fbevnts Roman Military Law on the Edge of the Empire: Some Instances from the Vindolanda Tablets

Diritto militare romano ai confini dell’impero: alcuni esempi dalle tavolette di Vindolanda

30.06.2021

Giuseppe Di Donato

Assegnista di ricerca, Università Cattolica di Milano - Università del Surrey

 

Diritto militare romano ai confini dell’impero:

alcuni esempi dalle tavolette di Vindolanda*



English title: Roman Military Law on the Edge of the Empire: Some Instances from the Vindolanda Tablets

DOI: 10.26350/18277942_000032

 

Sommario: 1. Introduzione: le invasioni romane della Britannia. 2.1. Vindolanda: il forte e i suoi abitanti. 2.2. Le tavolette di Vindolanda. 3. Tab. Vindol. 891. 4. Tab. Vindol. 892. 5. Tab. Vindol. 297. 6. Tab. Vindol. 862. 7. Conclusioni.

 

 

1. Introduzione: le invasioni romane della Britannia

 

Col presente studio, parte di una ricerca in corso presso la University of Surrey, si intende presentare alcune tavolette di Vindolanda che hanno posto non pochi problemi interpretativi e fornire il contributo dell’analisi giusromanistica alla loro comprensione.

Nondimeno, prima di procedere a tale analisi è necessario dare brevi ragguagli sul contesto, ossia sugli eventi storici che precedettero l’edificazione del forte; sull’insediamento stesso di Vindolanda e sui suoi abitanti; nonché, infine, sugli autori o, talvolta, destinatari dei messaggi contenuti in tali tavolette.

La prima invasione romana della Britannia ebbe luogo nel 55 a.C., quando Cesare vi si diresse lamentando che «in quasi tutte le campagne condotte contro la Gallia, gli aiuti (auxilia) ai suoi nemici erano giunti da lì»[1]. Nonostante Cesare avesse fatto ritorno solamente con pochi ostaggi – e nemmeno tutti quelli che aveva richiesto[2] – il Senato gli tributò una cerimonia di ringraziamento (supplicatio) di ben venti giorni[3]. A tale spedizione ne seguì un’altra (54 a.C.), pure guidata da Cesare. Essa ebbe nuovamente come risultato la sola presa di alcuni ostaggi e nessun bottino, come Cicerone ebbe più volte modo di rimarcare[4], ma, avendo soggiogato la Britannia (confecta Britannia), Cesare fu stavolta in grado di imporre un tributo annuale ai locali[5]. Egli, inoltre, aveva stretto relazioni con il regno-cliente governato da Mandubracio, della tribù dei Trinobanti, nella Britannia sud-orientale: «suo padre, che regnava su questa tribù, era stato ucciso da Cassivellauno»[6], ragion per cui alcuni legati trinobanti avevano chiesto a Cesare di essere protetti dall’invasore ed essere invece governati da Mandubracio, offrendo in cambio la loro resa. Cesare aderì all’accordo, ricevendo in cambio ostaggi e grano per l’esercito[7].

Dopo Cesare fu Claudio a recarsi in Britanniacon l’esercito, al fine di conseguire la gloria di un legittimo trionfo (iustus triumphus), dal momento che nessuno dopo il Divo Giulio (Cesare) aveva tentato ciò[8]. Un episodio particolarmente significativo fu quello che ebbe come protagonista Carataco, un capo britannico che aveva guidato i Siluri e gli Ordovici contro l’esercito romano[9]. Arringando i suoi soldati, costui menzionò l’alternativa tra l’essere schiavi sotto il potere e i tributi imposti dai Romani e la libertà che avrebbero dovuto riconquistare[10]. Una volta sconfitto, «egli chiese protezione a Cartimandua, regina della tribù dei Briganti, ma fu messo in catene e consegnato ai (Romani) vincitori»[11]. Come si vede, i Britanni preferirono consegnare un loro re agli stranieri Romani piuttosto che, uniti, resistere contro il comune invasore. Per quanto riguarda i Romani, invece, «i senatori si riunirono e tennero numerosi e magnifici discorsi riguardo alla cattura di Carataco»[12], comparandola all’esposizione del re numida Siface da parte di Publio Scipione Africano e di Perse per mano di Lucio Emilio Paolo;[13] quindi tributarono a Claudio un imponente trionfo[14] e gli attribuirono il titolo di ‘Britannico’[15].

Tale signoria romana, peraltro, si realizzò anche tramite strumenti giuridici: Cassio Dione scrive che l’imperatore Claudio e i suoi luogotenenti (ντιστράτηγοι) strinsero alcuni accordi (μολογία)[16] con le tribù locali, tanto che il Senato, per indurre altre tribù a compiere il medesimo passo, decretò (ψηφσθη)[17] che ogni patto (σμβασις) fosse valido come se fosse stato concluso dal Senato e dal popolo romano (δμος) stessi[18].

Riguardo alle specifiche forze militari inviate in Britannia, Claudio aveva dato a Vespasiano il comando della legione Secunda Augusta[19], che aveva forse edificato lo Stone Fort 1 a Vindolanda[20]. Claudio si avvalse inoltre di truppe ausiliarie[21].

Quanto a Nerone, egli sedò una rivolta guidata da Boudica[22], regina della tribù degli Iceni, tra il 60 ed il 61 d.C., causata, secondo le parole di Boudica stessa – riportate da Dione Cassio – dalla ‘tirannia’ (δεσποτεα) romana, a cagione della quale, invece di godere della loro perduta ‘povertà senza padroni’ (πενία δέσποτος), i Britanni erano ora ‘schiavi nel benessere’ (πλούτου δουλεύοντος), spossessati dei loro più grandi possedimenti e costretti a pagare tributi su quelli che erano loro rimasti[23]. Tali parole, pur nella loro drammaticità, confermano che i Romani, nell’invadere terre altrui, non mancavano di ‘civilizzarle’– naturalmente dal loro punto di vista – con l’effetto anche di migliorare, almeno in parte, le condizioni di vita degli autoctoni.

Un altro episodio particolarmente rilevante ebbe luogo nel 77 d.C., quando Agricola sconfisse gli Ordovici[24], il cui dominio si estendeva dal Galles centrale fino all’isola di Mona (odierna Anglesey)[25]. Questa tribù costituiva un temibile pericolo, poiché poco tempo prima dell’arrivo di Agricola aveva quasi completamente sbaragliato uno squadrone di cavalleria (ala) attivo nel loro territorio, il che aveva posto in agitazione (erecta) l’intera Britannia[26]. Dopo aver pacificato questa regione, Agricola penetrò in Caledonia, la parte a nord della Britannia, e sconfisse i Caledoni in un luogo non identificato, chiamato da Tacito ‘Monte Graupio’[27]. Con la sua vittoria, nelle parole di Tacito «la Britanniafu completamente soggiogata per la prima volta»[28], mentre Dione Cassio agli inizi del III secolo d.C. celebra Agricola in quanto « fu certo il primo romano, a nostra conoscenza, ad aver scoperto che la Britanniaè circondata dall’acqua»[29]. Ad ogni modo, Agricola pose forti romani lungo i nuovi confini, che erano adesso costituiti dalla linea immaginaria che connette il Fiordo di Clyde con il Fiordo di Forth[30]. Si ritiene comunemente che la fondazione di Vindolanda risalga a questo periodo.

