«Exitio est avidum mare nautis»: la «miserrima naufragorum fortuna» nell’antico Mediterraneo
Sara Galeotti
Ricercatrice di Diritto romano e diritti dell’antichità
Università degli Studi Roma Tre
«Exitio est avidum mare nautis»:
la «miserrima naufragorum fortuna»
nell’antico Mediterraneo*
English title: «Exitio est avidum mare nautis»: The Tragic Fate of the Castaways in the Ancient Mediterranean World
DOI: 10.26350/004084_000080
And yet I have known the sea too long to believe in its respect for decency. An elemental force is ruthlessly frank.
– J. Conrad, Falk
If they will only hold their hands until the season is over, he promises them a royal carnival, when all grudges can he settled and the survivors may toss the non-survivors overboard and arrange a story as to how the missing men were lost at sea.
– J. London, The Sea Wolf
Sommario: 1. Introduzione: il mare degli antichi – 2. Fondamenti antropologici, economici e geografici della predazione marittima – 2.1. Il sentimento dell’altro – 2.2. Predazione, sopravvivenza e conquista – 3. Antiche consuetudini marittime mediterranee e limitazione delle pratiche predatorie – 4. Brevi cenni sulle misure adottate dai Romani«ad nautas ex maris periculis servandos» – 5. Considerazioni finali.
- Introduzione: il mare degli antichi
Elemento imprevedibile[1], spesso ostile[2], il mare costituisce nell’immaginario degli antichi uno spazio da sempre sottratto alle leggi umane[3]. La sua rappresentazione[4], caratterizzata da una forte ambivalenza[5], ne fa metafora della precarietà della vita[6], simbolo ideale del confine[7] tra una dimensione nota dell’esistenza e un’altra oscura, dominata dalla forza minacciosa della natura[8].
Leggiamo, per esempio, nell’Odusia:
Namque nullum peius macerat humanum
quamde mare saevom: vires cui sunt magnae,
topper[9] confringent importunae undae[10].
La furia dei flutti, evocata da Livio Andronico con la solennità arcaicizzante del saturnio, riverbera in modo inequivocabile la consapevolezza dei pericoli cui sono esposti i naviganti. Nella vigorosa interpretazione del modello omerico[11], che ci offre il liberto tarantino, la potenza espressiva dei versi originali è infatti amplificata da scelte terminologiche[12] orientate a esaltare tutta la terribilità del mare.
Nulla fiacca l’uomo, nulla lo consuma più della tempesta.
Al fine di conservare la ricchezza semantica dell’omerico συγχεῦαι[13], Livio Andronico ne scinde il significato nei due verbi latini macerare e confringere, che traducono, rispettivamente, l’azione di una forza demolitrice e il frastornamento che a essa consegue. In luogo del θαλάσσης greco troviamo poi mare e undae, accompagnati, in una struttura chiasmatica, dagli attributi saevom e importunae: il primo enfatizza l’inesorabilità dell’elemento; il secondo, l’assillo intollerabile dei flutti[14].
Gli aspetti più cupi e minacciosi del mare costituiscono, d’altro canto, un fondale metaforico ricorrente nelle composizioni poetiche[15]. Si va, infatti, dalla nave in balia dei venti come allegoria dello Stato[16], al naufragio[17] quale metafora delle sventure che, inevitabili, incombono sull’uomo[18]; dalla burrasca come specchio dell’inquietudine che travolge l’innamorato[19], al fortunale quale ‘traduzione’ nautica dell’esilio[20]. Per non dire, poi, della frequenza con cui, da Eschilo agli epigrammisti bizantini[21], il mare, con i suoi abissi inospitali, è equiparato all’Ade[22] o indicato come via di accesso agli inferi[23].
Poiché prendere il largo vuol dire esporsi all’ignoto, spesso a una prova mortale[24], il rapporto dell’uomo con l’altrove marino è segnato da un dualismo dialettico non privo di accenti drammatici: navigare è necessario[25], tuttavia i vantaggi che ne derivano sono controbilanciati dalle molteplici insidie che possono funestare una traversata[26]. Un’eloquente testimonianza di questo sentire è rappresentata, ancora nel III secolo d.C., da un passo del commentario di Paolo a Sabino.
Paul. 7 ad Sab. D. 39.6.3: Mortis causa donare licet non tantum infirmae valetudinis causa, sed periculi etiam propinquae mortis vel ab hoste vel a praedonibus vel ab hominis potentis crudelitate aut odio aut navigationis ineundae.
Secondo Paolo è lecito donare mortis causa non solo quando motivi di salute lascino presagire un imminente pericolo di vita del donante, ma anche qualora il suo rischio di premorienza rispetto al donatario sia imputabile, oltre che a una serie di cause puntualmente enumerate dal giurista e ascrivibili, per così dire, alle molteplici declinazioni della violenza umana, alla circostanza che il donante si accinga a salpare[27].
La ragione di tale accostamento è spiegata dallo stesso Paolo[28], che specifica:
Paul. 7 ad Sab. D. 39.6.6: Haec enim omnia instans periculum demonstrant.
