula di un atto diretto all’assunzione di specifici diritti e doveri, ma impone una protezione minima ogni volta che nel concreto ne ravvisi i presupposti [18]. Tale presa di posizione, che collima con la ratio di assicurare protezione al partner in posizione di debolezza, si rifrange sulla struttura del rapporto, assecondando una privatizzazione mite, o “ponderata”, delle convivenze [19].

Lo stesso approccio si riflette nella interpretazione dei presupposti in fatto da cui dipende la configurabilità di una convivenza. Il principio solidaristico sortisce l’effetto di allentare il rigore delle maglie perché abbia a riconoscersi una convivenza rilevante per l’ordinamento, annacquando alcuni elementi morfologici che in passato si ritenevano ben saldi.

Qualche esempio in concreto può essere d’aiuto. Si è soliti qualificare convivenza la stabile unione affettiva tra due persone. La stabilità è intesa nel senso di richiedere che la relazione sostanzi un rapporto abituale e consolidato, non meramente occasionale. La legge n. 76 del 2016, che pure ha recepito tale connotato ai sensi del comma 37, non si è occupata di definire tale attributo con esattezza [20]. Una parte della dottrina considera la proposta di declinare la stabilità in guisa di una durata minima della convivenza, traendo spunto da alcune previsioni di legge che plasmano l’accesso a specifiche tutele sulla durata del rapporto, così da assumerle a riferimento generale [21]. L’opinione che si connota all’insegna della solidarietà insiste però nella direzione opposta, suggerendo di prescindere da una misura prestabilita, per lasciare spazio ad una valutazione caso per caso [22].

Volendo allargare il discorso, si può considerare il profilo della coabitazione. Questo elemento, secondo l’immaginario collettivo, sarebbe intrinseco al concetto di convivenza, comunemente intesa come “vivere insieme sotto lo stesso tetto”. L’indirizzo più recente, aderendo a una prospettiva solidaristica, esclude invece che la comune abitazione identifichi una condizione necessaria perché abbia a discorrersi di convivenza. Ciò è tanto vero che, si fa notare, la legge n. 76 del 2016, definendo la nozione di convivente di fatto, non ha richiesto la coabitazione con il partner.

Nei termini esposti, la solidarietà finisce per affrancare la convivenza dalla condivisione di un luogo adibito a dimora abituale, ammettendo che l’ambiente domestico possa essere frequentato anche solo periodicamente dai conviventi; in particolare, quando la lontananza di uno dei partner (o di entrambi) sia giustificata da motivi di studio, lavorativi o di natura familiare, come nel caso di prestazione di assistenza a parenti o familiari per alcuni giorni alla settimana, e comunque risulti dimostrato che il rapporto prosegue al di fuori delle mura di casa. Il fenomeno è noto come “pendolarismo familiare”, per cui sono pendolari della famiglia “coloro che per scelta o per necessità vivono per motivi vari e con una certa regolarità in luoghi diversi dalla propria abitazione”, alla stregua di un’estensione della loro dimora abituale [23].

Resta inteso che la coabitazione conserva, in ogni caso, il valore di indice presuntivo dello svolgimento di una relazione di convivenza. Dentro la cornice della legge n. 76 del 2016, la condivisione della medesima abitazione è poi presupposto ai fini della registrazione come famiglia anagrafica di cui all’art. 1, comma 37, e, vale ricordarlo, la suddetta registrazione acquisisce il valore di prova privilegiata di uno stabile rapporto in fatto [24].

Volgendo lo sguardo ad altri aspetti, viene all’evidenza la soluzione che ammette possano instaurare una convivenza i minori di età, gli individui privi di capacità piena o, ancora, i soggetti tra loro legati da vincoli di parentela o affinità, nei limiti in cui la legge consente la dispensa in materia di coniugio. Nello stesso senso, si inquadra la tesi secondo cui possono divenire conviventi anche le persone sprovviste di stato libero, dando luogo in questi casi a coppie ricostituite non coniugate. A tali condizioni è escluso che possa ricorrere una convivenza regolamentata, a tenore del comma 36 dell’art. 1 della legge n. 76 del 2016. Non di meno si concede, pur con alcune riserve, che abbia a configurarsi una convivenza more uxorio, secondo l’accezione tradizionale [25]. Simili aperture si comprendono nel solco di un approccio solidaristico, in quanto ampliano il perimetro delle convivenze e, così facendo, allargano il raggio applicativo delle prerogative riconosciute ai partner. Al contrario, sarebbe severa la scelta di ritenere che vincoli che non costituiscono un impedimento matrimoniale per il codice civile possano essere di ostacolo alla configurabilità di un rapporto di fatto.

 

4. (Segue) … e della disciplina relativa ai conviventi

 

L’ordinamento non solo riconosce il vincolo solidaristico quale tratto fisiognomico che contraddistingue la convivenza, ma, ad un tempo, lo proietta nella relativa disciplina.

Tale constatazione è facilmente spiegabile. I rapporti di fatto si fanno apprezzare in quanto costituiscono il luogo in cui due persone soddisfano un’esigenza reciproca di assistenza morale e materiale, secondo devozione e impegno. Da qui, è legittimo attendersi che i conviventi adempiano alle istanze solidaristiche che nascono all’interno del consorzio affettivo comportandosi secondo correttezza e buona fede, così da non lasciare disatteso l’affidamento che l’uno ripone nell’altro.

La posizione di convivente è resa oggetto di tutela quando si riconosca al fondo l’esigenza di proteggere la persona stessa del convivente, in quanto riconosciuta come debole per cause relazionali o naturali. Tale esigenza può emergere nel corso della relazione quanto nella sua fase finale; nel rapporto di coppia, come nei confronti dei terzi. Si vuole evitare che il singolo, pur nella libertà di non contrarre matrimonio, abbia a subire conseguenze negative per il sol fatto di vivere l’unione affettiva in una dimensione fattuale.

La solidarietà si estrinseca nella tutela dei diritti fondamentali, o comunque di rango costituzionale, coinvolti nel rapporto, traducendosi perlopiù nella attribuzione di benefici a favore del singolo convivente, o della coppia; solo in misura inferiore, comporta la previsione di obblighi a carico di un partner nei confronti dell’altro.

La preoccupazione è di preservare l’integrità della sfera di ciascun convivente, mentre rimane sullo sfondo il consorzio affettivo in sé considerato, secondo l’idea per cui la convivenza mal tollera di vedere le prerogative del singolo sacrificate in nome delle esigenze del sodalizio instaurato [26]. Ciò a dispetto della famiglia fondata sul matrimonio, nella quale lo status di coniuge si compone di una serie di diritti ma anche di doveri reciproci, lasciando trasparire una perdurante attenzione a conservare l’unità familiare [27].

Si fa comunque presente che, sul terreno dei rapporti di fatto, il canone della solidarietà subisce i contemperamenti necessari a realizzare un punto di equilibrio tra libertà e responsabilità. Non si oblitera, infatti, che i rapporti di fatto oscillano tra due poli, l’autodeterminazione, da un lato, e la giuridicizzazione, dall’altro. I conviventi, per un verso, rivendicano la libertà di vivere i propri affetti senza costrizioni; per altro verso, non si rassegnano all’idea di essere ignorati dall’ordinamento, cercando riparo laddove vantino interessi degni di tutela nei confronti del partner, ovvero verso terzi.

