fbevnts Diritti fondamentali dell’uomo e diritto romano: tra valori di civiltà e ius naturale

Diritti fondamentali dell’uomo e diritto romano: tra valori di civiltà e ius naturale.

28.06.2017

Maria Luisa Biccari

Assegnista di ricerca in Diritto romano e diritti dell’antichità, Università degli Studi di Urbino ‘Carlo Bo’

Diritti fondamentali dell’uomo e diritto romano:

tra valori di civiltà e ius naturale.

Sommario: - 1. I diritti umani nell’esperienza giuridica romana attraverso il pensiero di Giuliano Crifò. - 2. I diritti umani nella prospettiva del ius naturale.

 

1. I diritti umani nell’esperienza giuridica romana attraverso il pensiero di Giuliano Crifò.

«… a me pare che l’analisi della realtà romana mostri già la giusta direzione di una dottrina dei diritti fondamentali. Quella realtà si rispecchia ad esempio nello ius libertatis di Sallustio e negli iura libertatis di Cicerone, nell’endiadi ius et libertas, nell’affermazione che la libertas deve essere preferita all’amicitia, e che insieme, si trova sullo stesso piano dei bona necessaria, come la vita e le relazioni familiari. Essa si rispecchia nella protezione di pudor et verecundia (Cic. de fin. 4.18), quella verecundia che è strettamente legata all’amicitia, nei valori della dignitas e dell’existimatio, così come al campo di applicazione ad esempio dell’actio iniuriarum o dell’actio legis Aquiliae. Si tratta di diritti di cui ogni cittadino può godere: aequitas iuris id est libertas»[1]. In queste parole sembra possa sintetizzarsi un aspetto della ricerca di Giuliano Crifò che percorre tutta la sua vicenda scientifica, dagli inizi, dedicato proprio alla riflessione sui diritti dell’uomo, caparbiamente ricercati ed indagati nella loro dimensione storico-giuridica già dall’esperienza romana.

È noto che un’attenzione concreta, filosofica e scientifica ai diritti umani, intesi come diritti da attribuire alla persona, e quindi da tutelare proprio perché connessi alla qualità di essere umano[2], prende corpo solo nel XVII-XVIII secolo quando la cultura illuministica da un lato, l’indipendenza americana e la rivoluzione francese dall’altro, portano alla realizzazione di quelle carte in cui per la prima volta si concedono e riconoscono all’uomo, per il solo fatto di essere tale, dei diritti: «Si tratta dei primi documenti con valore politico e giuridico - scrive Alessandra Facchi - che trasformano i diritti in diritti umani, cioè riconoscono ai diritti soggettivi una portata universale, attribuendone la titolarità all’uomo, senza specificazioni»[3]. Così la Dichiarazione dei diritti della Virginia del 1776[4], con la quale ai cittadini, in funzione della loro felicità[5], si garantiscono la libertà mediante l’acquisto e il possesso della proprietà, la rappresentanza politica, l’habeas corpus, la libertà religiosa e la libertà di stampa. Così la Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, che sancisce l’eguaglianza nei diritti, l’eguaglianza di fronte alla legge, il principio di legalità, l’irretroattività della legge penale, la presunzione di innocenza, ed ancora la proprietà privata, la libertà personale e religiosa, la libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni, il diritto alla sicurezza e il diritto di resistenza all’oppressione.

Non vi è dubbio che i diritti umani fondamentali abbiano trovato una delle loro esplicazioni più significative proprio grazie a queste Dichiarazioni[6].

Ma, pensando ad una storia dei diritti dell’uomo precedente rispetto a quella che in senso moderno avrebbe origine nel XVII-XVIII secolo, è possibile parlare di tali diritti anche in rapporto al mondo antico e in specie a quello romano?

Adalbert Polacek in un convegno dell’Accademia Romanistica Costantiniana del 1987, dedicato a ‘I problemi della persona nella società e nel diritto del tardo Impero’, esordisce proprio con la domanda: «conoscevano i Romani antichi regole o regolamenti che noi chiamiamo diritti dell’uomo?»[7]. Il sistema sociale romano - osserva in quella occasione lo studioso - prevedeva senza dubbio alcuni diritti personali (individuali), quali ius suffragii, ius honorum, ius connubii, ius commercii, ius sacrorum, auspiciorum et sacerdotium, il diritto di asilo, ma in primo luogo, erano diritti di cui poteva godere solo quella ristretta cerchia di persone rappresentata dai cives liberi maggiorenni e, in secondo luogo, più che di diritti propriamente detti, si trattava di prerogative connesse allo status libertatis e civitatis. Infatti - spiega - «la libertas non era un diritto formale, ma bensì un fatto, una realtà, immediatamente connessa con la civitas»[8]. D’altro canto lo stesso studioso non ignora come quella società romana, in apparenza fortemente ancorata ad un certo dogmatismo legale, per dare risposta alle esigenze delle circostanze della quotidianità concreta avesse riconosciuto per esempio alla donna la possibilità di partecipare alla vita politica ed economica o, ancora, di ricoprire cariche e funzioni pubbliche[9]: altri diritti individuali, dunque, di cui titolari erano anche le donne. Proprio questa riflessione sul divario tra diritto formale e vita reale, tra diritti che formalmente spettavano solo ai cives liberi maggiorenni e diritti che nella realtà potevano essere riconosciuti anche alle donne e ai minorenni, porta il Polacek ad affermare che «anche i Romani crearono fatti, analoghi a quelli a cui i moderni diedero il nome collettivo di diritti dell’uomo. I Romani non sentivano la necessità di farlo. La loro concezione della vita viveva con le regole e le istituzioni sussistenti»[10].

Pure con le cautele derivanti dalla consapevolezza che nel mondo romano mancava un vero elenco dei diritti dell’uomo («Rome n’a jamais dressé de catalogue des droits. Elle s’est d’ailleur moins préoccupée de proclamer des droits que d’en assurer le respect»)[11], Jean Gaudemet ritiene comunque che già in Roma antica fossero presenti i diritti umani. In particolare, sulla scia di Cic. de off. 1.106-115 (e della sua consapevolezza circa il valore universale della dignitas dell’uomo)[12], precisa come sul finire dell’età repubblicana, a seguito dell’influenza della filosofia greca e poi dell’apporto del Cristianesimo, si diffuse una nuova concezione dell’uomo: soggetto di diritto non era più il civis romanus, ma la persona in quanto tale. Così, preso atto dell’importanza che la dignitas riveste nel pensiero romano, il Gaudemet afferma l’imprescindibile riconoscimento di certi diritti, il rispetto anzitutto della vita, della libertà e della proprietà[13].

Nel contrasto di queste opinioni un posto di primo rilievo va senza dubbio attribuito a Giuliano Crifò. Era il 1956 quando Crifò discuteva la sua tesi di laurea, Diritti della personalità e ordinamento giuridico romano[14], e già allora indicava i concetti di libertà, uguaglianza e cittadinanza quali elementi rilevanti per verificare la presenza di tali diritti nell’esperienza romana.

