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Dal funzionalismo strutturale al "nichilismo giuridico"

22.02.2019

Valentina Chiesi

Cultrice della materia, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

 

Dal funzionalismo strutturale al “nichilismo giuridico”*

 

Niklas Luhmann’s functionalism and the "juridical nihilism

 

SOMMARIO: 1. Uno sguardo alla contemporaneità attr*averso il movimento delle categorie moderne. – 2. Diritto come terzietà: dal terzo-Altro al terzo condizionale. – 3. Introduzione al funzionalismo strutturale di Niklas Luhmann. – 4. La funzione immunitaria del diritto e la critica di Bruno Romano. – 5. Dogmatica giuridica e principio di funzione. Da Luhmann a Romano, e ritorno. – 6. Il “nichilismo giuridico” come proceduralismo: la prospettiva di Natalino Irti.

 

1. Uno sguardo alla contemporaneità attraverso il movimento delle categorie moderne.

 

Approcciare la contemporaneità giuridica, come la contemporaneità in generale, non è operazione “immediata”, ma quanto meno ardua, soprattutto per la penna ancora inesperta di chi scrive.

Mi sono imposta un atteggiamento di apertura argomentativa, scevra di ogni intento di rigida definizione, ritenendola necessaria per tentare di cogliere anche solo alcuni degli aspetti determinanti l’oggi sociale e giuridico.

Non a caso, si stratificano molteplici espressioni, sospese nel tentativo di definire una condizione dell’essere-uomo, quella attuale, profondamente trasformativa ma non più “transitoria”.

Parlare di trasformatività e transitorietà mi consente di recuperare la rilettura che Emanuele Severino propone di alcune delle metafore nietzschiane a cui dà voce Zarathustra.

Severino, filosofo che tornerò ad interrogare più avanti, scrive: “Dalla cima di un monte si sono staccati molti macigni. Rotolando verso il basso si urtano. Alcuni sono già spezzati. Il loro contrasto è ben visibile. Ma non si possono chiudere gli occhi di fronte al loro vero e comune nemico: la forza di gravità, che li fa precipitare. I macigni si chiamano tradizione occidentale (e quel che resta di quella orientale), cioè cristianesimo, islam, capitalismo, comunismo, democrazia, nazionalismo eccetera. Lo spirito di gravità che li spinge al tramonto è la concezione che il nostro tempo possiede della realtà. Essa non crede che il mondo abbia un senso, tanto meno un senso inviolabile e divino. (…) Lo spirito di gravità è il processo in cui l’essenza del pensiero filosofico del nostro tempo si unisce alla Tecnica, liberandola da ogni limite e ostacolo assoluto. Certo, tra i macigni, alcuni – capitalismo e democrazia moderna – sono più congegnali allo spirito di gravità; altri – cristianesimo, islam, comunismo – meno[1].

Come egli stesso premette ne l’Avvertenza all’opera citata, lo spirito di gravità è l’essenza del nostro mondo, intesa come forza che attrae verso la terra i macigni in cui si sgretola irrimediabilmente la montagna della modernità.

Trasformatività, allora, in quanto non esiste più quella montagna, né potrà più esistere, nonostante gli sforzi vani dei macigni per mantenersi immobili ed uguali a se stessi.

Non più transitorietà in quanto, se non già a terra, i macigni fluttuano in quell’istante che di poco precede l’impatto che, una volta avvenuto, stabilizzerà la conformazione nuova di una realtà, diversamente, ma ancora e nonostante tutto, stabile.

Così anche Heidegger, quando, ne La fine della filosofia e il compito del pensiero (ne Tempo ed Essere, 1969) scrive: “Resta egualmente incerto se la civilizzazione mondiale sarà presto repentinamente distrutta o se essa si consoliderà in un lungo durare, che non trova riposo in qualcosa di durevole, un durare che si organizza piuttosto nel cambiamento continuo dove il più nuovo succedere sempre al nuovo”.

La malleabilità interpretativa che traspare da queste prime riflessioni, impone di volgere lo sguardo alle trasformazioni che investono le categorie con cui l’uomo moderno ha interpretato la realtà del mondo, dentro e fuori di sé.

Il “nostro tempo”, in gergo squisitamente serveriniano, è post-moderno, iper-moderno, ultra-moderno, meta-moderno, o, più semplicemente, una “seconda modernità”[2].

Parallelamente, si affacciano alla letteratura giuridica, di taglio filosofico e sociologico, espressioni quali nichilismo giuridico, tecnocrazia, governance.

Non essendo questo il luogo per approfondire ciascuna delle numerose letture con cui è narrata la contemporaneità, cercherò di svolgere una breve riflessione introduttiva.

Il discorso che seguirà trova le sue coordinate in una serie di contributi dal carattere multi-disciplinare, con particolare attenzione alla filosofia del diritto di Bruno Romano, all’epistemologia sociologica di Nicklas Luhmann e alle riflessioni filosofico-giuridiche di Natalino Irti.

Assume primaria rilevanza la filosofia della soggettività, silente retroscena delle linee di ragionamento che tenterò di tracciare. Faccio riferimento a quell’approccio interpretativo che intende il diritto come elemento strutturante l’ontologia dell’essere umano e, dunque, idoneo a cogliere il senso esistenziale nella sua primordiale universalità e nella sua, sempre attuale, universalizzabilità nel medio del giuridico. In altre parole, esso  diviene canale di accesso al significato esistenziale dell’essere-uomo.

Nella letteratura recente, con ridondanza e in modo trans-disciplinare, si afferma l’idea di un soggetto sradicato, assunto come nuovo paradigma di un individualismo sempre più “radicato” in quel macro-contesto, a sua volta oggetto di altrettanta attenzione speculativa, che è la globalizzazione.

Tale condizione è descritta da Romano, utilizzando una simbologia tanto esasperata quanto incisiva, nella teorizzazione del sistema di universale dipendenza, condizione generata dalla catena unitaria dei bisogni prodotti e lettura antropologica del sistema di produzione totale capitalistico[3].

Romano, rifacendosi alla tradizione della soggettività di cui si diceva poc’anzi, descrive il bisogno prodotto dal sistema come strumento funzionale al mantenimento del circolo vizioso consumistico. Sembra, in altre parole, che il sistema produca, per un verso, il bisogno che intenda soddisfare (così da plasmare l’istinto utilitaristico del suo destinatario, l’io bisognoso) e, per l’altro verso, la soddisfazione medesima di quello stesso bisogno. Si viene a creare, in questo modo, una vera e propria finzione, in quanto un bisogno che “sorga” già saziato altro non è che un veicolo di pulsione unica e continua, potenzialmente infinita e capace di mantenere il soggetto desiderante nel limbo dell’insoddisfazione.

Il bisogno, inteso à la Romano, è privo di un autentico autore (che sia individuale, nel caso del bisogno subitaneo, oppure collettivo, nell’ipotesi di bisogno sociale), in quanto espressione di una mera combinazione casuale, prodotta della catena unitaria.