Per chiarire meglio i termini del discorso, sembra interessante indagare i profili di disciplina che, più di altri, sono governati dal principio solidaristico.

Un angolo nel quale si rinvengono segni tangibili di solidarietà è quello dei rapporti patrimoniali tra i partner. Nel corso della convivenza, si assume che i partner abbiano la vocazione a condividere “un comune tenore di vita, che trascenda le fortune economiche dei singoli[28]. La convivenza, in altre parole, rileva quale circostanza storica da cui si fa derivare “l’assunzione da parte dei conviventi di obblighi di solidarietà familiare, che si concretizzano, tra l’altro, nell’apprestamento delle risorse delle quali il nucleo familiare ha necessità per sostentarsi[29]. Nel solco di questo indirizzo, le attribuzioni patrimoniali sono intese alla stregua della esecuzione di doveri morali e sociali. Segnatamente, si richiama la categoria dell’obbligazione naturale, intesa come avente ad oggetto la prestazione di assistenza al partner e la contribuzione alle esigenze della vita in comune [30]. L’inquadramento proposto reca con sé la regola della soluti ritentio stabilita all’art. 2034 c.c.; e proprio l’irripetibilità delle erogazioni varrebbe a colorare il sodalizio tra conviventi come un luogo di mutuo sostegno e, dunque, benessere esistenziale per i suoi componenti [31].

Se la convivenza non fa sorgere in capo a ciascun partner il diritto al mantenimento a cura dell’altro, vi è comunque la possibilità che i conviventi regolino convenzionalmente il regime patrimoniale del consorzio di vita e si attribuiscano reciprocamente diritti patrimoniali. Tradizionalmente i conviventi stipulano patti di convivenza atipici, soggetti al diritto generale dei contratti e, pertanto, muniti di efficacia inter partes. La legge n. 76 del 2016, dal canto suo, ha introdotto il “contratto di convivenza”, quale strumento tipico riservato ai conviventi di fatto, sottoposto a pubblicità nei registri anagrafici e, per l’effetto, munito di effetti opponibili a terzi [32]. I conviventi, stipulando il contratto di convivenza, possono disciplinare “le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo”. La formula evoca i principi di pari dignità morale e giuridica, proporzionalità e adeguatezza, che fondano non solo il matrimonio ai sensi dell’art. 143 c.c., ma ogni esperienza di vita comune. Si vuole dire che le pattuizioni che si vanno a inserire nel contratto di convivenza devono ispirarsi a solidarietà e reciproco rispetto tra i partner [33]. I conviventi di fatto, ad un tempo, hanno facoltà di adottare il regime della comunione legale [34]; e, benché sembri ovvio sottolinearlo, anche la comunione dei beni denota un sicuro indice di solidarietà [35].

La solidarietà incide altresì sui rapporti successivi alla cessazione del rapporto di convivenza.

Il legislatore, con la novella del 2016, ha introdotto la tutela alimentare, da far valere non già durante lo svolgimento della convivenza, ma nella fase conclusiva della stessa [36]. Il diritto agli alimenti interviene in soccorso del convivente in stato di bisogno, al fine di assicurargli una vita dignitosa. Segnatamente, questa prerogativa sostanzia un diritto irrinunciabile, tale per cui non può costituire oggetto di rinuncia preventiva da parte dell’interessato. È azionabile nei confronti del convivente con precedenza su fratelli e sorelle ed ha contenuti analoghi a quelli previsti dagli artt. 433 e ss. c.c., benché la sua erogazione spetti solo in via temporanea, per un periodo stabilito dal giudice in proporzione alla durata del rapporto [37]. Pur nei termini così descritti, il diritto agli alimenti soddisfa un “primigenio dovere di solidarietà tra coloro i quali abbiano condiviso un percorso comune di esistenza, fondato sulla stabilità affettiva e il reciproco obbligo di assistenza morale e materiale[38].

Si riconosce, per altro verso, che i conviventi possono regolare pattiziamente i rapporti economici in caso di rottura della convivenza. Salva la conclusione di convenzioni atipiche, si discute intorno alla possibilità di ricorrere al contratto di convivenza di cui alla legge n. 76 del 2016. Una parte dell’opinione, non senza incertezze, apre all’eventualità che i conviventi si avvalgano di questo strumento negoziale, subordinatamente alla previsione di garanzie più incisive rispetto a quelle legali, come potrebbe essere la corresponsione di un assegno di mantenimento con importo definito, l’erogazione di una prestazione una tantum, o, ancora, un più ampio diritto, personale o reale, sull’abitazione del partner abbiente [39]. In questo frangente, l’autonomia contrattuale avrebbe il pregio di rafforzare la posizione del convivente debole, implementando il livello di tutela accordato dall’ordinamento; dunque, sarebbe chiaramente ispirata a istanze solidaristiche.

Un’ulteriore proiezione del principio solidaristico affiora nei rapporti aventi ad oggetto la sorte della casa di comune residenza, a seguito della fine della relazione sia per volontà dei conviventi sia per decesso di uno dei due. Si ricorda, in passato, la pronuncia della Corte Costituzionale 7 aprile 1988, n. 404, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6 della legge 27 luglio 1978, n. 392, nella parte in cui non comprendeva il convivente more uxorio tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione in caso di morte del conduttore, ovvero di cessazione della convivenza in presenza di prole naturale. I giudici hanno ritenuto ragionevole allargare la legittimazione al convivente more uxorio sul presupposto che il diritto di abitazione è un diritto fondamentale dell’uomo e una prerogativa minima dello Stato democratico, così facendosi interpreti del dovere di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost. [40]. La medesima istanza di tutela, oggi, è recepita nel quadro della legge n. 76 del 2016, di modo che i conviventi di fatto godono, a differenza di quelli semplici, del diritto di subentrare nel contratto di locazione pur in assenza di prole e, altresì, di restare nell’immobile di proprietà del partner [41]. Queste prescrizioni, rispondendo all’esigenza di soddisfare il diritto sociale all’abitazione, sono riflesso del corrispondente dovere inderogabile di solidarietà, che si traduce nel divieto di privare ad nutum il partner della casa fino a quel momento condivisa come dimora comune.

 

5. Nuove prospettive di trattamento per le relazioni affettive di fatto

 

Negli orientamenti più recenti la solidarietà spinge verso una revisione della disciplina dei rapporti di convivenza, nel senso di promuovere l’integrazione del plesso di prerogative vigenti. Non è chiaro, tuttavia, se le novità saranno accordate ai soli conventi di fatto in senso proprio, ovvero si rivolgeranno anche ai conviventi liberi.