Come governatore, Agricola volle eliminare le cause stesse dei conflitti[31] e perciò, a titolo di esempio, nominò persone competenti nelle posizioni di governo ed amministrazione anziché nominare persone inette che avrebbe dovuto poi punire[32], e moderò l’esazione del tributo granario imponendo oneri più equi[33]. Ancora, «egli volle insegnare ai figli dei capi [Britannici] le arti liberali … al punto che coloro che poco prima non volevano accettare la lingua romana desideravano ardentemente parlarla con eleganza»[34]. I Britanni cominciarono così a vestirsi come i Romani, considerando ciò motivo di onore, e gradatamente soccombettero alle lusinghe dei vizi, alle colonnate, ai bagni, all’eleganza dei banchetti[35], il che, nelle parole di Tacito stesso, era chiamato ‘civiltà’ (humanitas) dai semplici Britanni, costituendo in realtà un aspetto del loro assoggettamento (pars servitutis)[36].

Circa le forze romane coinvolte nella Battaglia del Monte Graupio, esse non erano composte soltanto da Romani, ma da ‘differenti persone’[37] tra cui anche alcuni britanni[38].

È verosimilmente durante l’impero di Traiano che fu costruito lo Stanegate, il percorso che connette Coria (Corbridge) a Corsopitum (Carlisle) ed include diversi forti, tra i quali quello di Vindolanda[39]. Ciò ha fatto pensare ad alcuni studiosi che esso servisse da frontiera, ma tale ipotesi è ancora discussa[40].

           

2.1. Vindolanda: il forte e i suoi abitanti

 

Delineato così il contesto generale, è ora opportuno illustrare lo specifico contesto di Vindolanda, da cui le tavolette provengono. Le fonti letterarie, che ci hanno accompagnato sin ora, non soccorrono sul punto, cosicché sino a qualche decennio fa vi era incertezza sul nome stesso di Vindolanda. Esso difatti era ricavato in via del tutto ipotetica dalla Notitia Dignitatum, che menziona un aggregato urbano di nome ‘Vindolana[41], e dalla Ravennatis Anonymi Cosmographia, un elenco di luoghi risalente al VII secolo, che cita un centro urbano di nome ‘Vindolande[42]. Un altare ritrovato agli inizi del ‘900 proprio a Vindolanda, infine, accennava ai ‘vicani Vindolandesses[43]. L’incertezza è stata dissipata dalle stesse tavolette di Vindolanda, che attestano tale essere il nome del forte[44]. Inoltre, è verosimile che sul luogo ove sorse Vindolanda vi fosse un insediamento preesistente, come indica il nome, composto dai vocaboli celtici ‘windo’ (bianco)[45] e ‘landa’ (terra aperta)[46]. Del resto, è stato notato che altri forti hanno un nome con le stesse radici celtiche, come Vindogara, Vindobala e Vindomora[47].

Gli studiosi sono soliti distinguere in periodi il tempo in cui il forte fu attivo, in base alla sua struttura ed alle unità ivi stanziate. Essi hanno delineato diversi modelli: verrà qui adottato, opportunamente integrato coi risultati di altri specifici contributi, quello recentemente elaborato da Andrew Birley e Justin Blake[48]. Si tratta, d’altra parte, della periodizzazione adottata dall’ultima pubblicazione delle tavolette di Vindolanda[49]. Secondo tale modello, la vita del forte può essere suddivisa in dodici fasi, ma ai nostri fini è necessario concentrarsi sui primi due periodi, da cui le tavolette qui analizzate provengono, e citare dunque solamente in modo cursorio i successivi.

Sebbene non sia nota la data di fondazione di Vindolanda, si ritiene comunemente che essa ebbe luogo nel I secolo d.C., tra gli anni 70 e 85[50], quando uno o più forti di legno vennero ivi eretti per ospitare una forza ausiliarie, la Cohors I Tungrorum[51], all’epoca ‘comandata dal prefetto Giulio Verecondo’. Tale congettura è basata su Tab. Vindol. 154[52], che attesta la presenza della menzionata coorte ed è datata, seppur con cautela, agli anni 85-92[53]. Ricerche archeologiche attestano inoltre che Vindolanda in tale periodo era già parte di una tratta commerciale: nel fossato datato al Periodo I è stata ritrovata un’ingente quantità di vasellame, verosimilmente modellato a Condatomagos (oggi La Graufesenque, Francia)[54], che peraltro presenta notevoli somiglianze con quello ritrovato a Carlisle e Corbridge[55].

Il Periodo II è durato dal 95 al 100 d.C. ed è caratterizzato dalla presenza di un’altra forza ausiliaria, la Cohors VIIII Batavorum, sebbene sia discusso se essa coabitò coi Tungri oppure, come sostenuto da Anthony Birley[56], questi ultimi furono trasferiti prima dell’arrivo dei Batavi. Come che sia, la presenza dei Batavi in tale periodo è sicura, essendo attestata da alcune tavolette[57] ed altri reperti archeologici[58]. Quanto alla struttura, in questa fase il forte fu espanso e ristrutturato[59], ma forse questi interventi furono semplicemente determinati dalla necessità di riparare strutture deteriorate[60]. In tale periodo, del resto, Vindolanda aveva forse ancora carattere provvisorio, come si può inferire dal fatto che il praetorium era costruito in legno[61], con strutture di canniccio e fango e l’assenza di ciottoli dalle vie di passaggio, in ciò differendo dalla sua conformazione più tarda[62].

Il Periodo III va dal 100 al 105 d.C., e vede la contemporanea presenza della Cohors VIIII Batavorum e della Cohors III Batavorum. Il Periodo IV (105-120 circa d.C.) è caratterizzato dalla presenza della Cohors I Tungrorum, degli Equites Vardulli e di alcuni legionari – ‘milites legionares’, nel linguaggio di Tab. Vindol. 180.22 (militibus legionaribus), probabilmente ivi stanziati per preparare l’accampamento alla visita dell’imperatore Adriano quando visitò la frontiera. Difatti, nel Periodo V (circa 120-130 d.C.) alla Cohors I Tungrorum si affiancò l’entourage dell’imperatore Adriano, ed il forte venne ricostruito. Nel Periodo VI (approssimativamente 140-160 d.C.) vi si installò, forse, la Cohors II Nerviorum. Si distingue poi tra un Periodo VIA (circa 160-200 d.C.), in cui furono aggiunti muri di pietra alle strutture difensive, ed un Periodo VIB (200 circa-212 d.C.), in cui fu costruito un nuovo forte di pietra e capanne pure di pietra, mentre per nessuno di questi due periodi si conosce quali guarnigioni fossero stanziate. Durante il Periodo VII (dal 213 d.C. in poi) il forte in pietra fu totalmente ricostruito (Stone Fort 2), furono innalzate altre strutture extra-murarie in pietra e fu stanziata la Cohors IV Gallorum. Anche il Periodo VIII (circa 300 d.C.) si caratterizza per l’esecuzione di lavori di ricostruzione del forte e lo stanziamento della medesima coorte. Non si conosce quali forze armate fossero presenti durante il Periodo IX, essendo noto solamente che dopo il 367 d.C. Vindolanda fu ulteriormente ricostruita e riorganizzata. Infine, per il Periodo X (dopo il 410 d.C.) si registra solamente una generica presenza umana.