L’ente-uomo-consumatore è costretto nella contingenza della (in-) soddisfazione presente, “perché quanto viene nel poi è già là[4], non potendo volgersi al tempo dell’attesa e della progettualità come espressione della dimensione desiderante ed ecstatica[5] dell’ente-uomo-soggetto.

In continuità a quanto scritto, con specifico riferimento alla tematica dell’informazione, altrettanto centrale per un’adeguata lettura della contemporaneità sociale, il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, in un saggio di recente pubblicazione, scrive: “L’informazione è semplicemente lì presente. Il sapere in senso enfatico è invece un lungo processo. La sua temporalità ha una natura del tutto diversa. Il sapere matura. Il maturare è una temporalità che oggi va sempre più scomparendo. Esso non si accorda all’attuale politica del tempo, che lo frammenta per incrementare l’efficienza e la produttività rimuovendo le strutture temporalmente stabili[6].

Non a caso, quello della temporalità e, nello specifico, della crisi che sembra oggi attraversare, è un elemento centrale tanto della riflessione filosofica “tradizionale” quanto dell’attività speculativa contemporanea.

La dialettica temporale ecstatica, storicamente garantita, come ci insegna Nietzsche, dal divino che agisce come “stabilizzatore del tempo[7] ma assicurata, anche dopo la “morte di Dio”, dall’eterno ritorno, permette di fuggire l’atomismo temporale per vivere immersi nell’esperienza della durata.

L’eterno ritorno dell’uguale, infatti, consente di superare la visione lineare del tempo lasciando il posto ad una temporalità che rivitalizza l’attimo rendendolo non un mero evento puntuale ma un’esperienza assoluta in sè. L’annuncio che rende arcangelo il demone niezschiano  non rompe la linea del tempo per abbandonare la vita ad un affannoso saltare di momento in momento, ma è vivificazione di un’esistenza condotta nell’eterna domanda “Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?”[8].

Tale esperienza è preclusa all’uomo contemporaneo, uniforme e fungibile, come la era al si heideggeriano. Lo stesso Heidegger, nell’opera Essere e Tempo, aveva colto quel mero essere “lì presente”, affermando che: “Nell’uso dei mezzi di trasporto o di comunicazione pubblici, dei servizi di informazione (i giornali), ognuno è altro fra gli altri. (…) Ce la passiamo e ci divertiamo come ci si diverte; leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si vede e si giudica; ma altresì ci distinguiamo dalla “massa”, come ci si distingue; ci “indigniamo” di ciò di cui ci si indigna. Il si, che di preciso non è nessuno e che, benché non come somma, tutti sono, prescrive il modo d’essere della quotidianità[9].

Si affacciano, sullo scenario filosofico, sociologico e politico attuale, vere e proprie correnti di pensiero che del tempo fanno la propria bussola speculativa. Seppur non sia questo il luogo per approfondirle, segnalo, in particolare, il c.d. accelerazionismo, quanto meno per gli interessanti profili di equivoca interpretazione che lo hanno investito, riassunti dal giornalista Valerio Mattioli nella Postfazione a Manifesto accelerazionista[10], firmato nel 2013 da Alex Williams e Nick Srnicek, professori presso la City University of London.

Mettendo da parte questa breve ma decisiva parentesi, recupero quanto lasciato in sospeso. Infatti, poco fa alludevo, parlando della “dimensione desiderante ed ecstatica dell’ente-uomo-soggetto”, all’ulteriore concetto di desiderio.

Mi appare utile soffermarmici, in quanto quella di “bisogno-desiderio” è una combinazione che richiede un approfondimento, soprattutto alla luce della sinonimia di senso, potremmo dire, “comune” che lega i due lemmi.

In un saggio del 2014[11], Gabriele Miniagio svolge un interessante riflessione sul rapporto intercorrente tra il quid del desiderio ed il quid del bisogno, che recupera implicitamente la finzione già comparsa poche righe sopra. Sovrapporre tali due quid, infatti, crea una illusione a due direzioni: da una parte, l’oggetto materiale ed “utile” (o quanto meno creduto tale) del bisogno viene funzionalizzato a colmare il quid del desiderio, mentre, dall’altra, il quid del desiderio, incolmabile in quanto infinito e, più correttamente, ricorsivo, viene sfruttato per radicare il senso di bisogno.

La tensione all’oggetto diviene movimento perenne ed unidirezionale, in un sistema che, paradossalmente, “funziona proprio in quanto non funzionante”, nel senso che non soddisfa il bisogno che finge di mirare a soddisfare.

La tematica del consumo e il binomio individuo-consumatore tornerà più avanti, in fase conclusiva, quando andrò ad approfondire la lettura irtiana del nichilismo giuridico.

Mi soffermo, unicamente, nel rilevare che il proliferare di “scelte possibili” nella contemporaneità conduce ad un progressivo stato di insoddisfazione prodotta e perenne, tale da determinare l’indifferenza del soggetto rispetto alla realtà che lo circonda. Accanto a questa condizione, la perdita dei tradizionali sostegni esistenziali, dall’appartenenza sociale ai legami famigliari, facilita il processo di indeterminazione del soggetto medesimo[12].

Ho volutamente utilizzato l’espressione “proliferare di scelte possibili” per discostare tale concetto da quello, ormai meno attuale, di “ossessione per le cose”. Quest’ultimo, infatti, descrive il materialismo come effetto di massa immediato del processo di industrializzazione ma non permette di coglierne lo sviluppo contemporaneo, ovverosia una cultura del consumo che, mediante una catena di astrazioni, ha immerso l’individuo in un mondo “immaginario”, generando un consumismo non più merceologico ma esistenziale.

Mi spiego meglio.

Se l’oggetto contemporaneo nasce pre-destinato alla distruzione, cosicché possa essere nuovamente e continuamente ri-creato e ri-distrutto, progressivamente anche il soggetto che ad esso si rapporta, l’uomo contemporaneo, è piegato a questo movimento circolare.

Umberto Galimberti, in un breve intervento comparso sul quotidiano La Repubblica nel 2005, descrive il nodo che tento di districare con poche, ed invidiabili, sufficienti parole: “(…) in una società che visualizza se stessa solo in termini di sviluppo e di crescita, il consumo non deve essere più considerato, come avveniva per le generazioni precedenti, esclusivamente come soddisfazione di un bisogno, ma anche, e oggi soprattutto, come mezzo di produzione. Là infatti dove la produzione non tollera interruzioni, le merci «hanno bisogno» di essere consumate, e se il bisogno non è spontaneo, se di queste merci non si sente il bisogno, occorrerà che questo bisogno sia «prodotto»”[13].

A fronte di questo scenario, il teorico dell’ipermodernità, Gilles Lipovetsky, pone un interrogativo cruciale: l’homo consumericus si impegna ancora a rispondere all’eterna domanda del “chi sono?” oppure è ridotto a standard umano ed allontanato da qualsiasi fenomeno umano durevole, quale è lo stesso diritto?[14].

Nella prospettiva romaniana, la condizione appena descritta determina una profonda metamorfosi del significato di soggetto, umano prima, giuridico poi, anzi, per meglio cogliere la naturalità della dimensione giuridica nella filosofia di Romano, umano e giuridico insieme. L’ente-uomo, dall’essere persona, diviene individuo microcosmico[15], eclissando la coesistenzialità intesa come essenza della soggettività.

