fbevnts Law and social marginality in late antiquity. Some profiles of the regulatory framework

Diritto e marginalità sociale in età tardoantica. Alcuni profili del quadro normativo

23.08.2021

Chiara Corbo

Professore ordinario di Diritto romano e diritti dell’antichità

Università degli Studi di Napoli Federico II

 

Diritto e marginalità sociale in età tardoantica.

Alcuni profili del quadro normativo*

 

English title: Law and social marginality in late antiquity. Some profiles of the regulatory framework

DOI: 10.26350/18277942_000038

 

Sommario: 1. Introduzione. 2. I pauperes tra azione legislativa e attività caritativa. 3. Legislazione imperiale e funzione episcopale: la tutela giurisdizionale dei poveri. 4. Osservazioni conclusive.

 

 

  1. Introduzione

 

La diffusione del cristianesimo nei territori dell’impero e la conseguente penetrazione dei suoi valori nel tessuto connettivo della romanitas - che, in seguito all’editto di Caracalla del 212 d.C., aveva assunto accenti cosmopolitici ed universalistici - costituiscono un nodo storiografico dalle molteplici sfaccettature, con ampi spazi di indagine ancora aperti, anche specificamente per quanto concerne la tematica della paupertas, oggetto, in età tardoantica, di un articolato quadro giuridico.

L’assetto normativo inerente alle questioni della marginalità e della povertà - che in tale epoca si delinea - riflette sia le mutate condizioni sociali e politiche dell’impero sia la nuova sensibilità spirituale indotta dalla religione cristiana, che considera la categoria degli emarginati quella da sostenere in primis, come il messaggio di Cristo insegna con ineludibile chiarezza[1].

In età tardoantica, pertanto, è possibile individuare due rilevanti dati storiografici, solo in apparenza divergenti:

a) da un lato, risulta sempre più evidente la ‘fragilità’ politica dell’impero, proiettato, nella sua pars Occidentis, verso il collasso finale; fragilità che investe anche il funzionamento dell’organismo giudiziario - asse portante dell’organizzazione sociale del mondo romano - colpito dal tarlo della corruzione che, intaccandone i gangli vitali, inquina la fluidità dei suoi meccanismi[2]. Difatti, tra il IV e il V secolo d.C. si assiste al progressivo accentuarsi del fenomeno dell’esclusione dalle dinamiche produttive di strati sempre più ampi di popolazione, sia rurale che urbana[3]. L’anonimo autore del De rebus bellicis descrive il drammatico quadro di un mondo in cui ai nobili appartenenti a grandi casate, che godono di enormi rendite derivanti dalle loro proprietà, si contrappongono moltitudini oppresse da un’afflicta paupertas, accresciuta dalle prepotenze e dall’arroganza dei potenti, i quali abbellivano sfarzosamente le loro ricche dimore in perniciem pauperum, a danno dei poveri spesso spinti dalla miseria a compiere scelleratezze di ogni genere, quasi a voler affidare al crimine il loro insoddisfatto desiderio di giustizia[4].

b) dall’altro, si riscontra la ‘vitalità’ di una chiesa emergente, presente sul territorio in modo sempre più capillare, portatrice di una visione del mondo del tutto nuova, che lega - paradossalmente - il proprio destino e quello dell’umanità intera alle sorti degli ‘ultimi’, i quali non a caso diventano - proprio in seguito alla diffusione degli ideali cristiani - oggetto di uno specifico interesse da parte del legislatore[5]. Il messaggio cristiano promuove una rivoluzione etico-culturale, che, facendo leva sulla forza innovatrice dell’amore condiviso, prende le distanze sia dal tradizionale politeismo antropomorfico della religione romana sia dal legalismo giudaico[6]. La ‘beatitudine’ prospettata da Cristo come status proprio degli ‘ultimi’ e il Regno di Dio non sono astratte promesse escatologiche da proiettare in un lontano futuro, ma concrete parole di vita tese a realizzare, hic et nunc, nel cuore stesso della storia umana, un progetto di radicale cambiamento con l’affermazione di condizioni di vita più eque per tutti. In tal modo, il tempo della chiesa - che si svolge tra memoria e attesa (tra incarnazione e parusia) - sarà il tempo nel quale la memoria ancora viva del Nazareno, alimento delle istanze di liberazione degli ultimi, darà vigore alle speranze dell’umanità, riconciliata nei confini accoglienti della propria ‘casa comune’.

Ciò premesso, è evidente che - nel delicato frangente storico che si intende considerare - sia proprio la sostanziale ‘divergenza’ tra le condizioni di prosperità e incisività sociale delle due istituzioni (impero in declino, da un lato, e chiesa in espansione, dall’altro) a determinare, di fatto, il sorgere di una ‘convergenza’ di intenti e di azione politica a vantaggio dei pauperes, che si concretizza in un quadro normativo finalizzato a migliorarne le sorti. Impero e chiesa, interagendo in modo sinergico, danno vita ad iniziative volte ad affrontare la questione dei poveri e della loro assistenza. Il legislatore emana, quindi, una serie di norme a vantaggio dell’istituzione ecclesiastica, segno di un esplicito favor ecclesiae diretto a facilitare la missione di assistenza agli indigenti a cui la chiesa è chiamata, innanzitutto, dalla propria vocazione originaria, retaggio del messaggio di Gesù di Nazareth, rivolto, in primis, proprio ai deboli e agli indifesi.

Prima di procedere alla lettura di alcune disposizioni legislative di età costantiniana, nelle quali è possibile cogliere la ‘convergenza’ tra potere politico e potere ecclesiastico in rapporto alla tematica della marginalità sociale, mi pare opportuno ribadire come, in seguito alla diffusione degli ideali cristiani, muti il contesto ideologico che giustifica un intervento sempre più organico a sostegno dei poveri, mosso da motivazioni e finalità profondamente diverse da quelle sottese al tradizionale evergetismo romano.

Come è noto, nell’ottica evergetica il vero centro dell’atto di munificenza non è la persona indigente, ma il soggetto elargitore che si propone di amplificare il proprio prestigio sociale, facendo leva sulla risonanza prodotta dall’attività benefica nell’ambito della comunità di appartenenza. La persona beneficata è solo un ‘mezzo’ perché il progetto di ‘autoedificazione’ possa realizzarsi. Il successo dell’azione evergetica va commisurato, dunque, non tanto ai benefici arrecati a chi è in condizioni di bisogno, quanto alla ricaduta positiva che essa sia in grado di garantire - in termini di fama e magnificenza - al protagonista dell’iniziativa filantropica. Di conseguenza, il tradizionale evergetismo romano trascura i derelitti, i malati, gli inabili, i reietti della società, insomma gli ‘ultimi fra gli ultimi’, afflitti da una condizione di assoluta povertà strutturale, senza speranze di riscatto[7]. Essi infatti, vagando nel buio fitto dell’oblio sociale, non possono arrecare alcun prestigio a chi dalla munificenza si aspetta, in contraccambio, onore e gloria.

L’avvento del cristianesimo illumina, invece, proprio quelli che da sempre vivono nell’oscurità di una condizione esistenziale senza prospettive e - nel porre al centro gli ‘ultimi fra gli ultimi’ - ribalta la tradizionale percezione della realtà, promuovendo verso costoro un’inedita tensione etica e caritativa[8]. È evidente, quindi, come, in linea di principio, gli ideali della nova religio siano sostanzialmente diversi da quelli evergetici. Il cristianesimo promuove una valutazione degli ultimi e degli emarginati talmente lontana dalla tradizionale cultura romana da costituire, rispetto ad essa, una vera e propria rivoluzione valoriale e sociale. Il messaggio di Cristo si rivolge, in primo luogo, al sofferente e al povero, nel cui volto risplende il volto del Padre, come la parola profetica del Nazareno e la prassi di condivisione con gli esclusi hanno testimoniato nel breve corso del suo passaggio terreno. Nell’ottica cristiana il povero non può essere considerato un ‘mezzo’, ma sempre e solo un ‘fine’ verso cui, in gratuità di spirito, dovrebbe rivolgersi l’attenzione spirituale e materiale del discepolo di Cristo, nella certezza che al riscatto degli ultimi sia legata la promessa di salvezza per tutta l’umanità.

Ebbene, è facilmente comprensibile come un cambiamento di prospettiva tanto radicale abbia lasciato tracce profonde nella legislazione di un impero divenuto cristiano.

Gli imperatorimostrano chiara consapevolezza della necessità di legiferare per migliorare le condizioni di vita dei più bisognosi ed alleviarne la sofferenza, quantunque appaia evidente che il potere centrale - impossibilitato, in questa delicata fase storica, ad adottare provvedimenti sistematici e risolutivi - sia inadeguato ad assicurare un’efficace assistenza pubblica peculiarmente rivolta agli indigenti. Da questo dato oggettivo scaturisce, di conseguenza, il nuovo orientamento politico volto a favorire, in vario modo, la chiesa e a promuoverne l’arricchimento, in modo da utilizzare le sue maggiori capacità organizzative che la rendono idonea a svolgere un’attività assistenziale col precipuo obiettivo di adiuvare pauperes. Si assiste, pertanto, alla promulgazione di una serie di norme tese a creare le migliori condizioni perché la chiesa possa svolgere, senza impedimenti, la sua missione pastorale erga pauperes. In tal modo essa - già evangelicamente vincolata, sin dai primordi, all’utilizzo dei propri beni a vantaggio dei ceti sociali più poveri - riesce, almeno in una certa misura, a colmare i vuoti lasciati dalla pubblica amministrazione nell’attività di sostegno agli ultimi, determinando, sul piano della storia giuridico-istituzionale, effetti che si protrarranno nel corso dei secoli.

È indubbio che i documenti giuridici, letti nelle loro pieghe testuali, possono offrire alla conoscenza del tema validi spunti di riflessione, preziosi per illuminare aspetti che rimarrebbero altrimenti trascurati; in proposito un apporto molto rilevante ci viene dal Codex Theodosianus, basilare, d’altronde, per qualsiasi indagine sulla legislazione tardoantica. Molteplici costituzioni del Teodosiano evidenziano, infatti, un crescente interesse per i poveri, i quali, pur se non ancora presentati nella loro identità sociale, appaiono più volte sullo sfondo, oggetto di una più attenta considerazione da parte del legislatore.

La ricca varietà dei termini riscontrabili nel Teodosiano in riferimento ai poveri sottolinea la variegata gamma di sfaccettature della paupertas, che richiamano le diverse, possibili situazioni di disagio economico e sociale, anche se, non di rado, nelle costituzioni imperiali i numerosi vocaboli relativi alla povertà risultano utilizzati indifferentemente e alternativamente, come sinonimi[9] ovvero, in altri casi, citati cumulativamente, come endiadi, per dare un valore rafforzativo al concetto[10]. In sostanza, da un esame del lessico della povertà ricorrente nelle fonti, si ricava che i termini più frequenti sono pauper, egens, indigens, tenuis e il suo comparativo tenuior, inops, che è riferito a colui che versa in uno stato opposto all’abbondanza di risorse (opes), mendicus, usato di norma in relazione a chi soffre anche per carenze fisiche che lo inducono ad elemosinare, nonché miser, infimus, humilis, vilis e altri ancora di significato affine[11]. Anche se non sempre si profila netta la distinzione fra l’uno e l’altro vocabolo, i cui contorni appaiono spesso imprecisi e labili, è il termine pauper ad avere il valore semantico più ampio e generico, inglobando, in un certo senso, gli altri termini: esso finisce con l’indicare approssimativamente tutti gli aspetti e le sfumature che può assumere la mancanza di adeguate risorse economiche, abbracciando, per così dire, ogni livello di povertà.

 

  1. I pauperes tra azione legislativa e attività caritativa

 

Prendiamo ora in considerazione alcuni testi legislativi di età costantiniana, esplicativi di quanto sinora argomentato.

Iniziamo dalla lettura di CTh. 16.2.2, emanata da Costantino, almeno da quanto appare nella subscriptio, il 21 ottobre del 319 e diretta ad Ottaviano, correttore della Lucania e del Bruzio[12]:

 

CTh. 16.2.2 Imp. Constantinus A. Octaviano correctori Lucaniae et Brittiorum. Qui divino cultui ministeria religionis inpendunt, id est hi, qui clerici appellantur, ab omnibus omnino muneribus excusentur, ne sacrilego livore quorundam a divinis obsequiis avocentur. Dat. XII kal. Nov. Constantino A. V et Licinio Caes. conss.

 

I chierici - definiti come coloro che divino cultui ministeria religionis inpendunt - svolgono un ruolo rilevante sul piano etico-sociale. Alla luce di tale considerazione, il fulcro di questa legge consiste nella dispensa, concessa ad essi, da tutti i munera (ab omnibus omnino muneribus excusentur), in modo che, alleggeriti da incombenze interferenti, siano liberi di dedicarsi totalmente all’adempimento dei doveri inerenti alla loro missione ecclesiastica (ne sacrilego livore quorundam a divinis obsequiis avocentur).

In tal senso nitidamente si configura la ratio legis: porre in essere le condizioni ideali affinché i ministri dell’istituzione ecclesiastica possano svolgere, nel modo migliore, la propria funzione, affrancati da fattori esterni limitativi. Funzione, peraltro, non legata, stricto sensu, soltanto alle mansioni meramente religiose, ma estesa anche ad ogni possibile intervento umanitario nella società, in considerazione della publica utilitas che l’imperatore ufficialmente riconosce al clero, favorendone con ogni mezzo l’esplicazione.

In seguito, saranno sempre più frequenti le disposizioni di Costantino a vantaggio del clero cattolico nelle regioni occidentali dell’impero su cui aveva, fino a quel momento, stabilito il proprio dominio, disposizioni che, dopo la sconfitta di Licinio, saranno estese anche all’Oriente. Si tratta per lo più di concessioni accordate ai sacerdoti cattolici, i quali, considerati alla stregua di funzionari imperiali, sono retribuiti con uno stipendio pubblico e favoriti da un particolare esonero tributario, che li colloca, dal punto di vista fiscale, in una posizione privilegiata rispetto ai semplici decurioni[13].

Ma c’è di più: perché l’ecclesia possa svolgere, in modo sempre più esauriente, questo ruolo, che è sia spirituale sia temporale, l’imperatore si preoccupa anche di agevolare lo sviluppo delle sue risorse economiche. Tale orientamento politico si scorge chiaramente in due documenti destinati da Costantino all’Africa, il primo dei quali è costituito da una lettera inviata, agli inizi del 313, ad Anulino, nella quale si ordina che siano restituiti “alla chiesa cattolica dei cristiani, nelle singole città o in altri luoghi, i beni che prima le appartenevano, anche se siano al presente proprietà di altri, e che ciò avvenga integralmente e al più presto”[14]. Si tratta di un ordine diretto ad un singolo funzionario, ma si potrebbe ipotizzare che indicazioni analoghe siano state indirizzate ad altri, se non a tutti i funzionari dell’Occidente governato allora da Costantino, dato che si trattava di disposizioni esecutive dell’accordo di Milano, in materia di restituzione dei beni confiscati.

Il secondo documento, che attesta più ampie concessioni tese a compensare i danni prodotti dalle persecuzioni, è rappresentato da una lettera inviata dallo stesso Costantino a Ceciliano, vescovo di Cartagine, con la quale lo si autorizzava a distribuire fra i chierici della sua chiesa la somma di 3000 folles per sostenerli nelle loro necessità; quanto ai singoli destinatari di tale beneficio, Ceciliano si sarebbe attenuto alla lista inviatagli da Osio di Cordova, vescovo-consigliere di Costantino[15]. Nella lettera si precisava, inoltre, che la somma sarebbe stata messa a disposizione dal rationalis Africae Urso e che, nel caso fossero mancate le risorse necessarie, il vescovo avrebbe potuto chiederle ad Eraclide, procuratore dei fondi imperiali in Africa, a tal’uopo preavvisato. Se l’esecuzione dell’ordine fosse stata ostacolata da coloro che volevano deviare il popolo cattolico verso dottrine false e menzognere, Ceciliano avrebbe potuto contare sull’assistenza del proconsole Anulino e del vicario del prefetto del pretorio Patricio, i quali erano stati istruiti in proposito direttamente dall’imperatore.