L’identificazione e pur rapida illustrazione delle unità di stanza a Vindolanda può aiutare a comprendere quali norme giuridiche costoro fossero solite osservare e, dunque, a valutare meglio le tavolette di Vindolanda che presentino un contenuto giuridicamente rilevante. Sia i Tungri sia i Batavi, di stanza a Vindolanda rispettivamente nel I e II periodo di vita del forte, sono presentati da Tacito come alleati dei Romani durante la battaglia del Monte Graupio. Lo stesso autore li descrive come combattenti particolarmente abili, avendo costoro servito a lungo nell’esercito romano (vetustate militiae exercitatum)[63]. Ciò è confermato da un altro passo di Tacito, in cui si precisa che entrambe le unità combatterono nel 69 d.C. sotto il comando del generale romano Fabio Valente, durante la guerra civile occorsa dopo la morte di Nerone[64].

Per quanto riguarda specificamente i Tungri, Plinio il Vecchio afferma che si trattava di una tribù germanica originariamente stanziata nella Gallia Belgica[65], ossia quella parte della Gallia delimitata dal fiume Schelda e dalla Senna[66]. Va sottolineato che l’odierna Tongeren, situata nella provincia belga del Limburgo, non trae necessariamente il nome da costoro: le fonti sono difatti contraddittorie, e già in antichità essa era divisa in aree geograficamente distinte[67]. Ad ogni modo, si ritiene che i Tungri siano approdati in Britannia già nel 71, sotto la guida di Petilio Ceriale[68]: se ne può ragionevolmente ipotizzare un certo livello di romanizzazione. È tuttavia discusso fino a che punto costoro avessero fatto propria la cultura romana: Willy Vanvinckenroye, criticando l’idea espressa da Robert Nouwen che i Tungri fossero ‘collaboratori’ dei Romani, richiama l’attenzione sul fatto che, quando ne ebbero l’opportunità, si ribellarono contro questi ultimi. D’altro lato, Vanvinckenroye stesso sottolinea che i Tungri dovettero infine rinunciare alle loro velleità di indipendenza ed accettarono il processo di acculturazione gallo-romano (Gallo-Romeinse acculturatieproces)[69]. Uno degli elementi più significativi di questo processo sembra essere costituito proprio dal protratto servizio nell’esercito romano: del resto, i Romani continuarono a richiedere truppe ausiliarie ai Tungri anche dopo che costoro ebbero preso parte alla rivolta batava e concessero ad alcuni di loro la cittadinanza romana una volta terminato il servizio militare. Inoltre, come testimoniano vari ritrovamenti epigrafici, i Tungri adottarono il sistema onomastico romano[70]. Ancora, è stato osservata una certa ‘coerenza etnica’ della società tungra, che si mantenne anche dopo la rivolta di Civile: ciò, congiuntamente alla presenza di diversi ‘notabili tungri’ come prefetti a Vindolanda, suggerirebbe che un trattato abbia organizzato la civitas Tungrorum già nel I secolo a.C.[71], vale a dire quando i Romani, dopo aver sedato alcune rivolte scoppiate in Gallia, la divisero in province, costituendo la Germania ed iniziando ad insediare il sistema amministrativo romano[72]. Il felice esito di tale collaborazione è provato dal fatto che la Cohors I Tungrorum è menzionata come ancora operativa nel V sec. d.C. nella Notitia Dignitatum, essendo stazionata a Borcovicium (la moderna Housesteads, nella contea del Northumberland)[73]. Infine, come indicato da Plinio il Vecchio[74] e sottolineato da Anthony Birley[75], i Tungri erano soliti vivere ed operare assieme ai Batavi, che pure erano profondamente romanizzati[76]. È dunque ragionevole supporre che un popolo con tali caratteristiche abbia adottato anche i modelli giuridici romani, pur adattati alla propria specifica realtà e forma di pensiero. Più precisamente, è plausibile che i Tungri abbiano adottato istituti giuridici di derivazione romana, pur denominati diversamente.

Circa i Batavi, presenti a Vindolanda durante il periodo II, è noto da Tacito che costoro «facevano parte un tempo della tribù dei Chatti, erano dotati di notevole valore e vivevano presso il delta del Reno; dopo una scissione interna si diressero verso quei posti ove sarebbero divenuti parte dell’impero romano»[77]. Nonostante le loro origini barbare, nel 98 d.C., quando Tacito scrisse la Germania[78]e nel pieno del periodo II, ai Batavi era ancora concesso «l’onore e il segno di un’antica alleanza: infatti non sono umiliati con l’imposizione di tributi e l’esattore non li opprime; sono esenti dagli oneri e dalle tasse speciali. Sono tenuti per le guerre: sono messi da parte solamente per il loro uso in battaglia, come fossero armi e giavellotti»[79]. In particolare, questo ‘popolo bellicoso’ (ferox gens)[80] era in grado di «attraversare il Reno coi cavalli e le armi, mantenendo intatto lo squadrone»[81].

Tutti questi testi sono illuminanti, perché rivelano che, sebbene i Batavi fossero barbari, erano tenuti in gran riguardo presso i Romani per la loro abilità militare, al punto che, come visto, erano considerati ‘parte dell’impero romano’ e poterono concludere con Roma un trattato che, pur datato – come sottolinea Tacito – era ancor valido nel 98 d.C., ossia dopo la rivolta batava del 69-70. Il loro costante coinvolgimento coi Romani è confermato, ad esempio, dal fatto che facevano parte della guardia del corpo di Caligola[82], mentre la loro presenza in Gran Bretagna a fianco dell’esercito romano, secondo prove documentali, risale al 67 d.C., sebbene sia plausibile una ulteriore retrodatazione[83].