Libertà, uguaglianza e cittadinanza sono i principi base su cui – come mette perfettamente in luce anche Leo Peppe nel suo Giuliano Crifò giuspubblicista, ovvero la persona e la città[15]– può fondarsi un discorso di diritti dell’uomo anche per il mondo romano. Ne sono subito corollario il sistema di sacralità e inviolabilità connesso con l’istituto del tribunato della plebe[16], il diritto all’osservanza delle leggi vigenti, il diritto alla tutela giurisdizionale[17], il diritto alla provocatio ad populum che limitando i poteri coercitivi del magistrato attribuiva al cittadino una precisa garanzia della propria libertà personale contro gli eccessi della coercitio magistratuale e le decisioni giudiziarie in generale[18]. Quantunque sul punto vada segnalato che secondo lettura che dell’istituto ha offerto il Pugliese, l’idea di provocatio ad populum quale «garanzia di inviolabilità dell’individuo», ovvero «diritto ad un giusto processo» di fatto si perderebbe in quella che è la sua vera natura di privilegio dei soli cittadini romani[19].

Crifò riesce a superare pure la contraddittoria fondamentale divisione della società romana fra liberi e schiavi e fra cittadini e non cittadini, affermando che a Roma esisteva il concetto di una libertà individuale a fronte dello Stato; e per sostenere ciò si sofferma ad analizzare l’uomo come ‘persona’ dal punto di vista delle sue relazioni giuridiche con gli altri individui, dei suoi legami sociali con l’ordinamento di appartenenza. Dunque, un tema molto delicato che appare chiaramente negli scritti Su alcuni aspetti della libertà in Roma (1958), Libertà e uguaglianza in Roma antica (1984) o ancora Normazione e libertà: il rapporto tra legislazione altorepubblicana e identità civica (1990)[20].

Non meraviglia quindi il forte interesse che lo studioso mostra per il cittadino inteso come uomo e, perciò, soggetto titolare di diritti: se è infatti nel rapporto con la comunità politico-sociale cui appartiene che l’individuo viene considerato persona, questo rapporto denota chiaramente la posizione giuridica del civis[21]. Ne deriva che i suoi diritti, in primo luogo i diritti di libertà, trovano la loro legittimazione entro il concetto della cittadinanza[22].

Ma anche la basilare contrapposizione fra cittadino e non cittadino è poi facilmente superabile nella pratica, innanzi tutto con la previsione di forme di cittadinanza che potremmo dire ‘attenuata’, qual è il riconoscimento del ius Latii[23], con la definizione minuziosa di ipotesi di acquisizione della cittadinanza a seguito di matrimonio misto romani-latini[24], e poi con la concessione, talora per collettività, talora individualmente, del ius commercii e del ius migrandi, quest’ultimo in particolare in forza della sua valenza politica[25].

Tutto questo – tiene a precisare Crifò in quel contributo che reca il titolo significativo di Civis. La cittadinanza tra antico e moderno (2000) – si spiega tenendo ben presente il fatto che l’ordinamento romano, lungi dall’essere fonte di discriminazioni ed ineguaglianze, dispone concretamente di «strumenti capaci di realizzare la libertà individuale e di garantire come valori di fondo il principio di autonomia e il rispetto della vita»[26].

Ai valori di libertà, uguaglianza e cittadinanza, Crifò aggiungeva, come caratterizzante l’esperienza giuridica romana[27], il diritto di asilo, che interpretava come l’espressione di uno specifico bisogno sociale dell’individuo ad ottenere protezione ed in cui faceva rientrare il ius exilii e il principio di inviolabilità della casa, considerati entrambi strumenti capaci di garantire il rispetto della libera determinazione del singolo. In effetti – egli scrive –  «queste ed altre considerazioni impongono, a nostro sommesso avviso, di considerare il ius exilii un vero e proprio diritto della personalità per il cittadino romano, espressione concretamente realizzata e tutelata del diritto all’esistenza fisica». Tanto che si qualificava come improbe factum il comportamento del magistrato che avesse impedito al cittadino di esercitare il diritto di asilo, così come garantitogli dall’ordine giuridico[28].

Tra gli aspetti valutati come indizi di una qual sorta di riconoscimento dei diritti umani nel mondo antico va considerato anche un istituto prettamente privatistico (nella concezione romana) qual è l’actio iniuriarum, che mirando a tutelare situazioni particolari quali l’onore, la reputazione, il pudore, rafforzava il valore della persona e della sua personalità.

Gisella Bassanelli Sommariva, nel tracciare la linea di una corrispondenza tra il concetto di iniuria e la difesa della persona, ricorda i testi riuniti nel titolo 11.30 del codice teodosiano, de appellationibus et poenis earum et consultationibus, in cui il termine iniuria è particolarmente utilizzato ad intendere il comportamento prevaricante e lesivo dei funzionari imperiali nei confronti dei cittadini. E da queste osservazioni conclude che sarebbe nata proprio «nel mondo romano, e nella cultura giuridica occidentale l’esigenza di una tutela giurisdizionale dei diritti dell’individuo nei confronti del potere statuale»[29].

Ma non vanno trascurate certamente, in una riflessione sui valori portanti della civiltà antica, anche altre situazioni quali la libertà di parola, di culto e di opinione che può essere documentata, per esempio, dal discorso di Valerio Massimo su libere dicta aut facta[30], il diritto alla vita e al suicidio, come può argomentarsi da D. 15.1.9.7 (Ulp. 29 ad ed.), D. 28.3.6.7 (Ulp. 10 ad Sab.), D. 48.21.3.4-5 (Marc. l.s. de del.)[31], il diritto al pudore ben palese nell’individuazione di certe forme di iniuria che si consolidano nel tempo[32], la libertà di soggiorno connessa in un certo senso al ius migrandi[33], il ius connubii, pur faticosamente conquistato dopo la lotta fra patrizi e plebei[34].

Costante in Crifò è la consapevolezza che per l’ordinamento romano si tratta di diritti che non sono espressamente disciplinati; ma non per questo, per il solo fatto che non sono qualificati come veri diritti, ne deve essere negata l’esistenza: «Del resto, non è forse un pregiudizio, dal quale occorre uscire, quello che se nominiamo qualcosa, qualcosa debba esistere (ad ogni parola (dovrebbe) corrispondere un referente nel mondo) –  per cui, aggiungo io, se manca la parola mancherebbe anche la cosa?»[35].

E allora, sostenere che nel mondo romano esistevano i diritti dell’uomo non significa affatto prevaricare la realtà perché, altrimenti, «come spiegare i diritti di negoziare e contrattare attribuiti in Roma antica a tutti i soggetti liberi ed emancipati … se non qualificandoli come diritti civili? o i diritti di voto per l’elezione delle magistrature e l’approvazione di leges e plebiscita … se non caratterizzandoli come diritti politici? o molte delle immunità e garanzie del corretto processo, che proprio a Roma e ancor prima in Grecia furono inventate, se non configurandole allora come oggi, quali diritti di libertà? Ovviamente questi diritti non avevano allora la centralità politica che assumeranno nell’età moderna, con la loro fondazione su basi puramente individualistiche e con la configurazione come fini rispetto ai quali il diritto e lo Stato sono strumenti. E tuttavia esistevano e una teoria generale del diritto non può non darne conto»[36].