Un settore nel quale si punta a riconoscere una maggiore dignità al convivente è occupato dalla legislazione sociale e giuslavoristica, che ancora oggi riserva numerose prestazioni al coniuge, ovvero al soggetto unito civilmente. Si intravede un segnale di apertura nella decisione della Corte costituzionale 23 settembre 2016, n. 213, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nella parte in cui non includeva il convivente tra i soggetti legittimati a fruire, in via ordinaria, del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap grave, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado [42]. I giudici hanno ravvisato gli estremi, da un lato, della violazione dell’art. 3 Cost., per la non ragionevolezza della norma censurata; dall’altro lato, degli artt. 2 e 32 Cost., per la mancata adeguata tutela del diritto alla salute psico-fisica del disabile grave, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità [43]. In questi termini, si è concluso per l’estensione della tutela socio-assistenziale ai conviventi, coerentemente con la valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale, quale interesse che la legge n. 104 del 1992 sottopone a presidio. Nella stessa direzione si è mosso, di recente, anche il legislatore, laddove è intervenuto ad assimilare la figura del convivente di fatto ai sensi della legge n. 76 del 2016 alla posizione di coniuge e/o unito civilmente ai fini della fruizione del permesso mensile retribuito ai sensi del citato art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, nonché del congedo biennale di cui all’art. 42, comma 5, del d. lgs. n. 151 del 2001 e, altresì, della priorità nella trasformazione del rapporto di lavoro da full-time a part-time ai sensi dell’art. 8, comma 4, del d. lgs. n. 81 del 2015 [44].

Un altro versante sul quale la convivenza si presenta pressoché sguarnita di tutele è la materia successoria [45]. Non è previsto che i conviventi concorrano all’eredità né per successione legittima, né per successione necessaria. L’unica possibilità è che il de cuius disponga a favore del partner nell’esercizio della propria libertà testamentaria. Fanno eccezione alcune prescrizioni speciali, che sembrano delineare fattispecie di successione anomale: ne costituisce un esempio l’assegnazione al convivente del diritto sulla casa familiare, per un lasso di tempo definito, dopo la morte del partner proprietario o conduttore, come poc’anzi citato [46]. Se questo è lo stato della normativa vigente, non mancano proposte nel senso di assumere la convivenza quale titolo d’accesso alla successione mortis causa, in quanto rapporto qualificato ancorché di fatto. È comunque presente una certa cautela a circoscrivere la tutela entro limiti prestabiliti, perlopiù riferiti al caso in cui dalla morte per il partner superstite derivi una situazione di difficoltà economica [47]. Rappresenta un profilo critico l’onere probatorio che incombe sulla parte interessata, a cui spetta dimostrare l’esistenza di una comunione di vita e interessi con il de cuius, al pari di quella che caratterizza l’unione coniugale da cui scaturiscono doveri di solidarietà successoria. È pur vero che, nel sistema delineato dalla legge n. 76 del 2016, la prova della convivenza può essere agevolata dalla registrazione come famiglia anagrafica, ai sensi del comma 37 dell’art. 1. Non di meno, la convivenza, sostanziandosi in un rapporto deformalizzato, postula pur sempre un accertamento di tipo fattuale, la cui valutazione è rimessa a un insopprimibile margine di discrezionalità dell’autorità giudiziaria, che la Corte costituzionale, in una decisione non più tanto recente, ha ritenuto intollerabile [48].

Attiguo a questo tema è l’interesse che si raccoglie intorno al diritto alla pensione di reversibilità, che attualmente l’ordinamento riconosce soltanto al coniuge superstite (o unito civilmente), pur dopo lo scioglimento del vincolo. Si fa menzione, in proposito, di un’apertura da parte della Corte d’Appello di Milano [49], che, capovolgendo la decisione di primo grado, ha riconosciuto il trattamento pensionistico di reversibilità al partner stabilmente convivente. I giudici milanesi hanno asserito che la pensione di reversibilità sostanzierebbe un diritto “costituzionalmente garantito e rientrante tra i diritti doveri di assistenza e solidarietà propri delle relazioni affettive di coppia”, anche omosessuali. Il sostrato solidaristico che permea le coppie di fatto giustificherebbe, in questa prospettiva, l’attribuzione del trattamento previdenziale al convivente superstite, in quanto prestazione che, per sua stessa natura, mira a garantire la continuità del sostentamento, proiettandolo a favore di chi, oltre al titolare stesso in vita, ne faceva affidamento in vita. La decisione della Corte d’Appello di Milano, tuttavia, è stata cassata dalla Suprema Corte di cassazione, che, accogliendo il ricorso presentato dalla cassa previdenziale di categoria, ha ritenuto non sussistere, nella normativa vigente, un fondamento a cui agganciare il diritto del convivente di beneficiare del trattamento pensionistico di reversibilità [50].

Un altro terreno ancora sul quale i conviventi lamentano una posizione di svantaggio è quello tributario. L’ordinamento non attribuisce rilevanza all’esistenza di uno stabile rapporto affettivo, sicché, salvo disposizioni specifiche, non è consentito che il convivente more uxorio sia posto fiscalmente a carico dell’altro [51]. Nell’ambito delle convivenze si annida, dunque, una forma di imposizione fiscale carente sotto il profilo della valorizzazione delle manifestazioni solidaristiche. Ne costituisce conferma l’orientamento espresso dall’Agenzia delle Entrate con la Circolare 8 luglio 2020,n. 19/E/2020, la quale precisa che “per quanto riguarda le convivenze di fatto, di cui all’art. 1, commi 36 e 37, della citata legge n. 76 del 2016, […] la legge Cirinnà non ha disposto l’equiparazione al matrimonio. Pertanto, il convivente non può fruire della detrazione relativa alle spese sostenute nell’interesse dell’altro convivente”. Non manca, però, di notarsi che le coppie di fatto sono venute guadagnando un margine di riconoscimento agli effetti delle detrazioni fiscali per le spese affrontate per determinati lavori edilizi sugli immobili (c.dd. bonus casa). Secondo le normative attuali, il convivente paraconiugale, ancorché non proprietario dell’immobile oggetto degli interventi né titolare di un contratto di comodato, è infatti ammesso a fruire delle detrazioni suddette a condizione di aver sostenuto le spese ed essere intestatario di bonifici e fatture [52].

 

  1. Alcune considerazioni intorno agli orizzonti futuri delle convivenze similconiugali

 

Le sollecitazioni che provengono dalla dottrina, per una parte, dalla prassi, per altra parte, inducono a interrogarsi sui termini e le cautele entro cui si potrebbe ipotizzare un eventuale allargamento delle tutele a favore dei conviventi.

Si prende atto che un approccio solidaristico espone i privati a una maggiore interferenza della disciplina eteronoma in ambito affettivo, che poco collima con la scelta di un rapporto “leggero”, qual è appunto, notoriamente, la convivenza. Il limite contro il quale la solidarietà si rifrange è la libertà che, almeno in via tendenziale, segna e motiva la scelta del convivente di instaurare una relazione di fatto, in luogo di un vincolo formale. Il punto è di assicurare il compromesso tra forze concorrenti e antagoniste: da un lato, la volontà dei conviventi di non essere astretti da un vincolo equiparabile a quello nascente da matrimonio (o unione civile); dall’altro lato, il rispetto delle istanze fondamentali della loro persona.

Si aggiunge, a questa notazione, l’avviso di bilanciare le tutele per i conviventi con quelle accordate ai soggetti legati da un rapporto di coniugio (o unione civile). Se è vero che l’ordinamento è chiamato a rispondere alle istanze di tutela provenienti dal tessuto sociale, è altrettanto vero che lo deve fare nel rispetto della identità di chi le reclama, oltre che della assiologia costituzionale. E, come ampiamente illustrato, la convivenza nasce in alternativa ad un rapporto formalizzato, rivendicando una distinta considerazione dei rapporti personali e patrimoniali di coppia.