Il senso di minaccia è reso da instans, participio di insto qui usato in funzione attributiva: il giurista non solo sottolinea l’incombenza del periculum, ma evidenzia quanto esso influenzi il processo decisionale del donante. Altrettanto interessante mi pare l’uso di demonstrare, verbo che, sul piano cognitivo, richiama la natura e l’esperienza comune: che il mare sia uno spazio irto d’insidie corrisponderebbe a una verità universale, della quale sarebbe possibile fornire prove oggettive (demonstrare, appunto). Quella riferita non è però solo l’opinione di un prudens dell’età classica, piuttosto la sintesi realistica di un sentimento radicato in antico e persistente fino a un’epoca relativamente recente[29]. L’associazione stabilita dal giurista documenta, cioè, la diretta incidenza dello sviluppo tecnologico sulla percezione che l’uomo ha della navigazione e della sua pericolosità: quando il livello evolutivo della nautica non era tale da assicurare il ritorno di chi sfidasse i flutti[30], condannando molti a ‘θανεῖν μετὰ κύμασιν’[31] (sorte giudicata ‘δεινή’, ‘terribile’[32]), la mors non poteva che apparire propinqua, quasi inevitabile[33]. La temibilità del mare si riverbera con evidenza, per esempio, nelle lettere dei viaggiatori[34]. Il rischio costante di perdere la vita trapela, infatti, dalle parole di chi, affidandosi alla benevolenza degli dei, ha sfidato le onde ed è loro sopravvissuto:
Ἀπίων Ἐπιμάχῳ τῶι πατρὶ καὶ
κυρίῳ πλεῖστα χαίρειν. πρὸ μὲν πάν-
των εὔχομαί σε ὑγιαίνειν καὶ διὰ παντὸς
ἐρωμένον εὐτυχεῖν μετὰ τῆς ἀδελφῆς
μου καὶ τῆς θυγατρὸς αὐτῆς καὶ τοῦἀδελφοῦ
μου. εὐχαριστῶ τῷ κυρίῳ Σεράπιδι
ὅτι μου κινδυνεύσαντος εἰς θάλασσαν
ἔσωσε εὐθέως. ὅτε εἰσῆλθον εἰς Μη-
σήνους, ἔλαβα βιάτικον παρὰ Καίσαρος
χρυσοῦς τρεῖς καὶ καλῶς μοί ἐστιν.
ἐρωτῶ σε οὖν, κύριέ μου πάτηρ,
γράψον μοι ἐπιστόλιον πρῶτον
μὲν περὶ τῆς σωτηρίας σου, δεύ-
τερον περὶ τῆς τῶν ἀδελφῶν μου,
τρ[ί]τον, ἵνα σου προσκυνήσω τὴν
χεραν, ὅτι με ἐπαίδευσας καλῶς,
καὶἐκ τούτου ἐλπίζω ταχὺ προκό-
σαι τῶν θε[ῶ]ν θελόντων. ἄσπασαι
Καπίτων[α] π̣ο̣λλὰ καὶ τοὺ̣ς̣ἀδελφούς
[μ]ου καὶ Σε[ρηνί]λλαν καὶ το[ὺς] φίλους μο[υ].
ἔπεμψά σο[ι εἰ]κόνιν μ[ου] διὰ Εὐκτή-
μονος. ἔσ[τ]ι̣[ν] μουὄνομα Ἀντῶνις Μά-
ξιμος. ἐρρῶσθαί σε εὔχομαι.
κεντυρί(α) Ἀθηνονίκη[35].
εὐχαριστῶ τῷ κυρίῳ Σεράπιδι, ὅτι μου κινδυνεύσαντος εἰς θάλασσαν ἔσωσε εὐθέως – rendo grazie al dio Serapide, poiché prontamente mi salvò, mentre mi trovavo in pericolo in mare: approdato a capo Miseno, dopo essersi arruolato in Egitto, il giovane Apion riferisce al padre di come la divinità l’abbia protetto nel corso della traversata. Non è dato sapere a quale insidia egli sia scampato, ma un altro elemento dell’epistola rivela le minacce nascoste in quel tratto di mare: il riferimento a un’indennità di viaggio – βιάτικον (viaticum) – di tre aurei corrisposto al soldato al suo arrivo.
In un contesto dominato dalla superstizione[36] e da una tecnica nautica rudimentale, la paura di perire durante una traversata[37] è invero tanto viva che la semplice sopravvivenza diviene, per alcuni, motivo di vanto o di gratitudine alla divinità. È il caso dell’anonimo celato dietro un’epigrafe rinvenuta a Terracina:
------/
[---] multos annos velificav[it][38]
Il bassorilievo, raffigurante, secondo la descrizione del Mommsen[39], una navis velis expansis e risalente a un’epoca compresa tra la fine della res publica e l’inizio del principato, documenta l’orgoglio con il quale il fortunato, che per «molti anni sciolse le vele al vento», facendo tuttavia sempre ritorno a casa, vuole sia ricordata la sua buona sorte (o la vede rivendicata dai familiari).
Numerosissimi sono poi i tituli votivi indirizzati alle divinità venerate in templi siti presso il mare ο porti, pertanto elette a protettrici dei naviganti[40], oppure gli ex voto di chi, fatto naufragio, è miracolosamente sopravvissuto[41] e, in certuni casi, ha avuto salvo persino il carico[42]. Ma è soprattutto nell’epigrafia sepolcrale che il tema dei pericoli della navigazione lascia tracce significative[43], siano gli epitaffi destinati a ricordare coloro che avevano almeno ricevuto gli onori funebri[44], oppure – e sono la maggior parte – a ornare cenotafi[45]. Se, infatti, il bitinio Basilide può dolersi di giacere in terra straniera[46], o la madre del samio Ippia di doverne ricomporre il corpo scempiato dal mare[47], dei più non resta, in memoria, che una tomba vuota. Tra i ‘monumenti all’assenza’ ve n’è uno, in particolare, che vorrei ricordare, poiché, testimoniando l’esistenza nell’Egeo di pratiche predatorie ai danni dei naufraghi, costituisce un documento di grande interesse per questo studio: si tratta del cenotafio con il quale tale Protos commemora la penosa sorte di due fratelli originari di Amisos (l’attuale Samsun, in Turchia). Così recita l’iscrizione:
δακρυόεν τόδε σῆμα, καὶ εἰ κενὸν ἠρίον ἧσται,
Φαρνάκου αὐθαίμου τ’ αἰπὺ Μύρωνος ὁμοῦ,
τῆς Πάπου γενεᾶς οἰκτρᾶς, ξένοι, οὕς Ἀμισηνοὺ[ς]
ναυαγοὺς Βορέου χεῖμ’ ἀποσεισαμένους
ἀγροίκων ξιφέεσσι Σεριφιὰς ὤλεσε νῆσος,
ἀμφὶ βαρυζήλου τέρμα βαλοῦσα τύχης.