2. I diritti umani nella prospettiva del ius naturale.

La riflessione condotta da Giuliano Crifò mostra l’effettiva esistenza di una tensione verso i diritti umani già in epoca romana, nella consapevolezza che è l’individuo il punto di riferimento principale nell’elaborazione del diritto, individuo che – dice Crifò – è dotato per natura di una libertà di fatto, di una naturalis libertas[37].

In tal senso, e nella precisazione del ruolo che anche il diritto naturale avrebbe da sempre rivestito nel processo di affermazione dei diritti fondamentali, Tony Honoré propone Ulpiano come precursore della teoria dei diritti umani («pioniere dei diritti umani» è per l’esattezza l’espressione utilizzata dallo studioso inglese)[38].

Nella trattazione del giurista severiano circa il problema della schiavitù e della manomissione[39], Honoré vede per la prima volta percorsi i principi di libertà, uguaglianza e dignità, che sono ancor oggi alla base della concezione dei diritti dell’uomo.

La manomissione, dice Ulpiano, è stata introdotta dal ius gentium e, così come la stessa schiavitù, è estranea al ius naturale[40], perché iure naturali omnes liberi nascerentur. In effetti – tiene a precisare ancora il giurista – per diritto naturale tutti nascono liberi ed uguali (D. 1.1.4, Ulp. 1 inst.: … Quae res a iure gentium originem sumpsit, utpote cum iure naturali omnes liberi nascerentur nec esset nota manumissio, cum servitus esset incognita: sed posteaquam iure gentium servitus invasit, secutum est beneficium manumissionis. Et cum uno naturali nomine homines appellaremur, iure gentium tria genera esse coeperunt: liberi et his contrarium servi et tertium genus liberti, id est hi qui desierant esse servi)[41]. Come spiegare allora le varie diseguaglianze, già implicite e lo illustra il testo ulpianeo nel fatto che alcuni sono liberi ed altri schiavi e pertanto devono ricorrere alla manumissio per conseguire lo status libertatis?

Un’ampia discussione nel merito venne aperta da Mario Talamanca, il quale, riflettendo su ‘valori cardine’ quali l’humanitas e l’aequitas, sottolineava come non si dovesse equivocare «fra il problema della humanitas e quello dei “human rights”, fra l’aspetto di un tipo di diritti di cui, anche nel presente, sono soggette a discussione ed a cautela l’individuazione e le modalità in cui, nella loro effettività, essi si presentano nella concreta fenomenologia giuridica e quello dei valori che li sottendono, e che possono assumere anche altri modi di evidenziarsi in diversi contesti storici in cui l’operatività non ne è necessariamente correlata all’esistenza di “diritti dell’uomo” come li intendiamo noi moderni»: valori che «nel mondo antico si possono riconnettere alla terminologia di humanitas»[42]. La critica del Talamanca è chiara: la questione dei diritti umani nel mondo antico non può essere affrontata attraverso la ‘lente’ dell’humanitas, perché ciò significherebbe ridurre la stessa storia dei diritti dell’uomo a dei semplici valori. Di seguito, Umberto Vincenti ha precisato come la nozione romana di humanitas presenti un significato diverso rispetto a quello contemporaneo, «che la connette direttamente ai diritti qualificati, appunto, come umani e, in quanto tali, universali», per giungere così, analizzando talune testimonianze di Aulo Gellio, not. at. 13.17.1, di Cicerone, Att. 1.12.4, de off. 1.16.50-52, 1.17.58 e di Terenzio, Heaut. 77, alla conclusione che la dimensione della humanitas dei Romani, «espressione di un certo stile morale di tipo intellettualistica, non poteva certo introdurre, come pure si è sostenuto, alla parità dei diritti»[43].

E da queste considerazione ben si comprende anche l’asprezza dei toni che il Talamanca utilizza per commentare il pensiero di Ulpiano, negando categoricamente il riconoscimento di diritti naturali fondamentali per la ragione che quella libertà ed uguaglianza che il giurista severiano attribuiva a tutti gli uomini, non poteva essere nella concreta realtà dei fatti superiore né al ius gentium né al ius civile: «l’esistenza della schiavitù sul piano dell’ordinamento giuridico impediva, per tutto lo svolgersi del mondo antico, di riconoscere oggettivamente l’esistenza a qualsiasi livello, di diritti dell’uomo, vale a dire riconosciuti alla persona umana in quanto tale, proprio perché gli schiavi, in quanto sprovvisti – per adoperare la terminologia moderna – di personalità giuridica non possono essere considerati titolari di diritti»[44].

Già a suo tempo anche il Pugliese aveva rilevato come fosse assente nel mondo antico ogni forma di protezione di diritti umani, e in specie del principio di uguaglianza. «Nessun precedente – affermava – trova nell’antichità il diritto di uguaglianza, che in verità, tra i moderni ‘diritti umani’, è stato in tutti i campi il più difficile da riconoscere e, a maggior ragione, da proteggere»[45].

Su aequitas[46]ed humanitas con riguardo alla questione dei diritti dell’uomo nel mondo romano torna Aldo Schiavone, il quale rileva come l’intuizione di Ulpiano di una teoria del diritto naturale basata sulla giustizia e sull’uguaglianza tra gli uomini, per quanto valida, non possa considerarsi in alcun modo promotrice di un’autentica dottrina dei diritti umani, perché «la possibilità lasciata intravedere da Ulpiano nell’incipit delle sue Istituzioni, di un uso della prospettiva giusnaturalistica per una critica, almeno potenziale, a un diritto positivo che avesse rinunciato a esprimere i valori di giustizia e di equità, non fu mai un’ipotesi seguita dalla giurisprudenza severiana, e nemmeno dal maestro stesso che pure l’aveva prospettata … A venir meno, fu qualcosa di decisivo: la saldatura tra l’elaborazione teorica del diritto naturale come luogo della giustizia e dell’eguaglianza fra gli uomini, e la costruzione, sul terreno sociale prima ancora che filosofico, di un individualismo con basi forti, in grado di proiettarsi fino in fondo sul terreno del diritto e della politica»[47].

In una prospettiva fondata su un giudizio così negativo in merito all’elaborazione della legge naturale da parte della giurisprudenza severiana, la schiavitù rappresenterebbe dunque l’argomento essenziale per affermare l’inesistenza dei diritti umani nell’antichità, l’ ‘impedimento dirimente’ – così come era stato definito da Talamanca, e poi ripreso da Patrizia Giunti – che non consente di mutuare in modo aproblematico la moderna categoria dei diritti umani per rappresentare l’esperienza antica[48].