Si osserva che non solo è inammissibile qualunque tentativo di grossolana equiparazione della convivenza al coniugio, ma si rende necessario ponderare e coordinare il rapporto tra le discipline delle due fattispecie. Un riferimento può essere fatto ai rapporti di convivenza instaurati da persone precedentemente legate dal vincolo coniugale (o da unione civile). Il riconoscimento di tali rapporti richiede che sia dato spazio al loro svolgimento, in quanto dimensione feconda allo sviluppo della persona, e che tale spazio sia effettivo e concreto. Allo stato attuale, la costituzione di un rapporto di convivenza tra l’ex coniuge economicamente debole e un terzo si rifrange sulla determinazione dell’assegno disposto a carico dell’altro coniuge, nel senso di escluderne la debenza ovvero ridurne l’importo. Non sono, però, pochi i casi in cui l’ex coniuge gravato dall’obbligo di corrispondere l’assegno si trova in condizioni di difficoltà ad avviare un consorzio di vita con un altro partner, non avendo le disponibilità economiche per fronteggiare l’instaurazione di una nuova convivenza. Risulta, quindi, la tensione tra i doveri di solidarietà post-matrimoniale, da un lato, e l’afflato solidaristico che anima le relazioni affettive di fatto, dall’altro lato.

Ragionando nel concreto sulla configurazione delle prerogative divisate per i conviventi, si possono formulare ulteriori considerazioni. Nella dimensione della convivenza, si riscontra una certa ritrosia a giuridicizzare i rapporti all’interno della coppia, puntando perlopiù a rafforzare il regime delle prestazioni assistenziali, previdenziali, sociali verso terzi, ovvero verso la pubblica amministrazione. Questo atteggiamento sottolinea la distanza rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio; d’altro canto, suscita perplessità laddove, per ragioni di proporzionalità e ragionevolezza, sarebbe auspicabile che i conviventi godessero di tutela all’esterno quanto più, tra loro, sono disposti ad accettare impegni e doveri reciproci.

Riservata ogni valutazione al legislatore, un criterio orientativo potrebbe essere quello di perseguire, non già un’esatta corrispondenza, quanto un tendenziale equilibrio tra la solidarietà verso l’esterno (c.d. “verticale”) e la solidarietà inter partes (c.d. “orizzontale”). Su questo versante, il giudice civile ha fatto passi in avanti [53]. Si ricorda, per fare un esempio, che la giurisprudenza si è orientata a riconoscere ai conviventi il diritto al risarcimento per lesione dei diritti fondamentali della persona, non solo quando il pregiudizio sia arrecato per fatto illecito di un terzo, ma anche dell’altro partner. Si attua, in questi termini, una simmetria tra la responsabilità da illecito c.d. esofamiliare e c.d. endofamiliare. Il presupposto è quello in forza del quale il rispetto della dignità di ciascuno “assume i connotati di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente della famiglia, così come da parte del terzo, costituisce il presupposto logico della responsabilità civile, non potendo chiaramente ritenersi che diritti definiti come inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i loro titolari si pongano o meno all’interno di un contesto familiare[54].

Si osserva, poi, che l’assegnazione di posizioni di vantaggio ai conviventi è in genere commisurata a una durata temporanea. Citando le novità introdotte dalla legge n. 76 del 2016, si rammenta che l’attribuzione del diritto al convivente, in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza, di continuare ad abitare nella stessa casa è riconosciuta “per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni” (comma 42); ovvero, il diritto di percepire gli alimenti spetta “per un periodo proporzionale alla durata della convivenza”, una volta che il rapporto sia volto alla fine (comma 65).

Si apre allora l’interrogativo se, per motivi di uniformità, non sia ragionevole supporre che le future tutele vadano tarate entro tempi definiti. In questo modo la minore stabilità che, anche se non all’unanimità, si assume quale connotato dei rapporti di fatto a dispetto del matrimonio (o dell’unione civile) si rifrangerebbe sulle tutele a favore dei soggetti che ne prendono parte. Al punto che questo tratto di immanente provvisorietà potrebbe divenire la cifra caratterizzante delle convivenze, tanto nella fase fisiologica quanto nella fase patologica del rapporto [55].

 

Abstract in inglese: This essay provides both a retrospective analysis and an outlook on the future of nonmarital relationships. The Author explores the salient moments that marked the recognition of unmarried couples on a legal level, focusing on their structure and regulation; then, she reflects on the new perspectives for de facto partners. Every reconstructive hypothesis will try to combine the solidarity principle with the respect of system coherence.

 

Key Words: nonmarital relationship, solidarity, rights and responsabilities of unmarried partners

 


*Università Cattolica del Sacro Cuore (chiara.prussiani@unicatt.it).

**Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] Rileva questa tendenza, sul piano sociale, il report a cura dell’Istat pubblicato il 6 marzo 2023 “Matrimoni, unioni civili, separazioni e divorzi. Anno 2021”, in www.istat.it.

[2] In tema di convivenze similmatrimoniali, si sofferma sul passaggio dall’“agnosticismo ordinamentale alla regolamentazione” M. Tamponi, Del convivere. La società postfamiliare, Milano, 2019, 38 ss., il quale evidenzia come il fenomeno stesso delle convivenze “si prest[i] con difficoltà a divenire oggetto di una normativa veramente organica e tendenzialmente compiuta”; dunque, sia un “terreno refrattario all’infeudazione normativa: un terreno che, per sua natura, si potrebbe qualificare a ‘giuridicità limitata’”.

[3] Non si nasconde che spesso la riflessione sul rapporto di coppia si intreccia a quella relativa al rapporto con i figli, anche in considerazione del fatto che la diffusione della convivenza di fatto ha favorito la nascita di figli fuori dal matrimonio: sul punto, F. Ruscello, Le convivenze di “fatto” tra famiglia e relazioni affettive di coppia, in Fam. e diritto, 2018, 1156 ss. La scelta in questa sede è nel senso di mantenere il focus sulle convivenze volontarie e associative, guardando alla relazione orizzontale tra partner. La dimensione verticale tra genitori e prole, per converso, determina una convivenza che non è libera e consensuale, ma obbligata; al riguardo, delinea la classificazione tra convivenze volontarie, obbligate e contrattuali L. Barbiera, Le convivenze. Tipi e statuti, Milano, 2011, 6 ss. Si vuole intendere che il figlio è soggetto alla responsabilità genitoriale e non può recedere dal rapporto per sua volontà: fintanto che perdura la convivenza, i genitori sono tenuti a mantenere, istruire ed educare la prole; il figlio, per parte sua, è tenuto a collaborare nell’interesse dalla famiglia e a contribuire ai bisogni della famiglia. In ogni caso, la riforma della filiazione approvata con legge 10 dicembre 2012, n. 219 ha sancito l’unicità dello status di figli, superando le distinzioni tra figli legittimi e naturali; pertanto, la situazione è tale per cui la relazione con la prole si svolge allo stesso modo tanto che i genitori siano uniti affettivamente da un vincolo formale quanto semplicemente di fatto. Un terreno fertile per il dibattito giuridico si scorge oggi nella materia della c.d. genitorialità sociale, che nell’ambito delle famiglie ricomposte involge il rapporto con i figli dell’altro partner: tra i più recenti, E. Al Mureden, La genitorialità sociale tra ordine pubblico e interesse del minore, in V. Cuffaro e B. Agostinelli (a cura di), Relazioni, famiglie e società, Torino, 2021, 111 ss.