Da parte loro, i Batavi rappresentavano se stessi con abbondante uso di elementi culturali romani: come posto in evidenza da Nico Roymans, infatti, una scena ricorrente sulle pietre tombali e raffigurante uno scontro tra Romani e barbari mostra i soldati Batavi più simili ai Romani che ai barbari[84]. Inoltre, i Batavi ritenevano di condividere coi Romani la stessa mitica origine da Ercole[85]. Questi dati sono significativi, poiché non solamente mostrano che i Romani consideravano i Batavi differenti dagli altri popoli barbarici, essendo per taluni aspetti più evoluti, ma che i Batavi stessi si consideravano simili ai Romani[86].

Così come i Tungri, i Batavi erano dunque profondamente romanizzati, avendo raggiunto una consolidata familiarità coi Romani e sviluppato il desiderio di essere simili a questi. D’altro canto, così come i Tungri, i Batavi sono menzionati dalla Notitia Dignitatum come ancora operativi durante il V secolo[87]. Tali elementi, ancora una volta, suggeriscono che la relazione tra Romani e Batavi fosse solida e, conseguentemente, che sia ragionevole aspettarsi anche da parte loro l’adozione di modelli giuridici romani.

Infine, oltre alle varie unità che prestavano ufficialmente servizio a Vindolanda, erano presenti altre etnie. Durante il periodo I, in particolare, è attestata la presenza a Vindolanda di Rezi e Voconzi, come testimoniato da Tab. Vindol. 892[88] Secondo Plinio il Vecchio, i primi erano una tribù etrusca scacciata dai Galli[89], mentre è Livio ad informarci che a seguito di ciò si insediarono sulle Alpi[90]. Essi si sarebbero quindi imbarbariti a cagione della selvatichezza dei luoghi e avrebbero perso le loro antiche caratteristiche, mantenendo solamente l’accento della loro lingua, infine corrottosi anch’esso[91]. D’altro lato, essi divennero presto parte dell’impero romano: Druso e Tiberio (il futuro imperatore), figli adottivi di Augusto, li sottomisero nel 15 a.C.[92] e il loro territorio fu annesso all’impero romano come nuova provincia[93]. Come si vedrà[94], sappiamo con certezza che a Vindolanda erano presenti alcuni soldati Rezi: è anche possibile che fossero una moltitudine, ma non erano organizzati in proprie coorti, forse perché non sufficientemente romanizzati, come emerge dalla testimonianza di Livio. Ciò è corroborato sia da Velleio Patercolo, che li definisce ‘crudeli per la loro selvatichezza’ (feritate truces)[95], sia da Dione Cassio, che da un lato pure descrive la loro ferocia[96] e, dall’altro, precisa che, poiché vi erano molti maschi tra loro che sembravano tramare una ribellione, i Romani deportarono la maggior parte dei loro elementi più forti, lasciando abbastanza abitanti da popolare la regione, ma non abbastanza da consentire una rivolta[97]. Ciò ebbe come risultato che, mentre molte cohortes Raetorum militavano già in parti dell’impero più stabili[98], sarà solo all’inizio del II secolo d.C. che vi saranno cohortes Raetorum anche in Britannia[99].

Quanto ai Voconzi, Plinio il Vecchio li descrive come una comunità alleata insediata nella Gallia Narbonense[100]. Costoro erano stati sconfitti dal proconsole Marco Fulvio Flacco nel 123 a.C., come si ricava dal fatto che egli celebrò il trionfo in tale anno[101], e fornirono all’esercito romano un’unità ausiliaria di cavalleria, l’Ala Augusta Vocontiorum. Il loro alto livello di romanizzazione può essere inferito, per esempio, da un diploma del 122 d.C.[102], ove sono indicati come cittadini romani (cives Romani), e da un altare «offerto alla dea Vagdaver da Simplicio Superiore, decurione dell’ala dei Voconzi, dell’esercito romano»[103]. La data di quest’ultima iscrizione è discussa, ma è in ogni caso certo che i Voconzi fossero organizzati in proprie truppe ausiliarie di stanza in Britannia nel 140-155 d.C.: lo prova un altare trovato a Trimontium (Newstead), che menziona un’‘ala Augusta Vocontiorum[104]. Costoro facevano ancora parte dell’esercito romano verso la fine del II secolo d.C., come mostra una stele del 183 ritrovata in Siria[105].

La descrizione degli elementi presenti a Vindolanda nei primi due periodi di vita del forte rende possibile ipotizzare con cautela che tipo di norme giuridiche vigessero in tale forte. Come visto, si trattava di una commistione di cittadini romani e peregrini, tuttiaccomunati dall’avere avuto contatti più o meno costanti coi Romani e, dunque, essendo in maggioranza persone ampiamente romanizzate. È interessante notare che non risultano presenti Britanni a Vindolanda: sia i Tungri sia i Batavi, come visto, erano tribù di origine germanica; i Rezi venivano dalle Alpi, mentre i Voconzi dalla Gallia Narbonense (odierna Francia meridionale). È possibile che fosse stato reclutato anche qualche locale, come avvenne nella citata battaglia del Monte Graupio. Ad ogni modo, nel caso, costoro costituirono verosimilmente una trascurabile minoranza delle truppe ausiliarie, poiché non risultano nelle fonti ad oggi a nostra disposizione e, del resto, sono contrapposti ai Tungri e ai Batavi da Tacito, che li indica come ‘nemici’ nella battaglia del Monte Graupio, avvenuta pochi anni prima[106]. È dunque ragionevole supporre che il sentimento di unità, teorizzato in generale per ogni legione e truppa ausiliaria[107] e identificato anche a Vindolanda[108], fosse sostenuto dal fatto che costoro stavano combattendo un nemico comune. Ciò sembra essere confermato dal termine spregiativo ‘Brittunculi’ coi quali i Britanni sono indicati in Tab. Vindol. 164, del periodo III (100-105 d.C.). Dal punto di vista giuridico, la probabile conseguenza è che a Vindolanda l’applicazione di norme giuridiche romane dovette prevalere su usi e costumi locali o delle singole componenti etniche dell’esercito ivi stanziato, pur eventualmente rimodellate tenendo conto delle peculiarità del contesto.