Invero, ad un’attenta lettura, si rileva che Ulpiano non assume un atteggiamento di condanna verso la schiavitù nonostante sia palesemente in contraddizione con il diritto naturale: la schiavitù rappresenterebbe una ‘deroga’ ai principi del diritto naturale (che vorrebbe tutti gli uomini liberi e uguali), deroga creata dal ius gentium e dal ius civile.

L’idea sottesa a questa visione sembrerebbe essere quella secondo cui il ius naturale, esprimendo il fondamento unico di ogni essere umano, deve sempre e comunque rimanere vigente e valido anche nei casi in cui il diritto positivo prescriva diversamente (come in effetti accade nell’ipotesi della schiavitù). Su questa base, però, rimane difficile da spiegare come possa il diritto naturale entrare in contrasto col ius civile e col ius gentium che si qualificano per essere ‘diritti’ fatti dagli uomini.

Si potrebbe allora riflettere sul significato di ius naturale per vedere in esso non tanto un diritto innato e, per così dire, già prestabilito, ma piuttosto un diritto che è espressione di un valore ‘superiore’ ma diverso e separato, che non può che tollerare in ogni caso l’esistenza degli altri due sistemi normativi del ius civile e del ius gentium: cosa che si può ricavare dallo stesso Ulpiano quando afferma che fonte del diritto privato sono il ius naturale, il ius gentium e il ius civile[49]. Quindi, proprio perché non si tratta di un diritto concepito per stare al di fuori dell’ordinamento, è chiaro che nella concreta realtà dei fatti, per regolare le vicende umane, sia destinato a confrontarsi con i principi del diritto civile e del diritto delle genti: ed è in questo continuo confronto che emerge la capacità propria ed esclusiva del ius naturale di ripristinare l’ordine e ritornare a quei principi superiori che detta la legge di natura[50].

E così si potrebbe forse ipotizzare che, laddove la concretezza del vivere porta a derogare a quei valori, a quei principi che detta la natura (iure naturali omnes liberi nascerentur: e provoca le guerre, e ne fa derivare la schiavitù), è proprio il diritto creato dagli uomini (ius gentium, ius civile) che interviene, nel suo ruolo di ‘difensore’ del diritto[51], per una regolamentazione fra i sistemi normativi, per un ripristino (e, per esempio, crea le manumissioni che rendono la libertà a chi è schiavo; e per esempio, studia tutto un sistema di acquisto della cittadinanza per matrimoni misti; ecc.).

Sembra dunque delinearsi, sullo sfondo di queste considerazioni, una prospettiva tesa ad evidenziare come tra ius naturale, ius gentium e ius civile non ci sia quella marcata alterità, o addirittura quel contrasto, che le testimonianze di età severiana lascerebbero intendere ad una prima lettura. Si tratta perciò di riconoscere a ciascuna sfera normativa la propria autonomia[52], un’autonomia che assume valore e rilevanza proprio nella dialettica che inevitabilmente viene a crearsi tra diritto naturale, diritto civile e diritto delle genti; un’autonomia che, in virtù di quella stessa dialettica, è proprio alla base della reciproca convivenza tra ius naturale, ius gentium e ius civile, e non determina affatto – come si potrebbe invece pensare – un confronto di “civiltà” tra i diversi sistemi normativi, per cui l’uno dovrebbe essere migliore dell’altro. Analogamente per il rapporto fra ius civile e ius honorarium[53].

Sono questi i temi che attribuiscono al ius naturale citato dai giuristi romani un suo ruolo, sotto diversi aspetti, tutti importanti. Ulpiano parla di ius di cui la natura informa tutti, uomini ed animali (ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit,D. 1.1.1.3), precisando, subito di seguito, che il diritto naturale fa liberi gli uomini dalla nascita, cum iure naturali omnes liberi nascerentur (D. 1.1.4). Ed è ancora Ulpiano a sottolineare un particolare sotteso collegamento col ius civile, argomentando che ius civile est, quod neque in totum a naturali vel gentium recedit nec per omnia ei servit, rapportando il ius naturale (così come il ius gentium) ad una identità comune, itaque cum aliquid addimus vel detrahimus iuri communi, ius proprium, id est civile efficimus (D. 1.1.6 pr.), quasi a conferire credito ad uno specifico genere di ius commune. E così infine Ulpiano riferisce che per diritto naturale, gli uomini sono tutti uguali: quod attinet ad ius civile, servi pro nullis habentur: non tamen et iure naturali, quia, quod ad ius naturale attinet, omnes homines aequales sunt (D. 50.17.32, Ulp. 43 ad Sab.).

Del resto già Marciano aveva espresso l’idea di una condizione originaria di libertà comune a tutta l’umanità, di “natali” nei quali devono riconoscersi tutti gli uomini, che sono i “natali” dell’ingenuitas, D. 40.11.2 (Marcian. 1 inst.) pr.: Interdum et servi nati ex post facto iuris interventu ingenui fiunt, ut ecce si libertinus a principe natalibus suis restitutus fuerit. illis enim utique natalibus restituitur, in quibus initio omnes homines fuerunt, non in quibus ipse nascitur, cum servus natus esset.

E anche Trifonino, per parte sua, affermava che la libertà appartiene al ius naturale (libertas naturali iure continetur), mentre il dominium sugli schiavi è prodotto del ius gentium (dominatio ex gentium iure introducta est): si quod dominus servo debuit, manumisso solvit, quamvis existimans ei aliqua teneri actione, tamen repetere non poterit, quia naturale adgnovit debitum: ut enim libertas naturali iure continetur et dominatio ex gentium iure introducta est, ita debiti vel non debiti ratio in condictione naturaliter intellegenda est (D. 12.6.64, Tryph. 7 disp). Ma è poi lo stesso ius gentium che produce nell’istituto delle manomissioni il mezzo per ricondurre lo schiavo alla condizione di uomo libero. 

Un collegamento fra il ius naturale (naturalis ratio[54]) e il ius gentium, nel suo valore che potremmo dire “universale”, è quello che occupa il pensiero di Gaio, il quale scrive che quod vero naturalis ratio inter omnes homines constituit, id apud omnes populos peraeque custoditur vocaturque ius gentium, quasi quo iure omnes gentes utuntur (Gai. Inst. 1.1.): è proprio nella naturalis ratio, in grado di dettare per tutti gli uomini valori e precetti in un certo qual senso fondamentali e condivisi, che va ricercata la base del ius gentium[55].

E un diverso collegamento, in questo caso con l’equità, è asserito da Paolo: il giurista severiano afferma che ius naturale est quod semper aequum ac bonum est (D. 1.1.11, Paul. 14 ad Sab.), ripetendo, con specifico riferimento al diritto di natura, la definizione celsina di ius[56].