[4] In giurisprudenza, l’equiparazione delle convivenze alla famiglia fondata sul matrimonio e, conseguentemente, la parificazione di disciplina tra le due situazioni è stata esclusa, ex multis, da Corte cost., ord., 14 gennaio 2010, n. 7; Corte cost., ord., 11 giugno 2003, n. 204; Corte cost., ord., 14 novembre 2000, n. 491Corte cost. 25 luglio 2000, n. 352; Corte cost., ord., 8 novembre 2000, n. 481; Corte cost., ord., 20 luglio 2000, n. 313; Corte cost. 29 gennaio 1998, n. 2. In dottrina, per tutti, M. Gorgoni, Le convivenze “di fatto” meritevoli di tutela e gli effetti legali, tra imperdonabili ritardi e persistenti perplessità, in Id. (a cura di), Unioni civili e convivenze di fatto L. 20 maggio 2016, n. 76, Bologna, 2016, 198 s., ivi incluso il richiamo a Cass. 13 maggio 1988, n. 166, in Nuova giur. civ. comm., 1998, 678 ss.

[5] Cfr. Corte cost. 7 aprile 1988, n. 404 e Corte cost. 20 dicembre 1989, n. 559, che, pronunciandosi rispettivamente in ordine alla legittimità costituzionale della disciplina della locazione di immobili urbani e delle assegnazioni degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, hanno ravvisato quale elemento unificante di giudizio l’esigenza di tutelare il diritto sociale all’abitazione, collocabile tra i diritti inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost.: infra, paragrafo n. 4. Per un riferimento recente, Corte cost. 23 settembre 2016, n. 213, che, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 33 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ha rinvenuto la ratio della norma nella “tutela della salute psico-fisica della persona affetta da handicap grave (art. 32 Cost.)”, oltre che “della dignità umana e quindi dei diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 Cost.”, quali “beni primari non collegabili geneticamente ad un preesistente rapporto di matrimonio ovvero di parentela o affinità”: sul punto, infra, paragrafo n. 5.

[6] Corte cost. 18 novembre 1986, n. 237, secondo cui “un consolidato rapporto, ancorché di fatto, non appare costituzionalmente irrilevante, quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali ed alle intrinseche manifestazioni solidaristiche”.Si ricorda anche Corte cost. 18 gennaio 1996, n. 8, la quale afferma che solo “Tenendo distinta l’una dall'altra forma di vita comune tra uomo e donna”, ovvero il matrimonio e la convivenza, “si rende possibile riconoscere a entrambe la loro specifica dignità”, mettendo in evidenza come “– fermi in ogni caso i doveri e i diritti che ne derivano verso i figli e i terzi – [si] rispetti il maggior spazio da riconoscersi, nella convivenza, alla soggettività individuale dei conviventi; e viceversa [si] dia, nel rapporto di coniugio, maggior rilievo alle esigenze obiettive della famiglia come tale, cioè come stabile istituzione sovraindividuale”: in senso confermativo, Corte cost., ord., 20 aprile 2004, n. 121 e Corte cost., ord., 8 maggio 2009, n. 140.

[7] Cass. 19 giugno 2009, n. 14343, in De Jure.

[8] Corte cost. 17 febbraio 1992, n. 75.

[9] Cass. pen., 19 settembre 2018, n. 11476 e Cass. pen., 23 novembre 2021, n. 8097, entrambe in De Jure, ove si ribadisce che “l’art. 29 Cost. riconosce alla famiglia legittima "una dignità superiore, in ragione dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività di diritti e doveri che nascono soltanto dal matrimonio" (sent. n. 310 del 1989)”, mentre la convivenza “è […] fondata sull'affectio quotidiana di ciascuna delle parti, liberamente e in ogni istante revocabile (ord. n. 121 del 2004), pur assumendo anch'essa rilevanza costituzionale, ma nell'ambito della protezione dei diritti inviolabili dell'uomo nelle formazioni sociali garantite dall'art. 2 Cost. (sent. n. 237 del 1986 e sent. n. 140 del 2009)”.

[10] Cfr. Corte cost. 15 aprile 2010, n. 138, poi confermata da Corte cost. 11 giugno 2014, n. 170. Il punto è che “il processo di costituzionalizzazione delle unioni tra persone dello stesso sesso non si [è] fonda[to][…] sulla violazione del canone antidiscriminatorio dettata dall’inaccessibilità al modello matrimoniale, ma sul riconoscimento di un nucleo comune di diritti e doveri di assistenza e solidarietà propri delle relazioni affettive di coppia e sulla riconducibilità di tali relazioni nell’alveo delle formazioni sociali dirette allo sviluppo, in forma primaria, della personalità umana”, come sottolineato da Cass. 9 febbraio 2015, n. 2400, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 649 ss., con nota di T. Auletta, Ammissibilità nell’ordinamento vigente del matrimonio fra persone del medesimo sesso.

[11] Afferma F. Ruscello, Le convivenze di “fatto” tra famiglia e relazioni affettive di coppia, cit., 1166, che “le convivenze “di fatto” formalizzate dal legislatore del 2016 non possono non essere tali se non siano anche fondate sulla eguaglianza e sulla solidarietà, sul reciproco rispetto tra i membri che di quel rapporto sono parte attiva, e su una collaborazione e su una fedeltà pur non espressamente richiamate ma, salvo incorrere in incoerenze forse insanabili, da dover considerare presenti”.

[12] M. Gorgoni, Le convivenze “di fatto” meritevoli di tutela e gli effetti legali, tra imperdonabili ritardi e persistenti perplessità, cit., 197, la quale osserva che non avere definito le convivenze di fatto alla stregua di formazioni sociali “dal punto di vista sistematico sembra una nota stonata”, poiché rischia di dare luogo a un esito interpretativo “abnorme che non risponde affatto all’intenzione del legislatore”.

[13] A. Cariola, Famiglie e convivenze: il rilevo costituzionale comporta la giuridicizzazione dei rapporti interni, in Dir. fam. e pers., 2015, 1027 ss., sp. 1029, il quale osserva, prendendo posizione in generale rispetto a una interpretazione della Carta costituzionale orientata a valorizzare l’original intent, che “è certo vero che va affermato il nucleo normativo – se si vuole, la forza – della Costituzione […]. Epperò, l’interpretazione che esaltasse le intenzioni originarie del Costituente, proponendo l’adesione a soluzioni antiche, rischia di delegittimare la stessa Costituzione rispetto e nei confronti dei soggetti che oggi e in questo luogo dalla Costituzione debbono appunto essere regolati”.

[14] Per tutti, M. Dogliotti, Dal concubinato alle unioni civili e alle convivenze (o famiglie?) di fatto, in Fam. e dir., 2016, 868 ss., sp. 871.

[15] Cass. 11 settembre 2015, n. 17971, in Dir. fam. e pers. (Il), 2016, 2, 484 ss.; in dottrina, sottolinea questo puntoG. Buffone, Nozione ed elementi costitutivi, in G. Buffone, M. Gattuso, M.M. Winkler, Unione civile e convivenza. Commento alla l. 20 maggio 2016, n. 76 aggiornato ai dd.lgs. 19 gennaio 2017, nn. 5,6,7 e al d.m. 27 febbraio 2017, Milano, 2017, 441.