Πρῶτος δ’ ἐν Ῥήνης κόλποις στηλώσαθ’ ἑταίρων
τύμβον ἐπ’ ἀστήνοις μνημόσυνον στεναχᾶν[48].
Farnace e Myron sono sopravvissuti a un naufragio solo per andare incontro a una fine forse peggiore[49], giacché, giunti a Seriphos, sono stati trucidati dagli isolani armati di spade[50]. L’aggettivo scelto per qualificare i loro assassini, ἄγροικοι, non è solo ricco di suggestioni letterarie[51], ma può aiutare a far luce sulla dinamica degli eventi. È possibile, invero, che gli sfortunati naufraghi siano stati scambiati per predoni – il che documenterebbe la persistenza di azioni piratesche nel Mediterraneo a metà dal II secolo a.C. – ma ancora più probabile, mi pare, è che nell’area delle Cicladi non fosse insolita la pratica del cosiddetto ‘diritto di naufragio’[52], antinomica rispetto ai sacri doveri della xenía, e pertanto considerata rivelatrice della barbarie di un popolo. Il cenotafio avrebbe avuto allora, al contempo, una funzione commemorativa, utile forse a placare l’anima dei ναυαγοί[53], e una, per così dire, ammonitiva, ricordando ai viaggiatori, come già Euripide nell’Helena[54], l’estrema precarietà della condizione di naufrago, sventurato la cui sopravvivenza dipende, più che da un diritto universalmente riconosciuto, dalla benevolenza degli indigeni[55].
Sicuramente vittima dei leistai, ancora attivi nell’Egeo intorno al I secolo d.C., è invece il destinatario di un altro epitaffio:
δάκρυσον, παροδεῖτα, Τ[—nomen patronymic υἱόν?],
ἔμπορον ἐν ληστῶ[ν χερσὶν ἀπο]λ̣λ̣[ύμενον]·
ὃν μάτηρ πέμψα[σα τριχούμεν]ον ἄρτι γέν[ει]α
οὐκ ἴδεν, οὐ γεν[έτης· Τῆ]ν̣οςἔφλεξε νέκυν
αἰαῖ καὶ τέφρ[αν φθιμένου] προσεδέξαθ’ ὅμευνος,
ἀντ’ εὐ[νῆς χήρων ἁ]ψαμένη λεχέων[56].
Lo sconosciuto ateniese, che, a dispetto del severo giudizio esiodeo sulla pratica del commercio marittimo[57], in vita era stato proprio un ἔμπορος[58], dopo essere stato ucciso dai pirati, riceve gli onori funebri sull’isola di Tenos. L’iscrizione non consente una precisa ricostruzione dei fatti; le scelte lessicali dell’autore dell’epigrafe mi portano a immaginare che il mercante sia perito a seguito dell’assalto armato portato dai predoni (ἀπολλύμενος ἐν ληστῶν χερσὶν) alla sua imbarcazione, ma potrebbe anche darsi che egli sia rimasto vittima di un’aggressione all’approdo[59], analogamente a quanto capitato ai due fratelli di Amisos.
Alla morte in mare, che cagiona la dispersione del corpo, destinato a giacere – irrecuperabile – negli abissi o a essere divorato dai pesci[60], sono altresì dedicati molti degli epigrammi raccolti nel settimo libro dell’Anthologia Palatina[61], alcuni dei quali già citati in nota. Non è naturalmente possibile proporne qui una rassegna completa, tuttavia voglio segnalarne alcuni ove gli autori, per accrescere verosimiglianza e pathos della composizione, arricchiscono la trama narrativa del naufragio di dettagli, se non strettamente attinenti all’oggetto della ricerca, almeno utili all’indagine.
Vi sono, per esempio, componimenti che lasciano intendere come i costi di una fractio navis non siano misurabili solo in termini di vite umane, ma a essi debba aggiungersi (per chi resta) il danno economico dato dalla perdita del natante e del carico:
Νάξιος οὐκ ἐπὶ γῆς ἔθανεν Λύκος, ἀλλ᾽ἐνὶ πόντωι
ναῦν ἅμα καὶ ψυχὴν εἶδεν ἀπολλυμένην,
ἔμπορος Αἰγίνηθεν ὅτ᾽ἔπλεε. χὢ μὲν ἐν ὑγρῆι
νεκρός, ἐγὼ δ᾽ἄλλως οὔνομα τύμβος ἔχων
κηρύσσω πανάληθες ἔπος τόδε ‘φεῦγε θαλάσσηι
συμμίσγειν ἐρίφων ναυτίλε δυομένων᾽.
– Callim. AP 7.272 (HE 1219-24)
ὦ παρ᾽ἐμὸν στείχων κενὸν ἠρίον, εἶπον, ὁδῖτα,
εἰς Χίον εὖτ᾽ἂν ἵκῃ, πατρὶ Μελησαγόρῃ,
ὡς ἐμὲ μὲν καὶ νῆα καὶἐμπορίην κακὸς Εὖρος
ὤλεσεν, Εὐίππου δ᾽ αὐτὸ λέλειπτ᾽ὄνομα.
– Ascl. AP 7.500 (HE 954-7)
ὤλεσεν Αἰγαίου διὰ κύματος ἄγριος ἀρθεὶς
λὶψ Ἐπιηρείδην Ὑάσι δυομέναις,
αὐτὸν ἑῇ σὺν νηὶ καὶἀνδράσιν ᾧ τόδε σῆμα
δακρύσας κενεὸν παιδὶ πατὴρ ἔκαμεν.