Da queste testimonianze emerge anche il significato di ius naturale nella sua forma più ampia: non quale diritto preesistente rispetto a quello positivo e, dunque, universalmente valido, eterno ed immutabile (come tra l’altro è andato affermandosi sulla scia delle correnti giusnaturalistiche), ma quale realtà concreta cui si ispirano i rapporti sociali[57]: cioè il diritto naturale, unitamente allo ius gentium e allo ius civile, va considerato «inscindibilmente connesso con la realtà concreta quotidiana. Esso – spiega Maria Pia Baccari, riprendendo le parole dello studioso Wolfgang Waldstein – non è relegato nella “religione”, nella “filosofia” o nella “metafisica”, bensì valido per l’utilità dei singoli (utilitas singulorum): in altri termini il diritto naturale protegge ciascun uomo e, in particolare, la utilitas di ciascuno»[58]. Lungo questo filone di pensiero va interpretato e letto il fenomeno della servitù.

E ancora si può tornare al pensiero di Giuliano Crifò, il quale attentamente commenta come la schiavitù non possa essere affatto un elemento valido per negare la problematica dei diritti umani. Particolarmente forte è la sua pagina: «che questo istituto condizioni la pretesa inesistenza di diritti dell’uomo nell’antichità è una idea più che tralaticia, ma niente affatto indiscutibile e comunque già smentita dalla storia ulteriore della schiavitù. Esplicito in proposito … è l’orientamento, suggerito anzitutto dal buon senso storico non meno che giuridico, di chi risponde negativamente alla questione se i diritti dell’uomo, per essere tali, debbano necessariamente essere riconosciuti a tutti, ed avere per tutti la medesima disciplina. Poiché sono sempre i singoli ordinamenti positivi a conformare i diritti individuali … non deve sorprendere il giurista nello stesso ordinamento da un lato si riconoscano i diritti dell’uomo e dall’altro si continui a distinguere tra uomini liberi e schiavi»[59].

Alla luce di queste considerazioni, il discorso sul diritto naturale assume un valore di tutto rilievo. Ed è proprio in questa concezione del ius naturale che sta la ragione e l’essenza delle moderne Dichiarazioni dei diritti e delle libertà fondamentali. Ed è a questo diritto naturale, a questa dimensione concretamente ‘filosofica’ di Ulpiano – io credo – che si rapportano i moderni diritti umani. Insomma, riprendendo le parole di Wolfgang Waldstein, è il diritto naturale stesso a «preservare e comprendere il bene dell’uomo». Una realtà concreta, conosciuta sin dall’antichità, «una realtà … che nello sviluppo del diritto europeo nessuna teoria al mondo può creare. La cultura giuridica europea non può essere compresa senza questa realtà del diritto naturale»[60].

*Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review

[1] La citazione è di G. Crifò, Libertà e uguaglianza in Roma antica. L’emersione storica di una vicenda istituzionale, Roma 1984, p. 315. Va subito detto che il tema della libertà è stato un terreno di indagine molto caro a Giuliano Crifò; si possono citare, per fare solo un esempio, le parole con cui Leo Peppe, alla Tavola Rotonda 2012 dell’Accademia Romanistica Costantiniana (“Una vita nell’università, una vita per l’università. Commemorazione scientifica di Giuliano Crifò”) ricordava la vita scientifica di questo grande studioso: «… ritengo che il nòcciolo più interno, il cuore di tutta la vita scientifica di Crifò sia la coppia libertà/diritto in relazione alla persona umana: cioè la libertà dell’individuo esaminata e ricercata non solo e non tanto in termini politici, quanto bensì soprattutto nella sua dimensione specificatamente giuridica e storico-giuridica» (L. Peppe, Giuliano Crifò giuspubblicista, ovvero la persona e la città, in C. Lorenzi, M. Navarra (a cura di), XII Quaderni di lavoro dell’Accademia Romanistica Costantiniana. Tavola Rotonda 2012. Spello, 27 e 28 giugno, Napoli 2013, pp. 21 e ss.). Alla giornata di lavori della Costantiniana intervenivano, oltre a Leo Peppe, Sandro Angelo Fusco con la relazione “Giuliano Crifò e il diritto romano privato”; Giovanni Negri, “Giurisprudenza e retorica, fulcro della ricerca”; Francesco Petrillo, “Giuliano Crifò. La notazione scientifica su Emilio Betti per l’ermeneutica giuridica contemporanea”; Nicola Palazzolo, “Giuliano Crifò, docente di Storia”. Ed ancora Giorgio Bonamente, Lietta De Salvo e Antonio Palazzocon “Crifò giurista storico”; tra gli studiosi stranieri, nella sezione “Oltre il confine: ricordi dello studioso e dell’amico”, Hans Ankum, Manuel J. García Garrido, Dieter Nörr, Jean-Michel Carrié, Shigeo Nishimura.

[2] In questa direzione potrebbe allora essere letta la definizione di diritti fondamentali proposta da L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura di E. Vitale, Roma 2001, p. 5, secondo cui tali sono quei diritti soggettivi di cui devono essere titolari tutti gli esseri umani in quanto dotati dello status di persone o di cittadini; precisando che deve intendersi «per “diritto soggettivo” qualunque aspettativa positiva (a prestazione) o negativa (a non lesioni) ascritta ad un soggetto da una norma giuridica, e per “status” la condizione di un soggetto prevista anch’essa da una norma giuridica positiva quale presupposto della sua idoneità ad essere titolare di situazioni giuridiche e/o autore degli atti che ne sono esercizio».

[3] A. Facchi, Breve storia dei diritti umani, Bologna 2007, p. 48. Un’interessante raccolta delle carte e dichiarazioni storiche dei diritti, dalla Magna Charta Libertatum del 1215 alla Costituzione dell’Impero Germanico del 1919, è quella redatta a cura di Mariani Marini e Vincenti a completamento del Codice dei diritti umani e fondamentali pubblicato dalla Scuola Superiore dell’Avvocatura nel 2011. Vedi V. Mariani Marini, U. Vincenti (a cura di), Le carte storiche dei diritti. Raccolta di Carte, Dichiarazioni e Costituzioni con note esplicative, Pisa 2013.

[4] Secondo G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, I, Assolutismo e codificazione del diritto, Bologna 1976, pp. 615 e ss., la Dichiarazione della Virginia del 1776 e, più in generale, tutte le carte americane sono i primi documenti con valore politico e giuridico, che attribuiscono all’uomo, senza specificazione alcuna, la titolarità dei diritti soggettivi e in cui dunque si esprime «l’idea di una legislazione la cui forma logica è la proporzione universale che vale quale sia il soggetto».

[5] «Noi riteniamo che sono per sé stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la vita, la libertà, e la ricerca della felicità»: con queste parole la carta americana riconosce, in modo del tutto originale, il diritto alla ricerca della felicità come un fine che lo Stato deve perseguire per il bene dei cittadini. Sul punto E.N. Cahan, Madison and the Pursuit of Happiness, in New York University Law Review, 27 (1952), pp. 265 e ss., parla di ricerca della felicità come «carattere saliente del costituzionalismo americano»; ma v. anche, più recente, A. Trampus, Il diritto alla felicità. Storia di un’idea, Roma 2008; U. Vincenti, Diritti e dignità umana, Roma 2009; C.N. Conklin, The origins of the Pursuit of Happiness, in Washington University Jurisprudence Review, 7 (2015), pp. 195 e ss.