[16] Così Cass. 4 aprile 1998, n. 3503; tra le altre, Cass. 11 agosto 2011, n. 17195 e Cass. 3 aprile 2015, n. 6855, tutte in De Jure. Più di recente, App. Palermo, 28 giugno 2022, n. 1121, in De Jure, secondo cui “La formazione di una famiglia di fatto implic[a] la creazione di un nucleo familiare portatore di valori di stretta solidarietà, di arricchimento e sviluppo della personalità di ogni componente, e di educazione e istruzione dei figli, costituendo una di quelle formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo, tutelate dall’art. 2 Cost.”; dunque, “ove la convivenza assuma i connotati di stabilità e continuità, e i conviventi elaborino un progetto ed un modello di vita in comune (analogo a quello che di regola caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio), la mera convivenza si trasforma in una vera e propria "famiglia di fatto" […]”. Allo stesso modo, si fa notare che anche il consorzio matrimoniale, prima ancora di trovare copertura diretta all’art. 29 Cost., dà luogo a una formazione sociale deputata ad accogliere lo svolgimento della personalità umana, in cui si fa esercizio di solidarietà reciproca, e dunque ricade nell’art. 2 Cost.: per tutti, C.G. Terranova, Convivenza e situazioni di fatto, in G. Ferrando, M. Fortino, F. Ruscello (a cura di), Famiglia e matrimonio, I, nel Trattato di diritto di famiglia diretto da P. Zatti, Seconda Ed., Milano, 2011, 1087, il quale afferma l’esistenza di un “indissolubile rapporto di continenza tra la (specificità della) famiglia coniugale e la categoria delle formazioni sociali, costituzionalmente garantite in quanto funzionali all’armonioso sviluppo della personalità di ciascuno dei suoi componenti, ed all’attuazione dei diritti fondamentali dell’uomo”.

[17] Si sostiene che la registrazione della convivenza alla stregua di famiglia anagrafica avrebbe l’utilità di agevolare la prova del rapporto in caso di contrasto tra le parti, ovvero con i terzi; al contrario, non acquisterebbe valore fondativo, mantenendosi la convivenza significativa per il solo fatto di dispiegarsi in conformità al modello legale.

[18] Sul punto, L. Balestra, La convivenza di fatto. Nozione, presupposti, costituzione e cessazione, in Fam. e dir., 2016, 927 s. e C. Bianca, Premessa al comma 36 e seguenti. Note introduttive, in Id. (a cura di), Le unioni civili e le convivenze. Commento alla legge n. 76/2016 e ai d. lgs. n. 5/2017, d. lgs. n. 6/2017, d. lgs. n. 7/2017, Torino, 2017, p. 470. Dello stesso avviso anche G. Buffone, Nozione ed elementi costitutivi, cit., 456.

[19] M. Gorgoni, Le convivenze “di fatto” meritevoli di tutela e gli effetti legali, tra imperdonabili ritardi e persistenti perplessità, cit., 188 s. e 212, la quale parla anche di “bassa istituzionalizzazione” delle convivenze, ricordando che il riconoscimento giuridico cui aspirano le convivenze gioca sul “contemperamento […] tra «degiuridicizzazione» e «tutela»”.

[20] Una parte della dottrina suggerisce l’idea secondo cui la legge n. 76/2016 non richiederebbe una “stabilità comprovata” di coppia, ma solo la “vocazione alla stabilità”, nel senso che non pretenderebbe“che la convivenza duri, bensì che sia durevole, cioè che vi sia la manifestazione della disponibilità dei conviventi a farla durare nel tempo”: cfr. M. Gorgoni, op. ult. cit., 191.

[21] Per maggiori riferimenti, ancora M. Gorgoni, op. ult. cit., 193 ss.

[22] La stabilità della convivenza sembra perdere di consistenza anche quando si discuta della sua rilevanza penalistica, giacché, in sede di accertamento dei reati endofamiliari, si segnala un orientamento che ricomprende dentro il perimetro della convivenza rapporti di “breve durata, instabili e anomali”, ritenendo sufficiente la prova di “una prospettiva di stabilità” e di “un’attesa di reciproca solidarietà” tra partner quale che sia l’esito in concreto della relazione: con riferimento alla configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, Cass., pen., 11 maggio 2022, n. 36194, in Diritto & Giustizia, 2022, 27 settembre, con nota di A. Ievolella, Tratta la compagna come una sua proprietà e le fa tatuare il proprio nome sul viso: condannato per maltrattamenti in famiglia; Cass., pen., 11 febbraio 2021, n. 17888 e App. Taranto, 15 novembre 2021, n. 827.

[23] Si veda l’e-book pubblicato a cura dell’Istat “Famiglie, reti familiari, percorsi lavorativi e di vita”, Roma, 2022, 54.

[24] Ancora più rigorosa è la posizione assunta da molte amministrazioni comunali, che hanno introdotto per i conviventi un apposito modulo di registrazione come famiglia anagrafica; questo modulo reca espressamente la dichiarazione di residenza comune, e, per come formulato, sembra richiederla in funzione della costituzione della convivenza stessa.

[25] Per riflessioni sul punto, F. Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Ristampa con postfazione di Ubaldo Perfetti, Frosinone, 2018, 57 s. e C. Coppola, Concetto e fonte della convivenza di fatto, in G. Bonilini (a cura di), Trattato di diritto di famiglia, IV, Unione civile e convivenza di fatto, Seconda Ed., Milano, 2022, 674 ss.

[26] M. Bianca, I nuovi modelli familiari, in E. Al Mureden ed R. Rovatti (a cura di), Gli assegni di mantenimento tra disciplina legale e intelligenza artificiale, Torino, 2020, 7 ss.

[27] È opportuno precisare, per evitare fraintendimenti, che appartiene ormai al passato la concezione pubblicistica della famiglia intesa come cellula della società garante della morale e dell’ordine pubblico, al cui interno gli interessi collettivi del gruppo sono sovraordinati in un’ottica antagonista a quelli del singolo partner. Oggi, la famiglia fondata sul matrimonio è concepita come un luogo protetto di affetti che pone al centro le personalità dei suoi membri, in funzione del soddisfacimento delle aspettative individuali e, dunque, dell’esercizio del diritto di autodeterminazione. Pur nella transizione dal modello di “famiglia-istituzione” a quello di “famiglia-comunità”, si mantiene però una certa attenzione a preservare l’unità dell’aggregato familiare e l’armonia tra i suoi componenti: al riguardo, A. Nicolussi, La famiglia: una concezione neoistituzionale?, in Europa e dir. priv., 2012, 169 ss., che, richiamandosi al pensiero di Mengoni, evoca il modello neoistituzionale della famiglia.

[28] M. Paradiso, Convivenza di fatto e solidarietà economica: prassi di assistenza e nascita dell’obbligo alimentare, in www.rivistafamilia.it, 10, 2017, 290. Per una conferma, si ricorda che, quando ci si interroga sui vincoli di solidarietà economica post-matrimoniale a favore del coniuge che abbia instaurato la convivenza con un’altra persona, la giurisprudenza presume che le disponibilità economiche di ciascuno dei conviventi siano messe in comune, salvo la prova da parte del richiedente l’assegno che dalla convivenza non discendono benefici economici idonei a giustificare il diniego, l’eliminazione o la riduzione dell’assegno, rimanendo i suoi redditi complessivamente inadeguati a fargli conservare tendenzialmente il tenore di vita coniugale: ex multis, Cass. 27 giugno 2018, n. 16982 e Cass., ord., 4 marzo 2021, n. 6051, in De Jure. Sul tema, si veda anche Cass., Sez. Un., 5 novembre 2021, n. 32198, in Foro it., 2022, 1, I, p. 151, che, al fine di valutare l’incidenza della instaurazione da parte dell’ex coniuge di una stabile convivenza di fatto con un soggetto terzo, ha introdotto la distinzione tra la componente assistenziale e la componente compensativo-perequativa dell’assegno di divorzio, così concludendo che dalla scelta di dare vita a un nuovo progetto di vita condiviso derivano conseguenze solo sulla prima componente, e non anche sulla seconda.