– Pancrat. AP 7.653 (HE 2855-8)
Κληῖδες Κύπρου σε καὶἐσχατιαὶ Σαλαμῖνος,
Τίμαρχ᾽, ὑβριστής τ᾽ὤλεσε Λὶψ ἄνεμος,
νηί τε σὺν φόρτῳ τε: κόνιν δέ σου ἀμφιμέλαιναν
δέξαντ᾽ οἰζυροί, σχέτλιε, κηδεμόνες.
– Theodorid. AP 7.738 (HE 3554-7)
Descritto come un nemico vorace e spietato, il mare unisce nella stessa drammatica sorte uomini e cose, giacché la sua furia non risparmia nulla: non il navigante, non la barca, non i beni in essa trasportati[62]. Oltre a rappresentare, dunque, un’interessante esemplificazione dei topoi e degli stilemi caratteristici dell’epitaffio – su tutti l’espediente di una forma dialogica che, drammatizzando il passaggio dell’informazione dall’epigrafe al passante, trasforma quest’ultimo da lettore a interlocutore[63] –, questi epigrammi esprimono il sentimento d’impotenza dell’essere umano davanti all’ἔχθρα[64] di un elemento ingovernabile. Lo suggerisce, in particolare, una pregnante scelta terminologica: l’uso di ὄλλυμι[65] per descrivere la devastazione portata dall’infuriare dei venti e delle onde. Tale verbo, dalla forte connotazione letteraria[66], ricorre infatti nell’èpos con riferimento a contesti bellici[67], e non tanto indica l’atto di uccidere, piuttosto quello dell’annientare.
Ancora più interessante è un epigramma di Leonida di Taranto, ove, accantonato il tema naturalistico della tempesta, il poeta inserisce un elemento narrativo destinato ad avere grande fortuna nel romanzo antico: la pirateria[68].
αἰεὶ ληισταὶ καὶἁλιφθόροι, οὐδὲ δίκαιοι
Κρῆτες: τίς Κρητῶν οἶδε δικαιοσύνην;
ὡς καὶἐμὲ πλώοντα σὺν οὐκ εὐπίονι φόρτῳ
Κρηταιεῖς ὦσαν Τιμόλυτον καθ᾽ἁλός,
δείλαιον. κἠγὼ μὲν ἁλιζώοις λαρίδεσσι
κέκλαυμαι, τύμβῳ δ᾽ οὐχ ὕπο Τιμόλυτος.
– Leon. Tar. AP 7.654 (HE 2048-53)
Come ci ricorda lo stesso Timolito, nemmeno la modestia del carico (οὐκ εὐπίονι φόρτῳ) è bastata a salvarlo dalla ferocia dei pirati cretesi, che, dopo averne assaltata (forse affondata) l’imbarcazione, l’hanno condannato a giacere per sempre, insepolto, sul fondo del mare. È dunque con buone ragioni che il commediografo Filemone si meraviglia οὐκέτ᾽ εἰ πέπλευκέ τις, ἀλλ᾽εἰ πέπλευκε δίς[69]: il potenziale distruttivo dell’oinops pontos non appare, invero, alimentato solo dalla furia degli elementi atmosferici, ma anche dall’uomo, che in esso trova un ambiente propizio all’esercizio di attività di brigantaggio[70].
2. Fondamenti antropologici, economici e geografici della predazione marittima
Prima ancora che ai Romani, la miserrima naufragorum fortuna[71] era ben nota ai Greci, il cui approccio al tema del soccorso e del ricetto delle vittime del mare appare condizionato dall’attitudine etnocentrica che ne segna profondamente l’identitàculturale[72].
L’epica omerica, in particolar modo l’Odissea, riflette non solo l’intensa attività marinara delle popolazioni stanziate lungo le coste e le isole del bacino Mediterraneo[73], ma anche i valori di un mondo nel quale essere ospitali è indice di civilizzazione, mentre si considera barbaro e inospitale chi, non dedicandosi alla navigazione né ai commerci, non partecipa della vita economica dell’Ellade[74]. Così Odisseo, approdato sulle coste della Sicilia, all’epoca ancora estranea alla sfera d’influenza dei Greci, è trattato alla stregua di un ladrone e privato d’ogni suo diritto, oltre che di ogni bene[75]; spoliazione legittima, giacché sarebbe lo stesso Poseidone, protettore dell’isola, a donare averi e vita dello straniero naufrago agli abitanti del lido[76]. Diversamente, quando l’eroe cerca riparo presso le coste greche, riceve protezione dagli abitanti[77], i quali, proprio perché avvezzi a considerare il mare la principale via degli scambi commerciali[78], intendono il naufragio come un semplice incidente della navigazione e non approfittano delle condizioni di minorata difesa dei naviganti sorpresi, per esempio, da un fortunale.
Ma se l’importanza del commercio marittimo pare[79] sopravanzare presso i Greci[80] – in particolare gli Ateniesi[81] – ogni altro interesse[82], diversa è la situazione nel resto del Mediterraneo e nel vicino Oriente, ove appropriarsi dei relitti delle navi, del carico sottratto ai flutti, talora persino dell’equipaggio sopravvissuto, pare essere pratica comune. Secondo un’antica consuetudine di alcune popolazioni costiere, infatti, quanto scampava alla tempesta apparteneva di diritto a chi l’avesse rinvenuto, oppure alla comunità dalla quale proveniva il rinvenitore[83]. Sarebbe erroneo, tuttavia, credere che solo genti selvagge e marginali – quelle originarie della Tauride[84] o della Tracia[85], per esempio, secondo un topos ricorrente nell’antichità – fondassero sull’attitudine al saccheggio, esteso talora alle navi approdate integre senza autorizzazione[86], la loro sopravvivenza. In epoca risalente tale prassi era al contrario diffusa anche nell’Egeo, a Sciro[87], a Creta[88], persino a Rodi[89], a dispetto della sua fama di terra ospitale, impegnata nella lotta contro i predoni del mare[90].