 

2.2. Le tavolette di Vindolanda[109]

 

Le tavolette di Vindolanda furono rinvenute in modo del tutto fortuito nel 1973[110] e, fino alla recente scoperta delle tavolette di Bloomberg – per la gran parte datate tra il 50 e l’80 d.C.[111] – costituivano il materiale scrittorio più antico trovato in Britannia. L’attenzione degli studiosi si è concentrata sia sul loro contenuto, sia sui loro aspetti materiali[112]: per quanto riguarda questi ultimi, i paleografi hanno analizzato il tipo di grafia, mentre codicologi e papirologi hanno posto in rilievo come la gran parte di esse consista in tavolette di legno scritte con inchiostro, il che pure è degno di nota. Sino alla loro scoperta, difatti, era comunemente ritenuto che il supporto scrittorio più diffuso nel mondo romano fosse il papiro e, in mancanza di questo, la tavoletta di cera. Alcune indagini, ancora, son volte ad acclarare gli aspetti chimici e biologici di Vindolanda, onde ampliare la nostra comprensione dei processi di conservazione dei preziosi manufatti ivi ritrovati[113]. Quanto al contenuto, numerosi studi hanno indagato gli aspetti linguistici e i fenomeni fonetici testimoniati dalle tavolette[114], mentre i cultori di epistolografia ne hanno indagato lo stile[115]. Anche dalla prospettiva romanistica, tuttavia, tali tavolette costituiscono una fonte particolarmente interessante. Esse sono state scritte da diverse persone, con differenti retroterra culturali e per varie ragioni: così, per esempio, mentre gli alti ufficiali impartiscono ordini e istruzioni[116] e le loro mogli invitano le amiche a celebrare il proprio compleanno[117], i soldati semplici formulano richieste di aiuto economico ai familiari per onorare contratti di cui sono parte[118], raccomandano i loro amici agli ufficiali[119] o supplicano atti di giustizia da parte di questi ultimi[120]. Fra tali comunicazioni, come si può intuire già da questa rapida rassegna, non mancano quelle dal contenuto esplicitamente giuridico, per linguaggio e contenuto[121].

 

3. Tab. Vindol. 891

 

Una prima tavoletta che si impone alla nostra attenzione è Tab. Vindol. 891, datata al periodo I (70/85-95) e il cui testo così recita:

 

Andangius et Ve[ / rogamus te domin[e] / Verecunde per notis/simam iustitiam tua / dignos nos hab[a]s [et] / praestes ut c̣[uem et] / [amicum] nostrum nomi/[ne] C̣rispum mensorem / facias t possịṭ bene/ ficio tuo ḷẹuius miitare / [t] g̣enio tuo gratias ag̣e/[re d]ẹḅeṃụṣ

Andangio e Vel…: facciamo appello a te, o signore Verecondo, attraverso il tuo ben noto senso di giustizia, affinché ci consideri degni e nomini agrimensore il nostro cittadino e amico Crispo, di modo che egli, grazie alla tua concessione, possa prestare un servizio militare più lieve e dobbiamo essere riconoscenti al tuo genio.

           

Questo messaggio è stato scritto per richiedere un favore a Giulio Verecondo, prefetto della Cohors I Tungrorum. Come emerge pianamente dal testo, i due richiedenti stanno sollecitando un favore a beneficio di un loro amico, un tale Crispo, mentre è meno evidente in che cosa tale favore consista. Gli editori della tavoletta, aderendo alla tesi formulata da James Noel Adams[122], ritengono che a Verecondo sia stato richiesto di far sì che ‘Crispo l’agrimensore’, ossia una persona che già riveste tale carica, svolga un servizio militare più lieve[123]. Costoro basano la loro ipotesi sul fatto che l’espressione ‘Crispum mensorem’ costituisca un accusativo prolettico, che identifica in toto il beneficiario del favore. Tuttavia, è lo stesso Adams ad ammettere che l’espressione in questione potrebbe essere interpretata diversamente e che il favore richiesto potrebbe consistere nel nominare Crispo agrimensore (ut Crispum mensorem facias), di modo che (ut) egli possa compiere un servizio militare più lieve (levius militare possit). Quest’ultima interpretazione mi sembra più coerente con una norma conservata nel Digesto e citata da Tarrunteno Paterno, alto ufficiale del II secolo d.C. autore del De re militari[124], a tenore della quale «a taluni, come i mensores, si concedono alcune esenzioni dai compiti più pesanti a causa della loro condizione»[125]. Ciò risponde all’obiezione sollevata dagli editori della tavoletta contro l’interpretazione qui proposta, vale a dire che sarebbe stato impudente da parte dei richiedenti raccomandare un loro amico sul presupposto che il ruolo di mensor non richiedesse sforzi particolari. Difatti, il ragionamento deve essere capovolto: il ruolo di mensor presupponeva complesse competenze tecniche in chi lo rivestiva e proprio per questo prevedeva un servizio militare meno duro di quello degli altri milites. All’agrimensore spettavano compiti tecnici attinenti alle operazioni di misurazione necessarie alla realizzazione dei castra militari, di strade, di ponti, alla centuriazione dei territori circostanti alla soluzione di controversie di confine. Effettivamente, secondo Vegezio, il ‘mensor’ è «colui che, negli accampamenti militari, misura per piedi i luoghi nei quali i soldati erigono le tende, e che negli aggregati urbani stabilisce gli alloggiamenti»[126]. Nonostante tale testimonianza, è ancora dibattuto in che cosa consistessero precisamente i compiti del mensor e come distinguerlo da altre figure. Con tale nome, dunque, è indicato colui che, all’interno dell’esercito romano – sia nelle coorti ausiliarie sia nelle legioni – eseguiva le citate misurazioni, centuriava territori e ripartiva i fondi destinati ai veterani[127]. Va precisato, inoltre, che con lo stesso nome si indicava anche colui che che era scelto, anche fra gli appartenenti all’esercito, per la risoluzione di controversie di confine come iudex, advocatus o consulente (del iudex o di una parte), o, ancora, a titolo di esempio, chi era incaricato di eseguire una decisione già assunta da altri[128]. Ad ogni modo, è certo che si trattasse di un tecnico, il che implica, secondo Bowman, Thomas e Tomlin, che un prefetto non poteva semplicemente nominare mensor qualunque persona[129]. Nondimeno, mi pare che proprio ciò spiegherebbe perché Crispo sia stato raccomandato da altre persone senza proporsi direttamente come mensor: è possibile che le sue qualità non fossero note a tutti, al punto che egli necessitò non uno, ma due sostenitori che lo conoscessero – costoro precisano di essere suoi amici e compatrioti – e garantissero per lui. D’altro canto, il generico e retorico appello al senso di giustizia di Giulio Verecondo – espressione non attestata altrove – e le ragioni addotte a supporto della richiesta suggeriscono che costui avesse ampi poteri decisionali. Tutto ciò suggerisce che i prefetti, comandando le coorti quingenariae ausiliarie e le coorti equitatae[130], avessero funzioni e prerogative simili a quelli dei legati propretore, ossia – in estrema sintesi – vigilare sul buon andamento delle unità cui erano preposti, imporre la disciplina ed esercitare funzioni giudicanti e di amministrazione finanziaria[131].