[29] App. Palermo, 28 giugno 2022, n. 1121, cit.

[30] Si riportano entro i confini dell’obbligazione naturale le prestazioni che siano rese spontaneamente e rispettino il parametro della proporzionalità, in relazione al sacrificio patrimoniale sopportato dal singolo in ragione delle proprie condizioni economiche e sociali.

[31] L’orientamento in giurisprudenza è consolidato: cfr. Cass., 15 gennaio 1969, n. 60; Cass., 20 gennaio 1989, n. 285; Cass., 13 marzo 2003, n. 3713; Cass., 15 maggio 2009, n. 11330; Cass., 22 gennaio 2014, n. 1277; recentemente App. Torino 22 ottobre 2020, n. 1036, tutte in De Jure.

[32] Cfr. art. 1, commi 50 e ss., della legge n. 76/2016.

[33] Si afferma che, nel contratto di convivenza, “l’autonomia privata si esplica in maniera ridotta poiché non si tratta di regolare un normale rapporto giuridico patrimoniale ma di specificare degli obblighi all’interno di una cornice normativa tendenzialmente inderogabile”: A. Torroni, La convivenza di fatto ed il contratto di convivenza: disciplina legislativa e ricorso all’autonomia privata, in Notariato, 2020, 649 ss.

[34] Sottolinea A. Albanese, La rivincita della comunione legale nelle nuove famiglie, in Corr. giur., 2019, 813 s., che “per i partner la comunione legale non è mai legale nel senso in cui la si intende per i coniugi, giacché la sua operatività non è automatica, ma frutto di una scelta ben precisa: quella di stipulare il contratto di convivenza e, al suo interno, di inserire una clausola con cui convengono che i loro rapporti patrimoniali saranno assoggettati alle regole della comunione legale dei coniugi”. Si tende, invece, a escludere che i conviventi possano fare ricorso al regime della comunione convenzionale.

[35] In questo senso, si vedano le riflessioni di M.F. Tommasini, I rapporti familiari tra tradizione e attualità, in Dir. fam. e pers., 2018, 259 ss.

[36] Cfr. art. 1, comma 65, della legge n. 76/2016.

[37] Cfr. F.S. Mattucci, Gli alimenti in favore del “conviventi di fatto”, in Fam. e dir., 2017, 712, che critica la scelta di sottoporre la tutela alimentare a un termine, osservando che “gli alimenti […] rappresentano prestazioni assistenziali di carattere materiale che, in quanto finalizzate a garantire all’avente diritto il soddisfacimento delle sue elementari esigenze di vita, non possono che perpetuarsi indefinitamente nel tempo, fintantoché perduri lo stato di bisogno dell’alimentando, unitamente alla persistente, correlata, capacità economica dell’obbligato, risultando così, ontologicamente, inconcepibile la configurazione di un’obbligazione alimentare ad tempus”. Al contrario, ritiene opportuna questa scelta M. Paradiso, Convivenza di fatto e solidarietà economica: prassi di assistenza e nascita dell’obbligo alimentare, cit., 2017, 292, il quale condivide l’idea che si debba “evitare di trasporre alla convivenza quella “indissolubilità” dei doveri di solidarietà post-coniugale che oggi connota il matrimonio” e, a giudizio dell’Autore, “costituisce la ragione prima della sua crisi”.

[38] Ancora F.S. Mattucci, op. ult. cit., 712.

[39] Per uno spunto in questo senso, G. Oberto, La convivenza di fatto. I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza, Fam. e dir., 2016, 957.

[40] Cfr. Corte cost., 7 aprile 1988, n. 404, cit., laddove afferma che “il legislatore, nel contesto della legge n. 392 del 1978, esprime il dovere collettivo di impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione, dovere che connota da un canto la forma costituzionale di Stato sociale, e dall'altro riconosce un diritto sociale all'abitazione collocabile fra i diritti inviolabili dell'uomo di cui all'art. 2 della Costituzione”. Su questa premessa, “la volontà legislativa di farsi interprete di quel dovere di solidarietà sociale, che ha per contenuto l'impedire che taluno resti privo di abitazione, […] si specifica in un regime di successione nel contratto di locazione, destinato a non privare del tetto […] il più esteso numero di figure soggettive, anche al di fuori della cerchia della famiglia legittima, purché con quello abitualmente conviventi”. Ne costituisce conferma il fatto che “il legislatore del 1978 [ha tutelato] non la famiglia nucleare, né quella parentale, ma la convivenza di un aggregato esteso fino a comprendervi estranei - potendo tra gli eredi esservi estranei -, i parenti senza limiti di grado e finanche gli affini”. Se questa è la ratio legis, ben si comprende il motivo per cui la Corte costituzionale ha ritenuto “irragionevole che nell’elencazione dei successori nel contratto di locazione non compaia chi al titolare originario del contratto era nella stabile convivenza legato more uxorio”. Nella medesima prospettiva si colloca anche Corte cost. 20 dicembre 1989, n. 559, cit., che, in materia di assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, primo e secondo comma, della legge della Regione Piemonte 10 dicembre 1984, n. 64, nella parte in cui non prevedeva la cessazione della stabile convivenza come causa di successione nell’assegnazione ovvero come presupposto della voltura della convenzione a favore del convivente affidatario della prole.

 

[41] Cfr. art. 1, commi 42-44, della legge n. 76/2016.

[42] Cfr. legge 5 febbraio 1992, n. 104 “Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”.

[43] Segnatamente, la Corte costituzionale ha ritenuto la norma tale da comprimere “il diritto – costituzionalmente presidiato – del portatore di handicap di ricevere assistenza nell’ambito della sua comunità di vita, […] non in ragione di una obiettiva carenza di soggetti portatori di un rapporto qualificato sul piano affettivo, ma in funzione di un dato “normativo” rappresentato dal mero rapporto di parentela o di coniugio”: in dottrina, si veda il commento di F. Astone, Aspettative verso il convivente e aspettative verso il coniuge: prove di equiparazione ragionata, in Giur. cost., 2016, 1788 ss. Si fa presente che la Corte costituzionale, con la decisione citata nel testo, ha fatto riferimento al convivente more uxorio, senza richiamo alla legge n. 76/2016.

[44] Cfr. d.lgs. 30 giugno 2022, n. 105 recante “Attuazione della direttiva (UE) 2019/1158 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza e che abroga la direttiva 2010/18/UE del Consiglio”. Prima, già la Circolare INPS 38/2017, nella parte in cui regola gli effetti sulla concessione dei permessi di cui all’art. 33 comma 3, della legge n. 104/1992 ai lavoratori dipendenti del settore privato, aveva introdotto la previsione secondo cui“Ai fini della valutazione della spettanza del diritto ai permessi in argomento, […] per la qualificazione di “convivente” dovrà farsi riferimento alla “convivenza di fatto” come individuata dal comma 36, dell’art. 1, della legge n. 76 del 2016”.