L’arcaico ‘diritto di naufragio’[91] ha, con ogni probabilità, sia un fondamento antropologico che economico. In merito al primo profilo, dobbiamo ricordare la stretta relazione che intercorre tra le forme di concettualizzazione e di rappresentazione dello straniero nell’antichità mediterranea, e l’applicazione della cosiddetta ‘law of salvage’. Poiché non sarebbe possibile, in questa sede – né rappresenta l’oggetto primario della ricerca – affrontare nel dettaglio il tema assai complesso della definizione dei rapporti con l’‘altro’ nel mondo greco-romano, mi limiterò a pochi cenni essenziali, rinviando alle note per ulteriori approfondimenti.
2.1. Il sentimento dell’altro
La percezione di chi viene ‘da lontano’/‘da fuori’ risulta sempre condizionata da un processo di affermazione identitaria ‘a doppio binario’, poiché il ri-conoscimento di sé quale membro di un gruppo discende dall’incontro e dal confronto con la diversità altrui[92]. La riflessione sull’alterità, funzionale alla costruzione di un’identità sociale, implica pertanto che nel rapporto con lo straniero pesino profondamente le condizioni socio-economiche della comunità d’origine, la frequenza delle relazioni e degli scambi transfrontalieri, le esperienze storiche che hanno segnato tali contatti[93]. Il pregiudizio etnico e la promozione di un’immagine stereotipata dell’alterità, connotata in modo negativo (se non addirittura minaccioso)[94], sono dunque tanto più diffusi quanto meno frequenti sono gli episodi di attraversamento della liminalità, che segna, circoscrivendolo, il territorio del gruppo di appartenenza[95].
Sebbene possa dirsi superata[96] la posizione di quella parte della dottrina[97] che teorizzava l’esistenza di uno stato di ostilità permanente quale condizione primordiale dei rapporti fra i popoli, occorre senz’altro distinguere, come anticipato, l’atteggiamento di quelle società caratterizzate da un’economia autarchica, sostanziata da un’agricoltura di sussistenza e dalla caccia[98], da quello proprio di comunità in cui è il commercio la risorsa prevalente[99]. Le prime, infatti, non necessitano di figure di intermediazione, né, in assenza di posizioni economiche vacanti, incoraggiano l’ingresso di nuove unità, giacché esse costituirebbero un elemento perturbativo delle ben definite gerarchie sociali[100]. Nelle seconde, al contrario, il forestiero non è inteso come «der Wandernde, der heute kommt und morgen geht, sondern als (…) der heute kommt und morgen bleibt», e rappresenta un valido strumento di collegamento con l’‘Altrove’[101].
Nell’antichità greco-romana, la forte carica ideologica e religiosa, che connota la ‘fenomenologia dell’estraneo’[102], ci è restituita dall’ambiguità[103] del campo semantico dei termini con i quali ci si riferisce allo straniero. Il sentimento dell’identità, coincidente con quello del limite[104], si riverbera, infatti, in sostantivi come xénos e hostis, all’interno dei quali si sovrappongono i concetti, nel nostro lessico culturale distinti, se non contrapposti, di estraneità e di ospitalità[105].
Per quanto riguarda il vocabolo latino, la sua polivalenza è ben documentata da due testimonianze della tarda repubblica, che ne ricostruiscono il progressivo slittamento dalla primitiva accezione di forestiero a quella di nemico. Se nel primo secolo a.C., infatti, hostis assume quest’ultimo significato, tanto da essere comunemente usato quale sinonimo di inimicus e perduellis[106], Cicerone e Varrone[107] ci ricordano come, apud maiores nostros, esso indicasse piuttosto il peregrinus, cioè quis suis legibus uteretur. Definito dal suo rapporto con i luoghi di transito e residenza, lo straniero è detto anche advena[108] (o adventor) [109], sostantivo che designa ‘colui che viene da fuori’, ‘chi non è cittadino del municipio in cui si trova’. Entrambi i termini – peregrinus e advena –, simmetrici come etimologia[110], riflettono, dunque, la ‘Weltanschauung’ romana, per la quale l’unica distinzione che rileva, ben più dell’appartenenza etnica, linguistica o religiosa a un gruppo[111], è quella fra chi è civis (romanus) e chi non lo è[112].
Coerentemente con quanto sinora osservato, le XII Tavole dettano per l’hostis una disciplina[113] che parrebbe, se non parificarlo tout court, senz’altro riconoscergli un’appartenenza sui generis alla comunità romana[114]. Nel suo significato arcaico, anzi, il termine richiama una dimensione relazionale, un legame con l’altro che non è né originario, né naturale, ma si sostanzia sullo scambio, su un mutuo riconoscimento pattizio[115].
Il motivo dell’uguaglianza, il riferimento a un contraccambio[116] che pone sullo stesso piano soggetti differenziati e differenziabili sulla base della sola provenienza geografica, connota anche il verbo dal quale forse hostis deriva[117]. Hostire, sovrapposto da Festo ad aequare[118], sembrerebbe suggerire come quella romana sia, fin dalle origini, un’identità mobile, la cui dialettica interna, fatta di inclusioni e di esclusioni, troverebbe conferma proprio nella progressiva specializzazione della terminologia che designa l’estraneo. Lungi dall’individuare due stati immutabili, hostis e hospes esprimono una dinamica relazionale ‘osmotica’, poiché mobile è il confine fra antagonismo e accoglienza, guerra e alleanza. Chi oggi è nemico, del resto, potrà sempre, in futuro, tramutarsi in un ospite, e viceversa[119].