 

4. Tab. Vindol. 892

 

Un’altra tavoletta del periodo I è Tab. Vindol. 892, il cui testo è del seguente tenore:

 

Masclus Verecundo suo sal(utem) / petierunt a me ciuesRetiut / peterem abs tecommiatumtrium⟧ `quinque´ / Retorum qui sub cura tua / sunt Litucci ∙⟦Vitaliset Vict/oriset de VocontisAugusta/numCusiumBellicum / et rogo domineut iubeas re/ddicultrum scissorium qui / penis[132]alampum (centuriae) Nobilis / quia nobis necessarius est / missi tibiplantas ịị /  ̣ per Talionem tur(ma) Pere/grinianaopto tefelicem et tuos / uale

Masclo al suo Verecondo: salute! I Rezi mi hanno chiesto di supplicarti di concedere un periodo di licenza a tre cinque soldati che sono sotto il tuo comando: i Rezi Litucco Vitalis e Vittore e, della tribù dei Voconzi, Augustano, Cusio [e] Bellico. Ti chiedo inoltre, o signore, di ordinare che venga restituito il coltello che sta presso Talampo (della centuria) di Nobile, poiché ne abbiamo bisogno. Ti ho inviato due piante tramite Talio, dello squadrone Peregriniano. Auguro fortuna a te e ai tuoi. Stammi bene.

Iulio Verecundo / prefecto / ab Masclo dec(urione)

Al prefetto Giulio Verecondo da parte del decurione Masclo.

 

Si tratta, ancora una volta, di una richiesta di favori diretta al prefetto Giulio Verecondo. Il messaggio riguarda due diversi tipi di favore e, parimenti, si riferisce a persone diverse. Nella prima parte sono individualmente nominati due soldati Rezi e tre Voconzi che servono sotto il comando di Giulio Verecondo (sub cura tua). A tal proposito emergono due dati significativi. Il primo è costituito dalla presenza di Rezi e Voconzi: costoro, come anticipato[133], non erano organizzati in proprie unità, ma evidentemente prestavano servizio militare sotto il comando di Giulio Verecondo, nella Cohors I Tungrorum. Ciò, a propria volta, rivela che tali coorti, nonostante il proprio nome, potevano essere composte da differenti etnie.

Inoltre, i soldati menzionati nella tavoletta che aspirano ad ottenere il congedo non ne fanno richiesta personalmente, ma chiedono al decurione Masclo di intercedere per loro presso Giulio Verecondo. Ciò sembra contraddire la tendenza osservata secondo la quale gli interessati alla licenza trattavano tale tema direttamente con i loro superiori[134]. Nondimeno, a ben vedere, gli instanti non sono i soldati stessi, ma i loro concittadini (ciues Reti)[135], seppur tramite il decurione Masclo. Anche tale aspetto è degno di nota, poiché i compiti del decurione, di per sé, erano prettamente militari: tale figura, difatti, assisteva il prefetto equestre nel comando delle cohortes equitatae e delle alae quingenariae, e il tribuno equestre in quello delle alae miliariae[136]. Può anche essere che i Rezi abbiano avuto contatti diretti con Masclo perché quest’ultimo, in quanto decurione, era stanziato in un loro villaggio, come accadeva in Giudea, ove decurioni e centurioni, per prevenire eventuali disordini, erano a diretto contatto con le comunità da sorvegliare[137]. Come detto, difatti, Vindolanda era solamente uno dei tanti forti presenti sullo Stanegate, alcuni dei quali ospitavano anche civili[138]. Coria (Corbridge)[139], per esempio, era relativamente vicina a Vindolanda e doveva offrire più agi, dal momento che alcuni soldati di stanza a Vindolanda chiedevano di potervisi recare in congedo[140]. D’altra parte, la presenza in loco di vari ufficiali militari è ben attestata proprio dalle tavolette di Vindolanda[141]. Ma potrebbe trattarsi anche di Isurium Brigantum (Aldborough), che, fondata prima di Vindolanda[142] come insediamento di carattere civile[143], nel I secolo d.C. fu caratterizzata da una considerevole presenza militare, al punto che la stessa questione se si trattasse di un insediamento civile o militare è stata giudicata mal posta[144]. Anche tale dato, del resto, è confermato proprio dalle tavolette di Vindolanda[145].

Per quanto riguarda l’istanza al prefetto rivolta dai Rezi tramite il decurione Masclo, non stupisce che i civili vedessero nei militari occupanti l’autorità cui rivolgersi in caso di bisogno – specie quando, come nel caso in questione, la questione da trattare riguardava la materia militare – e che, avendone l’occasione, si relazionassero senza formalità e direttamente con gli ufficiali con cui potevano entrare in contatto. Tale dato antropologico, del resto, sembra essere confermato da numerosi papiri del Medio Eufrate. Pur nella consapevolezza che ogni realtà è peculiare, difatti, va segnalato che numerosi papiri del Medio Eufrate (Siria, Mesopotamia ed Egitto), che coprono un ampio periodo dal I al V secolo d.C., testimoniano petizioni di varia natura rivolte dai civili ai militari[146]. Di tale prassi, d’altronde, sembra esservi traccia anche in D. 47.2.73, lungo passo tratto dai Responsa di Modestino, in cui si fa il caso di una provinciale (Sempronia) che aveva composto dei libelli, verosimilmente per consegnarli ad un centurione e, tramite quest’ultimo, farli pervenire agli uffici di un tribunale[147]. Al di là della specificità del singolo caso, infatti, l’implicita premessa del caso ricordato da Modestino è che gli ufficiali militari fossero soliti prestare assistenza ai civili che ne avessero fatto richiesta.

Il secondo favore impetrato riguarda la restituzione di un coltello trattenuto da un certo Talampo. A differenza del primo, sembra trattarsi di una richiesta di aiuto a titolo personale. Ciò è indicato dalla diversa formulazione usata: nel primo caso, ‘i cittadini Rezi mi hanno chiesto di chiederti …’ (petierunt a me ciues Reti ut peterem abs te …); relativamente al secondo favore, invece, ‘ti chiedo, o signore …’ (rogo domine). Inoltre, Masclo si pone tra le persone che beneficerebbero dell’intervento di Verecondo (nobis necessarius est). A proposito di tale eventuale intervento, esso viene descritto col verbo ‘ordinare’ (iŭbēre), che richiama direttamente i poteri giuridici e la sfera di competenza di Giulio Verecondo. Pure è rilevante che l’attuale possessore del coltello sia indicato come ‘Talampo, della centuria di Nobile’. In merito a tale questione, dunque, il decurione Masclo non si rivolge a Nobile stesso, il quale, come centurione responsabile di Talampo, sarebbe stato il naturale destinatario di un simile messaggio. D’altra parte, è possibile che Masclo si fosse già rivolto a costui senza successo e, nonostante in quanto decurione occupasse una posizione gerarchica più alta sia di Talampo, sia del centurione a lui sovraordinato – i decurioni, difatti, erano i diretti superiori dei centurioni[148] – avesse comunque deciso di rivolgersi a un’autorità più in alto ancora. Ciò che in ogni caso emerge senza dubbio da tutto ciò è che la competenza ‘esecutiva’ del prefetto poteva includere anche la regolamentazione di rapporti tra soldati a lui subordinati.