[45] Per un approfondimento sul tema, F. Viglione, I diritti successori dei conviventi. Uno studio di diritto comparato, Torino, 2017.

[46] Art. 1, commi 42 e 44, della legge n. 76/2016. In argomento, E.A. Emiliozzi, I diritti patrimoniali nella crisi della convivenza di fatto, in Riv. dir. civ., 2018, 1345 ss. e R. Pacia, Unioni civili e convivenze: profili di diritto successorio, in Riv. dir. civ., 2019, 425 ss.

[47] Per uno spunto in questo senso, A. Gnani, La successione necessaria dopo la legge 20 maggio 2016, n. 76, in Riv. dir. civ., 2019, 540 ss. Ipotizza di riconoscere ai conviventi il diritto alla quota di successione legittima, ovvero alle indennità per mancato preavviso e trattamento di fine rapporto ai sensi dell’art. 2122 c.c. in caso di morte del lavoratore, A. Cariola, Famiglie e convivenze: il rilevo costituzionale comporta la giuridicizzazione dei rapporti interni, cit., 1027 ss., sp. 1053.

[48] Si fa riferimento a Corte cost., 26 maggio 1989, n. 310, che aveva dichiarato, per una parte infondata, per altra parte inammissibile, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 565, 582 e 540, secondo comma, c.c., in relazione agli artt. 2 e 3 Cost., laddove tali disposizioni non includono il convivente more uxorio tra i successibili ab intestato, parificandolo al coniuge, nétra i componenti della famiglia aventi diritto di abitazione sull’alloggio comune in sede di successione legittima; in particolare, la Corte ha argomentato che “Il riconoscimento della convivenza more uxorio come titolo di vocazione legittima all'eredità […] contrasterebbe con le ragioni del diritto successorio, il quale esige che le categorie dei successibili siano individuate in base a rapporti giuridici certi e incontestabili (quali i rapporti di coniugio, di parentela legittima, di adozione, di filiazione naturale riconosciuta o dichiarata) […]. Nemmeno può dirsi violato il principio di tutela delle formazioni sociali in cui si sviluppa la persona umana. Ammesso, come pure questa Corte ha ritenuto (sent. n. 237 del 1986), che l'art. 2 Cost. sia riferibile «anche alle convivenze di fatto, purché caratterizzate da un grado accertato di stabilita», ciò non implica la garanzia ai conviventi del diritto reciproco di successione mortis causa, il quale certo non appartiene ai diritti inviolabili dell'uomo, i soli presidiati dall’art. 2”.

[49] App. Milano, 26 luglio 2018, n. 1005, in Riv. dir. sic. soc., 2019, 487 ss., con nota di Carchio, Riconosciuta la pensione di reversibilità al partner omosessuale già prima della l. n. 76/2016.

[50] Cass. 14 settembre 2021, n. 24694, in Fam. e dir., 2022, 936 ss., con nota di R. Nunin, Coppia omosessuale e pensione di reversibilità: senza unione civile non si accede alla tutela previdenziale, nonché in Il lavoro nella giurisprudenza, 2022, 612 ss., con nota di L. Taschini, La pensione di reversibilità nelle coppie omosessuali stabili prima del 2016. Si segnala, per altro verso, che è orientamento condiviso quello secondo cui sarebbe da valorizzare il periodo di convivenza, intesa come convivenza prematrimoniale, ai fini della determinazione del concorso tra coniuge divorziato e coniuge superstite nella ripartizione del trattamento di reversibilità: tra le più recenti, Cass., ord., 30 settembre 2021, n. 26651.

[51] Sulla posizione del convivente more uxorio in ambito fiscale, anche dopo la legge n. 76/2016, S. Gianoncelli, La famiglia inquadrata nella prospettiva dell’ordinamento tributario, in Riv. dir. finanz. e scienza delle fin., 2018, 406 ss.

[52] Cfr. la Guida “Ristrutturazioni edilizie: le agevolazioni fiscali e Guida “Sisma bonus: le detrazioni per gli interventi antisismici della Agenzia delle Entrate, in www.agenziaentrate.gov.it; altresì, la Risoluzione della Agenzia delle Entrate - Direzione Centrale Normativa n. 64 del 28 luglio 2016.

[53] La giurisprudenza è orientata a riconoscere che, nei rapporti di fatto, il convivente esercita sulla casa destinata ad abitazione comune, ma di proprietà dell’altro convivente, una detenzione qualificata; questo giacché il rapporto del convivente non titolare con l’immobile non “si fonda su di un titolo giuridicamente irrilevante quale l'ospitalità, anziché sul negozio a contenuto personale alla base della scelta di vivere insieme e di instaurare un consorzio […] socialmente riconoscibile”. Logico corollario è che “il canone della buona fede e della correttezza, dettato a protezione dei soggetti più esposti e delle situazioni di affidamento, impone al legittimo titolare che, cessata l'affectio, intenda recuperare, com'è suo diritto, l'esclusiva disponibilità dell'immobile, di avvisare il partner e di concedergli un termine congruo per reperire altra sistemazione”.Per converso, il convivente non proprietario è legittimato a esperire la tutela possessoria con l’azione di spoglionei confronti del convivente proprietario che lo abbia estromesso dall’unità abitativa in maniera violenta o clandestina: per tutte, Cass. 21 marzo 2013, n. 7214, in De Jure. Si segnala che, nell’ambito della legge n. 76/2016, e dunque delle convivenze regolamentate, l’art. 1, comma 61, prevede che il convivente che intende recedere dal contratto di convivenza, qualora abbia la disponibilità esclusiva della casa familiare, accordi con la dichiarazione di recesso, a pena di nullità, all’altro convivente un termine, non inferiore a novanta giorni, per lasciare l’abitazione; ciò assumendo, implicitamente, che il recesso dal contratto di convivenza sottenda altresì la volontà di interrompere il rapporto affettivo, quale presupposto che in realtà non parrebbe essere scontato.

[54] Cass. 20 giugno 2013, n. 15481, in Resp. civ. e prev., 2013, 1877 ss., con nota di C. Nassetti, L’illecito endofamiliare fa ingresso nella famiglia di fatto; successivamente, Trib. Bologna 16 dicembre 2014, n. 3607, in De Jure, ove si legge che “La relazione affettiva tra conviventi dà vita ad uno speciale contatto dal quale possono sorgere obblighi di correttezza (e di informazione)”, sicché “la violazione di doveri di lealtà e correttezza tra conviventi […] può provocare un danno”. Sul tema, G. Facci, Gli illeciti endofamiliari tra risarcimento e sanzione, in Resp. civ. e prev., 2019, 421 ss.

[55] In questo senso sembrano deporre molte proposte interpretative; solo per citarne una, si è suggerito di contenere la misura pensionistica di reversibilità al convivente superstite entro una determinazione temporale o, comunque, un’erogazione una tantum: questa ricostruzione è formulata da G. Pistore, Convivenze di fatto e tutela dei superstiti tra problemi vecchi e nuovi, in Biblioteca ‘20 maggio’, 2017, 489.

Prussiani Chiara



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