Nella sua filosofia, la tematica relazionale è contestualmente protagonista e cornice del ragionamento, in un modo così pervasivo, da condurre a definirlo “paradigma del principio buberiano”, secondo cui “all’inizio vi è la relazione[16].

La normatività, allora, si apre in un contesto di lotta conflittuale, assimilabile al combattimento amoroso jasperiano[17], nel quale non la supremazia né la vittoria sull’altro da sé rappresenta il fine, quanto piuttosto l’incontro di quell’altro se-stesso che si rivela essere incontro di .

Come teorizza Kant, recuperato da Bruno Montanari in tutta la sua riflessione filosofica[18], l’ente-uomo si struttura secondo il paradigma della parità ontologica intersoggettiva, senza che ciò determini la negazione della differenza, trattandosi, piuttosto, di un trascendimento di quest’ultima.

Assumere la parità ontologica a fondamento della natura dell’uomo significa sostituire alla dimensione originariamente conflittuale, una dimensione innanzitutto relazionale, che deve ispirare l’atto pratico così da assicurare un agire massimamente finalizzato al rispetto dell’altro.

Ciò non significa, tuttavia, escludere il conflitto, dimensione che, oggi, sembra essere sempre più marginale nell’esperienza umana. Il già citato Byung-Chul Han mette ampiamente in luce questo processo di sradicamento del conflitto dall’esistenza dell’essere umano, dovuto, in particolare, alla necessità di accelerare i tempi, adeguandoli all’attuale cultura della prestazione e dell’efficienza[19]. Ma ancora prima, lo stesso Hegel aveva affermato che lo spirito è “questa forza solo quando guarda in faccia il negativo e soggiorna presso di esso[20].

Quell’incontro di un altro se-stesso che si rivela essere incontro di altro non è che l’affermazione del carattere necessario che assume il riconoscimento dell’altro, in quanto determinante ai fini della stessa esistenza del sé: “La parità dell’altro, l’essere come me, non è qualcosa che devo riconoscere all’altro eticamente. Se fosse un dovere, per quanto etico, potrei violarlo: il mio io sarebbe “cattivo” ma non cesserebbe per questo di esistere. E invece, (…), in realtà, cesserebbe esso stesso di esistere, perché negando il tu – cioè l’io dell’altro – negherebbe al tempo stesso la possibilità del mio io di essere tu per l’io dell’altro[21].

In questo scenario di reciprocità, diventa centrale il desiderio di riconoscimento, ovverosia quella condizione in cui il soggetto che incontra l’Altro riconosce se stesso e vuole a sua volta un riconoscimento di ritorno: ecco che il desiderare il riconoscimento del Tu equivale a desiderare il suo stesso desiderio.

Desiderio di riconoscimento che aggiunge, a quello della reciprocità, l’ulteriore carattere indefettibile che il “movimento del riconoscimento” deve avere: la riflessività.

Questa intuizione è da ricondurre direttamente a Hegel che, nel discorrere sull’autocoscienza, muove dall’assunto secondo cui “L’autocoscienza è in sé e per sé solo quando e in quanto è in sé e per sé per un’altra autocoscienza, cioè solo in quanto è qualcosa di riconosciuto[22].

L’autocoscienza, che in un primo momento esce “fuori di sé[23], perde la percezione di sé e, al contempo, perde la percezione dell’altro, vedendo in esso se stessa; per rimuovere questa condizione di essere-altro, l’autocoscienza deve, allora, eliminare questo –altro, ma conseguentemente eliminare anche se stessa.

Nella terza fase, l’autocoscienza, che ha eliminato l’essere-altro di se stessa, torna ad essere e, così facendo, consente anche all’altra autocoscienza di tornare se stessa.

Questa dinamica trifasica non è attività di una sola delle due autocoscienze, ma deve essere attività di entrambe le autocoscienze coinvolte. Il movimento del riconoscimento, infatti, è “puramente e semplicemente il movimento duplice delle due autocoscienze[24], le quali si muovono rispetto a sé e rispetto all’altro, l’una facendo inseparabilmente il fare dell’altra.

In questo scenario, il riconoscimento emerge attraverso una prima fase di “ritrovamento di sé, privo di sé, nell’altro” ed una seconda fase di “irrigidimento su se stessi[25], verso la condizione in cui ogni estremo si riconosce come “reciprocamente riconoscentisi[26].

Nel solco tracciato dalla filosofia hegeliana, anche il discorso di Sergio Cotta muove proprio dalla centralità del riconoscimento e, in particolare, dalla reciprocità del medesimo.

La sua riflessione filosofico-giuridica, infatti, si sviluppa a partire da una fatale constatazione che investe l’io-soggetto: egli, dapprima, afferma sé stesso in quella dimensione ove il giusto per sé assume valore di vero per sé, ma comprende, in modo quasi concomitante, che altrettanto fanno gli altri-soggetti. Ne deriva il primo postulato del processo di disvelamento ontofenomenologico: “l’altro è pari all’io nella capacità di pretendere per sé secondo la propria verità[27].

A questo primo livello di riconoscimento, tuttavia, si configurano due sole possibilità alternative: il conflitto tra io e altro, ove le verità soggettive non siano conciliabili, oppure la più grave indifferenza tra soggetti aventi pretese del tutto non interferenti le une con le altre.

Proprio per evitare questa impasse, Cotta postula il momento della comunicazione intersoggettiva, rendendo il riconoscimento, oltre che hegelianamente reciproco e riflessivo, anche comunicativo, in quanto inverantesi nell’atto del dialogare, del domandare-rispondere autentico[28].

Utilizzando le parole di Romano, il senso esistenziale del diritto è la relazione autentica, nella quale alterità e identità trovano combinazione e co-dimora, senza rinuncia dell’una per l’altra. Si tratta della relazione intersoggettiva comunicativa che consiste in un chiamare-rispondere volto alla ricerca del senso e all’accoglimento della risposta autentica dell’altro io.

Posta la dinamica di produzione del bisogno contemporaneo come presupposto della riflessione che andrò ora a compiere, alla relazione autentica, rispettosa della struttura esistenziale dell’ente-uomo, si affianca una nuova forma di relazione prodotta, assimilabile ad un neutro incontro-scontro tra coscienze spettatrici (del sistema di universale dipendenza) nel quale l’io “chiama” il tu (altro io) per ottenerne una mera reazione.

L’equilibrio combinante alterità e identità si impone, allora, come necessario per mantenere viva l’intersoggettività, soprattutto alla luce del fatto che, utilizzando un’espressione di singolare efficacia di Francesco Remotti, “l’identità respinge, ma l’alterità riaffiora. L’alterità viene spesso concettualmente emarginata, ma essa riemerge in modo prepotente e invincibile[29].

Non più emarginazione solo concettuale, ma emarginazione per così dire reale, che porta con il sé il rischio sempre attuale di “diluirsi in un magma indistinto, nel quale le identità si smarriranno e soffocheranno, e le differenze si cancelleranno[30].