All’esigenza di neutralizzare l’inquietudine che scaturisce dall’incontro con l’‘altro’, risponde pure, per certi versi, il più sacro dei vincoli del mondo greco: la xenía. Essa rappresenta, infatti, l’arte di trasformare in alleanze possibili situazioni di conflitto, poiché lo xénos – straniero e ospite –, accolto in casa e invitato a condividere la mensa[120], resta legato a chi gli ha offerto ricetto. Non diversamente dal dono, l’ospitalità è, insieme, atto libero e obbligato, interessato e disinteressato; una relazione non solo cruciale sul piano simbolico, ma che foggia, secondo una precisa ritualità, vincoli destinati a coinvolgere più generazioni[121]. Motivo ricorrente e centrale nell’èpos omerico[122], la xenía documenta, pertanto, come in una società primitiva, che non ha ancora enucleato la nozione di vincolo giuridico e in cui l’identità del singolo si definisce rispetto all’oikos, sia proprio l’intreccio di doveri reciproci, acquisiti per tradizione familiare e rinegoziati con rinnovate aperture di credito[123], ad assicurare la pace. In assenza di un segno tangibile di riconoscimento[124], tuttavia, alterità e ostilità diventano un tutt’uno[125]. Ne è la prova il termine con il quale si designa chi, estraneo alle relazioni di reciprocità fra le póleis, nemmeno è percepito quale potenziale interlocutore: βάρβαρος[126].
La lingua, principale referente identitario fra gli Hellenes[127], rappresenta, invero, il primo elemento d’individuazione e connotazione in negativo del forestiero non greco, tacciato di articolare suoni inintelligibili[128], oppure di avere un sembiante animalesco, quando non proprio mostruoso[129]. Il barbaro non è ‘straniero’ nell’accezione dello xénos, ma ‘estraneo’ all’idea di civiltà definita dalla (pretesa) omoglossia-monoglossia greca; la sua è un’alterità che sconcerta, poiché non neutralizzabile in un contesto relazionale, tanto che la guerra rimane l’unica risorsa spendibile contro il pericolo rappresentato dai selvaggi ‘balbettanti’. Nella prospettiva ricostruttiva proposta, mi pare allora non manchino elementi a sostegno dell’ipotesi, già avanzata in dottrina, che il diritto greco ammetta, a talune condizioni[130], pratiche predatorie a danno dei naufraghi, concependo l’appropriarsi delle imbarcazioni in avaria (o delle res iactae ex nave) come occupazione di res hostium[131] (e non di res nullius).
Da ultimo, occorre valutare un ulteriore dato culturale, ampiamente documentato dalle fonti letterarie, sarebbe a dire il significato che poteva assumere il naufragio nella sfera religiosa. Poiché chi prende il largo – lo si è detto – affida la propria vita (e il proprio carico) alla divinità, il naufrago è un reietto, qualcuno che gli dei per primi hanno abbandonato[132]. Per le genti rivierasche, del resto, tempeste e fortunali finiscono con il rappresentare il segno della benevolenza divina, giacché riempiono le spiagge dei resti di naves fractae, doni graditi di un dio protettore.
2.2. Predazione, sopravvivenza e conquista
Con riguardo alle ragioni storico-economiche della predazione marittima, occorre evidenziare che il saccheggio dei relitti, al pari della pirateria, costituisce nell’antichità, per molti popoli rivieraschi, la principale fonte di sussistenza e di arricchimento, tanto che, là dove i naufragi sono più frequenti, s’impone la necessità di regolare i confini delle ‘aree di rapina’, onde ridurre il rischio di conflitti tra i locali per il bottino. Secondo la testimonianza di Senofonte, per esempio, i Traci avrebbero delimitato con cippi le zone riservate a ciascuna tribù [133] per evitare le aggressioni reciproche nella fascia costiera di Salmydessus – definita icasticamente da Eschilo ‘μητρυιὰ νεῶν’[134] –, i cui bassi fondali costituivano un’insidia nota ai naviganti[135], tanto sovente le imbarcazioni vi si incagliavano o subivano danni irreparabili, con la conseguente perdita del carico[136].
La geografia dei luoghi e il livello di sviluppo delle attività produttive influenzano in modo diretto l’attitudine al saccheggio marittimo. A dispetto dell’incidenza di fattori politico-sociologici[137] nell’emersione delle varie forme di predazione ai danni dei naviganti, esiste, cioè, una stretta correlazione fra la proliferazione di tali pratiche e l’orografia del Mediterraneo[138]. La prossimità al mare delle catene montuose interdice infatti, in alcune aree costiere, la coltivazione della terra[139], oppure ne determina un rendimento tanto scarso da costringere buona parte della popolazione a fidare nei ‘frutti del mare’ (cioè relitti, ma anche navigatori ignari da assaltare) per vedersi assicurata la sopravvivenza[140]. L’esercizio della pirateria e di forme di saccheggio a danno dei naufraghi contraddistingue, non a caso, soprattutto quelle comunità, come i Dalmati, che, praticando un’agricoltura rudimentale su territori poco fertili, non riescono a soddisfare il fabbisogno alimentare locale, né a realizzare un surplus commerciabile[141]. Si deve inoltre rilevare che la sezione orientale del Mediterraneo, ove la linea costiera è assai irregolare e le isole, numerosissime, sono poco più che scogli, costituisce un ambiente ideale per i leistai, protetti da falesie e anfratti rocciosi[142]: il caso della Cilicia[143], regione dell’Asia Minore caratterizzata da un’aspra conformazione geografica e da una posizione strategica nelle rotte di navigazione, è, sotto questo profilo, paradigmatico.
L’intima connessione fra nomadismo, brigantaggio e pirateria sembra riverberarsi anche nel Talmud gerosolimitano, dal quale risulta che presso gli ebrei della costa, forse per l’influenza delle antiche consuetudini fenicie[144], era ammessa la predazione dei relitti, sicché quanto portato a riva da una tempesta era considerato proprietà del rinvenitore non meno delle cose sottratte alle fauci di una fiera. Probabilmente successiva all’originaria formulazione del precetto (orale, come tutta la tradizione mishnaica), la chiusa afferma però un principio in linea con la disciplina romana della derelictio, subordinando la legittimità dell’appropriazione da parte del terzo al fatto che il dominus avesse rinunciato al recupero[145]. Nel Talmud di Babilonia, cronologicamente successivo, i resti del naufragio (metzioth, ‘cose trovate’, secondo le disposizioni del Baba Metzia) sono trattati, del resto, al pari degli oggetti abbandonati in seguito a iactus e, in assenza di un animus derelinquendi del dominus, la loro sottrazione è considerata illecita[146].