Sulla scia di questa politica filoecclesiale che vede l’imperatore sempre più impegnato a fornire alla chiesa strumenti pratici per rendere più proficua la sua missione religiosa e sociale, risulta particolarmente significativa la costituzione CTh. 16.2.4, pubblicata da Costantino a Roma nel 321; si tratta di un provvedimento che innova il diritto ereditario a vantaggio della chiesa, incidendo notevolmente sul tessuto giuridico[16].

Esaminiamo il testo:

 

CTh. 16.2.4 Imp. Constantinus A. ad populum. Habeat unusquisque licentiam sanctissimo catholicae venerabilique concilio decedens bonorum quod optavit relinquere. Non sint cassa iudicia. Nihil est, quod magis hominibus debetur, quam ut supremae voluntatis, post quam aliud iam velle non possunt, liber sit stilus et licens, quod iterum non redit, arbitrium. P(ro)p(osita) V non. Iul. Rom(ae) Crispo II et Constantino II Caess. conss.

 

Nel provvedimento, indirizzato al popolo di Roma, Costantino autorizza unusquisque a lasciare i propri beni alla chiesa cattolica (sanctissimo catholicae venerabilique concilio) e dichiara, altresì, che tali disposizioni del de cuius non devono rimanere vane (non sint cassa iudicia). Viene precisato, inoltre, che non vi è nulla che sia dovuto agli uomini più del rispetto delle loro ultime volontà (Nihil est, quod magis hominibus debetur, quam ut supremae voluntatis), poiché essi non potranno ormai volere altro (post quam aliud iam velle non possunt); l’imperatore stabilisce, quindi, che le disposizioni testamentarie di tal genere non necessitano di una specifica forma, in quanto non sarà possibile esprimerle una seconda volta (liber sit stilus et licens, quod iterum non redit, arbitrium).

In tal modo, abilitando la chiesa ad acquisire qualsiasi bene le venga devoluto in seguito a disposizioni mortis causa, da considerarsi valide comunque siano state redatte, Costantino le riconosce chiaramente la ‘personalità giuridica’, in quanto ‘corpus’. L’imperatore sembra trascurare gli eredi legittimi, dato che non vi fa alcun riferimento esplicito, ma sottolinea come precipua istanza il rispetto dell’estrema volontà del de cuius; l’adesione alle ultime volontà espresse dall’uomo - afferma il legislatore - va considerata come obbligo inderogabile (nihil est, quod magis hominibus debetur, quam ut supremae voluntatis []). La titolarità dei beni lasciati in eredità dal defunto viene riferita non a singoli fedeli, ma alla congregazione dei cristiani.

Si deve indubbiamente riconoscere alla norma in esame un carattere innovativo nel campo del diritto testamentario: l’autorizzazione accordata ad unusquisque a lasciare i propri beni alla comunità ecclesiale sembra evidenziare un diritto di successione a vantaggio della chiesa, in deroga al diritto romano che non consentiva di lasciare un’eredità a persona non individualmente determinata (ad incertam personam)[17].

Sarà solo la legislazione tardoimperiale a demolire gradualmente il divieto di istituire erede una incerta persona, procedendo, tuttavia, per singoli casi, nel senso che, in linea generale, permane il principio, ma talune deroghe vengono introdotte dal legislatore, laddove sembri opportuno, soprattutto in vista di uno scopo pio.

Basti ricordare che ancora Giustiniano, nel VI secolo, con la costituzione CI. 6.48.1, de incertis personis, non sancisce un nuovo principio generale in materia, ma propone un elenco di casi in cui il divieto non deve essere applicato (sono annoverati, fra gli altri, enti ecclesiastici, istituti di beneficenza, poveri): è evidente che lo scopo benefico prevale su qualsiasi ostacolo formale[18]. Quest’atteggiamento di particolare favore, manifestato da Giustiniano, nei confronti della sancta ecclesia, degli enti assistenziali, dei pauperes si evidenzia anche in un altro testo normativo di grande interesse, sul quale non appare fuor di luogo soffermarsi.

Si tratta della costituzione CI. 1.2.19 del 528 d.C., indirizzata da Giustiniano al prefetto del pretorio Mena:

 

CI. 1.2.19 Imp. Iustinianus A. Menae pp. Illud, quod ex veteribus legibus licet obscure positis a quibusdam attemptabatur, ut donationes super piis causis factae, licet minus in actis intimatae sint, tamen valeant, certo et dilucido iure taxamus, ut in aliis quidem casibus vetera iura super intimandis donationibus intacta maneant: si quis vero donationes usque ad quingentos solidos in quibuscumque rebus fecerit vel in sanctam ecclesiam vel in xenodochium vel in nosocomium vel in orphanotrophium vel in ptochotrophium vel in ipsos pauperes vel in quamcumque civitatem, istae donationes etiam citra actorum confectionem convalescant: sin vero amplioris quantitatis donatio sit, excepta scilicet imperiali donatione, non aliter valeat, nisi actis intimata fuerit: nulli danda licentia quacumque alia causa quasi pietatis iure subnixa praeter eas, quas specialiter exposuimus, introducenda veterum scita super intimandis donationibus permutare. [D.] ... dn. Iustiniano pp. A. [II cons.]

 

Nella norma l’imperatore stabilisce, secondo sicuro ed inequivocabile diritto (certo et dilucido iure taxamus), che le donazioni fatte a scopo pio abbiano valore pur se disposte senza il rispetto di tutte le formalità (ut donationes super piis causis factae, licet minus in actis intimatae sint, tamen valeant), mentre quelle effettuate per scopi diversi avvengano nella piena osservanza delle antiche leggi (ut in aliis quidem casibus vetera iura super intimandis donationibus intacta maneant)[19].

La costituzione specifica che nel caso in cui taluno abbia fatto, in qualsivoglia circostanza, donazioni fino a 500 solidi in favore della santa chiesa, o di uno xenodochio, o di un nosocomio, o di un orfanotrofio, o di un ospizio per i poveri, o degli stessi poveri, o di qualunque città (si quis vero donationes usque ad quingentos solidos in quibuscumque rebus fecerit vel in sanctam ecclesiam vel in xenodochium vel in nosocomium vel in orphanotrophium vel in ptochotrophium vel in ipsos pauperes vel in quamcumque civitatem), codeste donazioni avranno valore anche indipendentemente dalla forma degli atti (istae donationes etiam citra actorum confectionem convalescant). Ove si tratti, invece, di una somma maggiore (sin vero amplioris quantitatis donatio sit) - fatta esclusione per il caso di una liberalità imperiale (excepta scilicet imperiali donatione) - la donazione dovrà essere effettuata con le dovute formalità (non aliter valeat, nisi actis intimata fuerit); a nessuno, infine, sarà data facoltà di mutare le antiche leggi sulle donazioni per motivi diversi da quelli esplicitamente indicati (nulli danda licentia quacumque alia causa [...] veterum scita super intimandis donationibus permutare).

È evidente come Giustiniano si ponga quale efficace e diretto continuatore della politica legislativa inaugurata da Costantino nello specifico settore della pubblica assistenza, avvalendosi ancora dell’operosità estrinsecata in questo campo dalla chiesa, alla quale attribuisce un supporto giuridico e un appoggio concreto. Costantino, dunque, con CTh. 16.2.4, riconoscendo per la prima volta alla chiesa la capacità di acquisire lasciti testamentari, apre una strada che sarà seguita dai successivi imperatori.

Prendiamo ora in considerazione un’altra costituzione costantiniana, CTh. 16.2.6, la cui ratio risulta di particolare rilievo ai fini del discorso che si sta conducendo. Anche questa costituzione affronta il tema dell’immunità dai munera per i chierici; essa stabilisce però, per la prima volta, regole specifiche sul modo in cui debba essere reclutato il clero.

 

CTh. 16.2.6 Imp. Constantinus A. ad Ablavium p(raefectum) p(raetori)o. Neque vulgari consensu neque quibuslibet petentibus sub specie clericorum a muneribus publicis vacatio deferatur, nec temere et citra modum populi clericis conectantur, sed cum defunctus fuerit clericus, ad vicem defuncti alius allegetur, cui nulla ex municipibus prosapia fuerit neque ea est opulentia facultatum, quae publicas functiones facillime queat tolerare, ita ut, si inter civitatem et clericos super alicuius nomine dubitetur, si eum aequitas ad publica trahat obsequia et progenie municeps vel patrimonio idoneus dinoscetur, exemptus clericis civitati tradatur. Opulentos enim saeculi subire necessitates oportet, pauperes ecclesiarum divitiis sustentari. P(ro)p(osita) kal. Iun. Constantino A. VII et Constantio Caes. conss.

 

La legge è indirizzata al prefetto del pretorio Ablabio e, almeno nella subscriptio, appare essere promulgata il 1° giugno 326; a ragione, tuttavia, larga parte della storiografia, pur accogliendone il giorno e il mese, preferisce datarla all’anno 329[20].

Il legislatore prescrive che non possono usufruire di alcuna dispensa dai carichi pubblici (a muneribus publicis vacatio) coloro che ne facciano richiesta con il pretesto di essere chierici (sub specie clericorum) e che non si deve consentire un’ammissione indiscriminata (nec temere et citra modum) alla condizione clericale; è, però, opportuno che ogni sacerdote defunto sia sostituito da un altro (sed cum defunctus fuerit clericus, ad vicem defuncti alius allegetur),che non abbia alcun legame di parentela con una famiglia di decurioni (cui nulla ex municipibus prosapia fuerit), né sia in possesso di ricchezze con le quali potrebbe adeguatamente svolgere i pubblici servizi (neque ea est opulentia facultatum, quae publicas functiones facillime queat tolerare).

Ove si constati la presenza di un chierico ricco, lo si rimuoverà dal clero e lo si consegnerà alle autorità civili: si inter civitatem et clericos super alicuius nomine dubitetur, si eum aequitas ad publica trahat obsequia et progenie municeps vel patrimonio idoneus dinoscetur, exemptus clericis civitati tradatur.

Di grande interesse risulta la ratio legis enunciata nella parte conclusiva della norma, dove si sottolinea la precipua destinazione assegnata ai beni della chiesa: opulentos enim saeculi subire necessitates oportet, pauperes ecclesiarum divitiis sustentari; è, cioè, necessario che quanti hanno sufficienti ricchezze (opulenti) le mettano a disposizione della comunità civile (saeculi necessitatibus) e che i pauperes siano sostenuti dalle ricchezze della chiesa (divitiis ecclesiarum)[21].

Viene qui rimarcato il divario esistente fra opulenti e pauperes che appaiono due categorie nettamente contrapposte, non tanto e non solo nell’affermazione di diritti, quanto nell’espletamento dei doveri. Al riguardo, mi sembra particolarmente efficace l’uso del verbo oportet che rimarca l’obbligo che grava sugli opulenti di non venir meno, per qualsiasi motivo, alle proprie responsabilità nei confronti della comunità civile: saeculi subire necessitates oportet; in antitesi si prospetta la situazione dei pauperes, che sembrano configurarsi come un distinto gruppo sociale, oggetto di una nuova comprensione da parte dello Stato.

Nella costituzione si riscontra, a mio avviso, un dato di sorprendente interesse: i pauperes sembrano emergere dal buio della loro miseria, passando da moltitudine confusa, indistinta e ignorata di emarginati, alla visibilità di essere umani; la grande novità della norma appare sintetizzata proprio nella destinazione assegnata ai beni della chiesa: pauperes ecclesiarum divitiis sustentari.

In sintesi, direi che il nuovo orientamento politico fin qui delineato evidenzia un’azione attiva e convergente dell’imperatore e della chiesa nell’affrontare alcuni dei più importanti problemi socio-economici del tempo: l’imperatore non si limita a demandare astrattamente alla chiesa l’intervento in campo assistenziale, ma le fornisce, piuttosto, concreti strumenti, pratici e giuridici, perché essa possa svolgere al meglio la sua missione caritativa nel mondo, missione che le deriva espressamente dal Vangelo.

Il principe, infatti, accorda alla chiesa protezione, benefici, immunità di vario genere; la chiesa, a sua volta, sempre più consapevole degli obblighi cui è chiamata ad ottemperare nella società, moltiplica gli edifici destinati alla cura dei bisognosi e proclama con sempre maggiore vigore il messaggio cristiano, attuando un programma di assistenza che rappresenta - si potrebbe dire - il corrispettivo dei privilegi ad essa largamente accordati dall’impero cristiano.

 

  1. Legislazione imperiale e funzione episcopale: la tutela giurisdizionale dei poveri

 

Il discorso finora svolto può acquistare ulteriore luce qualora si prenda in considerazione la figura del vescovo, il quale, nell’ambito della chiesa cattolica, svolge il ruolo di padre ed amico dei poveri, difensore del diritto, protettore degli oppressi di ogni genere[22]. In una società piramidale e rigidamente stratificata, qual è quella tardoantica, in cui potere e ricchezza appaiono più che mai distribuiti in modo ingiusto e diseguale, una società le cui componenti basilari, imperatore e sudditi, ricchi e poveri, risultano rigidamente contrapposte, il vescovo si pone come intermediario del povero nel senso più ampio del termine, ossia come portavoce all’imperatore e alle autorità locali dei bisogni delle classi deboli della propria città.

Rilevanti sono le funzioni che in alcune costituzioni imperiali - successive nel tempo a quelle finora esaminate - vengono riconosciute al vescovo: in primis, la gestione del patrimonio ecclesiastico, come si desume da CI. 1.2.14 (a. 470)[23], e la mediazione nell’opera di riscatto dei prigionieri, come si ricava da CI. 1.3.28 (a. 468)[24]. Anche tali fonti costituiscono una chiara testimonianza del ruolo fondamentale assunto dall’episcopus nella società tardoantica con l’avallo degli imperatori cristiani, i quali, da Costantino in poi, a causa del contributo dato allo sviluppo economico della chiesa, possono utilizzarne i servigi nell’esplicazione dei più svariati oneri sociali. Il potere episcopale si consolida nelle singole città, in ragione della funzione ufficialmente riconosciuta al vescovo di protettore, non solo dei pauperes, ma di tutti coloro che, trovandosi in condizioni economiche precarie, sono esposti al rischio di un progressivo impoverimento.

Il vescovo, pertanto, non è solo guida spirituale delle anime e, in genere, educatore impegnato a svolgere un’attenta opera di miglioramento dei costumi, ma, in un mondo contraddistinto da carenze sostanziali dell’autorità laica nell’espletamento delle proprie mansioni, egli si trova a svolgere anche un ruolo più propriamente amministrativo nell’ambito della città. Difatti, pur non ricoprendo cariche specifiche nelle organizzazioni municipali, agisce in ogni circostanza per ristabilire la giustizia violata, conquistando l’unanime riconoscimento di protettore dei poveri. Si preoccupa, inoltre, di ottenere sgravi fiscali, ristabilendo, quando possibile, una politica tributaria più equa, nonché di offrire una dignitosa ospitalità ai pellegrini, di proteggere vedove, orfani, poveri ed emarginati di ogni genere che ripongono la loro fiducia nella protezione episcopale; l’episcopus è infatti il padre dei pauperes; la sua gloria consiste nel provvedere ad aiutare i poveri: gloria episcopi est pauperum opibus providere[25].

L’opera del vescovo, inoltre, trova un’altra importante forma di esplicazione nello specifico e delicato campo giurisdizionale.

Prima della svolta costantiniana, come è noto, la funzione giurisdizionale dell’episcopato veniva esercitata soltanto nell’ambito delle comunità cristiane, senza alcun riconoscimento da parte dell’imperatore; sarà Costantino a dare ad essa un carattere ufficiale con l’istituzione dell’episcopalis audientia[26].