Ecco che il diritto riaffiora nella sua carica ontologica, in quanto spazio in cui si conserva la differenza esistenziale capace di mantenere la relazione come relazione intersoggettiva. La regola giuridica è coesistenziale in quanto permette di conciliare l’essere e l’agire di ciascuno, con l’essere e l’agire di ciascun’altro, conferendo alla relazione regolarità sincronica e diacronica. Come scriveva Kant, già alla fine del ‘700, “il diritto è dunque l’insieme delle condizioni, per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio di un altro secondo una legge universale della libertà[31]. Conseguentemente, prosegue il filosofo, “qualsiasi azione è conforme al diritto quando per mezzo di essa, o secondo la sua massima, la libertà dell’arbitrio di ognuno può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una legge universale”.

Sincronia e diacronia, che consentono di cogliere l’elemento relazionale come co-esistenza in movimento nel tempo, sono concetti estranei al paradigma della contingenza che connota, nella prospettiva romaniana, la (a-)temporalità del sistema di universale dipendenza, nel quale ogni singolo momento si esaurisce come dato isolato.

Montanari, cogliendo il significato strutturale che la temporalità assume in relazione al diritto, utilizza proprio la “legge” per trasmettere tale intuizione: “Essa” scrive “è un atto dispositivo il cui fine è durare nel tempo, al di là dei soggetti fisici che la pongono in essere, o comunque indipendentemente da essi. La legge non esprime un equilibrio nell’istante, ma un dover essere nel tempo[32].

Così, anche dal punto di vista sociologico, la conformazione relazionale della contemporaneità sembra destare importante preoccupazione. Come insegna il padre della società liquida, di recente scomparsa[33], i legami che intercorrono tra io ed altro e la loro stabilità nel tempo sono il “nocciolo duro” dell’identità che, in un contesto di progressiva decomposizione dell’istanza di riconoscimento, è “messo in crisi” sino a determinare uno sradicamento anche comunitario. Se “la comunità è da intendersi come luogo vitale della dimensione relazionale della persona”, così al mutare di tale dimensione, muta il concetto stesso di comunità che, svanendo dietro a fenomeni comunitari illusori, perde i suoi riferimenti tradizionali e spazio-temporali, a favore di comunità virtuali, nelle quali si compiono relazioni altrettanto dematerializzate tra soli individui[34].

Non a caso, Marc Augè conia alla fine del secolo scorso il neologismo non-luogo, proprio ad indicare quello spazio che “non crea né identità singola né relaziona, ma solitudine e similitudine”. Quel magma indistinto, insomma, che tanto spaventa le sensibilità esistenzialistiche[35].

 

2. Diritto come terzietà: dal terzo-Altro al terzo condizionale.

 

Riassumendo.

Ho considerato la prospettiva esistenzialistica e il concetto di giuridicità a cui essa conduce. Si è anche detto che il diritto è lo spazio in cui si conserva la differenza esistenziale capace di mantenere la relazione come relazione intersoggettiva.

In continuità a quanto esposto, assumere la primordialità del diritto come una lotta duale significa connotare la giuridicità come terzietà.

Sottrarre il fenomeno giuridico alla mera dualità comporta l’essenzialità del terzo-Altro, in quanto il singolo accede alla dimensione della Legge nel momento in cui si realizza la relazione nel medio del terzo-Altro. Come scrive Romano, il diritto non si ha “né con la presenza di un solo uomo né con una semplice qualsiasi relazione tra due o più uomini”, ma unicamente in presenza di un riconoscersi reciproco nella differenza, ovverosia nella mediazione di un terzo indisponibile.

Viene in aiuto Alexandre Kojève, quando postula che non possa esservi diritto se non in presenza di una relazione giuridica e che non possa esservi relazione giuridica in assenza di un terzo. Del resto, l’autore francese esclude l’ipotesi del solo ed unico “agente” nel contesto giuridico, in quanto “la definizione della controversia esige l’intervento di un terzo: se c’è un terzo, bisogna che prima ci sia un primo e un secondo[36].

Nel teorizzare la terzietà, Romano non si limita a sole speculazioni concettuali, ma ne consegna al lettore un’interpretazione “incarnata” nel legislatore, nel giudice, nella polizia. Rilevando la complementarità e la necessaria co-esistenza di queste tre figure, egli collega ogni singolo soggetto-istituzione ad una distinta dimensione temporale. Se il legislatore, dunque, è il terzo calato nel tempo passato, il giudice si pone come figura del tempo futuro, in quanto preposto a evitare che la fattispecie astrattamente prevista dall’attività legislativa resti “lettera morta”, sino alla polizia, terzo-presente nel momento esecutivo.

Nel saggio Sulla visione procedurale del diritto, più che in altri, si intenda, il filosofo italiano si interroga sull’attuale conformazione della terzietà giuridica, giungendo ad affermare che il terzo-Altro contemporaneo, immerso in un contesto di carattere marcatamente economico e tecnologico, ha assunto le vesti del c.d. terzo condizionale, ovverosia il mercato, ritenuto (vuoi ingenuamente, vuoi, più spesso, astutamente) imparziale e, quindi, “idoneo a dire le relazioni giuste, identificandole con i rapporti efficaci e vincenti”. Se l’ente-uomo è soggetto in quanto partecipe ad una relazione autentica di reciproco riconoscimento, il mercato è luogo produttivo di rapporti di esclusione, che mantiene l’ente-uomo-consumatore in quella lotta duale, non più amorosa, ma escludente.

In questo scenario, il diritto è per così dire piegato come “flessibilità adeguativa” al procedere del mercato, asservendosi alla conservazione del potere tecno-economico dominante, perdendo la propria connotazione esistenziale e lasciando spazio ad un sapere giuridico sempre più “prassistico”.

Ne deriva la concettualizzazione del c.d. io procedurale, inteso quale “io frammentato, portatore di molteplici funzioni sottosistemiche”, anche definito io topologico, scisso in una serie di topoi distinti e irriducibili ad unità.

È in questo passaggio che Romano introduce la tematica del nichilismo, l’ospite inquietante nietzscheano che, come afferma Franco Volpi, “si aggira un po’ ovunque nella cultura del nostro tempo”.

Romano, di fronte all’”asservimento” subito dalle leggi alla conservazione del potere dominante del mercato e alla conseguente estensione del linguaggio numerico dei prezzi a tutti gli ambiti, o sottosistemi, diversi dall’economia, afferma: “la negazione del senso e l’affermazione della principalità delle funzioni si compongono nello strutturare il nucleo del nichilismo, che attualmente acquista la configurazione del nichilismo finanziario, legalizzato dal nichilismo giuridico[37]. Due fenomeni di complementare annichilimento, dunque, l’uno legalizzato dall’altro, nei quali la negazione del senso e il primato della funzione sono l’una causa-effetto dell’altra: intendendo per funzione il mero successo di un funzionamento, è possibile coglierne il vuoto di un qualsiasi sostrato “esistenziale”, essendo piuttosto determinato, unicamente, dalla combinazione della fattualità contingente.