Nell’ultima parte del messaggio Masclo sottolinea di aver inviato a Giulio Verecondo due piante: non è chiaro di che cosa si tratti esattamente e se egli abbia fatto ciò spontaneamente o in esecuzione di un ordine, ma è verosimile che abbia rimarcato tale gesto a sostegno della sua richiesta, il che sembra confermare la discrezione del prefetto della coorte e l’opportunità di influenzarlo positivamente.

 

5. Tab. Vindol. 297

 

La terza tavoletta che si intende qui presentare, Tab. Vindol. 297.a-b, proviene dal periodo II (95-100), epoca nella quale, come visto[149], Vindolanda era verosimilmente occupata dai Batavi. Questo il testo ricostruito dai curatori dell’edizione critica:

 

[Fi]minus Priscino suo ∙ / saltem ∙ / ] niil malo animo feci / ] ∙ ego idem in contract[ / ] ∙ fecisse umquam no e ̣[ / ] ∙ te aliquid e ̣[ /  ̣   ̣   ̣ /  ̣   ̣   ̣ / q]uod fac̣ṭụṃ[ / ]mea e ̣[ / ]esti pud[ /  ̣   ̣   ̣

Firmino al suo Priscino: salute! Non ho fatto nulla in malafede. Ritengo[150] di aver fatto il medesimo nel contratto, né mai … alcunché da te …

̣   ̣   ̣ / ] f̣raṭẹr ∙  ̣[ / ] ̣dsme[ / ... /  ̣   ̣   ̣

… Fratello, tramite me tu dai …

 

Nonostante le numerose lacune che interessano questa tavoletta, è possibile inferire alcuni dati con relativa sicurezza. Anzitutto, è ragionevole ipotizzare che Priscino sia un prefetto: nonostante tale nome fosse piuttosto comune, difatti, un prefetto di nome Priscino è attestato da Tab. Vindol. 636[151], di poco successiva[152]. Inoltre, come sostenuto da Bowman, è lampante che Firmino si stia giustificando dinanzi a Priscino, poiché sostiene di non aver fatto nulla in malafede (nihil malo animo feci).

Più arduo risulta invece identificare Firmino e comprendere che cosa avesse commesso. Con riferimento alla prima questione, il suo nome non è attestato in alcun’altra tavoletta di Vindolanda, ma RIB 1269, altare trovato ad High Rochester (Bremenium), forte romano a poca distanza da Vindolanda (circa 50 km), menziona un tal Firmino decurione[153]. Tale identificazione, nondimeno, va affermata con cautela. La datazione di RIB 1269 è alquanto ampia (43-410 d.C.) e detta citazione potrebbe dunque riferirsi ad un omonimo di altro periodo. Tuttavia RIB 1263, un altro altare la cui datazione è parimenti ampia (ancora una volta, 43-410 d.C.), indica la presenza dei Vardulli nello stesso forte[154]. È dunque plausibile che Firmino, dopo essere stato decurione presso i Vardulli, stesse ora prestando servizio a Vindolanda, magari come decurione di un’altra unità, dal momento che i Vardulli, certamente presenti a Vindolandadurante il Periodo IV (105-120 d.C.), non risultano attestati per il Periodo II (95-100 d.C.), da cui la tavoletta proviene. L’ipotesi che Firmino rivestisse una carica particolare è coerente col fatto che si sia difeso dinanzi a Priscino. Infatti, se fosse stato un semplice soldato si sarebbe verosimilmente dovuto giustificare dinanzi al suo decurione; essendo egli stesso un alto ufficiale, invece, il suo superiore era precisamente il prefetto.

Un altro elemento degno di nota è costituito dall’espressione ‘malus animus’, in assenza del quale Firmino asserisce di aver agito. Questa espressione è scarsamente attestata nelle fonti giuridiche romane. L’unico esempio sembra essere costituito da D. 48.8.3.2 (Marcianus libro quarto decimo institutionum), in cui si chiarisce in quali casi trovi applicazione la lex Cornelia de sicariis et veneficis:

 

Sed ex senatus consulto relegari iussa est ea, quae non quidem malo animo, sed malo exemplo medicamentum ad conceptionem dedit, ex quo ea quae acceperat decesserit.

 

In questo testo l’espressione ‘malus animus’ indica l’atteggiamento psicologico di chi ha agito con cattive intenzioni, sebbene la citata norma escluda che tale elemento soggettivo sia necessario perché si applichi la pena da essa prevista. A tal fine, infatti, è sufficiente che taluno abbia somministrato ad altri un medicinale abortivo, cagionandone la morte. Difatti, come precisato nel testo, tale comportamento costituisce di per sé un esempio negativo.

Ciò aiuta a comprendere meglio quanto sostenuto da Firmino. Egli non contesta dunque quanto addebitatogli – il che, purtroppo, rimane oscuro – ma sottolinea di non aver fatto alcunché con cattive intenzioni, al punto che – così forse sostiene Firmino – il medesimo comportamento è stato oggetto di un contratto.

È arduo procedere ulteriormente nell’analisi, a causa delle lacune che affettano la tavoletta in esame. Del resto, esse hanno dato luogo a diverse interpretazioni, tra le quali si segnala quella di Soazick Kerneis, che ritiene che, protestando la propria innocenza, Firmino dichiari la propria convinzione di aver agito ‘secondo i termini del contratto’ (Je n’ai rien fait de mauvaise foi, j’ai fait, je pense, selon les termes au contrat)[155]. Tale interpretazione differisce sostanzialmente da quella qui proposta, poiché riduce al solo contratto ciò che qui si è distinto in due elementi differenti, il contratto e, nelle intenzioni di Firmino, un fatto assimilabile all’oggetto di questo contratto. Né l’interpretazione di Kerneis sembra potersi sostenere sulla base dell’espressione ‘in contractu’, che sia nei testi giuridici[156] sia in quelli della letteratura latina[157] significa ‘nel/in un contratto’ e non si riferisce, di per sé, ai termini di un contratto. Ritengo sia meglio essere prudenti nel colmare le lacune, la cui esiguità non depone a favore di integrazioni che cambiano sostanzialmente il senso del testo.

Una ulteriore, differente interpretazione di Tab. Vindol. 297.a-b è quella proposta da Anthony Birley, che traduce la tavoletta come segue: ‘I did nothing in a bad spirit. I indeed [?swear that I] did the same in the transaction’[158]. Come si può vedere, anch’egli introduce, pur con formula dubitativa, un elemento testuale assente dal testo leggibile sulla tavoletta. Per la stessa ragione poc’anzi citata, ritengo preferibile interpretare la tavoletta alla luce del testo effettivamente presente.