Sulla posizione dell’episcopus all’interno del tribunale vescovile si è espresso autorevolmente Peter Brown, che ha ritenuto di vedere nell’episcopalis audientia un ulteriore spazio d’azione nel quale il vescovo avrebbe avuto modo di esercitare la sua funzione di protettore dei deboli. Con la corte vescovile si determina - secondo l’autore - uno slittamento del ruolo del vescovo, il quale, da ‘amante del povero’, che provvede alle necessità materiali dei bisognosi di ogni genere, diventa anche ‘protettore delle classi deboli’, avvalendosi di uno strumento giurisdizionale che gli consente di assicurare ai cives una più equa amministrazione della giustizia[27]. Al riguardo, infatti, è plausibile ipotizzare che il tribunale episcopale, pur essendo obbligato a rispettare nei suoi giudizi il diritto romano, difficilmente si attenesse solo a rigidi criteri formali; il principio equitativo e la pietà religiosa non potevano non mitigare il rigore del diritto, rendendo, quindi, più umano il sistema[28]. Occorre, però, anche aggiungere che non sembra trasparire dai testi giuridici l’immagine di un tribunale posto al servizio esclusivo dei poveri.

Vediamo ora le norme più significative in tema di episcopalis audientia,prendendo le mosse dalla ben nota costituzione emanata a Costantinopoli dall’imperatore Costantino il 23 giugno del 318 e raccolta nel Codice Teodosiano, sotto il titolo De episcopali definitione:

 

CTh. 1.27.1 Imp. Constantinus A.Iudex pro sua sollicitudine observare debebit, ut, si ad episcopale iudicium provocetur, silentium accommodetur et, si quis ad legem Christianam negotium transferre voluerit et illud iudicium observare, audiatur, etiamsi negotium apud iudicem sit inchoatum, et pro sanctis habeatur, quidquid ab his fuerit iudicatum: ita tamen, ne usurpetur in eo, ut unus ex litigantibus pergat ad supra dictum auditorium et arbitrium suum enuntiet. Iudex enim praesentis causae integre habere debet arbitrium, ut omnibus accepto latis pronuntiet.Data VIIII kal. Iulias Constantinopoli ….. A. et Crispo Caes. conss.

 

Nella legge Costantino fa obbligo ai giudici secolari di riconoscere la giurisdizione episcopale (si quis ad legem Christianam negotium transferre voluerit et illud iudicium observare, audiatur) e di consentire che siano affidate al tribunale ecclesiastico anche cause delle quali essi fossero stati precedentemente investiti (etiamsi negotium apud iudicem sit inchoatum).

Si pone, però, una condizione: che il vescovo venga adito da entrambe le parti (ne usurpetur in eo, ut unus ex litigantibus pergat ad supra dictum auditorium et arbitrium suum enuntiet), dato che il suo compito è di esprimere un arbitrium imparziale, fondato sugli argomenti prodotti dalle parti in causa (Iudex enim praesentis causae integre habere debet arbitrium)[29].

Il tema viene ripreso e ampliato in un’altra legge di Costantino, emanata quindici anni dopo, la quale non risulta inserita nel Codex Theodosianus, ma fa parte della Collectio Sirmondiana[30]. Nella costituzione Sirm. 1, datata 5 maggio 333, l’imperatore ribadisce quanto già precedentemente deciso e ne allarga la portata, stabilendo che il vescovo possa essere adito in un processo anche da una sola delle parti, nell’opposizione dell’altra (etiamsi alia pars refragatur), la quale è obbligata ad accettare il giudice che le viene così imposto; inoltre, si fa obbligo di rispettare la sentenza del vescovo, escludendo ogni possibilità di ricorso avverso la decisione episcopale (nec liceat ulterius retractari negotium, quod episcoporum sententia deciderit)[31].

Ai fini del nostro discorso, di particolare interesse appare la parte conclusiva della norma, ove si coglie la ratio del provvedimento:

 

Hoc nos edicto salubri aliquando censuimus, hoc perpetua lege firmamus, malitiosa litium semina conprimentes, ut miseri homines longis ac paene perpetuis actionum laqueis implicati ab improbis petitionibus vel a cupiditate praepostera maturo fine discedant. Quidquid itaque de sententiis episcoporum clementia nostra censuerat et iam hac sumus lege conplexi, gravitatem tuam et ceteros pro utilitate omnium latum in perpetuum observare convenit [32].

 

La legge fa esplicito riferimento ai miseri homines, i quali, coinvolti in lunghissimi processi scaturiti da richieste ingiuste (ab improbis petitionibus) o dall’inopportuna avidità (a cupiditate praepostera)dei potenti, avrebbero potuto ottenere una rapida e idonea conclusione dei giudizi dinanzi al tribunale vescovile.

È chiaro l’intendimento dell’imperatore: contenere i malitiosa litium semina al fine di sopperire all’inefficienza dell’apparato giudiziario imperiale, sovraccarico, malfunzionante e corrotto, di cui erano vittime in primis i soggetti più deboli e bisognosi, incapaci di opporsi al sistema.

Un indubbio elemento di fatto da rilevare è che, al momento della compilazione del Teodosiano, risultava già fissato dal legislatore un punto fondamentale riguardo all’episcopalis audientia: essa viene autorizzata solo se c’è accordo tra le parti, ‘inter volentes’; in proposito, infatti, appare inequivocabile una costituzione del 13 dicembre 408, emanata dall’imperatore Onorio ed indirizzata a Teodoro, prefetto del pretorio.

Si tratta di CTh. 1.27.2[33]:

 

CTh. 1.27.2 Imppp. Arcadius, Honorius et Theodosius AAA. Theodoro p(raefecto) p(raetori)o. Episcopale iudicium sit ratum omnibus, qui se audiri a sacerdotibus adquieverint. Cum enim possint privati inter consentientes etiam iudice nesciente audire, his licere id patimur, quos necessario veneramur eamque illorum iudicationi adhibendam esse reverentiam, quam vestris deferri necesse est potestatibus, a quibus non licet provocare. Per publicum quoque officium, ne sit cassa cognitio, definitioni exsecutio tribuatur. Dat. id. Dec. Basso et Philippo conss.

 

Nella lex si afferma chiaramente che il giudizio episcopale è valido solo ‘inter consentientes’; inoltre, viene precisato che, se il vescovo giudica in forza di un compromesso tra le parti, le sue decisioni avranno la stessa autorità di quelle prese dal prefetto del pretorio, sono, cioè, inappellabili: eamque illorum iudicationi adhibendam esse reverentiam, quam vestris deferri necesse est potestatibus, a quibus non licet provocare.

Infine, per quanto concerne l’esecuzione della decisione, il testo prevede espressamente che essa sarà assicurata dai giudici secolari: per publicum quoque officium, ne sit cassa cognitio, definitioni exsecutio tribuatur[34].

L’episcopalis audientia rappresenta indubbiamente un’ulteriore prova del rispetto e del favore mostrati dall’imperatore per i vescovi cristiani, i quali erano a tal punto impegnati nella funzione giurisdizionale da trovarsi, talvolta, per il sovraccarico dei processi loro affidati, nella difficoltà di conciliare il compito di giudice con gli altri doveri imposti dal loro ministero sacerdotale[35].

Rendono efficacemente tale stato di cose le parole di Agostino che, pur consigliando ai cristiani di ricorrere al tribunale episcopale[36], rimpiange il tempo che egli è costretto a sottrarre alla preghiera, per svolgere la sua attività di giudice[37].

La funzione episcopale e, nello specifico, l’episcopalis audientia, svolgono, dunque, anche sotto il profilo meramente giurisdizionale, un compito fondamentale nell’azione erga pauperes diretta alla salvaguardia dei soggetti più deboli, come si evince dai testi giuridici in precedenza esaminati[38].

A questo punto del discorso, mi pare necessario approfondire ulteriormente, alla luce di una lettura complessiva delle fonti, il dato incontrovertibile sinora emerso e discusso: ossia il senso e i limiti della possibilità, concessa ai pauperes, di ricorrere al tribunale vescovile per far valere i propri diritti violati o disattesi. Al riguardo, va subito chiarito che tale dato non è segno di una delega assoluta da parte del potere imperiale, che, in realtà, non intende affidare totalmente all’istituzione ecclesiastica la tutela giurisdizionale degli indigenti.

Al contrario, sembra plausibile l’esistenza - per i diseredati in condizioni di grave disagio - di un ‘doppio binario’ attraverso il quale richiedere e ottenere giustizia: il tribunale episcopale, ma pure quello imperiale, come è attestato da un’altra costituzione promulgata dall’imperatore Costantino e riportata in CTh. 1.22.2, che risulta inserita anche nel Codex giustinianeo (CI.3.14.1)[39].

La lex, indirizzata ad un tale Andronico[40], è emanata a Costantinopoli il 17 giugno del 334[41], appena un anno dopo Sirm. 1.

Leggiamo il testo di CTh. 1.22.2:

 

CTh. 1.22.2 Imp. Constant(inus) A. Andronico. Si contra pupillos, viduas vel morbo fatigatos et debiles impetratum fuerit lenitatis nostrae iudicium, memorati a nullo nostrorum iudicum conpellantur comitatui nostro sui copiam facere. Quin imo intra provinciam, in qua litigator et testes vel instrumenta sunt, experiantur iurgandi fortunam atque omni cautela servetur, ne terminos provinciarum suarum cogantur excedere. Quod si pupilli vel viduae aliique fortunae iniuria miserabiles iudicium nostrae serenitatis oraverint, praesertim cum alicuius potentiam perhorrescunt, cogantur eorum adversarii examini nostro sui copiam facere. Dat. XV kal. Iul. Constant(ino)p(oli) Optato et Paulino conss[42].

 

La legge stabilisce che orfani, vedove, malati e invalidi (ossia soggetti sofferenti e resi deboli dal loro status o dalle infauste circostanze della vita), se citati in giudizio innanzi alla corte imperiale, non saranno obbligati da alcun giudice a comparire davanti a tale tribunale (Si contra pupillos, viduas vel morbo fatigatos et debiles impetratum fuerit lenitatis nostrae iudicium, memorati a nullo nostrorum iudicum conpellantur comitatui nostro sui copiam facere)[43].

Si riconosce, infatti, a questi soggetti ‘svantaggiati’ la possibilità di richiedere che il processo venga celebrato nel territorio provinciale di appartenenza, in modo da consentire una più facile reperibilità di testimonianze e prove a sostegno delle proprie ragioni, adottando ogni cautela per evitare che siano costretti ad allontanarsi, per il giudizio, dai confini della loro provincia (Quin imo intra provinciam, in qua litigator et testes vel instrumenta sunt, experiantur iurgandi fortunam atque omni cautela servetur, ne terminos provinciarum suarum cogantur excedere)[44].

Il provvedimento dispone, infine, che gli orfani, le vedove e tutti coloro che per ingiustizia del destino versano in una condizione miserevole (pupilli vel viduae aliique fortunae iniuria miserabiles), soprattutto qualora temano soprusi da parte di potenti (praesertim cum alicuius potentiam perhorrescunt), potranno rivolgersi direttamente all’imperatore, dinanzi al cui esame gli avversari saranno obbligati a comparire (Quod si pupilli vel viduae aliique fortunae iniuria miserabiles iudicium nostrae serenitatis oraverint, praesertim cum alicuius potentiam perhorrescunt, cogantur eorum adversarii examini nostro sui copiam facere)[45].

Dalla lettura del testo si evince che il legislatore formula due distinte ipotesi, rispetto alle quali viene modulato il favor imperiale.

Nella prima parte della lex, come si deduce dalle parole Si contra pupillos … impetratum fuerit lenitatis nostrae iudicium, si prevede il caso in cui i soggetti elencati nella norma siano convenuti in giudizio, cioè, nella fattispecie, siano citati dalla controparte dinanzi al tribunale imperiale: in tale circostanza, si consente loro di richiedere che il processo si svolga in provincia, in modo da evitare lunghi e costosi viaggi per raggiungere Costantinopoli.

Nella seconda parte del provvedimento, come si ricava dalle parole Quod si pupilli … iudicium nostrae serenitatis oraverint, viene preso in considerazione il caso inverso, in cui i suddetti soggetti siano attori e intendano citare la controparte direttamente davanti alla corte imperiale: in siffatta ipotesi, si permette loro di adire l’imperatore in deroga alle norme sulla competenza giurisdizionale[46].

Ebbene, il fattore decisivo, che da potenziale rende attuale la facoltà di ricorrere alla corte imperiale, sembra essere la presenza di un evento prevaricatorio posto in essere da soggetti potenti a danno di individui fragili e indigenti, per i quali un atto di oppressione agirebbe da moltiplicatore di un disagio esistenziale già ai limiti della tollerabilità. La ratio legis consiste, quindi, nella volontà di proteggere il più possibile i soggetti deboli, laddove si trovino ad affrontare situazioni impreviste e problematiche, fornendo loro idonei strumenti di difesa nel caso di abusi da parte di personaggi potenti, in qualsivoglia modo essi si manifestino.

Si tenga presente che la legge costantiniana viene recepita anche nel Breviarium Alaricianum (Brev. 1.9.2), ove si legge:

 

Brev. 1.9.2 Si quicumque adversus pupillos, viduas et aegrotos nostra praecepta meruerit, eos de locis suis commovendi vel extra provinciam suam usquam penitus protrahendi licentiam submovemus, ut ibi causam suam dicant, ubi instructiores esse et testimonia possint facilius invenire. Sane si ipsi, quorum fatigationi consulimus, nos crediderint expetendos, huic voluntati eorum veniendi aditum non negamus, ita ut adversarii eorum sub praesentia principis adesse per rectorem provinciae conpellantur.

 

Nell’Interpretatio viene indicata con uguale chiarezza la duplice possibilità riconosciuta a pupilli, vedove e invalidi, i quali possono sia richiedere che il processo si svolga all’interno della propria provincia, data la maggiore facilità di reperire prove e testimoni, sia citare la controparte direttamente dinanzi all’imperatore, con un richiamo esplicito, in questo caso, all’intervento del governatore provinciale (ita ut adversarii eorum sub praesentia principis adesse per rectorem provinciae conpellantur), richiamo invece assente nella costituzione raccolta nel Teodosiano[47].

Un’ulteriore riflessione suggerita dalla lettura della costituzione CTh. 1.22.2 riguarda i soggetti individuati nella legge quali beneficiari dell’intervento imperiale. Le categorie espressamente menzionate sono quattro: orfani, vedove, malati e invalidi (pupilli, viduae, morbo fatigati, debiles), ossia tutti soggetti deboli, indicati poi significativamente, nel prosieguo della costituzione, con l’espressione fortunae iniuria miserabiles[48].

Va osservato, innanzitutto, che nel provvedimento costantiniano per designare i soggetti disagiati, ai quali si rivolge la lenitas imperatoria, ricorre il termine miserabiles. Quale accezione esso assume nel testo considerato?

A ben vedere, il lemma, nel contesto della legge, sembra riferirsi non solo ad una mera condizione soggettiva di debolezza, ma ad uno status personale aggravato da una circostanza oggettiva di sopruso o abuso da parte di un altro individuo prevaricatore, che genera paura e peggiora una preesistente situazione di disagio: orientano chiaramente in tal senso le parole […] praesertim cum alicuius potentiam perhorrescunt[49].

È possibile, infatti, che nel testo in esame il termine miserabiles non alluda genericamente a persone bisognose, prive di mezzi, indigenti, ma rimandi ad uno status al contempo soggettivo e oggettivo, designando la persona debole che sia anche vittima di sopruso: è la prevaricazione perpetrata da un potente ai danni del soggetto disagiato a costituire plausibilmente l’elemento che connota la condizione dei destinatari della norma. In tale specifico contesto, miserabilis è, dunque, l’oppresso, colui che suscita compassione, chi è degno di pietà anche e soprattutto perché sopraffatto dal comportamento prevaricatore di un altro individuo[50].