Il nichilismo romaniano infonde le sue radici nel dato osservativo del predominio conoscitivo sulla coscienza del diritto, ovverosia su quel “desiderio di giustizia” che dovrebbe precedere ogni mero prender atto del funzionamento giuridico. Il modello conoscitivo, infatti, è tipico modello della ragione scientifico-economica, ma non di quella giuridica, la cui essenza non può prescindere dagli atti della coscienza e dalla struttura relazionale. Accantonare, nell’illusione di poterne fare a meno, la coscienza garantisce circostanze sicuramente “preferibili” nel nostro tempo, dalla prevedibilità alla rapidità, non altrettanto consentite da una ricerca del senso duratura nel tempo e mai anticipabile.  La certezza conferita dalla conoscenza rappresenta la realizzazione della legalità nel vuoto della giustizia, che non può “piegarsi” in modo adeguativo ad esigenze altre da sé, in quanto puro desiderio di una relazione giusta.

 

3. Introduzione al funzionalismo strutturale di Niklas Luhmann.

 

La consequenzialità teorizzata da Romano tra nichilismo finanziario e nichilismo giuridico postula quella che potremmo definire una “invasione” di campo, un’ingerenza del sistema economico nelle prerogative del sistema giuridico, a cui conseguono le contaminazioni che concetti di diritto, quali giustizia ed uguaglianza, subiscono dai programmi condizionali prodotti da altri sistemi sociali. Perché possa mantenersi la “purezza” giuridica, senza che l’uso di una tale terminologia confonda il concetto di “purezza” esistenzialmente intesa alla luce delle riflessioni svolte nelle pagine che precedono, con la dottrina pura kelseniana, il diritto, come ogni altro sottosistema sociale, deve svolgere la propria specifica funzione, ovverosia quella immunitaria, esaustivamente descritta da Romano con le seguenti parole: “il sistema diritto si apre “prima” agli altri sistemi per acquisire informazioni, materiali, sui quali “poi” interviene, secondo la sua specifica funzione, richiudendosi al suo interno, nella sua specifica operatività, che ha il suo compimento nel giudizio giuridico, garanzia del funzionamento del diritto come “sistema immunitario” degli altri sistemi sociali, il sistema che ne custodisce la vita nella loro funzionalità”[38].

Sottosistemi, programmi condizionali, funzione, sono concettualizzazioni nuove al discorso in atto, che mi impongono di fare un passo indietro, per poi saltare nuovamente in avanti, ad un punto del ragionamento ben oltre quello a cui mi trovo ora.

Parlare di ingerenza inter-sistemica significa denunciare una rottura dell’equilibrio interno al sistema-società. Principale teorizzatore dell’interpretazione sistemico-funzionalistica è Niklas Luhmann al quale, non a caso, il filosofo italiano volge singolare attenzione critica, tanto da intitolare una sua opera di fine secolo scorso “Filosofia del diritto dopo Luhmann. Il “tragico” del moderno” (1996).

L’approccio sistemico, più in generale, si sviluppa, a partire dalla seconda metà del ‘900, come studio unitario dei sistemi complessi organizzati, umani o meccanici che siano. Contestualmente alla ricerca cibernetica di Norbert Wiener, Ludwig von Bertalanffy, biologo di origini austriache, teorizza la teoria generale dei sistemi con l’obiettivo di incentivarne l’interdisciplinarità, considerando che “pensare in termini di sistema gioca un ruolo dominante in un ampio intervallo di settori che va dalle imprese industriali e degli armamenti sino ai temi più misteriosi della scienza pura[39].

Ne deriva una diffusione capillare, in particolare negli ambienti improntati alla ricerca sociologica e allo studio delle interazioni sociali.

Luhmann, in continuità alla sua formazione di impronta fortemente funzionalistica, formula, nel medesimo periodo post-bellico, la teoria del funzionalismo strutturale, con l’intento di narrare, in modo più coerente alla natura complessa della società, lo strutturarsi sociale in sottosistemi, strumenti di riduzione della complessità e di organizzazione dei vari ambiti operativi umani. In aperta polemica con lo strutturalismo funzionale di Talcott Parsons, Luhmann assume, quale chiave di lettura della realtà sistematicamente interpretata, quella dell’autopoiesi, ad indicare che “i sistemi producono essi stessi le loro strutture, ma anche gli elementi di cui essi sono composti[40]. Al movimento unilaterale che dalla struttura osservata ricava la funzione a cui essa è predisposta, si sostituisce il movimento circolare del sistema che, oltre ad auto-mantenersi, si auto-produce, in un movimento ricorsivo che rende il sistema una “rete di produzione di componenti che, ricorsivamente, attraverso le loro interazioni, generano e realizzano la rete che li produce[41].

Nella prospettiva luhmanniana, l’esistenza di un qualsivoglia sistema sociale è il risultato di un processo di progressiva differenziazione sia dell’interno verso l’esterno, sia dell’interno verso l’interno. Il processo di Ausdifferenzierung esterna definisce il sistema rispetto all’ambiente in cui si inserisce, senza, tuttavia, che tale operazione conferisca alcuna connotazione, per così dire, “negativa” all’ambiente medesimo. Infatti, Luhmann ritiene che il rapporto sistema-ambiente sia costitutivo, in quanto l’identità e la stessa possibilità di esistenza del primo dipende dalla differenza che si registra con il secondo. Parallelamente, le operazioni di Differenzierung interna individuano quei sottosistemi comunicativi in cui si struttura la società complessa.

Tale differenziazione, come descrive analiticamente nell’opera Teoria della società (1992), si concretizza, e si è concretizzata storicamente, in quattro distinte forme (differenziazione segmentaria, differenziazione del centro e della periferia, differenziazione per strati), sino ad assumere le vesti della differenziazione funzionale, tipica dei sottosistemi sociali contemporanei.

 

4. La funzione immunitaria del diritto e la critica di Bruno Romano.

 

La società, allora, è un sistema complesso che trova equilibrio se e laddove ogni sua parte, o sottosistema, svolga la sua propria prerogativa funzionale.

Affermare che Luhmann sostituisca al primato della struttura sulla funzione uno speculare primato della funzione sulla struttura, tuttavia, è fuorviante. L’autore, infatti, muove le sue teorizzazioni avendo riguardo alla “sola” funzione, in quanto principio che determina anche le stesse strutture del sistema. Se l’approccio parsonsiano considera le relazioni interne ai sistemi causalmente determinate, Luhmann le interpreta alla luce dell’equilibrio sistemico generale, partendo proprio dal presupposto della complessità, termine con cui descrive quella situazione in cui ad una specifica esigenza possono approntarsi innumerevoli e svariate soluzioni possibili, delle quali quella che poi, concretamente, è osservabile non è esito di un rapporto causale quanto piuttosto funzionale. Ci si trova, allora, a dover considerare non più due soli elementi, la causa e l’effetto, quanto una pluralità di fenomeni in grado di produrre il medesimo effetto, secondo il principio della equivalenza funzionale. L’osservazione e, conseguentemente, l’attività teoretica non hanno più il fine di individuare nessi causali, quanto di cogliere la funzione dei singoli sottosistemi che, se “adempiuta”, garantisca l’equilibrio e la stabilità del sistema complessivamente inteso.