[6] Merita richiamare la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo del 1948, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) del 1950, la Carta dei diritti fondamentali del 2000, il Trattato di Lisbona del 2009 e le numerosi altre convenzioni stipulate, sia a livello internazionale che europeo, proprio con il fine di promuovere l’affermazione dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone (ne sono un esempio la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna del 1979, la Convenzione contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 1984, la Convenzione sui diritti dell’infanzia del 1989, o ancora la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori emigranti e dei membri delle loro famiglie del 1990 e la Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze razziali del 1995, ecc.).

[7] A. Polacek, Diritti dell’uomo nell’epoca costantiniana: cenno storico, sociologico e metodologico, in AARC, VIII, Convegno Internazionale, Spello-Perugia 29 sett. - 2 ott. 1987, Perugia 1990, pp. 95 e ss. Importanti suggestioni si trovano già nei contributi dello studioso Ius est ars aequi et boni (Randbemerkungen zum Mythos von der Funktion des Rechts), in Studi in onore di Arnaldo Biscardi, vol. II, Milano 1982, pp. 25 e ss. e Human Rights. The secret Legacy of Antiquity, in J. Roset Esteve (a cura di), Estudios en homenaje al profesor Juan Iglesias, vol. II, Madrid 1988, pp. 1009 e ss.

[8] A. Polacek, Diritti …, cit., p. 99.

[9] Fra i tanti esempi che si potrebbero fare un caso emblematico è sicuramente quello di Ortensia, che con un abile discorso pronunciato nel 42 a.C. davanti ai triumviri Marco Antonio, Ottaviano e Marco Emilio Lepido, riuscì a far valere le ragioni delle donne contro una pesante tassazione che avrebbero dovuto subire per finanziare la guerra civile allora in atto. In tal senso F. Cenerini, La donna romana: modelli e realtà, Bologna 2009, p. 61 afferma che «le parole di Ortensia sembrano la più lucida descrizione della carta dei diritti e dei doveri delle donne romane, se mi si passa l’espressione, secondo l’ideologia tradizionale, che mi pare essere anche l’unica tramandata dalle fonti …». Ed è interessante a questo punto anche solo accennare come la necessità di proclamare diritti delle donne, meritevoli di specifica tutela, sia divenuta, in epoche più moderne, un obiettivo prioritario di numerose carte dei diritti: dalla Convenzione sui diritti politici delle donne (1952); alla Dichiarazione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne (1967); alla CEDAW (1979); alla Dichiarazione contro la violenza sulle donne (1993); alla Carta europea per l’uguaglianza e la parità delle donne e degli uomini nella vita locale (2006); alla Carta europea per le donne (2010).

Sulla condizione giuridica della donna si veda, fra i tanti, E. Cantarella, L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, Roma 1981; L. Peppe, Posizione giuridica e ruolo sociale della donna romana in età repubblicana, Milano 1984; e ancora E. Cantarella, La vita delle donne, in A. Momigliano, A. Schiavone (a cura di), Storia di Roma, 4, Caratteri e morfologie, Torino 1989, pp. 95 e ss.; Id., Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia, Milano 1996; nonché, più recenti, M.P. Baccari, Alcune osservazioni sulla condizione della donna nel sistema giuridico romano, in Fides, humanitas, ius. Studii in onore di L. Labruna, vol. I, Napoli 2007, pp. 253 e ss.; G. Rizzelli, Représentations féminines, lieux communs et droit dans la Rome antique, in D. Curtotti, C. Novi, G. Rizzelli (a cura di), Donne, civiltà e sistemi giuridici. Raccolta di testi dal Master internazionale congiunto Femmes, civilisation et systmes juridiques, Milano 2007, pp. 59 e ss.; F. Mercogliano, La condizione giuridica della donna romana: ancora una riflessione, in Teoria e storia del Diritto Privato, Rivista telematica (www.teoriaestoriadeldirittoprivato.com), 4 (2011); P. Giunti, Il ruolo sociale della donna romana di età imperiale: tra discriminazione e riconoscimento, in Index,60 (2012), pp. 342 e ss.

[10] A. Polacek, Diritti …, cit., p. 101.

[11] J. Gaudement, Des droits de l’Homme ont-ils été reconnus dans l’Empire Romain?, in Labeo, 33 (1987), p. 22. Ma si vedano anche, con riguardo più generalmente alla categoria dei diritti dell’uomo nel mondo antico, i contributi dello stesso autore in Des droits de l’Homme dans l’Antiquité, in R. Feenstra et alii (a cura di), Etudes dédiés à Hans Ankum, vol. I, Amsterdam 1995, pp. 105 e ss.; Le Monde antique e les droits de l’homme. Quelques observations, in H. Jones (a cura di), Le monde antique et les droits de l’Homme: actes de la 50e session de la société internationale Fernande de Visscher pour l’histoire des droits de l’antiquite, Bruxelles 16-19 septembre 1996, Bruxelles 1998, pp. 175 e ss.

In questo dibattito va senza dubbio menzionata l’opinione di Michel Villey, il quale nega il riconoscimento dei diritti dell’uomo in Roma antica sulla convinzione che tali diritti sono prodotti dell’età moderna, più precisamente della filosofia del XVII secolo, e pertanto non possono trovare alcun corrispondente nel mondo romano: M. Villey, Note critique sur le droits de l’homme, in N. Horn (a cura di), Europäischen Rechtsdenken in Geschichte und Gegenwart (Festschrift H. Coing), vol. I, München 1982, pp. 691 e ss.; Id., Le droit e les droits de l’homme, Parigi 1983. Lo studioso prendendo in considerazione i frammenti giurisprudenziali di D. 1.1.1 (Ulp. 1 inst.), D. 1.1.10 (Ulp. 2 reg.), D. 1.1.11 (Paul. 14 ad Sab.), D. 1.2.2 (Pom. l. sing. Ench.), D. 50.17.1 (Paul. 16 ad Plaut.), D. 50.17.202 (Iav. 11 epist.), giunge ad argomentare che in Roma non si troverebbe nulla di somigliante ai moderni diritti dell’uomo, ovvero «à l’idée subjectiviste du droit liberté d’un sujet, ou commandement d’un pouvoir», ivi, p. 68.