Un’altra osservazione scaturita dalla lettura di CTh. 1.22.2 concerne poi la data di emanazione del provvedimento, che risulta promulgato, come si ricava dalla subscriptio della lex, il 17 giugno del 334, appena un anno dopo Sirm. 1, datata 5 maggio 333.

La sequenza temporale così ravvicinata dei due provvedimenti è singolare.

Da un lato, Costantino, con Sirm. 1, estende la possibilità di adire il tribunale episcopale anche ai casi di istanza di una sola delle parti, ammettendo un giudizio inter nolentes e superando, dunque, la necessità di un accordo tra i contendenti quale requisito per il ricorso al vescovo, così come risulta stabilito da CTh. 1.27.1 del 318; dall’altro, con CTh. 1.22.2, egli avoca direttamente al tribunale imperiale il giudizio inerente alle miserabiles personae nelle ipotesi, non infrequenti, di abusi perpetrati ai loro danni[51].

Al riguardo, tuttavia, va considerato che il vescovo non aveva mezzi coercitivi per obbligare la parte ‘recalcitrante’ a comparire davanti al tribunale ecclesiastico e, soprattutto, in base al dettato di diverse norme canoniche, appare acclarato che l’episcopus non avrebbe potuto giudicare in contumacia, tenuto conto, d’altronde, della essenziale funzione ‘riconciliativa’ da costui prioritariamente assolta in campo giurisdizionale. Il divieto in tal senso è espressamente sancito, tra le altre fonti, nella Didascalia Apostolorum (III sec.), in cui si esortano i vescovi a pronunciare la sentenza solo dopo aver ascoltato le parti, presenti entrambe in giudizio (ambae adstiterint simul in iudicio )[52], e negli Statuta Ecclesiae Antiqua (V sec.), ove è esplicito l’avvertimento rivolto ai giudici ecclesiastici a non emettere la sentenza in assenza della persona della cui causa si discute, pena l’invalidità della pronuncia (ne absente eo cuius causa ventilatur sententiam proferant, quia irrita erit )[53].

Si può, dunque, immaginare che Costantino, dopo appena un anno dall’emanazione di Sirm. 1, abbia voluto riconoscere alla parte processuale più debole la possibilità di adire direttamente la corte imperiale, anche nella specifica ipotesi di contumacia dell’avversario nell’ambito del giudizio episcopale.

Letta in quest’ottica, la costituzione CTh. 1.22.2 del 334 rappresenta un’ulteriore conferma del favor processuale mostrato dall’imperatore nei confronti delle miserabiles personae: con tale provvedimento, pertanto, Costantino si propone di configurare una dinamica processuale ‘aperta’ e ‘polivoca’, che tenda alla tutela effettiva della componente debole e, in quanto tale, più esposta al rischio di un giudizio non equo[54]. In tal senso, la ratio legis prevede che, qualora la parte più fragile sia stata vittima di un atto prevaricatorio compiuto dall’avversario, le sia concessa la possibilità (si potrebbe dire la ‘possibilità delle possibilità’), per sostenere fino in fondo le proprie ragioni e far valere i diritti violati, di rivolgersi direttamente all’autorità imperiale, di fronte alla quale i potentes avrebbero dovuto presentarsi o, comunque, subire la decisione pure laddove fossero risultati assenti[55].

È chiaro che l’imperatore, in questo modo, ha inteso riconoscere ai soggetti disagiati, indicati nella norma, un indubbio privilegio in campo processuale, prevedendo un ‘doppio binario’, in sostanza una doppia possibilità di azione, che avrebbe consentito loro di scegliere la soluzione più idonea per salvaguardare i diritti lesi, così da ovviare alle carenze strutturali di un vacillante apparato giudiziario minato dalla corruzione.

 

  1. Osservazioni conclusive

 

In conclusione, il quadro emerso dalla lettura dei provvedimenti esaminati non è in contraddizione con le linee di tendenza generali della normativa costantiniana inerente alla protezione dei pauperes, che possono riassumersi nel favor ecclesiae, cioè nel tentativo di neutralizzare, almeno in parte, l’inadeguatezza dei tribunali imperiali, favorendo il ricorso al tribunale episcopale da parte di coloro i quali, colpiti da avversa fortuna, sperimentano situazioni di grave deprivazione esistenziale, rese più acute da inaspettati e sopraggiunti soprusi. Ad essi, dunque, il legislatore riserva una duplice opportunità per ottenere giustizia di fronte ad atti di prevaricazione perpetrati ai loro danni da potentes senza scrupoli: l’episcopalis audientia o l’ire ad comitatum, il tribunale ecclesiastico o la corte imperiale ovvero entrambi, nel tentativo di stabilire una più equa proporzionalità tra danno subito e possibilità di riscatto.

Mi sembra che l’immagine congiunta di imperatore e vescovi - disposti, in sinergia di intenti, a garantire una giustizia adeguata ai soggetti più deboli e sofferenti - esprima molto bene, agli albori di un’altra storia, la nuova temperie culturale e spirituale, frutto della contaminazione tra la novitas cristiana e i valori tradizionali della romanitas[56].

 

Abstract: The contribution outlines some profiles of the regulatory framework inherent to the issue of paupertas and social uneasiness in late antiquity. It describes the cultural and social elements that lead to the Constantinian turn and the specific influence of the nova religio on the way of considering the category of the poor. The paper analyzes the cooperation between the empire and the church, as regards the assistance to the pauperes, and deals specifically with the judicial protection of the poor through the examination of some relevant imperial constitutions (CTh. 1.27.1-2; Sirm. 1; CTh. 1.22.2), pointing out a ‘double track’ of procedural protection for the weakest.

 

Key words: Poverty, late antiquity, legislation, empire and church; judicial protection of the poor.


* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] Sul tema della povertà con specifico riguardo all’età tardoantica, oltre ai fondamentali lavori di E. Patlagean, Pauvreté économique et pauvreté sociale à Byzance 4e-7e siècles, Paris 1977, tr. it. Povertà ed emarginazione a Bisanzio IV-VII secolo, Roma - Bari 1986; V. Neri, I marginali nell’occidente tardoantico. Poveri, ‘infames’ e criminali nella nascente società cristiana, Bari 1998; P. Brown, Poverty and Leadership in the Later Roman Empire, Hanover - London 2002, tr. it. Povertà e leadership nel tardo impero romano, Roma - Bari 2003, v., tra gli studi più recenti, ai quali rinvio per la precedente bibliografia, C. Corbo, Paupertas. La legislazione tardoantica (IV-V sec. d.C.), Napoli 2006; M. Atkins - R. Osborne (eds.), Poverty in the Roman World, New York 2006; J.-P. Devroey, Puissants et misérables. Système social et monde paysan dans l’Europe des Francs (VIe-IXe siècles), Bruxelles 2006; P. Allen - B. Neil - W. Mayer, Preaching Poverty in Late Antiquity. Perceptions and Realities, Leipzig 2009; per l’epoca medievale, oltre all’importante e sempre valido contributo di M. Mollat, Les pauvres au Moyen Âge. Étude sociale, Paris 1978, anche in tr. it. I poveri nel Medioevo, Roma - Bari 2001, v. ora G. Albini, Poveri e povertà nel Medioevo, Roma 2016; G. Piccinni (a cura di), Alle origini del welfare. Radici medievali e moderne della cultura europea dell’assistenza, Roma 2020 (con ult. bibl). In generale, sulla povertà nel mondo antico v. H. Bruhns, Armut und Gesellschaft in Rom, in H. Mommsen - W. Schulze (hrsg.), Vom Elend der Handarbeit. Probleme historischer Unterschichtenforschung, Stuttgart 1981, pp. 27 ss.; S. Altmeyer-Baumann, Alte Armut - Neue Armut. Eine systematische Betrachtung in Geschichte und Gegenwart, Weinheim 1987; M. Prell, Sozialökonomische Untersuchungen zur Armut im antiken Rome. Von den Gracchen bis Kaiser Diokletian, Stuttgart 1997; W. V. Harris, Poverty and Destitution in the Roman Empire, in W. V. Harris (ed.), Rome’s Imperial Economy: Twelve Essays, Oxford 2011, pp. 27 ss. Il tema della paupertas è stato anche al centro della discussione in diversi convegni scientifici: v., tra gli altri, R. Marino - C. Molè - A. Pinzone (a cura di), Poveri ammalati e ammalati poveri. Dinamiche socio-economiche, trasformazioni culturali e misure assistenziali nell’Occidente romano in età tardoantica, Atti del Convegno di Studi, Palermo, 13-15 ottobre 2005, Catania 2006; gli Atti del Convegno Internazionale Povertà e malattia nella Tarda Antichità (III-VI secolo d.C.): disagio sociale, interventi istituzionali, pratiche culturali, Roma 24-26 gennaio 2006, parzialmente pubblicati in Mediterraneo Antico, 10 (2007), pp. 255 ss.; gli Atti dell’incontro di studio, svoltosi a Roma il 22-23 ottobre 2009, su Povertà, disagio economico e ribellismo sociale nel mondo romano, apparsi in Mediterraneo Antico, 12 (2009), pp. 27 ss.; A. Cernigliaro (a cura di), Il ʻprivilegioʼ dei ʻproprietari di nullaʼ. Identificazione e risposte alla povertà nella società medievale e moderna, Convegno di Studi - Napoli 22-23 ottobre 2009, Napoli 2010; F. Reduzzi Merola(a cura di), Dipendenza ed emarginazione nel mondo antico e moderno, Dépendance et marginalisation de l’Antiquité à l’âge contemporaine, Atti del XXXIII Convegno Internazionale G.I.R.E.A. dedicati alla memoria di Franco Salerno, Roma 2012; gli Atti del Convegno Internazionale dell’Associazione di Studi Tardoantichi, tenutosi a Napoli il 10-11 novembre 2011, su Povertà e disagio sociale nell’Italia tardoantica, raccolti in Koinonia, 36 (2012), ove segnalo, in particolare, per l’attinenza con il tema di questo saggio, il contributo di M. V. Escribano Paño, Pauperes en el libro 16 del Codex Theodosianus, pp. 57 ss.

[2] Sulla degenerazione dell’apparato giudiziario tardoantico v., per tutti, l’efficace ricostruzione di L. De Giovanni, I mali della giustizia in una testimonianza di Ammiano Marcellino, in C. Cascione - C. Masi Doria (a cura di), Fides Humanitas Ius. Studii in onore di Luigi Labruna, vol. III, Napoli 2007, pp. 1401 ss.; dello stesso a., v. anche i successivi saggi Il ‘problema giustizia’ nel Tardoantico, in G. Bonamente - R. Lizzi Testa (a cura di), Istituzioni, carismi ed esercizio del potere (IV-VI secolo d.C.), Bari 2010, pp. 171 ss. e Gli imperatori e la giustizia, in L. De Giovanni (a cura di), Società e diritto nella tarda antichità, Napoli 2012, pp. 89 ss. (con ult. bibl.). Spunti interessanti anche nel contributo di M. B. Bruguiere, Réflexions sur le crise de la justice en Occident à la fin de l’Antiquité: l’apport de la littérature, in La giustizia nell’alto medioevo (secoli V-VIII), vol. I, Spoleto 1995, pp. 165 ss.

[3] Sul punto v., tra gli altri, L. De Salvo, Le classi sociali, in L. De Salvo - C. Neri (a cura di), Storia di Roma. L’età tardoantica, vol. II, Roma 2010, pp. 468 ss., ove l’a., occupandosi delle classi inferiori, si sofferma in particolare su poveri e marginali ed efficacemente rileva che «[...] nella società tardoantica grande appariva la massa dei poveri, che facevano da contraltare ai pochi ricchissimi [...]. Molti di essi, gli storpi, i vagabondi, i mendicanti stavano accalcati presso le porte delle basiliche e dormivano sotto i portici che le fiancheggiavano. Erano, per dirla con Brown, “gli anonimi rifiuti umani dell’economia antica” [...]» (p. 468).

[4] Cfr. De reb. bell. 2.4-5: ex hac auri copia privatae potentium repletae domus in perniciem pauperum clariores effectae, tenuioribus videlicet violentia oppressis. Sed afflicta paupertas, in varios scelerum conatus accensa, nullam reverentiam iuris aut pietatis affectum prae oculis habens, vindictam suam malis artibus commendavit. Si ricordi anche la testimonianza di Giovanni Crisostomo, di cui è nota la particolare sollecitudine per il mondo degli emarginati, il quale attesta che, a Costantinopoli, il numero dei poveri era all’incirca di cinquantamila unità su una popolazione cristiana che si aggirava intorno alle centomila: cfr. Ioann. Chrys., In Act. Ap. 11.3.

[5]I processi storici e gli eventi passati hanno una logica non sempre immediatamente evidente allo sguardo degli studiosi, la cui attività precipua è diretta a disvelarne il ‘senso’, nel tentativo di cogliere la ratio che li ha resi effettuali in quel modo e non in altro. Anche se spesso l’analisi storiografica si imbatte in dati talmente densi da non essere univocamente interpretabili, per quanto concerne, nello specifico, la tematica della paupertas,mi sembra di cogliere, nell’età tardoantica, una chiara linea di tendenza che si manifesta in un movimento di avvicinamento convergente tra potere politico romano e nascente chiesa cristiana, da cui trae origine l’azione erga pauperes, nei suoi molteplici aspetti, anche in ambito processuale: su cui v. infra, §§ 2-3.

[6] Emblematico, per cogliere l’atteggiamento ‘rivoluzionario’ proprio della visione cristiana del mondo, è il celebre Discorso della montagna (Matth.5.1-12; Luc. 6.20-49). In esso, radicale appare il rovesciamento assiologico rispetto alla tradizionale scala dei valori: la debolezza e la povertà, cioè la condizione di ‘marginalità’, lungi dall’essere indicata come esecrabile, diventa status privilegiato per il riscatto e l’emancipazione spirituale e sociale. Larghe fasce di oppressi trovano nel messaggio cristiano nuova linfa per alimentare le proprie esigenze di liberazione. La ‘speranza’ cristiana, pur essendo specificamente legata alla dimensione della salvezza spirituale, non può non mettere in moto, difatti, in modo indiretto, dinamismi inerenti anche alla liberazione sociale degli ultimi, finalmente protagonisti sul palcoscenico della storia.

[7] Si ricordi che la povertà può essere assoluta o relativa, legata allo status sociale o familiare oppure conseguenziale a una condanna penale. ‘Essere povero’, infatti, è cosa diversa da ‘diventare povero’: nel primo caso ci si riferisce a una povertà strutturale, dipendente da carenze nell’amministrazione socio-economica dell’impero e, spesso, anche effetto degli abusi dei potentes; nel secondo, come risulta anche da alcune leggi del Teodosiano, si ha una povertà congiunturale, da collegarsi a una colpa, a un reato di cui ci si è macchiati, che implica per il colpevole, declassato e privato del suo status, la condanna a vivere in una condizione di totale indigenza: cfr., fra le altre leggi, CTh. 9.42. 8.3, emanata da Teodosio I nel 380, nella quale l’imperatore commina l’egestas come pena secondaria, oltre alla deportazione, ai rei di alto tradimento (ipsum vero in tam atroci facinore convictum non solum deportatione, sed egestate puniri conveniet); CTh. 9.14.3, emanata da Arcadio nel 397, ove si stabilisce che i colpevoli di lesa maestà siano puniti con la decapitazione (maiestatis reus gladio feriatur) e i loro figli, ai quali è fatta salva la vita, perdano il diritto di ereditare, nonché la possibilità di accedere alle cariche pubbliche e siano in perpetuo condannati alla povertà (sint perpetuo egentes et pauperes); la norma precisa inoltre che essi si troveranno a vivere in una così grande miseria da considerare la vita un supplizio e la morte una consolazione (sint postremo tales, ut is perpetua egestate sordentibus sit et mors solacio et vita supplicio). In ogni modo, sia la povertà strutturale sia quella congiunturale sono da considerarsi come una povertà involontaria, subita e imposta dalle circostanze, che si differenzia profondamente dalla paupertas volontaria, quella singolare forma di povertà che si manifesta soprattutto a partire dal IV secolo, allorché vari personaggi, basti ricordare i nomi di Fabiola e di Melania, rinunzieranno volontariamente alle loro grandi ricchezze, devolvendole ai poveri, una povertà che costituisce una scelta di vita, frutto di un’ideologia innovatrice, permeata da un nuovo spirito ‘rivoluzionario’, che si affermerà sempre più nei secoli successivi.