Come ogni sottosistema, anche il diritto svolge una specifica funzione, intuibile nelle parole che Luhmann utilizza per definire la norma giuridica: essa “da una parte mette al sicuro ciò che ci si può aspettare indicando sotto quali aspetti, di fronte a un comportamento che provoca delusione, non si deve apprendere, non ci si deve adattare, ma si possono mantenere le proprie aspettative (…) in modo controfattuale. Dall’altra parte, però, (…) autorizza a reagire con lo scopo di ripristinare una realtà conforme al diritto (…)”[42]. La normatività, dunque, non è funzionale a creare un’integrazione tra individui ovvero a garantire il controllo sociale dei comportamenti, ma ad individuare ciò che ci si possa aspettare in un futuro di per sé incerto. La funzione del diritto “fa riferimento alle aspettative”, ovverosia a quegli elementi selezionati internamente dal sistema. In particolare, le aspettative possono essere di tipo cognitivo, dunque mutabile e adattabili alla realtà in quanto appartenenti all’orizzonte del sapere, o di tipo normativo, capaci di resistere alla delusione inserendosi nel sottosistema giuridico.

Dunque, la contingenza che caratterizza il sistema sociale descritto da Luhmann, intesa come rischio che “le possibilità selezionate dal sistema possono realizzarsi in modo diverso da quello previsto dalle aspettative”, inserisce una componente permanente di delusione, il pericolo della quale può essere fronteggiato, come ho detto poc’anzi, “o correggendo l’aspettativa delusa” adeguandola alla nuova realtà (strategia cognitiva), o “rifiutando di apprendere e tenendo ferma l’aspettativa” (strategia normativa)[43].

Luhmann introduce tale distinzione in quanto, nonostante al centro della sua teoria vi sia il mantenimento dell’aspettativa di aspettativa, piuttosto che l’adempimento della singola aspettativa stessa[44], egli riconosce che una situazione di delusione che sia sì permanente (in quanto potenziale rischio), ma anche certa, provocherebbe l’inevitabile instabilità dei sistemi sociali.

Dai soggetti e dalla loro libertà, Luhmann sposta l’attenzione alle operazioni del sistema, il successo delle quali diviene il criterio di selezione delle aspettative, così da poterle assumere come norme. Ne Il diritto della società (1993) il sociologo afferma che: “il concetto (di norma) non viene determinato dall’indicazione di particolari caratteristiche essenziali bensì (…) dalla distinzione di possibilità di condotta in caso di delusione”. Ne consegue un peculiare concetto di validità, che può dirsi sussistere laddove le operazioni sistemico-giuridiche garantiscano la permanenza del sistema nella produzione di ulteriori operazioni, senza che rilevi, tuttavia, la realizzazione di un contenuto normativo qualitativamente giusto. Se la norma è simbolo della stabilità del sistema, allora la validità contingente delle norme è dettata dallo stesso diritto vigente.

Le aspettative che Luhmann ritiene rilevanti sono quelle che hanno significato per il sistema: si tratta delle aspettative nel comunicare, contrapposte alle aspettative del comunicare. Se quest’ultime muovono dal “chi” comunicante, ovverosia il soggetto, le prime si compiono a mezzo di un individuo inteso come punto di intersezione tra le varie funzioni dei distinti sottosistemi, delle quali diviene mero portatore.

Si pone inevitabile, allora, il confronto-scontro con il pensiero habermasiano, oggetto di riflessione dello stesso Luhmann. Jürgen Habermas, considerato tra i più influenti filosofi tedeschi del secondo ‘900, ritiene che il procedimento di produzione della norma giuridica non sia sufficiente per definirne la legittimità[45]: affinché ciò possa accadere, infatti, è necessaria una fondazione razionale, che è elemento edificante la sua intera etica del discorso[46].

La difformità interpretativa che l’elemento normativo registra nel pensiero dell’uno e dell’altro autore,  del resto, dipende da una lontananza che affonda le radici in premesse teoriche profondamente diverse: se da una parte il discorso habermasiano muove dalla centralità dell’interazione tra due o più soggetti, che cercano la coordinazione del proprio agire mediante la comunicazione e la reciproca comprensione, dall’altra Luhmann intende la comunicazione sociale come interazione tra sistema e ambiente, escludendo ogni rilevanza soggettiva ed intersoggettiva. Ciò lo spinge ad affermare che il concetto di validità veicolato dal principio D di Habermas, secondo cui “sono valide soltanto le norme d’azione che tutti i partecipanti interessati potrebbero approvare partecipando a discorsi razionali[47], altro non è che l’idealizzazione di chi è assente, ovverosia quegli “interessati” coinvolti dagli effetti prevedibili delle prassi regolate in norme giuridiche.

Si profila una sorta di contrapposizione tra il diritto dei soggetti romaniano ed il diritto delle operazioni di Luhmann, che muovono, rispettivamente, il primo dal paradigma esistenziale del riconoscimento reciproco, il secondo dalla preoccupazione di includere aspettative all’interno di una funzione.

Montanari intuisce le conseguenze di tale contrapposizione quando scrive, alla fine del secolo scorso, che “la lettura funzionalistica dello Stato di diritto fonda tutta la sua forza su di un concetto autoreferenziale di forma, nel quale – (…) – si cela la profonda ambiguità della presenza-assenza della soggettività[48].

Volendo spostare le coordinate del discorso su un piano, per così dire, più “tangibile”, non è affatto circostanza neutra quella per la quale l’Unione Europea è disciplinata proprio in termini di “funzionamento[49].

L’espressione “l’Europa è in crisi”, che echeggia come rumore di sottofondo nell’attuale riflessione politica e sociologica, oltre che filosofica e antropologica, sta ad indicare, in ultima istanza, lo scollamento tra il bagaglio culturale europeo, unico capace di determinare il “destino europeo”, e la macchina del sistema-UE.

In sostanza, le regole dettate per garantire il funzionamento sistemico dell’Unione Europea sono volte ad assicurare le operazioni performative di una struttura che ci si chiede, oggi più che mai, se “guidi” la funzione, orientandola e limitandola, oppure se sia divenuta mero veicolo di funzioni autoreferenziali.

Non è un caso che quella crisi, di cui dicevo poc’anzi, sia una crisi principalmente politico-culturale, che si sviluppa parallelamente ad una situazione di economia accelerata che non intende, o quanto meno non sembra intendere, fermarsi.

È interessante, allora, il richiamo che George Steiner fa a Max Weber e al suo La scienza come professione, parlando di un’Europa che si “americanizza”, riducendo “la vita della mente a una burocrazia manageriale[50].

In quel binomio diritto dei soggetti – diritto delle operazioni, non solo il diritto, ma lo stesso sistema sociale complessivamente inteso diviene un insieme di azioni, piuttosto che di uomini, all’interno del quale le azioni del singolo individuo appartengono all’uno o all’altro sottosistema a seconda che siano espressione dell’una o dell’altra funzione[51].