Accanto al saccheggio delle imbarcazioni in avaria e, in origine, parzialmente sovrapposta a esso, sta poi – lo si è anticipato – la pratica nota come pirateria. Parlo di parziale sovrapposizione, poiché in epoca risalente essa consta per lo più nella cattura di navi avvistate dalla costa, anziché nell’attacco portato loro in mare aperto[147]. Leistai, katapontistai, latrones e piratae[148] costituiscono, in ogni caso, un fenomeno storico-economico molto diverso da quello, pur sempre anomico ed eccentrico rispetto alle categorie del diritto, dei Frères de la Côte o della Filibusta del Seicento[149]. L’antica pirateria, infatti, non è sempre (né necessariamente) accompagnata da un giudizio di riprovevolezza[150]; essa è talora presentata, al contrario, come un modus vivendi funzionale a integrare le entrate delle economie più povere e arretrate. Così, almeno, pare qualificarla ancora Aristotele, il quale include la predazione fra i generi di vita di coloro che «almeno hanno un’attività produttrice autonoma e non si procurano il cibo mediante gli scambi o il commercio» (generi di seguito puntualmente enumerati: «vita del nomade, del predone, del pescatore, del cacciatore, del contadino»). Il filosofo aggiunge inoltre che «alcuni … vivono … combinando questi modi di vita e colmando così le mancanze del loro, là dove non permette ad essi di raggiungere un’autosufficienza: per esempio alcuni vivono la vita del nomade e del predone, altri quella del contadino e del cacciatore»[151]. La trattazione appare scevra da giudizi di valore. Nonostante ricorra l’aggettivo λῃστρικός, legato linguisticamente alla parola λεία, ληΐη, (‘bottino’, ‘preda’), e al suo verbo denominativo ληΐζομαι (‘predare’), che ha una connotazione sostanzialmente negativa[152], le parole di Aristotele parrebbero limitarsi a documentare l’originaria connessione della pirateria al pauperismo[153]; il suo costituire una forma primordiale di sussistenza, analoga – e di fatto assimilabile – al saccheggio dei relitti o delle imbarcazioni in difficoltà.
L’analisi aristotelica del fenomeno piratesco presenta evidenti analogie con lo scenario descritto in un noto passo dell’Archaelogia. «Anticamente i Greci, e tra i barbari quelli che occupavano la costa del continente e le isole», scrive Tucidide, «appena cominciarono con maggior intensità a viaggiare con le navi l’uno verso il territorio dell’altro, si diedero alla pirateria sotto la guida degli uomini più potenti, che avevano lo scopo di procurare guadagno per sé stessi e sostentamento per i deboli. Attaccavano città prive di mura e che consistevano di villaggi, le saccheggiavano, e da questo traevano la maggior parte dei loro mezzi di sussistenza: questa attività non aveva ancora niente di vergognoso, ma recava anzi una certa gloria. Lo dimostrano ancora oggi alcuni degli abitanti del continente, presso i quali è un onore praticarla con successo; e anche gli antichi poeti, che ovunque fanno la stessa domanda ai viaggiatori che approdano, chiedendo loro se sono pirati, segno che coloro ai quali è fatta la domanda non ripudiano tale attività come indegna, e che coloro che desiderano essere informati non la condannano. Si depredavano a vicenda anche sulla terra; e ancora ai nostri giorni in molte zone della Grecia si vive alla maniera antica, cioè dalle parti dei Locresi Ozoli, degli Etoli, degli Acarnani e nelle altre zone continentali di quella regione. L’usanza di portare le armi è rimasta a questi abitanti del continente dall’antica abitudine della pirateria»[154].
Tra i ‘παλαιοὶ τῶν ποιητῶν’ ricordati dallo storico possiamo senz’altro annoverare Omero[155], il quale ricorre, in più luoghi[156] della propria opera, a una significativa espressione formulaica[157]:
ὦ ξεῖνοι, τίνες ἐστέ; πόθεν πλεῖθ᾽ὑγρὰ κέλευθα;
ἦ τι κατὰ πρῆξιν ἦ μαψιδίως ἀλάλησθε,
οἷά τε ληιστῆρες, ὑπεὶρ ἅλα, τοί τ᾽ἀλόωνται
ψυχὰς παρθέμενοι κακὸν ἀλλοδαποῖσι φέροντες;
Con queste parole, per esempio, Polifemo apostrofa Odisseo e i suoi dodici compagni. Nel rivolgersi agli intrusi con l’allocuzione ‘ὦ ξεῖνοι, τίνες ἐστέ;’, il Ciclope ne riconosce lo status di stranieri e di ospiti, pur eludendo gli obblighi imposti dalla xenía[158]. Quanto qui ci interessa, tuttavia, non è la presentazione del mostruoso gigante quale imago archetipica del barbaro[159], piuttosto il contenuto della successiva domanda: egli chiede agli sconosciuti se siano mercanti o pirati, quasi equiparandone le rispettive attività[160]. Sebbene siffatto accostamento costituisca, per certi versi, una prova ulteriore dei selvaggi costumi di Polifemo[161], altri luoghi dell’epica omerica mi portano a preferire una lettura alternativa[162]. Odisseo è infatti il primo a presentarsi al fedele Eumeo sotto le mentite spoglie di un cretese dedito ad atti di pirateria[163], testimoniando com’essa fosse, almeno presso certi popoli[164], un legittimo mezzo di arricchimento:
πρὶν μὲν γὰρ Τροίης ἐπιβήμεναι υἷας Ἀχαιῶν
εἰνάκις ἀνδράσιν ἦρξα καὶὠκυπόροισι νέεσσιν
ἄνδρας ἐς ἀλλοδαπούς, καί μοι μάλα τύγχανε πολλά.