[8] Sulla questione cfr. L. De Salvo, Le classi sociali, cit., p. 470, la quale acutamente afferma: «La cura dei poveri era diversa dell’evergetismo classico, che rispondeva ad un ideale civico, per cui il benefattore non era “amante dei poveri”, ma “amante della sua città”: l’ottica era quella di privilegiare il cittadino, laddove ebrei e cristiani consideravano soprattutto il povero». Insiste sulla distinzione tra l’amor pauperum, ispiratore della caritas christiana, e l’amor civicus, alla base degli atti di munificentia pagani anche A. Giardina, Amor civicus. Formule ed immagini dell’evergetismo romano nella tradizione epigrafica, in A. Donati (a cura di), La terza età dell’epigrafia. Colloquio AIEGL - Borghesi 86, Bologna, ottobre 1986, Faenza 1988, pp. 67 ss. Sulla differenza fra evergetismo pagano e carità cristiana v. pure C. Corbo, Incertae personae e capacità successoria. Profili di una società e del suo diritto, Napoli 2012, pp. 229 ss. (con ampia bibliografia in argomento, cui si rinvia).

[9] Cfr., ad esempio, CTh. 8.11.1 (a. 364), una legge di Valente nella quale l’imperatore stabilisce che i pauperes siano esonerati dal pagamento di un gravoso tributo. Essa nomina per tre volte gli indigenti indicandoli una volta con il termine pauperes, due volte con quello di tenuiores.

[10] Cfr., fra i tanti provvedimenti, CTh. 16.2.14, ove appaiono i termini pauperes ed egentes.

[11] Sul vocabolario della povertà nel Codice Teodosiano si vedano in particolare D. Grodzynski, Pauvres et indigents, vils et plébéiens. (Une étude sur le vocabulaire des petites gens dans le Code Théodosien),in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 53 (1987), pp. 140 ss., la quale prende in esame diversi termini (miseri, mediocres, infimi, inferiores, humili, humiliores, viles), con significato affine a quello di poveri; C. Gebbia, Il lessico della povertà nel Codice Teodosiano, in Hestíasis. Studi di tarda antichità offerti a Salvatore Calderone, vol. VI, Messina 1989, pp. 73 ss., praecipue pp. 73-74, ove l’a. efficacemente afferma: «Pauper e paupertas non esprimono […] una realtà concettuale valida omni tempore e non presentano un’accezione univoca: subiscono notevoli evoluzioni dal punto di vista semantico, compresi i sinonimi e gli antonimi che ne fanno parte integrante e variano contestualmente alla realtà sociale»; da ultima C. Freu, Les figures du pauvre dans les sources italiennes de l’Antiquité tardive, Paris 2007. Sull’accezione del termine paupertas nelle fonti latine ancora utile è la lettura di J. Leclercq, Pour l’histoire du vocabulaire latin de la pauvretè,in Melto, 3 (1967), pp. 293 ss.

[12] Sulla data di CTh. 16.2.2 sono state espresse dagli studiosi opinioni discordanti. Alcuni autori ragionevolmente anticipano al 313 la data tramandata del 319: per una sintesi delle posizioni espresse al riguardo rinvio a C. Corbo, Paupertas, cit., pp. 93-94 nt. 18.

[13] La costituzione CTh. 16.2.2 è strettamente collegata, per le motivazioni che la ispirano, ad una lettera inviata, nella primavera del 313, da Costantino al proconsole d’Africa Anulino, concernente i munera civilia in ordine ai membri del clero cattolico: sul documento cfr. Eus., Hist. eccl. 10.7.1-2. Costantino, tenuto conto del fatto che l’adempimento dei munera sottrae molto tempo e denaro a coloro che ne sono gravati, incarica Anulino di esentare da essi tutti i chierici cattolici affinché possano prestare il culto dovuto alla divinità, senza preoccupazioni di alcun genere; infatti se essi venerano sommamente Dio, vantaggi immensi deriveranno pure agli affari pubblici. Tale esenzione non è estesa indistintamente a tutto il clero, ma viene riservata a quelli che prestano il loro ministero nella Chiesa cattolica, a capo della quale vi era Ceciliano, escludendo da tali benefici i chierici donatisti. I benefici riconosciuti al clero cattolico non vanno considerati semplicemente quale espressione della generosità dell’imperatore cristiano, ma anche come atti compiuti a vantaggio del bene pubblico, in quanto il chierico, cui viene riconosciuto uno status personale privilegiato, non rappresenta più solo una figura interna dell’organizzazione ecclesiastica, ma svolge ormai una fondamentale funzione sociale. Sulla lettera ad Anulino, unanimemente considerata come una delle fonti più significative della politica immunitaria di Costantino, v., per tutti, L.De Giovanni, L’imperatore Costantino e il mondo pagano, 2 ed., Napoli 2003, pp. 29-30 e nt. 18; Id. Costantino il Grande nella storiografia, in Diritto romano attuale, 11 (2004), pp. 48-49; Id., Istituzioni scienza giuridica codici nel mondo tardoantico. Alle radici di una nuova storia, Roma 2007, pp. 179 ss. (con ampia bibliografia, cui rinvio).

[14] Eus., Hist. eccl. 10.5.15-17. Su questa lettera cfr. S. Calderone, Costantino e il Cattolicesimo, vol. I, Firenze 1962, pp. 138 ss.; F. Millar, The Emperor in the Roman World (31 BC - AD 337), London 1977, p. 581; J. Gaudemet, Constitutions constantiniennes destinées à l’Afrique, in M. Christol - S. Demougin - Y. Duval - C. Lepelley - L. Pietri (éds.) Institutions, société et vie politique dans l’Empire romain au IVe siècle ap. J.-C., Actes de la table ronde autour de l’œuvre d’André Chastagnol, (Paris, 20-21 janvier 1989), Roma 1992, p. 340;H. A. Drake, Constantine and the Bishops. The Politics of Intolerance, Baltimore - London 2000, pp. 214 ss.; A. Marcone, Pagano e cristiano. Vita e mito di Costantino, Roma - Bari 2002, pp. 97 ss. Non va dimenticato che già Galerio con l’editto di Serdica, emanato il 30 aprile del 311, poco prima della sua morte, aveva consentito ai cristiani di ricostruire le chiese, distrutte o confiscate durante le persecuzioni, a condizione di non violare l’ordine pubblico: sul documento cfr. Lact., De mort. pers. 34-35 e Eus., Hist. eccl. 8.17.1-10. Lattanzio parla di edictum (35.1), termine a cui corrisponde in Eusebio l’espressione νόμῳτεκαὶδόγματιβασιλικῷ (8.17.1).

[15] Cfr. Eus., Hist. eccl. 10.6.1-5. Si ricordi che Cipriano (Ep. 1.1.2), già intorno alla metà del III secolo, affermava la necessità che i chierici fossero mantenuti dalla comunità dei fedeli, affinché potessero più serenamente dedicarsi ai doveri del culto, senza essere distolti dagli affari del secolo. Cipriano parlava del contributo elargito dalla collettività come di un salarium da doversi corrispondere a diaconi, presbiteri e lettori. La motivazione addotta da Cipriano per spiegare perché i sacerdoti dovessero essere sostenuti dai fedeli riecheggeranno nella lettera inviata da Costantino ad Anulino, con la quale l’imperatore esonerava i chierici dai munera civilia proprio perché non fossero sottratti ai loro doveri religiosi (su tale lettera cfr. più ampiamente supra, nt. 13). Il fatto che nell’epistola di Costantino si riscontrino le stesse ragioni enunciate da Cipriano lascerebbe supporre che l’imperatore, nel momento in cui attribuiva una somma di denaro al clero, aveva voluto riconoscere al personale ecclesiastico proprio una sorta di stipendio, a carico, però, dello Stato e non della comunità dei fedeli.

[16] Su CTh. 16.2.4 v. C. Corbo, Paupertas, cit., pp. 98 ss., ivi ult. bibl.; v. pure P. Brown, Through the Eye of a Needle. Wealth, the Fall of Rome, and the Making of Christianity in the West, 350-550 AD, Princeton 2012, tr. it. Per la cruna di un ago. La ricchezza, la caduta di Roma e lo sviluppo del cristianesimo, 350-550 d.C., Torino 2014, p. 673 (da cui cito).

[17] Sulla capacità di succedere delle incertae personae mi permetto di rinviare al mio volume Incertae personae e capacità successoria, cit., con ulteriori riferimenti bibliografici, v. in particolare pp. 111 ss. (per CTh. 16.2.4); sul tema v. da ultimo M. d’Orta, Legata pro anima e officium pietatis. Le disposizioni testamentarie pro anima nell’ordinamento giuridico italiano. Prospettive storico-comparatistiche, in Koinonia, 44/1 (2020), pp. 547 ss., cenni a CTh. 16.2.4 a p. 551 nt. 17.

[18] Su CI. 6.48.1 v. C. Corbo, Incertae personae e capacità successoria, cit., pp. 157 ss.

[19] Su CI. 1.2.19 v. C. Corbo, Incertae personae e capacità successoria, cit., pp. 200 ss.; di recente, cenni a CI. 1.2.19 in M. d’Orta, Legata pro anima, cit., p. 552 nt. 18. Si noti che nella costituzione appare il termine piae causae in riferimento alla donatio: il significato più probabile da attribuire a tale espressione sembrerebbe quello di ‘scopi, motivi pii’, intendendo quei motivi cui di norma non si dà importanza nei negozi giuridici, ma che la legge talvolta prende in particolare considerazione, attribuendo ad essi effetti giuridici. Nelle fonti tali motivi vengono spesso definiti iustae causae, legitimae causae; pertanto, l’espressione pia causa potrebbe essere intesa proprio quale iusta causa. Occorre sottolineare, però, che, mentre l’aggettivo iustus presuppone un ambito prettamente giuridico, l’aggettivo pius ci trasporta invece al di là del diritto, nell’atmosfera assai più ampia della pietas, che può essere esplicata nelle più varie direzioni: verso la divinità, la patria, il prossimo. Ogni qualvolta sia esercitata la pietas, potrebbe, di conseguenza, esserci una pia causa; nella stessa CI. 1.2.19 è desumibile che Giustiniano, allorché parla di donationes super piis causis factae, voglia, in sostanza, determinare quando, nelle donazioni, la pia causa equivalga ad una iusta causa di esonero dalle formalità richieste secondo la prassi.

[20] Su CTh. 16.2.6 v. C. Corbo, Paupertas, cit., pp. 82 ss. (con ulteriore letteratura), praecipue pp. 82-83 nt. 2 per la questione concernente la datazione; da ultimo D. Annunziata, Gli opulenti, una nuova categoria sociale? (CTh. 16, 2, 6), in Koinonia, 41 (2017), pp. 449 ss.

[21] Sul punto v. B. Biondi, Adiuvare pauperes et in necessitatibus positos, in Jus, 3 (1952), p. 240 = Scritti Giuridici, vol.I, Milano 1965, p. 644 (che cito), ove si legge: «Si noti in questa legge l’efficace confronto tra gli opulenti saeculi e la ricchezza della Chiesa: come i ricchi di questa terra sono chiamati a provvedere alle necessità terrene, così le ricchezze della Chiesa hanno come naturale destinazione l’alimentazione dei poveri»; in questa direzione pure J. Gaudemet, Constantin et les curies municipales, in Iura, 2 (1951), p. 56, poi in Études de droit romain,vol. II, Napoli 1979, p. 111 (da cui si cita), il quale acutamente sottolinea nella norma la singolarità della ripartizione dei compiti, secondo cui si affida ai ricchi la cura delle spese pubbliche e alla chiesa il soccorso dei poveri: «Constantin précise […] il fait, de façon singulière, la répartition des compétences, confiant aux riches de la terre le soin des dépenses publiques et à l’église le secours des malheureux»; R. Soraci, Il «privilegium christianitatis» e i «fisci commoda» durante il regno di Valentiniano I, in Quaderni catanesi di cultura classica e medievale, 2 (1990), Studi in memoria di Santo Mazzarino, vol.III, p. 263 nt. 93, il quale, in relazione all’espressione Opulentos … sustentari, afferma: «È chiaro che Costantino intende dare un indirizzo legislativo all’uso delle divitiae delle Chiese, delle quali individua lo scopo precipuo nel sostentamento delle classi povere». V. anche R. Lizzi Testa, Privilegi economici e definizione di status: il caso del vescovo tardoantico, in Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche. Rendiconti, ser. IX, 11 (2000), p. 71; Ead., Come e dove reclutare i chierici? I problemi del vescovo Agostino, in F. E. Consolino (a cura di), L’adorabile vescovo d’Ippona, Atti del Convegno di Paola (24-25 maggio 2000), Soveria Mannelli 2001, p. 190 e nt. 21. Sulla contrapposizione tra ricchi e poveri nel Codice Teodosiano v. anche C. Freu, Rhétorique chrétienneet rhétorique de chancellerie: à propos des “riches” et des “pauvres” dans certaines constitutions du Livre XVI du Code Théodosien, inJ. Guinot - F. Richard (éds.), Empire Chrétien et l’Église aux IVe et Ve siècles. Intégration ou «concordat»? Le tèmoignage du Code Thèodosien, Paris 2008, pp. 173 ss.

[22] Sul ruolo del vescovo nella tarda antichità v. R. Teja, Emperadores, obispos, monjes y muyeres. Protagonistas del cristianismo antiguo, Madrid 1999; P. Allen - W. Mayer, Trough a Bishop’s Eyes: Towards a Definition of Pastoral Care in Late Antiquity, in Augustinianum, 40 (2000), pp. 345 ss.; C. Rapp, The Elite Status of Bishops in Late Antiquity in Ecclesiastical, Spiritual, and Social Contexts, in Arethusa,33 (2000), pp. 379 ss. e, della stessa a., il successivo Holy Bishops in Late Antiquity. The Nature of Christian Leadership in an Age of Transition, Berkeley - Los Angeles - London 2005 (ivi ulteriore bibliografia, cui si rinvia); E. Dovere, «Auctoritas» episcopale e pubbliche funzioni (secc. IV-VI), in Studi economic0-giuridici della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Cagliari. In memoria di Lino Salis, 1 (1997-1998, ma 2000), pp. 517 ss., ora pubblicato con il titolo Auctoritas episcopale, ruolo ecclesiale e funzioni civili (secoli IV-VI), in Medicina Legum, vol.I, Materiali tardoromani e formae dell’ordinamento giuridico, Bari 2009, pp. 111 ss.; U. Dovere, La figura del vescovo tra la fine del mondo antico e l’avvento dei nuovi popoli europei, in Archivum Historiae Pontificiae, 41 (2003), pp. 25 ss.; C. Sotinel, Les évêques italiens dans la société de l’Antiquité tardive: l’émergence d’une nouvelle élite?, in R. Lizzi Testa (a cura di), Le trasformazioni delle élites in età tardoantica, Atti del Convegno Internazionale, Perugia, 15-16 marzo 2004, Roma 2006, pp. 377 ss.; C. Soraci, Approvvigionamento e distribuzioni alimentari. Considerazioni sul ruolo dei vescovi nel tardo impero, in Quaderni catanesi di studi antichi e medievali, 6 (2007), pp. 259 ss.; R. Lizzi Testa, The Late Antique Bishop: Image and Reality, in P. Rousseau (ed.), A Companion to Late Antiquity, Oxford 2009, pp. 525 ss.; N. Lensky, Constantine and the Cities. Imperial Authority and Civic Politics, Philadelphia 2016, pp. 197 ss. Sull’autorità del vescovo nel III secolo v. L. I. Scipioni, Vescovo e popolo. L’esercizio dell’autorità nella chiesa primitiva (III secolo), Milano 1977, con una ricostruzione storica delle forme del governo ecclesiale e del rapporto autorità-popolo nel tessuto sociale e culturale delle chiese prenicene; sulle relazioni fra imperatore e vescovo nel IV secolo v. P. Just, Imperator et episcopus. Zum Verhältnis von Staatsgewalt und christlicher Kirche zwischen dem 1. Konzil von Nicaea (325) und dem 1. Konzil von Konstantinopel (381), Stuttgart 2003. Con specifico riguardo all’età teodosiana v. i diversi contributi raccolti in AA. VV., Vescovi e pastori in epoca teodosiana, Atti del XXV Incontro di studiosi dell’antichità cristiana. In occasione del XVI centenario della consacrazione episcopale di S. Agostino, 396-1996, Roma 8-11 maggio 1996, Roma 1997; per l’epoca di Giustiniano v. S. Puliatti, Le funzioni civili del vescovo in età giustinianea, in Athenaeum, 92 (2004), pp. 139 ss. Si soffermano sul ruolo riconosciuto all’episcopus nelle 47 costituzioni contenute nel II titolo del XVI libro del Codex Theodosianus L. De Giovanni, Il libro XVI del Codice Teodosiano. Alle origini della codificazione in tema di rapporti Chiesa-Stato, 3a ed.,Napoli 1991, pp. 39 ss.; E. Dovere, Ius principale e catholica lex, 2a ed., Napoli 1999, pp. 171 ss.