Sulla questione dell’esistenza o meno dei diritti dell’uomo nell’ambito dell’esperienza romana v. anche G. Pugliese, Notazioni storiche sui diritti umani, in S. Caprioli, F. Treggiari (a cura di), Diritti umani e civiltà giuridica, Perugia 1992, pp. 19 e ss.; F.P. Casavola, I Diritti Umani,Padova 1997; V. Giuffrè, Repressione criminale e garanzie del cittadino fra Repubblica e Principato, in J. Paricio (a cura di), Poder pòlitico en la Roma clásica, Madrid 1999, pp. 40 e ss.; L. Labruna, Diritti dell’uomo, tradizione romanistica e humanitas del diritto, in M.J. Schrmaier, J.M. Rainer, L.C. Winkel (a cura di), Iurisprudentia universalis. Festschrift für T. Mayer-Maly zum 70. Geburtstag, Köln 2002, pp. 379 e ss.; L. Waelkens, De Romeinse Oorsprong van de Fundamentele Rechten en Vrijheden, in TR, 71 (2003), pp. 187 e ss.; F.P. Casavola, Fondamento giuridico dei diritti dell’uomo, in Id., Sententia legum tra mondo antico e moderno, vol. II, Napoli 2004, pp. 77 e ss.; Id., Eredità rivoluzionaria e fede cristiana: l’impegno per i diritti dell’uomo, in Id., Sententia legum tra mondo antico e moderno, vol. III, pp. 143 e ss.; Id., Garanzie costituzionali e diritti fondamentali: la lezione del passato, ivi, pp. 345 e ss.; E. Stolfi, Riflessioni attorno al problema dei diritti soggettivi fra esperienza antica ed elaborazione moderna, in Studi senesi,55 (2006), pp. 120 e ss.; M. Bettini, Diritti umani e mondo classico, in M. Flores, T. Groppi, R. Pisillo Mazzeschi (a cura di), Diritti umani. Cultura dei diritti e dignità della persona nell’epoca della globalizzazione, Torino 2007, pp. 402 e ss.; F. Mercogliano, Trovare ovunque un minimo di legalità e di cultura… Diritti umani e fondamenti romanistici nell’Unione Europea, in H. Altmeppen, I. Reichard, M. J. Schermaier (a cura di), Festschrift für Rolf Knütel zum 70. Geburtstag, Heidelberg 2009, pp. 775 e ss.; P. Giunti, I diritti umani e il diritto romano: quali categorie per quali prospettive, in S. Corrêa Fattori, R. Corrêa Lofrano, J.L. Nassif Magalhães Serretti (a cura di), Estudos em homenagem a Luiz Fabiano Correa, San Paolo 2014, pp. 299 e ss.

[12] È interessante riportare in particolare quel passaggio del De Officiis in cui Cicerone utilizza espressamente il termine dignitas per indicare una qualità intrinseca di qualunque uomo: Atque enim, si considerare volemus, quae sit in natura hominis excellentia et dignitas, intellegemus, quam sit turpe diffluere luxuria et delicate ac molliter vivere...

Su tale dottrina ciceroniana si vedano in particolare A. Michel, Philosophie grecque et liberté individuelle dans le De officiis de Cicéron, in La filosofia greca e il diritto romano. Colloquio italo-francese (Roma 14-17 aprile 1973), vol. I, Roma 1976, pp. 92 e ss. e, più recenti, U. Vincenti, Diritti…,cit., pp. 12 e ss.; M. Pani, Il costituzionalismo di Roma antica, Roma-Bari 2010; P. Ridola, La dignità dell’uomo e il principio libertà nella cultura costituzionale europea, in R. Nania (a cura di), L’evoluzione costituzionale delle libertà e dei diritti. Saggi e casi di studio, Torino 2012, pp. 66 e ss.

[13] «On reconnaît sa dignité, ce qui implique le respect de sa personne, de sa liberté, de ce qui est nécessaire à sa vie matérielle, et aussi (bien qu’avec encore de graves réserves) de sa conscience», J. Gaudement, Des droits …,cit., 1987, p. 23.

[14] Il 15 novembre 1956 Giuliano Crifò si laurea summa cum laude con il prof. Emilio Betti, avendo come ulteriori relatori i professori Vincenzo Arangio-Ruiz e Pietro de Francisci. Sul lungo ed importante cammino scientifico di Crifò v. in particolare D. Nörr, Giuliano Crifò, in Gnomon, 83 (2011), pp. 765 e ss.; M. Navarra, Giuliano Crifò e il compito del romanista, in LR, 1 (2012), pp. 293 e ss.; S. Giglio (a cura di), Giuliano Crifò: un ricordo, in SDHI, 78 (2012), pp. 773 e ss.; C. Lorenzi, M. Navarra (a cura di), XII Quaderni di lavoro…, cit., passim; A.A. Cervati, Giuliano Crifò, il diritto romano e la cultura giuridica del nostro tempo, in RISG, 5 (2014), pp. 150 e ss. e, recentissimo, L. Di Paola Lo Castro (a cura di), Omaggio a Giuliano Crifò. A proposito del carteggio Betti-La Pira. Atti dell’Incontro di Studio (Messina, 13 novembre 2015), Firenze 2016.

[15] Cfr. L. Peppe, Giuliano Crifò…, cit., pp. 21 e ss.

[16] Come Crifò sosteneva nella tesi di laurea e come confermava in v. Asilo (diritto di). Premessa storica, diritti antichi, in Enc. dir., vol. III, 1958, p. 194 (ora in Libertà e uguaglianza…, cit., p. 78), dove spiegava come istituzioni quali il tribunato della plebe in particolare, soddisfacessero appieno l’esigenza fondamentale «di ovviare all’insicurezza e all’incertezza del diritto»; v. pure Id., Per una prospettiva romanistica dei diritti dell’uomo, in Diritto romano attuale, 12 (2004), p. 155; Id., Lezioni di storia del diritto romano, Bologna 2005, pp. 60 e ss.

[17] Sicuramente G. Crifò, Per una prospettiva…, cit., p. 155; ma importanti suggestioni in argomento si trovano anche in M. Pani, Il costituzionalismo …, cit., pp. 70 e ss.

[18] Ampia discussione in G. Crifò, Alcune osservazioni in tema di provocatio ad populum, in SDHI, 29 (1963), pp. 288 e ss. (ora in Libertà e uguaglianza…, cit., pp. 125 e ss.) e, dello stesso autore, Il processo criminale presillano, in Labeo,10 (1964), pp. 90 e ss.

[19] G. Pugliese, Le garanzie dell’imputato nella storia del processo penale, in Scritti giuridici scelti, vol. II, Napoli 1985, pp. 605 e ss. e, dello stesso autore, Appunti per una storia della protezione dei diritti umani, in F. Carpi, C. Giovannucci Orlandi (a cura di), Judicial protection of Human rights at the National and International Level. International Congress on procedural law for the ninth century of the University of Bologna (September, 22-24 1988), Milano 1991, pp. 66 e ss. Interessanti considerazioni sul punto si possono leggere in L. Garofalo, In tema di provocatio ad populum (a proposito di un recente saggio), in SDHI, 53 (1987), pp. 355 e ss. e, più recente, P. Cerami, Diritto al processo e diritto ad un giusto processo: radici romane di una problematica attuale, in L. Vacca (a cura di) Diritto romano, tradizione romanistica e formazione del diritto europeo. Giornate di studio in ricordo di Giovanni Pugliese, Padova 2008, pp. 33 e ss. (con ulteriore bibliografia).