Tale contrapposizione spinge alcuni autori a parlare di “tecno-nichilismo”, nel quale l’uomo non è più fattore nevralgico del sistema sociale. Piuttosto, l’uomo diviene un sistema individuale, un osservatore, che incontra l’altro osservatore come ambiente e che viene, dunque, ridotto ad oggetto da osservare/conoscere, perdendo la qualità di soggetto da ri-conoscere. Proprio Romano, in Scienza giuridica senza giurista: il nichilismo perfetto[52], distinguendo tra diritto dell’uomo e diritto nell’uomo, descrive il primo come espressione di una giuridicità ortonoma[53] legata alla libertà soggettiva e alla relazione intersoggettiva, il secondo come sinonimo di meccanizzazione delle tecno-norme, conseguenza dell’impostazione funzionalistica che considera i sistemi sociali alla stregua dei sistemi biologici. Così anche la comunicazione di Luhmann si discosta dall’intersoggettività comunicativa romaniana, la quale permette di ri-trovarsi nell’altro, senza renderlo un’entità meramente osservabile e conoscibile per ciò che è nel presente. L’ente-uomo luhmanniano sembra essere, allora, un uomo “situazionale”, del quale l’identità è momentanea e mutevole.

 

5. Dogmatica giuridica e principio di funzione. Da Luhmann a Romano, e ritorno.

 

Mettere da parte, per un momento, la critica romaniana, mi consente di accedere alla dimensione più sorprendentemente fine della riflessione giuridica di Luhmann che, nonostante un’inevitabile profonda reinterpretazione in chiave, ancora una volta, funzionalistica, conserva lo spirito, per così dire, “tradizionale” della giuridicità. Faccio riferimento al ruolo che assume, nella sua teoria sistemica, la dogmatica giuridica, quale sistema di concetti giuridici di riferimento, ai quali ancorare la normatività.

Analizzando la funzione che la dogmatica giuridica svolge all’interno del sottosistema-diritto, Luhmann si pone in una posizione di “cauto” separatismo.

Mi spiego.

La dogmatica giuridica, descritta da Alberto Febbrajo, nell’Introduzione all’opera Sistema giuridico e dogmatica giuridica, con l’espressione “cittadella più munita ed inaccessibile del sapere giuridico”, ha suscitato l’interesse non soltanto della scienza giuridica, ma altresì della sociologia del diritto. Di fronte a tale sincretismo tra “legal science” and “social science”, se alcuni autori (tra tanti, Hans Kelsen e Max Weber) hanno preferito un approccio separatista, volto a chiudere le porte del diritto ad ogni contaminazione sociologica, altri hanno affermato il primato, sulla scienza giuridica, della sociologia, consentendo, solamente quest’ultima, di accedere al diritto della società.

È possibile parlare, con riferimento a Luhmann, di “cauto” separatismo in quanto il sociologo tedesco, da una parte esclude la possibilità di adottare un punto di vista unicamente “sociologico”, che identifica nell’orientamento alle conseguenze, dall’altra riconosce l’operatività limitata di una dogmatica giuridica digiuna di ogni qualsivoglia apporto della ricerca sociale.

Manca, allora, una comunicabilità diretta tra teoria sociale e teoria giuridica, ma ciò non significa professarne un mero coesistere parallelo. Nella prospettiva di Luhmann, infatti, la conoscenza delle funzioni sociali offre alla dogmatica giuridica informazioni sempre nuove sulle altre possibilità di risoluzione dei problemi.

Egli giunge a tale conclusione dopo una profonda analisi dello scenario interpretativo in cui versava, negli anni ’70, la dogmatica, cogliendo nell’ipervelocità dei mutamenti sociali una sorta di sollecito all’iper-reattività del diritto. Queste circostanze hanno determinato un progressivo “spostamento dell’orientamento (…) dal passato al futuro”, dall’input all’output. Ai confini dell’input, ove tradizionalmente si colloca la dogmatica giuridica, il confronto con i problemi decisionali avviene in forma di casi: il futuro non viene altro che gestito come “passato generalizzato”. Diversamente, ammettendo un’apertura del sottosistema all’apporto output-determinato, la casistica non è tecnica percorribile, dovendosi individuare altri strumenti altrettanto riduttivi della complessità.

Luhmann, dunque, conferisce alle conseguenze una funzione correttiva, ovverosia quella capacità di adeguare socialmente i concetti dogmatico-giuridici, salvaguardando pienamente il principio fondamentale di differenziazione e autonomia tra sottosistemi diversi. Ammettere un sistema-diritto orientato direttamente ad aspettative socio-consequenziali, piuttosto che da programmi condizionali di decisione, “renderebbe privo di senso mantenere la distinzione tra la disgiunzione “conforme al diritto/contrario al diritto” e la disgiunzione “buono/cattivo”, distinzione questa per la quale Socrate ha immolato la vita[54].

La dogmatica giuridica così intesa, allora, consiste nel “controllo delle discontinuità di un ordinamento che si auto-sostituisce”, che opera mediante lo strumento della comparazione funzionale. Tale attività comparativa ricerca l’equivalenza a livello di funzione-risoluzione del problema sociale di volta in volta considerato, piuttosto che a livello strutturale. Secondo il parere di Febbrajo, tuttavia, la comparazione funzionale avrebbe una portata pratica “relativa”, potendo condurre a due alternative: o la sostituzione è impossibile per mancanza di equivalenza, oppure la sostituzione è possibile ma del tutto irrilevante dal punto di vista delle conseguenze sul sistema complessivamente inteso. La funzione, infatti, si mantiene la medesima, mutando unicamente la struttura, ma se nella teoria di Luhmann la struttura non ha sostanziale importanza, un mutamento vero e proprio non potrebbe dirsi realizzato[55].

Ad ogni modo, nella prospettiva del sociologo tedesco, che sembrerebbe assumere anche le vesti di epistemologo, l’elemento del vincolo, tradizionalmente supposto nel concetto di dogmatica giuridica, non è più sinonimo di immutabilità, quanto piuttosto di “mutabilità secondo condizioni date”.

Ecco che si rende opportuno, a questo punto del discorso, recuperare quanto messo da parte qualche momento fa.

Le teorie filosofico-giuridiche di Romano si sviluppano attorno alla centralità della soggettività, quale elemento differenziante il diritto rispetto agli altri fenomeni sociali, primo fra tutti quello economico, ove l’individuo è, in un certo senso, fungibile.

Considerare il diritto nella sua funzione immunitaria significa muoversi, se non nell’indifferenza, quanto meno nell’irrilevanza delle relazioni intersoggettive.

Si può, allora, affermare che la funzione del diritto sia “funzione della funzione”, in quanto assume un significato di volta in volta diverso a seconda del sottosistema con cui si confronta e a cui è rivolta la sua attività “immunizzante”.

Il diritto, per come romanianamente inteso, è depersonalizzato in quanto senza “né uomini né donne, mancante della reciproca coesistenzialità[56].