[23]CI. 1.2.14 è promulgata dall’imperatore Leone a Costantinopoli nel 470 ed è indirizzata al prefetto del pretorio Armasio. Particolarmente significativi sono i primi due paragrafi del provvedimento, ove si legge: CI. 1.2.14.1-2 [1] Verum sive testamento quocumque iure facto seu codicillo vel sola nuncupatione, legato sive fideicommisso, aut mortis causa aut alio quocumque ultimo arbitrio aut certe inter viventes habita largitate sive contractu venditionis sive donationis aut alio quocumque titulo quisque ad praefatam venerabilem ecclesiam patrimonium suum partemve certam patrimonii in fundis praediis seu domibus vel annonis mancipiis et colonis eorumque peculiis voluerit pertinere, inconcussa ea omnia sine ulla penitus imminutione conservent scientes nulla sibi occasione vel tempore ad vicissitudinem beneficii colorati vel gratiae referendae, donandi vel certe volentibus emere alienandi aliquam facultatem permissam, nec si omnes cum religioso episcopo et oeconomo clerici in earum possessionum alienatione consentiant. [2] Ea enim, quae ad beatissimae ecclesiae iura pertinent vel posthac forte pervenerint, tamquam ipsam sacrosanctam et religiosam ecclesiam intacta convenit venerabiliter custodiri, ut, sicut ipsa religionis et fidei mater perpetua est, ita eius patrimonium iugiter servetur illaesum. Nel § 1 la norma dispone il divieto di alienazione delle proprietà ecclesiastiche che devono rimanere integre, senza subire alcuna diminuzione (inconcussa ea omnia sine ulla penitus imminutione conservent scientes [] alienandi aliquam facultatem permissam), anche nel caso in cui tutti i chierici siano d’accordo con il vescovo e con l’economo nell’intenzione di alienare i beni in loro possesso (nec si omnes cum religioso episcopo et oeconomo clerici in earum possessionum alienatione consentiant). Nel § 2 viene indicata la ratio di questa disposizione, consistente nell’opportunità che i beni della chiesa siano custoditi inalterati (intacta convenit venerabiliter custodiri), come la stessa sacrosanta chiesa (tamquam ipsam sacrosanctam et religiosam ecclesiam intacta); conviene infatti che, come la chiesa è perpetua madre della religione e della fede, così il suo patrimonio sia conservato per sempre intatto (ut, sicut ipsa religionis et fidei mater perpetua est, ita eius patrimonium iugiter servetur illaesum).

[24]CI. 1.3.28 è emanata dall’imperatore Leone a Costantinopoli il 18 agosto del 468 ed è diretta a Nicostrato, prefetto del pretorio. Sono di particolare interesse i primi due paragrafi della costituzione: CI. 1.3.28.1-2 [1] Et si quidem testator significaverit, per quem desiderat redemptionem fieri captivorum, is qui specialiter designatus est legati seu fideicommissi habeat exigendi licentiam et pro sua conscientia votum adimpleat testatoris. Sin autem persona non designata testator absolute tantummodo summam legati vel fideicommissi taxaverit, quae debeat memoratae causae proficere, vir reverentissimus episcopus illius civitatis, ex qua testator oritur, habeat facultatem exigendi, quod huius rei gratia fuerit derelictum, pium defuncti propositum sine ulla cunctatione ut convenit impleturus. [2] Cum autem vir religiosissimus episcopus huiusmodi pecunias pio relictas arbitrio fuerit consecutus, statim gestis intervenientibus earum quantitatem et tempus quo eas susceperit apud rectorem provinciae publicare debebit. Post unius vero anni spatium et numerum captivorum et data pro his pretia eum manifestare praecipimus, ut per omnia impleantur tam piae deficientium voluntates: ita tamen, ut religiosissimi antistites gratis et sine ullo dispendio praedicta gesta conficiant, ne humanitatis obtentu relictae pecuniae iudiciorum dispendiis erogentur. Nel primo paragrafo si prendono in considerazione due possibilità: che il testatore abbia indicato esplicitamente la persona che dovrà occuparsi dell’operazione del riscatto, nel qual caso la persona designata provvederà pro sua conscientia ad adempiere la volontà del testatore; che, invece, non sia stata espressamente nominata la persona, ma soltanto fissata la somma destinata all’opera caritatevole, nel qual caso sarà il vescovo della città d’origine del testatore a riscuotere la somma e a provvedere, senza indugio, al rispetto delle intenzioni del defunto. Nel secondo paragrafo la norma prosegue indicando in dettaglio le regole alle quali il vescovo dovrà attenersi: comunicare al governatore della provincia l’entità della somma e il momento nel quale l’ha ricevuta, nonché render noto entro un anno il numero dei prigionieri riscattati e il prezzo a tal uopo pagato. In conclusione, viene sottolineato l’obbligo della gratuità del servizio reso dal vescovo.

[25] Hieron., Epist. (ad Nepotianum) 52.6.

[26] Sull’episcopalis audientia la letteratura è vastissima; tra i lavori più recenti, a cui rinvio per la precedente bibliografia, v. G. Pilara, Sui tribunali ecclesiastici nel IV e V secolo. Ulteriori considerazioni, in Studi Romani, 52 (2004), pp. 353 ss.; C. Humfress, Orthodoxy and the Courts in Late Antiquity, Oxford 2007; Ead., Episcopal Power in Forensic Context: the Evidence from the Theodosian Code, in G. Bonamente - R. Lizzi Testa (a cura di), Istituzioni, carismi, cit., pp. 267 ss.; Ead., Bishops and Law Courts in Late Antiquity: How (Not) to Make Sense of the Legal Evidence, in Journal of Early Christian Studies, 19 (2011), pp. 375 ss.; O. Huck, La ‘creation’ de l’audientia episcopalis par Constantin, inJ. Guinot - F. Richard (éds.), Empire Chrétien et l’Église aux IVe et Ve siècles, cit.,pp. 295 ss.; C. M. A. Rinolfi, Episcopalis audientia e arbitrato, in S. Puliatti - U. Agnati (a cura di), Principi generali e tecniche operative del processo civile romano nei secoli IV-VI d. C., Atti del Convegno di Parma, 18 e 19 giugno 2009, Parma 2010, pp. 191 ss.; F. Pergami, Giurisdizione civile e giurisdizione ecclesiastica nella legislazione del Tardo Impero, in Atti del Convegno ‘Processo civile e processo penale nell’esperienza giuridica del mondo antico’ in memoria di Arnaldo Biscardi (Siena, Certosa di Pontignano, 13-15 dicembre 2001), Milano 2011, pp. 215 ss., il pdf del contributo è consultabile on line all’indirizzo https://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/attipontignanopergami.pdf; A. J. B. Sirks, The episcopalis audientia in Late Antiquity, in Droit et culture, 65 (2013), pp. 79 ss., consultabile anche on line all’indirizzo http://journals.openedition.org/droitcultures/3005; S. Puliatti, L’episcopalis audientia tra IV e V secolo, in Koinonia, 40 (2016), pp. 299 ss.; F. J. Cuena Boy, La episcopalis audientia de Costantino a Juliano el apostata, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 82 (2016), pp. 117 ss.; L. Loschiavo, La Didascalia Apostolorum e  la giustizia del vescovo prima di Costantino, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, fascicolo speciale/agosto 2020, pp. 135 ss. Con specifico riguardo alla questione del privilegium fori e della ‘esclusività’ della giurisdizione ecclesiastica ratione materiae e ratione personae rinvio, per tutti, a A. Banfi, Habent illi iudices suos. Studi sull’esclusività della giurisdizione ecclesiastica e sulle origini del privilegium fori in diritto romano e bizantino, Milano 2005; spunti sul tema anche nel recente contributo di G. M. Oliviero Niglio, Caratteri della giurisdizione vescovile e rapporti chiesa-stato nei canoni conciliari della Gallia tra V e VII secolo, in Ravenna Capitale. Giudizi, giudici e norme processuali in Occidente nei secoli IV-VIII, vol. II, Studi sulle fonti, Santarcangelo di Romagna 2015, pp. 161 ss.

[27] Cfr. P. Brown, Povertà e leadership,cit., pp. 99-100.

[28] Sul punto, G. Rabino, Ipse Episcopus iudex: ritorno alla tradizione canonica?, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 26 (2017), pp. 1 ss. (contributo consultabile on line all’indirizzo https://www.statoechiese.it/images/uploads/articoli_pdf/Rabino.M_Ipse.pdf?pdf=ipse-episcopus-iudex-ritorno-alla-tradizione-canonica), afferma efficacemente: «Pur applicando nelle cause secolari il diritto romano, di cui frequentemente è un discreto conoscitore, il Vescovo edulcora lo strictum ius con i principi desumibili dalle Sacre Scritture, in particolare con la carità e la misericordia» (p. 8).

[29] Sulla discussa natura, giurisdizionale o arbitrale, del giudizio episcopale v., di recente, L. Loschiavo, Non est inter vos sapiens quisquam, qui possit iudicare inter fratem suum? Processo e giustizia nel primo cristianesimo dalle origini al vescovo Ambrogio, in Ravenna Capitale. Giudizi, cit., vol. I, Saggi, pp. 75 ss.; S. Puliatti, L’episcopalis audientia, cit., pp.  309-310 nt. 38; da ultimo A. Canobbio, A proposito della Constitutio Sirmondiana 1 e della episcopalis audientia in età costantiniana, in D. Mantovani (a cura di), Le strutture nascoste della legislazione tardoantica, Atti del Convegno Redhis (Pavia 17-18 marzo 2o16), Bari 2019, pp. 229 ss., con ulteriori riferimenti bibliografici.

[30] Sulla Collectio Sirmondiana, raccolta privata di 16 costituzioni (emanate tra il 333 e il 425 d.C.) pubblicata per la prima volta nel 1631 a Parigi ad opera del gesuita francese Jacques Sirmond, v., tra gli altri, M. R. Cimma, A proposito delle Constitutiones Sirmonidianae, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana. X Convegno, Perugia 1995, pp. 359 ss.; M. Vessey, The Origins of the Collectio Sirmondiana: a New Look at the Evidence, in J. Harries - I. Wood (eds.), The Theodosian Code. Studies in the Imperial Law of Late Antiquity, 2a ed., London 2010, pp. 178 ss.; più di recente S. Esders - H. Reimitz, After Gundovald, before Pseudo-Isidore: Episcopal Jurisdiction, Clerical Privilege and the Uses of Roman Law in the Frankish Kingdoms, in Early Medieval Europe, 27 (2019), pp. 85 ss.

[31] Sirm. 1 (5 maggio 333): Imp. Constantinus A. ad Ablabium praefectum pretorio. Satis mirati sumus gravitatem tuam, quae plena iustitiae ac probae religionis est, clementiam nostram sciscitari evoluisse, quid de sententiis episcoporum vel ante moderatio nostra censuerit vel nunc servari cupiamus, Ablabi, parens karissime atque amantissime. Itaque quia a nobis instrui voluisti, olim promulgatae legis ordinem salubri rursus imperio propagamus. Sanximus namque, sicut edicti nostri forma declarat, sententias episcoporum quolibet genere latas sine aliqua aetatis discretione inviolatas semper incorruptasque servari; scilicet ut pro sanctis sempre ac venerabilibus habeantur, quidquid episcoporum fuerit sententia terminatum. Sive itaque inter minores sive inter maiores ab episcopis fuerit iudicatum, apud vos, qui iudiciorum summam tenetis, et apud ceteros omnes iudices ad exsecutionem volumus pertinere. Quicumque itaque litem habens, sive possessor sive petitor vel inter initia litis vel decursis temporum curriculis, sive cum negotium peroratur, sive cum iam coeperit promi sententia, iudicium elegerit sacrosanctae legis antistitis, ilico sine aliqua dubitatione, etiamsi alia pars refragatur, ad episcopum personae litigantium dirigantur. Multa enim, quae in iudicio captiosa praescriptionis vincula promi non patiuntur, investigat et publicat sacrosanctae religionis auctoritas. Omnes itaque causae, quae vel pretorio iure vel civili tractantur, episcoporum sententiis terminatae perpetuo stabilitatis iure firmentur, nec liceat ulterius retractari negotium, quod episcoporum sententia deciderit. Testimonium etiam ab uno licet episcopo perhibitum omnis iudex indubitanter accipiat nec alius audiatur testis, cum testimonium episcopi a qualibet parte fuerit repromissum. Illud est enim veritatis auctoritate firmatum, illud incorruptum, quod a sacrosancto homine conscientia mentis inlibatae protulerit. Hoc nos edicto salubri aliquando censuimus, hoc perpetua lege firmamus, malitiosa litium semina conprimentes, ut miseri homines longis ac paene perpetuis actionum laqueis implicati ab improbis petitionibus vel a cupiditate praepostera maturo fine discedant. Quidquid itaque de sententiis episcoporum clementia nostra censuerat et iam hac sumus lege conplexi, gravitatem tuam et ceteros pro utilitate omnium latum in perpetuum observare convenit.Data III nonas Maias Constantinopoli Dalmatio et Zenofilo conss.Su questa costituzione cfr. F. J. Cuena Boy, La «episcopalis audientia», Valladolid 1985, pp. 48 ss.; M. R. Cimma, L’episcopalis audientia nelle costituzioni imperiali da Costantino a Giustiniano, Torino 1989, pp. 33 ss.; Ead., A proposito delle constitutiones Sirmondianae, cit., pp. 359 ss., in particolare pp. 364 ss. e 385 ss.; G. Vismara, La giurisdizione civile dei vescovi (secoli I-IX), Milano 1995, pp. 48 ss.; G. Crifò, A proposito di episcopalis audientia, in M. Christol - S. Demougin - Y. Duval - C. Lepelley - L. Pietri (éds.) Institutions, société et vie politique,cit., pp. 398 ss.; A. D. Lee, Pagans and Christians in Late Antiquity. A Sourcebook, London - New York 2000, pp. 218 ss.; R. M. Frakes, Contra potentium iniurias: The Defensor Civitatis and Late Roman Justice, München 2001, pp. 200 ss.; L. Odrobina, La maxime: Unus testis nullus testis ou le tèmoignage de l’évêque au IVe siècle, in Augustinianum, 43 (2003), pp. 46 ss.; O. Huck, A propos de CTh 1,27,1 et CSirm 1. Sur deux textes controversés relatifs à l’episcopalis audientia constantinienne, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, Rom. Abt., 120 (2003), pp. 81 ss.; da ultimi S. Puliatti, L’episcopalis audientia, cit., pp. 313 ss.; A. Canobbio, A proposito della Constitutio Sirmondiana 1, cit.,pp. 244 ss., con un’ampia esegesi di Sirm. 1, di cui l’a. propone anche una traduzione. La differenza sostanziale che si riscontra tra le due norme, CTh. 1.27.1 e Sirm. 1, ha fatto supporre che la seconda sia stata interpolata. Va precisato che due dati restano comunque incontrovertibili: Sirm. 1 non fu accolta nel Codice Teodosiano e, in ogni caso, fu superata da una costituzione di Arcadio del 398 (CI. 1.4.7), dopo essere stata in vigore, nella migliore delle ipotesi, soltanto per pochi decenni. Nella costituzione CI. 1.4.7 l’imperatore Arcadio ribadiva che le parti di comune accordo (ex consensu) potevano rivolgersi al tribunale ecclesiastico: cfr. CI. 1.4.7 Impp. Arcadius et Honorius AA. Eutychiano pp. Si qui ex consensu apud sacrae legis antistitem litigare voluerint, non vetabuntur, sed experientur illius (in civili dumtaxat negotio) arbitri more residentis sponte iudicium. Quod his obesse non poterit nec debebit, quos ad praedicti cognitoris examen conventos potius afuisse quam sponte venisse constiterit. D. VI k. Aug. Mediolani Honorio A. IIII et Eutychiano conss.