τῶν ἐξαιρεύμην μενοεικέα, πολλὰ δ᾽ὀπίσσω
λάγχανον: αἶψα δὲ οἶκος ὀφέλλετο, καί ῥα ἔπειτα
δεινός τ᾽ αἰδοῖός τε μετὰ Κρήτεσσι τετύγμην.
In un mondo che misura la grandezza degli eroi, oltre che dalle imprese compiute, anche dalla ricchezza del bottino, pirateria ed egemonia paiono due facce di una stessa medaglia[165]: così Achille e Patroclo rivendicano le schiave conquistate[166], mentre Odisseo promette a Penelope di rimpiazzare, saccheggiando, le greggi mietute dai Proci[167].
Il labilissimo confine tra saccheggi, atti di rappresaglia o di guerra tout court, non trova riscontro solo nell’epica: i sovrani i cui regni affacciano sul Mediterraneo armano navi e assoldano mercenari per eliminare avversari scomodi, espandere dominî e indebolire i popoli confinanti, grazie ad azioni di contrasto ai traffici commerciali. Se condotta ai danni di comunità straniere, nei fatti, la pirateria appare tollerata, se non persino incoraggiata[168], come dimostrano i casi di Corinto (che da un lato raffina l’ingegneria navale per aumentare il potere d’assalto delle proprie imbarcazioni[169], dall’altro sviluppa una sorta di ‘diritto del mare’, che sanziona severamente i katapontistai e chiunque offra loro asilo) [170], e del re di Sparta Nabide, il quale, al fine d’interdire a Roma i rifornimenti di grano, non esita ad allearsi con i pirati cretesi[171]. Potremmo citare inoltre il tiranno Agatocle, che, secondo Giustino, ad regni maiestatem ex humili et sordido genere pervenit[172]: fra i crimini di cui il controverso personaggio si sarebbe macchiato, vi sarebbe anche quello di aver esercitato piraticam adversus patriam[173]. Questa voce, non provata, se non di dubbia credibilità[174], potrebbe documentare come il chiliarca, esiliato a Taranto, abbia sfruttato l’attività dei leistai che infestavano lo Ionio contro i leader oligarchici, al fine d’acquisire il controllo di Siracusa. Come meglio si vedrà nel prosieguo dell’indagine, l’esistenza di un ‘collaborazionismo piratico’, legato principalmente – ma non solo – alla guerra[175], potrebbe spiegare pertanto la sostanziale inefficacia delle prime azioni di contrasto al saccheggio marittimo. Le campagne militari, condotte nel nome della sicurezza nautica tanto dalle maggiori póleis greche[176] che da alcuni regni ellenistici (su tutti, l’impero tolemaico), sarebbero, cioè, più manifestazioni propagandistiche che non l’espressione di un reale desiderio di contenimento dei leistai, il cui potenziale bellico, di fatto consustanziale sia alla politica, sia all’economia dei popoli costieri, avrebbe giustificato, da un lato, aggressioni finalizzate all’espansione territoriale, dall’altro, la richiesta di esosi dazi per ottenere un passaggio sicuro in aree notoriamente infestate dai predoni[177]. In Egitto, per esempio, sebbene sia ben documentata la risalenza dell’azione di contrasto alla pirateria[178], non mancano testimonianze di alleanze occasionali strette dai sovrani locali con i temutissimi ‘popoli del mare’. Da Erodoto apprendiamo, infatti, come il nobile egiziano Psammis fosse ricorso al reclutamento di pirati Ioni e Cari[179] per vendicare la morte del padre Nekao, ucciso dall’etiope Tanut-Amon:
Herod. Hist. 2.152.4: καὶ τῷ μὲν δὴἀπιστίη μεγάλη ὑπεκέχυτο χαλκέους οἱἄνδρας ἥξειν ἐπικούρους. χρόνου δὲ οὐ πολλοῦ διελθόντος ἀναγκαίη κατέλαβε Ἴωνάς τε καὶ Κᾶρας ἄνδρας κατὰ ληίην ἐκπλώσαντας ἀπενειχθῆναι ἐς Αἴγυπτον, ἐκβάντας δὲἐς γῆν καὶὁπλισθέντας χαλκῷἀγγέλλει τῶν τις Αἰγυπτίων ἐς τὰἕλεα ἀπικόμενος τῷ Ψαμμητίχῳ, ὡς οὐκ ἰδὼν πρότερον χαλκῷἄνδρας ὁπλισθέντας, ὡς χάλκεοι ἄνδρες ἀπιγμένοι ἀπὸ θαλάσσης λεηλατεῦσι τὸ πεδίον.
La notizia appare storicamente fondata, giacché la presenza di mercenari greci in Egitto trova conferma nei celebri graffiti di Abu-Simbel[180], in Nubia, e in un’iscrizione rinvenuta sulla statuetta di Priene[181].
Un’altra interessante testimonianza dell’originaria – e almeno parziale – coincidenza di guerra e pirateria, cui corrispondono, rispettivamente, gesta e saccheggi[182], ci è offerta dalla dedica votiva di tale Athenodoros, del demo attico di Oa, agli dei Cabiri; dedica posta nel santuario di Lemnos e risalente alla metà del V sec. a.C.:
θεοῖς πρόναον σ̣ῦλα [κ]αὶ̣ λ̣έβητ[ας]
ἀνέθη̣κ᾿Ἀθηνόδωρος Ὀα̣εύ[ς][183].
La dottrina maggioritaria[184] ipotizza, infatti, che le prede offerte nel Kabirion non derivino da un’azione militare, ma siano il frutto di banditismo marittimo (così, almeno
Galeotti Sara
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