Nell’ambito del funzionalismo strutturale, che Romano ri-definisce fondamentalismo funzionale, non ci sono “più problemi di principio (…) tranne quelli di una realizzazione che riesce[57], di una performance sistemica di successo.

Tuttavia, spingendo il ragionamento oltre e guardando “in controluce” la teoria luhmanniana,  emerge quella che Montanari ha definito una “variazione epistemologica di un certo peso[58].

Come ho già messo in luce, la dogmatica giuridica, nell’impostazione di Luhmann, diviene strumento di immunizzazione dalle incertezze e consiste, concretamente, nella non-negabilità dei punti di partenza da cui prende forma un qualsivoglia discorso che conduca ad una decisione.

In altre parole, Luhmann muove dal presupposto che il prodotto dei processi decisionali normativo-giurisprudenziali sia un elemento contingente. Tuttavia, il sottosistema giuridico, avente funzione, come ho già più volte ribadito, immunitaria, tale da renderlo essenziale anche agli altri sottosistemi per la loro stessa “sopravvivenza”, necessita di una garanzia di coerenza, che consenta di cogliere quel prodotto decisionale non come dato meramente contingente ma come elemento riferibile all’ordinamento.

Sembra, allora, che la critica rivolta dall’autore italiano al sociologo, più che avere ad oggetto il primato della funzione, suggerisca una censura orientata al suo estremizzarsi nel principio contemporaneo del mero funzionamento, ossia di quel “liquido” funzionare del “prassismo procedurale”.

 

6. Il “nichilismo giuridico” come proceduralismo: la prospettiva di Natalino Irti.

 

La tematica del nichilismo giuridico, che si è rilevata centrale nel pensiero romaniano, pervade “un po’ ovunque” tutti gli ambiti culturali del nostro tempo.

Tacendo la molteplicità di accezioni con cui si sono riferiti, al nichilismo in generale, innumerevoli autori, sembra possibile evocarne a sintesi l’idea di fine, o tramonto, della scala valoriale connotante l’Occidente moderno e razionalistico.

Anche all’interno del pensiero giuridico-normativo, allora, si fanno spazio riflessioni che alludono ad una nuova configurazione del giuridico, nella quale il diritto, scienza originariamente intesa come strumento ordinante i rapporti sociali, perde ogni aprioristico fondamento contenutistico, riducendosi a mero procedimento[59].

Faccio riferimento, in particolare, a quelle teorie che si sviluppano nel nostro secolo riconducibili a quell’unico contenitore che assume il nome di pragmatismo e che, operando un salto ulteriore rispetto all’empirismo, rispetto al funzionalismo strutturale di Luhmann, ma anche rispetto allo stesso pragmatismo angloamericano classico, si concretizzano in un processo di continuo assessment (parola, non a caso, molto di moda in ambito economico-manageriale) della realtà data, volto a guidare i processi decisionali nella direzione che garantisca il mantenimento dell’equilibrio, senza, cioè, che vi sia un momento di reale riflessione che trascenda la mera fattualità[60].

Così Hartmut Rosa, nel descrivere il ciclo triadico dell’accelerazione (tecnologica, dei mutamenti sociali e del ritmo di vita), esplicita proprio l’aspetto che qui si tenta di cogliere, ovverosia la creazione “di un “sistema di feedback” interdipendente che si automantiene in movimento[61].

Nella contemporaneità, Romano legge una pretesa trasversale di spiegazione scientifica dell’essere umano, tale da “ingegnerizzare” anche il diritto, espungendo le domande di senso evocate dalla coesistenzialità e trasformando il giurista in un “ragioniere delle norme” che si limita a “tenerne la contabilità[62].

Egli, partendo dall’attività ermeneutica condotta sui contributi pirandelliani[63], assume il nichilismo come “mistificazione degli atti nei fatti”, recuperando la novella La carriola, nella quale il protagonista, un avvocato professore di diritto, si scopre “tormentato” dalla quotidianità, in quanto “Chi vive, quando vive, non si vede: vive… Se uno non po’ vedere la propria vita, è segno che non vive più: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina. Perché ogni forma è una morte. (…) E grido, l’anima mia grida dentro questa forma morta che mai è stata mia: ‘Ma come? Io, questo? Io, così?’”[64]. Con straordinario sarcasmo, Pirandello esprime la “responsabilità inconsistente” dell’uomo contemporaneo, chiuso nei fatti determinati dal sistema, sostitutivi degli atti come espressione di scelta e di libertà.

La questione colta con singolare efficacia teatrale da Pirandello è una questione trasversale a cui si affaccia ogni letteratura, da quella filosofico-sociologica, per così dire, “istituzionale” (di cui sto riproponendo alcuni aspetti), a quelle meno tradizionali ed istituzionalizzate. Mi torna alla mente, a tal proposito, l’espressione che uno dei massimi esponenti del movimento studentesco sessantottino, Mario Capanna, utilizza ne Il discorso del sole, in introduzione a Coscienza globale. Oltre l’irrazionalità moderna. Egli scrive: “Vi guardate e non vi vedete. Vivete estranei a voi stessi[65], descrivendo quella condizione che, in epoca ben precedente, il drammaturgo tedesco Georg Büchner aveva evocato con queste parole: “Siamo marionette tenute al filo da forze sconosciute; non siamo niente per noi stessi, niente![66].

Natalino Irti, per coincidenza anch’egli avvocato e professore di diritto, proprio come il protagonista della novella pirandelliana, “tormentato”, in un qualche modo, dalla quotidianità (giuridica, s’intende), teorizza il nichilismo giuridico ontologico come esito di una riduzione del diritto a mera volontà di scopo, ovverosia “tecnica coerenza tra scopi e mezzi”, nel vuoto di un criterio di ammissibilità giuridica “a priori”[67].

Cotta, tessitore emblematico di quel fil rouge ontologico che sottende anche al discorso in atto, coglieva, già negli anni ’90, ciò che l’Irti teorizza puntualmente all’inizio del secolo corrente e cioè che, se si abbandona l’idea di un diritto fondato sulla struttura ontologica dell’uomo e, dunque, sulla sua relazionalità, esso non diviene altro che capacità, più o meno effettiva, di assolvere ad una funzione meramente prammatica, formale e, soprattutto, formalizzante[68].

Oggi assistiamo, insomma, ad una normatività “che basta a se stessa”, o meglio, che sembra bastare a se stessa, che crede di bastare a se stessa laddove, de facto, è sempre più piegata alla tutela di interessi eteronomi.

L’ente-uomo viene scisso nelle sue qualificazioni di “membro della civitas giuridico-politica” e “membro-funzionario del mercato”, non-luogo, quest’ultimo, capace di volere, esigere o respingere, approvare o rifiutare.

Il mercato, tematica altrettanto centrale nella riflessione romaniana, impone un paradigma giuridico spaziale e de-territorializzato, incrinando, in modo ineluttabile, anche il ruolo dello Stato moderno[69].

In modo simmetrico al rapporto tra mercato e diritto, nel pensiero irtiano emerge il ruolo oggi determinante della tecnica, del quale colloquia apertamen

Chiesi Valentina



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