[20] Cfr. G. Crifò, Su alcuni aspetti della libertà in Roma, in AG, 154 (1958), pp. 3 e ss. e, dello stesso autore, Diritti della personalità e diritto romano cristiano, in BIRD, 64 (1961), pp. 33 e ss. (ora in Libertà e uguaglianza …, cit., pp. 269 e ss.); Remarques sur les problèmes de l’égalité et de la liberté à Rome, in Ktema, 6 (1981), pp. 193 e ss.; Rapports entre l’égalité et la liberté dans le monde ancien et particulièrement dans la Rome républicaine, in L’égalité, 8 (1982), pp. 414 e ss.; Cristianesimo, diritto romano e diritti della personalità: una rilettura, in F. Biffi (a cura di), I diritti fondamentali della persona e la libertà religiosa. Atti del V Colloquio giuridico (8-10 marzo 1984), Roma 1985, pp. 331 e ss.; Normazione e libertà. Il rapporto tra legislazione altorepubblicana ed identità civica, in W. Eder, C. Ampolo (a cura di), Staat und Staatlichkeit in Der Frühen Römischen Republik, Stuttgart 1990, pp. 344 e ss.

[21] Cfr. G. Crifò, v. Cittadinanza (diritto romano), in Enc. dir., vol. VII, 1960, p. 128 dove scrive come la cittadinanza, fin dall’origine della storia di Roma, appaia sostanzialmente come «il rapporto mediante il quale l’individuo, riconosciuto soggetto di diritto, è legato alla comunità politico-sociale che esprime l’ordine giuridico nel quale appunto l’individuo è considerato soggetto». Sul tema della cittadinanza, connesso ai valori di libertà ed uguaglianza, Crifò torna in altri lavori successivi, quali Lezioni …, cit., pp. 109 e ss.; Dignità del cittadino ovvero «le stesse cose ritornano», in Diritto Romano Attuale, 3 (2000), pp. 7 e ss.; Sul nesso libertà-cittadinanza, in J. Sondel, J. Reszcynsky, P. Scislicki (a cura di), Roman Law as Formative of Modern Legal System, vol. I, Krokow 2003, pp. 71 e ss. Su tutto si veda anche A. Muroni, Sull’origine della libertas in Roma antica: storiografia annalistica ed elaborazioni giurisprudenziali, in Diritto@Storia, Rivista telematica (www.dirittoestoria.it), 2013, n. 11, cui si rinvia tra l’altro per la vasta bibliografia che offre in argomento.

[22] Il tema della cittadinanza romana ha da sempre trovato un ampio sviluppo in dottrina. Basti solo citare, per dar conto della portata scientifica dell’argomento, i contributi di T. Spagnuolo Vigorita, Cittadini e sudditi tra II e III secolo, in A. Schiavone (a cura di), Storia di Roma, 3.1, L’età tardoantica, Torino 1993, pp. 5 e ss.; Id., Città e Impero. Un seminario sul pluralismo cittadino nell’Impero romano, Napoli 1996; G. Luraschi, La questione della cittadinanza nell’ultimo secolo della Repubblica, in SDHI, 61 (1995), pp. 17 e ss.; M.P. Baccari, Cittadini popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI, Torino 1996; L. Capogrossi Colognesi, Cittadini e territorio. Consolidamento e trasformazione della civitas Romana, Roma 2000; G. Mancini, Cittadinanza e Status negli antichi e nei moderni, Pescara 2000; G. Giliberti, Cosmopolis. Politica e diritto nella tradizione cinico-stoica, Pesaro 2002; L. Gagliardi, Mobilità ed integrazione delle persone nei centri cittadini romani. Aspetti giuridici, 1, La classificazione degli incolae, Milano 2006; V. Marotta, Cittadinanza imperiale romana e britannica: le riflessioni di James Bryce, in Quaderni fiorentini, 35 (2006), pp. 403 e ss.; Id., La cittadinanza romana in età imperiale (secoli I-III d.C.). Una sintesi, Torino 2009; M. Humbert, Le status civitatis. Identité et identification du civis Romanus, in A. Corbino, M. Humbert, G. Negri (a cura di), Homo, caput, persona. La costruzione giuridica dell’identità nell’esperienza romana, Pavia 2010, pp. 139 e ss.; F. Lamberti, Percorsi della cittadinanza romana dalle origini alla tarda repubblica, in B. Periñán Gomez (a cura di), Derecho, Persona y Ciudadania. Una experiencia jurídica comparada, Madrid - Barcelona - Buenos Aires 2010, pp. 17 e ss.; Id., Civitas Romana e diritto latino fra tarda repubblica e primo principato, in Index, 39 (2011), pp. 234 e ss.; S. Barbati, Gli studi sulla cittadinanza romana prima e dopo le ricerche di Giorgio Luraschi, in Rivista di diritto romano, Rivista telematica(www.ledonline.it), 2012, n. 12.

[23] Un’analisi delle forme – si potrebbe dire – ‘costituzionali’ dell’espansione romana, connessa alla questione del riconoscimento di taluni diritti tipici del civis romanus, può farsi, oltre che sulla base dei riferimenti bibliografici di cui alla nt. precedente, anche attraverso i contributi di F. De Visscher, Ius Quiritum, civitas Romana et nationalité moderne, in Studi in onore di U.E. Paoli, Firenze 1955, pp. 239 e ss.; G. Luraschi, Sulle leges de civitate (Iulia, Calpurnia, Plautia Papiria), in SDHI, 44 (1978), pp. 321 e ss.; Id., Foedus ius Latii civitas. Aspetti costituzionali della romanizzazione in Transpadana, Pavia 1979; H. Galsterer, La trasformazione delle antiche colonie latine e il nuovo ius Latii, in A. Calbi, G. Susini (a cura di), Pro popolo Ariminese, Faenza 1995, pp. 79 e ss.; G. Mancini, Cives Romani municipes Latini, Milano 1997; D. Kremer, Ius Latinum. Le concept de droit latin sous la République et l’Empire, Paris 2006; E. Bianchi, Gai. 3.56. Alcune riflessioni in tema di ius Latii e delle fictiones legis Iuniae Norbanae, in RGDR, 18 (2012), pp. 1 e ss.

[24] Sulla questione sicuramente G. Crifò, Per una prospettiva…, cit., p. 155, con interessanti spunti già in v. Cittadinanza…, cit., pp. 130 e ss. La tematica dei matrimoni misti romani-latini è molto complessa ed ampia, in virtù delle importanti conseguenze che ne derivano sia nei rapporti ‘interni’ della famiglia, sia per quanto riguarda la posizione giuridica, connessa dunque al riconoscimento di taluni diritti, in capo alle parti medesime.

[25] Cfr. la letteratura in G. Crifò, Per una prospettiva…,cit., pp. 155, in specie 174, nt. 68.

[26] Così G. Crifò, Civis. La cittadinanza tra antico e moderno1, Roma 2000, pp. 82 e ss.

[27] Per l’elenco degli aspetti considerati da Crifò rilevanti quanto alla presenza d

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