[32] «Questo con un salutare editto noi in passato abbiamo decretato, questo con una legge eterna confermiamo, schiacciando i malvagi semi dei litigi, affinché i poveri esseri umani, impigliati nei lacci di azioni legali lunghe e quasi senza fine per colpa di richieste disoneste o di una bramosia che sovverte l’ordine naturale delle cose, possano uscire dai dibattimenti in tempi rapidi e adeguati. Pertanto qualsiasi cosa a proposito delle sentenze vescovili la nostra clemenza aveva decretato e ora con questa legge abbiamo riunito, in quanto decisa nell’interesse generale si addice alla tua serietà e a tutti gli altri osservare in perpetuo» [tr. A. Canobbio, A proposito della Constitutio Sirmondiana 1, cit., pp. 259-260]. Il testo completo della costituzione Sirm. 1 è riportato supra, nt. 31.

[33] La costituzione CTh. 1.27.2 è riportata anche nel Codice di Giustiniano con qualche piccola variante: cfr. CI. 1.4.8 (a. 408) Imppp. Arcadius Honorius et Theodosius AAA. Theodoro pp. Episcopale iudicium sit ratum omnibus, qui se audiri a sacerdotibus elegerint, eamque illorum iudicationi adhibendam esse reverentiam, quam vestris referre necesse est potestatibus, a quibus non licet provocare. Per iudicium quoque officia, ne sit cassa episcopalis cognitio, definitioni exsecutio tribuatur. D. id. Dec. Basso et Philippo conss.

[34] L’apparato giudiziario secolare verrà a porsi al servizio dei tribunali ecclesiastici, garantendo, attraverso i suoi giudici, l’effettiva osservanza delle sentenze episcopali.

[35] Al riguardo, G. Rabino, Ipse Episcopus iudex, cit., p. 9, osserva opportunamente che «La diffusione, ormai capillare de facto e riconosciuta de iure, del Cristianesimo, a fronte di un graduale sgretolamento delle antiche strutture romane, comporta una notevole crescita dell’attività dei Vescovi, che si vedono ormai deferire la quasi totalità delle controversie insorte entro i confini della propria diocesi». Si trattava di un enorme carico giudiziario, nel quale trovavano sempre più spazio le cause di carattere extrareligioso: in sostanza, secondo l’a. «da un’iniziale competenza limitata a “compiti che i Vescovi erano già chiamati a svolgere in virtù della loro missione pastorale”, si passa a una vera e propria giurisdizione senza preclusioni di materia» (pp. 9-10). La stessa denominazione audientia, sottolinea l’a., «più che riferirsi a una “udienza” in senso propriamente processuale, designa inizialmente un momento di ascolto, di disponibilità del Vescovo nei confronti del proprio clero e dei fedeli, e gradualmente […] arriva a comprendere anche la risoluzione vera e propria delle controversie fra cristiani» (p. 7).

[36] Cfr. Aug., Enarr. in Psalm. 80.21: Non tollit aliena, sed repetit sua, et habet cum fratre suo iudicium […] Verum ipsa iudicia in Ecclesia iubet agi, non ad forum trahi [].Agostino ricorda che alcuni cristiani non sottraggono le cose altrui, ma sono così legati alle proprie da intentare causa perfino al loro fratello; queste controversie devono essere trattate nell’ambito della chiesa e non trascinate nei tribunali secolari. Anche lo Pseudo-Ambrogio (Ambrosiaster, Comm. in I epist. ad Corinth. 6.1) consiglia il ricorso al tribunale del vescovo, maggiormente imparziale e giusto rispetto a quello del giudice civile; infatti è più facile che coloro che giudicano nel timore di Dio pronunzino un’equa sentenza: […] et quia in Ecclesia magis lex est, ubi dominus legis timetur, melius dicit apud Dei ministros agere causam. Facilius enim de Dei timore sententiam legis veram promunt.

[37]Cfr. Aug., De oper. monach. 29.37: […] Tamen Dominum Jesum, in cuius nomine securus haec dico, testem invoco super animam meam, quondam quantum attinet ad meum commodum, multo mallem per singulos dies certis horis, quantum in bene moderatis monasteriis constitutum est, aliquid manibus operari, et caeteras horas habere ad legendum et orandum, aut aliquid de divinis Litteris agendum liberas, quam tumultuosissimas perplexitates causarum alienarum pati de negotiis saecularibus vel iudicando dirimendis, vel intervenendo praecidendis […]. Agostino esprime con fermezza il suo rammarico per il tempo sottrattogli dall’attività di giudice, rivolta ad appianare, con tempestivi interventi, controversie inerenti ad affari secolari ed afferma che egli, invece, preferirebbe di gran lunga dividere le ore di ogni sua giornata tra lavoro manuale, lettura e preghiera. Sul tribunale di Agostino cfr. C. Gebbia, Sant’Agostino e l’episcopalis audientia, in A. Mastino (a cura di), L’Africa romana, Atti del VI convegno di studio, Sassari, 16-18 dicembre 1988, vol. II, Sassari 1989, pp. 683 ss.; G. Vismara, La giurisdizione civile dei vescovi, cit., pp. 97 ss.; Id., Le causae liberales nel tribunale di Agostino vescovo di Ippona, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 61 (1995), pp. 365 ss.; K. K. Raikas, Audientia episcopalis: Problematik zwischen Staat und Kirche bei Augustin, in Augustinianum, 37 (1997), pp. 459 ss.; C. Lepelley, Aspects de l’Afrique romaine. Les cités, la vie rurale, le christianisme, Bari 2001, pp. 289 ss.; A. A. Cassi, La Giustizia in sant’Agostino. Itinerari agostiniani del quartus fluvius dell’Eden, Milano 2013; L. De Salvo, Il potere civile del vescovo: il caso di Agostino, in C. Giuffré Scibona - A. Mastrocinque (a cura di), Ex pluribus unum. Studi in onore di Giulia Sfameni Gasparro, Roma 2015, pp. 353 ss.

[38] Pone ben in rilievo che alla base della preferenza accordata alla giurisdizione ecclesiastica rispetto a quella ordinaria vi erano «esigenze legate alla decadenza e alla corruzione dei tribunali» S. Puliatti, L’episcopalis audientia, cit., pp. 320-321 nt. 67, il quale così si esprime: «Di fronte al giudice secolare, venale e spesso ostile ai cristiani, il tribunale del vescovo si affermava come strumento capace di risolvere le controversie secondo giustizia ed equità, come sottolineava C. Sirm. 1. A caratterizzarne l’azione, facendola preferire ai contendenti, erano la durata limitata, presupposto della necessità di ricostituire celermente la pace tra i contendenti, e la gratuità, che la rendeva accessibile ai meno abbienti e ai ceti più umili e oppressi. Non meno contribuivano peraltro al successo del tribunale episcopale l’alta autorità e il prestigio morale e spirituale accordati al vescovo».

[39] CTh. 1.22.2 è una delle 4 costituzioni raccolte sotto il titolo XXII del Codice Teodosiano, rubricato De officio iudicum omnium; tale titolo, nell’edizione mommseniana, precede immediatamente il titulus XXVII De episcopalis definitione, nel quale sono inserite unicamente CTh. 1.27.1. e 1.27.2. Si ricordi, inoltre, che CI. 3.14.1 è l’unica legge del titolo XIV del Codice giustinianeo, rubricato Quando imperator inter pupillos vel viduas vel miserabiles personas cognoscat et ne exhibeantur: cfr. CI. 3.14.1 Imp. Constantinus A. ad Andronicum. Si contra pupillos viduas vel diutino morbo fatigatos et debiles impetratum fuerit lenitatis nostrae iudicium, memorati a nullo nostrorum iudicum compellantur comitatui nostro sui copiam facere. Quin immo intra provinciam, in qua litigator et testes vel instrumenta sunt, experiantur iurgandi fortunam atque omni cautela servetur, ne terminos provinciarum suarum cogantur excedere. 1 Quod si pupilli vel viduae aliique fortunae iniuria miserabiles iudicium nostrae serenitatis oraverint, praesertim cum alicuius potentiam perhorrescunt, cogantur eorum adversarii examini nostro sui copiam facere. D. XV k. Iul. Constantinopoli Optato et Paulino conss.

[40] È incerta la figura di Andronico: già C. Pharr, The Theodosian Code and Novels and the Sirmondian Constitutions. A Translation with Commentary, Glossary, and Bibliography, New York 1952 (rist. 1969), p. 30 nt. 10, sottolineava che «The official position of Andronicus is unknown»; v. anche PLRE, vol. I, s. v. Andronicus 1, p. 64, ove si legge solo: «magistrate 334 June 17. Recipient of a law in the title ‘de officio iudicum omnium’ CTh I 22. 2».

[41] La bibliografia su questa legge è piuttosto scarsa; tra i pochi studi che si occupano più specificamente del provvedimento v. C. Natalini, Per la storia del foro privilegiato dei deboli nell’esperienza giuridica altomedievale dal tardoantico a Carlo Magno, Bologna 2008, pp. 13 ss.; della stessa a., v. anche il successivo saggio Il giudice dei pauperes nei capitolari carolingi, in A. Cernigliaro (a cura di), Il ‘privilegio’ dei ‘proprietari di nulla’, cit., p. 62 e pp. 65 ss., ora anche in C. Natalini, «Bonus iudex». Saggi sulla tutela della giustizia tra Medioevo e prima età moderna, Trento 2016, p. 14 e pp. 16 ss.; T. Duve, Sonderrecht in der Frühen Neuzeit. Studien zum ius singulare und den privilegia miserabilium personarum, senum und indorum in Alter und Neuer Welt, Frankfürt a. M. 2008, p. 57; L. Di Cinthio, Nuove ricerche sulla «Interpretatio Visigothorum» al «Codex Theodosianus», Milano 2018, pp. 69 ss. Spunti anche in G. De Bonfils, Il comes et quaestor nell’età della dinastia costantiniana, Napoli 1981, p. 36; F. Cuena Boy, Utilizaciόn pragmática del derecho romano en dos memoriales indianos del siglo XVII sobre el protector de Indios, in Revista de estudios histόricos-jurídicos, 20 (1998), pp. 107 ss., da cui cito (il contributo è consultabile on line all’indirizzo http://www.rehj.cl/index.php/rehj/article/view/279/267) = À l’Europe du troisième millénaire. Mélanges offerts à Giuseppe Gandolfi à l’occasion du dixième anniversaire de la fondation de l’Académie, vol. III, Milano 2004, pp. 1281 ss.; J. R. Robles Reyes, La competencia jurisdicional y judicial en Roma, Murcia 2003, pp. 103 ss.; più di recente M. Gazzini, Storie di vita e di malavita. Criminali, poveri e altri miserabili, Firenze 2017, p. 67 nt. 89.

[42] «Se contro orfani, vedove, malati e invalidi dovesse essere impetrato il nostro giudizio, i suddetti soggetti non saranno obbligati da nessuno dei nostri giudici a comparire davanti alla corte imperiale. Ma in verità cercheranno la fortuna della loro causa all’interno della provincia, nella quale si trovano il litigante, i testimoni e le prove documentali, e dovrà essere osservata ogni cautela affinché i convenuti in giudizio non siano costretti a lasciare i confini della propria provincia. Tuttavia, se gli orfani, le vedove e gli altri resi infelici per sventura della sorte dovessero invocare un processo dinanzi alla corte imperiale, specialmente quando sono nel terrore del potere di qualcuno, i loro avversari saranno costretti a comparire al nostro esame» [la tr. è di chi scrive].

[43]  Secondo la nota testimonianza di Pomponio, riportata in D. 50.16.239pr., i pupilli sono gli impuberi non soggetti alla potestà paterna in seguito alla morte del pater o per effetto dell’emancipatio: cfr. D. 50.16.239pr. (Pomp., lib. sing. ench.) ‘Pupillus’ est, qui, cum impubes est, desiit in patris potestate esse aut morte aut emancipatione. Dato il tenore di CTh. 1.22.2, che concerne specificamente soggetti in vario modo ‘deboli’, propenderei qui ad interpretare il temine pupilli quale sinonimo di ‘orfani’.

[44]Va segnalato che i legisti hanno interpretato CTh. 1.22.2 alla luce della possibilità, riconosciuta alle miserabiles personae, di ricusazione del giudice ordinario, in connessione con le ipotesi di denegata giustizia: sul punto v. C. Natalini, Per la storia del foro privilegiato dei deboli, cit., pp. 6 e 9.

[45] Si noti che nella legge ricorrono due espressioni analoghe: lenitatis nostrae iudicium, all’inizio del testo, e iudicium nostrae serenitatis, nella parte conclusiva della costituzione, che ben rimarcano la benevolenza del principe e l’importanza del beneficio che egli intende riconoscere alle categorie più deboli: sulla lenitas imperiale, specialmente in rapporto all’indulgentia principis, si sofferma di recente L.  Di Paola, Alcune riflessioni sulla lenitas imperiale e i suoi effetti in età tardoantica, in Koinonia, 43 (2019), pp. 567 ss., ove l’a. sottolinea il valore polisemico dell’espressione indulgentia principis, nella cui sfera semantica si colloca la lenitas imperatoria, citando, tra i vari testi legislativi in cui ricorre il lemma, la costituzione riportata in CTh. 1.22.2 ed evidenziando al riguardo: «Siamo di fronte ad un caso singolare di lenitas che non rientra né nel campo penale né in quello fiscale e che tuttavia attesta una deroga» (p. 578), giacché i benefici accordati dall’imperatore in forza della propria lenitas - precisa l’a. - sono di norma riconosciuti ai potentes, agli esponenti dell’aristocrazia senatoria.