Ancora, Bowman e Thomas ipotizzano che la parola ‘pudo’, qui interpretata come ‘puto[159], potrebbe essere un caso di ‘pudor’. Dal momento che la parola che precede termina con ‘esti’, costoro ricostruiscono il testo come ‘pudor hominis modesti[160]. Il termine ‘pudor’ ha vari significati – non sempre positivi – nelle fonti giuridiche romane. A volte esso allude alla vergogna[161], altre volte indica il pudore sessuale, come evidenziato dal fatto che si trova spesso associato alla verecundia (riservatezza)[162]. Altre volte ancora, infine, indica il ‘timore di un giusto biasimo’[163], come sembra essere in Tab. Vindol. 297. Per quanto concerne il termine ‘modestus’, esso, a mia saputa, si rinviene solamente in tre testi giuridici romani, in ognuno dei quali si riferisce alla decenza. Del resto, in due di questi testi esso è associato al pudor[164] e alla verecundia[165], mentre nel terzo caso costituisce il fondamento di una norma[166]. Sebbene, ancora una volta, sia necessario muoversi con cautela, data anche la penuria di dati, tutti questi elementi corroborano l’interpretazione proposta da Bowman e Thomas, sia dal punto di vista giuridico sia da quello testuale. Per concludere sul punto, è possibile che Firmino stia riaffermando la propria innocenza autodefinendosi uomo onesto (homo modestus) provvisto di decenza (pudore).

 

6. Tab. Vindol. 862

 

Anche l’ultima tavoletta oggetto del presente contributo sembra provenire dal periodo II, sebbene Bowman, Thomas and Tomlin, che l’hanno studiata a fondo, non escludono che possa risalire al periodo III (100-105)[167]. Come che sia, il testo che reca è il seguente:

 

Xii K(alendas) Maịạ[s  ̣ ̣ ̣] fa ̣[ / [o]pusfabricae / ∙ (centuria) ∙ Firm /  ̣ocridemf̣actam ad uetu/ramiussu Musruni (centurionis) / [c]rcolas factas at ̣ ̣s n(umero) viii / Hueṇṇius faber / trauersaia facta n(umero) v / item ferru [p]ṛọḍuctụṃ / Anḍạuer faḅẹṛ / T-/agomas faber /

Il dodicesimo giorno prima delle calende di maggio [20 aprile] … il lavoro dell’officina, centuria di Firmo. Un …ocris fatto per il carro su ordine del centurione Musuruno. Circolae fatte … in numero di otto. Huennio il fabbro. Fatte cinque traversaria. Allo stesso modo, è stato prodotto del ferro. Andauer il fabbro. T…agomas il fabbro.

 

Un primo elemento degno di interesse è il potere di comando esercitato dal centurione[168]. Nonostante le lacune, difatti, è chiaro che sono stati eseguiti alcuni lavori su ordine (iussus) di un centurione chiamato Musuruno, il che è coerente con la descrizione dei centurioni di legione approntata da Vegezio. Secondo tale autore, difatti, i centurioni ‘si prendono cura delle singole centurie’[169] (o, nel caso del centurione primipilo, di tutte le coorti)[170]. Tale gestione è indicata da Vegezio tramite tre verbi – sovrintendere (curare), governare (gubernare) e amministrare (administrare) – che implicano poteri decisionali. Vegezio fornisce anche alcuni esempi concreti di tale attività, precisando che «il centurione mantiene la disciplina tra i suoi commilitoni, … si assicura che costoro indossino uniformi e calzari appropriati, e che le armi di ognuno siano pulite e brillino»[171].

I lavori menzionati nella tavoletta sono in linea con la descrizione di Vegezio, poiché si riferiscono tutti ad armamenti militari. I primi tre, in particolare, riguardano la costruzione di un ‘…ocris’, il cui significato è criptico ma che è in ogni caso da mettersi in relazione con un veicolo (facta ad veturam), cinque traversaria ed alcune circolae, il cui significato è parimenti oscuro ma anch’esse da interpretarsi come termini tecnici che si riferiscono ad un mezzo di trasporto[172]. È probabile che quest’ultimo fosse un carro da guerra tipico delle popolazioni britanniche e dei Galli[173], vale a dire individui locali e individui come i Batavi, che in questo periodo sono di stanza a Vindolanda. Al contrario, i Romani non fecero largo uso di questo veicolo da combattimento[174], come provato, per esempio, dal fatto che raramente le fonti romane ne fanno menzione e dalla descrizione ammirata tratteggiata da Cesare[175]. La presenza di carri da guerra a Vindolanda è dunque un segno tangibile di commistione culturale tra Romani e locali.

Tornando al contenuto di Tab. Vindol. 862, essa menziona anche la produzione di ferro, verosimilmente da parte dei due fabbri indicati alla fine, allo scopo di costruire e riparare armi e corazze. Se è così, come sembra, tale dato è perfettamente coerente con Veg., Mil. II.14.5, a tenore del quale, come visto, il centurione fa sì che i soldati siano ben equipaggiati di armi, divisa e calzari.

La tavoletta in esame mostra che il potere di comando del centurione comprendeva l’organizzazione minuta del campo militare e i suoi problemi ordinari. Da un lato, egli doveva mantenere l’equipaggiamento militare in ordine; dall’altro, doveva assicurarsi che i soldati fossero abbigliati ed armati appropriatamente. Inoltre, il suo potere di comando è espresso da Tab. Vindol. 862 con la parola ‘ordine’ (iussus) e mostra dunque che tale era la natura dei poteri di comando di cui era dotato il centurione per l’assolvimento dei propri compiti.

 

7. Conclusioni

           

La lettura delle tavolette ha mostrato alcuni sprazzi della vita quotidiana del forte nei primi secoli dell’impero. L’interesse dei documenti, più che giuridico-privatistico in senso stretto, è attinente all’organizzazione dell’esercito e al suo concreto funzionamento in un luogo ai margini dell’impero romano dove convivono varie etnie di milites, romani e peregrini.

Nelle tavolette compaiono peraltro ripetutamente alcuni personaggi, mittenti o destinatari delle epistole: partendo dal ruolo più alto, troviamo il prefetto di coorte, destinatario di molte missive e richieste varie di favori, che risulta detenere ampi poteri decisionali comprendenti, ad es., la nomina di miles al ruolo tecnico di mensor,la concessione delle licenze, la risoluzione di conflitti ordinari tra soldati. L’ampiezza e discrezionalità dei suoi poteri è peraltro caratterizzata dal modo informale con cui gli vengono richiesti favori: infatti, pur essendo il linguaggio adoperato rispettoso, dette richieste si ritrovano talvolta raggruppate nello stesso messaggio e il lessico, pur con qualche espressione tecnica, si presenta libero dai formalismi. D’altra parte, è difficile comprendere in quale misura tali poteri decisionali fossero tipici di tutti i prefetti di coorte o se fossero invece prerogativa individuale di Giulio Verecondo dato anche il contesto specifico da cui le tavolette provengono, costituito dal periodo I di Vindolanda, vale a dire quello di un forte oltremodo distante da Roma e nel quale Giulio Verecondo, essendo il prefetto dell’unica coorte ausiliaria ivi stanziata, era l’ufficiale più alto in carica[176]. Sembra comunque di

Di Donato Giuseppe



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