[46] J. R. Robles Reyes, La competencia jurisdicional, cit., p. 104, ben evidenzia la doppia protezione prevista dalla legge a vantaggio dei più deboli. Secondo l’a.: «La primera, se establece que las personas que se cita […] se vea obligada por alguno de los juces del imperio, a comparecer ante la jurisdicciόn del emperador en Costantinopla. De este modo, y gracias a la generosidad del proprio emperador Costantino, se protegía a los que non podían desplazarse hasta aquella ciudad, en el época en la quale los largos viajes eran costosos, largos y penosos, especialmente para los infermos, pudiendo ser juzgados en su provincia». Nella seconda parte della costituzione, tuttavia, si considera il presupposto contrario, cioè che i soggetti indicati nel testo vogliano che il processo abbia luogo proprio dinanzi alla corte imperiale e non presso i giudici della provincia. In tale caso, l’imperatore riconosce un’eccezione alla disciplina generale sulla competenza giurisdizionale e, derogando alle norme in materia, attribuisce alle miserabiles personae la facoltà di adire direttamente la corte imperiale. Al riguardo l’a. afferma: «La causa de que se obligase a la otra parte a renunciar al fuero competente era el timor a los poderosos, entendido como temor el que estos influyesen en los juces, o pudiesen incider en el curso del proceso de forma dolosa, ametrendandoa los débiles, sus testigos o, en definitiva, haciendo inviable el curso normal de la fase de prueba». Si ricordi che già in una costituzione del 293 d.C., intestata a Diocleziano e Massimiano, si legge un chiaro invito rivolto dal legislatore al giudice a non lasciarsi influenzare dalle inopportune pressioni esercitate dai potentes a danno dei tenuiores: cfr. CI. 2.13.1Impp. Diocletianus et Maximianus AA. et CC. Aristobulo salutem. Divine admodum constituit divus Claudius consultissimus princeps parens noster, ut iactura causae adficerentur ii, qui sibi potentiorum patrocinium advocassent, ut hoc proposito metu iudiciariae lites potius suo marte discurrerent, quam potentiorem domorum opibus niterentur. Quem palam est in tantum provincialium quaestionibus esse commotum, ut huius sanctionis rectores provinciarium custodes et contemptae rei vindices fecerit, scilicet ut in actores seu procuratores in subsidia negotiorum vel usurpatos gratia vel redemptos severa sententia vindicarent. Quare cum intersit et universe omnium et praecipue tenuiorum, qui saepe importunis potentium intercessionibus opprimuntur, inter litigatores audientiam tuam impertire debebis: nec metuas, ne praeiudices clarissimis viris, cum divus Claudius huius rei rectorem provinciae et disceptatorem et, si res postularet, ultorem specialiter fecerit. D. IIII id. Sept. AA. conss.In merito alle frequenti pressioni subite dai giudici ad opera dei clarissimi V. Neri, L’intercessio dei vescovi nel processo romano (IV-V sec.), in Ravenna Capitale. Giudizi, cit., vol. I, pp. 107 ss., osserva acutamente che: «La pressione sui giudici poteva esercitarsi non solo a favore di qualcuno, ma anche contro qualcuno ed aveva più facilmente successo contro le parti socialmente più deboli» (p. 108).

[47] L. Di Cinthio, Nuove ricerche, cit., p. 70, rileva che nel testo dell’Interpretatio non appare più espressamente il riferimento ai «miserabiles», mentre permangono alcuni termini propri dell’assetto amministrativo imperiale, come il richiamo al rector provinciae, di cui si fa esplicita menzione.

[48] L’elenco dei soggetti tutelati dalla norma non è esaustivo; a tale proposito L. Di Cinthio, Nuove ricerche, cit., pp. 69-70, parla di «una categoria aperta di soggetti svantaggiati, che per la prima volta sono definiti ‘miserabiles’. Secondo l’a., nel testo in esame e più in generale nel periodo storico in cui esso si colloca, «il termine ‘miserabiles’ assume un senso specifico, indicativo di una classe di soggetti […] svantaggiati, non per status economico, o estrazione sociale, ma per alcune incapacità legali». Ciò si evincerebbe dall’elencazione interna della costituzione, che fa riferimento a pupilli, vedove e malati, cioè - sottolinea l’a. - «persone sottoposte a tutela e cura» (p. 70). In tal senso anche C. Natalini, Il giudice dei pauperes, cit., p. 65, secondo la quale i soggetti indicati nella legge sarebbero accomunati da una capacità d’agire ‘affievolita’, ‘indebolita’, trattandosi cioè di persone in difficoltà nel difendere in giudizio sé stessi e i propri interessi. Al riguardo, l’a. afferma che «la condizione di persona miserabilis procurata da una situazione naturale o accidentale fonte di indebolimento, oltre alla considerazione sociale e religiosa aveva ricevuto, fin dal Tardoantico, una valutazione di natura più precisamente giuridico-processuale» (p. 66).

[49]La questione dei soprusi perpetrati dai potentes nei confronti dei soggetti deboli richiama il ruolo svolto dal defensor civitatis, anche con specifico riguardo alla tutela processuale dei poveri. Sulla figura del defensor civitatis, istituito nel IV secolo, all’epoca di Valentiniano e Valente (cfr. CTh. 1.29.1, a. 368), v., per un primo inquadramento, V. Mannino, Ricerche sul defensor civitatis, Milan0 1984; F. Pergami, Sulla istituzione del defensor civitatis, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 61 (1995), pp. 413 ss. (= F. Pergami, Studi di diritto romano tardoantico, Torino 2011, pp. 105 ss.); R. M. Frakes, Contra potentium iniurias,cit., passim; L. De Giovanni, Istituzioni scienza giuridica codici, cit., pp. 230-231, 308-309 (con ult. bibl.); da ultimo A. Palma, Note sul defensor civitatis. Organo pubblico e privato patrocinatore, in Koinonia, 41 (2017), pp. 251 ss.

[50] Lo stato soggettivo, dunque, appare qui collegato alla specifica circostanza oggettiva dell’altrui atto di sopruso. Come si è posto in rilievo in precedenza, anche nella costituzione Sirm. 1 c’è un esplicito riferimento a miseri homines invischiati in giudizi interminabili, a cui hanno dato impulso potentes senza scrupoli sulla base di richieste disoneste o per mera cupidigia. Non è forse del tutto casuale, in CTh. 1.22.2, l’impiego del termine miserabiles, che ben si adatta ad indicare le persone bisognose, che siano anche e soprattutto degne di commiserazione, giacché incapaci di badare a sé stesse e maggiormente esposte al potere di soggetti più forti. Riguardo al termine miseri, D. Grodzynski, Pauvres et indigents, cit., p. 152, rileva: «L’homme qualifié de miser est un homme dont la pauvreté, le malheur ou la condemation pénale inspirent seulement de la commisération». In merito alla parola miserabiles F. Cuena Boy, Utilizaciόn pragmática del derecho romano, cit., p. 110, osserva che: «Miserable es en principio toda persona digna de conmiseración. La amplitud de esta definición, aplicándose sobre una realidad surcada por todo tipo de inferioridades sociales y asimetrías jurídicas, dio pie a los autores para ir incluyendo en el concepto situaciones muy heterogéneas en las que de una u otra forma podía observarse el motivo de la fortunae iniuria. De un modo más técnico, miserable es la persona incapaz de valerse por sí misma y necesitada en consecuencia de protección jurídica especial; aquí encajarían, por ejemplo, los menores y las viudas de la ley de Constantino». Identifica miserabiles e miseri homines C. Natalini, Per la storia del foro privilegiato dei deboli, cit., pp. 34-35, ove l’a. afferma: «I miserabiles della costituzione del 334 (Cod. 3.14un.) sono i miseri homines allorché subiscono l’oppressione dei potenti; e, d’altra parte, non è escluso che i miseri homines della costituzione del 333 (Sirm. 1) siano i miserabiles: è possibile che l’istanza di ricorrere al giudizio del vescovo etiamsi alia pars refragatur possa essere inoltrata dalla vedova, dall’orfano, dal malato, dall’invalido, dal povero contro la volontà dell’avversario, presumibilmente potente, ricco e oppressore». Sul lessico della povertà e, in particolare, sul significato di pauper/pauperes, vocabolo dal valore semantico più ampio e onnicomprensivo, sovente utilizzato nelle leggi tardoimperiali, v. più ampiamente supra, § 1 e nota 11. Tra le numerose leggi in cui ricorre il termine pauperes v., ad esempio, CTh. 16.2.6 (a. 326/329, su cui cfr. supra, § 2); CTh. 16.2.14 (a. 357); CTh. 13.1.5 (a. 364); CI. 1.2.12 (a. 451).

[51] Il Codice Teodosiano, come è noto, non recepisce Sirm. 1, condizionando, pertanto, la possibilità di ricorso al vescovo esclusivamente all’accordo delle parti in causa, secondo il combinato disposto di CTh. 1.27.1-2 (su cui v. supra, § 3). Si tenga presente che, nel VI secolo, Giustiniano accoglierà nel suo Codex la costituzione di Arcadio del 398 (CI. 1.4.7, su cui v. supra, nt. 31) e quella di Onorio del 408 (CI. 1.4.8, su cui v. supra, nt. 33), prevedendo, inoltre, con la Nov. 86 del 539, l’intervento del vescovo nelle ipotesi di denegata giustizia (Nov. 86.1), nonché la facoltà di adire il tribunale ecclesiastico, qualora la parte ritenesse di aver subito un torto ad opera del governatore (Nov. 86.4) o qualora nella città di residenza dei contendenti non vi fosse un governatore ed essi non intendessero rivolgersi al defensor civitatis (Nov. 86.7). Su Nov. Iust. 86 cfr. M. R. Cimma, L’episcopalis audientia, cit., pp. 139 ss., secondo la quale, tuttavia, il provvedimento non si riferirebbe specificamente all’istituto dell’episcopalis audientia, mirando piuttosto a risolvere problemi di altra natura; a suo dire, l’intento dell’imperatore non era «tanto quello di  disciplinare l’esercizio dell’attività arbitrale o giurisdizionale del vescovo, quanto quello di garantire ai sudditi una giustizia rapida ed efficace in loco da parte dei funzionari statali, e di impedire che gli stessi sudditi […] si rivolgessero al tribunale imperiale senza prima aver tentato ogni via nella propria città» (p. 141);sul provvedimento giustinianeo v. anche C. Natalini, Per la storia del foro privilegiato dei deboli, cit., pp. 61 ss.

[52] Didasc. Apost. 2.47.2 (F. X. Funk, Didascalia et Constitutiones Apostolorum, Paderborn 1905, p. 142): Cum advenerint igitur duae personae et ambae adstiterint simul in iudicio, sicut scriptura dicit, iudicium ac litem inter se habentes, recte eis auditis verbum suffragii et operam date, ut eos in caritate conservetis priusquam sententia in eos evadat, ne aliquem ex eis, cum frater sit, a vobis eveniat condemnatio iudicii terreni. V. anche Didasc. Apost. 2.49.1 (Funk, p. 144): Propterea cum sedetis iudicaturi, adveniant et adsent ambae personae simul […]; Didasc. Apost. 2.51.1 (Funk, p. 148): Si vero unam tantum personam auditis, altera non praesente nec se defendente contra culpa allatam, ac festinanter, non consiliantes neque investigantes, iudicium fertis et condemnatis iuxta verba mendacia, quibus fidem habetis cum illam non praesentem nec se defendentem condamnaveritis coram Deo consortes eritis eius, qui falsum testimonium attulit, et cum eo a Deo cruciabimini. Cfr. pure Const. Apost. 2.47.2 (Funk, p. 143); Const. Apost. 2.49.1 (Funk, p. 145); Const. Apost. 2.51.1 (Funk, p. 149). Sulla Didascalia Apostolorum, opera redatta in Siria o in Palestina nel III secolo d.C. (forse intorno al 230), v., per un primo inquadramento, G. Schöllgen, s. v. Didaskalie, in Lexicon für Theologie und Kirke, vol. III, Freiburg-Basel - Rom - Wien 1995, coll. 210-211. Di recente v. L. Loschiavo, La Didascalia Apostolorum, cit., pp. 80 ss., il quale ben rileva come l’autore della Didascalia abbia tratteggiato «un modello procedurale sufficientemente strutturato» allo scopo di «soccorrere i presuli nel disbrigo dei loro compiti di pacificatori e giudici» (p. 81), ricordando, in merito all’episcopalis audientia, che «Anzitutto, perché il giudizio sia regolarmente costituito, le parti devono essere entrambe presenti» (p. 83). In tal senso anche S. Puliatti, L’episcopalis audientia, cit., p. 307, il quale pone in evidenza che: «Il tribunale episcopale non poteva […] pronunziare sentenza se non alla presenza e dopo aver ascoltato le ragioni di entrambe le parti».

[53] Stat. Eccl. Ant., can. 30 (H. T. Bruns, Canones apostolorum et conciliorum veterum selecti, vol. I, Berlin 1889, p. 144): Caveant iudices ecclesiae, ne absente eo cuius causa ventilatur sententiam proferant, quia irrita erit, immo et causa in synodo profecto dabunt. Gli Statuta Ecclesiae Antiqua risalgono al V secolo e sono stati composti forse, tra il 476 e il 485, da Gennadio di Marsiglia, monaco cristiano autore anche del De viris illustribus. Nella stessa direzione si esprime anche una disposizione del concilio di Nicea: Sanctorum Patrum Nicaenorum CCCXVIII Sanctiones et Decreta, caput 15, (G. D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, vol. II, Firenze 1759, col. 1044), ove si legge: Si autem pro indiviso instituti sunt haeredes, sive nullo facto testamento suo iure succedunt defuncto, dividant hereditatem inter se secundum legis et aequitatis praecepta et morem. Porro si avaritia et aviditate distenti inter se non conveniant, adeant simul iudices, qui in divinarum scripturarum et legum lectione studium et meditationem impendunt, et Dei sunt vicarii, ut diiudicent inter eos secundum legem veritatis et aequitatis, et sciat unusquisque quod suum est, et acquiescan iudicio et patienter ferant, iuxta verae religionis praecepta, amoto omni mendacio et fraude, vel dolo, nec praeferatur maior minori, nec minor maiori.

[54] Nella fattispecie, dunque, appare plausibile che la disposizione in oggetto miri a disciplinare pure il caso peculiare, e forse tutt’altro che raro nella pratica processuale, di contumacia della controparte dinanzi al tribunale ecclesiastico. Si ricordi che Costantino nel 318, con CTh. 1.27.1, nel dare riconoscimento formale alla giurisdizione ecclesiastica, aveva sancito anche l’obbligo per i giudici ordinari di consentire la translatio iudicii, ossia il trasferimento della causa dinanzi all’autorità episcopale, qualora il giudizio già pendesse davanti al tribunale secolare. Non si può escludere che l’imperatore con il provvedimento del 334, CTh. 1.22.2, abbia disciplinato l’ipotesi inversa, prevedendo la possibilità di trasferire direttamente davanti all’imperatore una causa già pendente dinanzi al tribunale ecclesiastico, ad esempio nel caso specifico di contumacia della parte convenuta, oltre a tutti gli altri casi in cui la parte debole preferisse adire la corte imperiale in luogo dei giudici locali operanti nelle province.

[55] Sul punto cfr. C. Natalini, Per la storia del foro privilegiato dei deboli, cit., p. 59, la quale opportunamente sottolinea che: «Il privilegio riconosciuto alle miserabiles personae di spostare i processi di fronte alla corte imperiale sembra tendere ad evitare soprusi e sopraffazioni da parte di quei potentiores che verosimilmente, sub praesentia principis, si asterrebbero dall’esercitare oppressione a danno dei deboli»; l’autorevolezza del princeps - a suo dire - sarebbe dunque «intimidatoria nei confronti dei potentes».

[56] Al riguardo, C. Natalini, Per la storia del foro privilegiato dei deboli, cit., p. 35, pone bene in luce che «il sistema normativo imperiale ripete la tendenza delineata già nelle prime fonti della Chiesa», affermando: «La condanna delle situazioni di oppressione, l’impegno per la regolare amministrazione della giustizia, la difesa dei poveri da quanto proviene ab improbis sono elementi che si mescolano e danno luogo ad un indirizzo unitario: un indirizzo di condotta etica e disciplinare per la Chiesa, giudiziaria per l’Impero».

Corbo Chiara



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