Considerazioni sui diritti fondamentali dei fedeli nell’ordinamento canonico
Enrico Giarnieri
Officiale del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica
Considerazioni sui diritti fondamentali dei fedeli nell’ordinamento canonico*
English title: Some considerations regarding the fundamental rights of the faithful in canon law.
DOI: 10.26350/18277942_000033
Sommario: 1. Premessa. 2. Il fedele battezzato nel Popolo di Dio. 3. Alcune criticità del concetto di comunione. 4. La fondamentalità dei doveri-diritti nella società ecclesiale. 5. Conclusioni.
1 - Premessa
Come noto, il Concilio Vaticano I fece avvertire, intensa, l’esigenza di procedere a un generale riordino del diritto canonico[1].
Il Codice piano-benedettino, che era ripartito in cinque libri, nel secondo, riguardante le persone, esprimeva chiaramente una figura di Chiesa intesa come una vera e propria societas inaequalis[2], composta per diritto divino positivo da un elemento attivo e da uno passivo, rispettivamente i chierici, che governano e insegnano, e i laici, che ubbidiscono e apprendono[3].
Al fine di spiegare la nozione di fedele battezzato serviva una concezione di Chiesa meramente societaria, che trovò la sua più alta espressione nello jus publicum ecclesiasticum, in cui la Chiesa veniva descritta come una societas perfecta (la quale possiede tutti gli strumenti per conseguire i suoi fini), inaequalis (divisa per ordini: i ministri sacri e gli altri), hierarchica constituta (con un tessuto costituzionale strettamente gerarchico).
D’altra parte, il concetto di società perfetta era già stato introdotto dal Bellarmino, secondo cui “[…] la Chiesa è la comunità degli uomini uniti dalla professione della stessa fede e dalla partecipazione ai sacramenti sotto la guida dei legittimi Pastori”[4].
È stato altresì sottolineato dalla dottrina canonica come la principale preoccupazione della legislazione del 1917 fosse quella di dare una risposta a un’esigenza di natura sistematica formale, e come la forza centripeta che soddisfacesse tale finalità venne riscontrata, riguardo all’appartenenza del singolo alla Chiesa, nel termine persona[5]. Di questa il Codex del 1917 intendeva privilegiare l’aspetto tecnico-formale, rifacendosi in tal modo al giuspositivismo allora imperante.
D’altronde, sempre più avvertita da parte della società ecclesiale era la necessità di stabilire alcuni punti fermi, che si rivelassero utili a risolvere il problematico rapporto che si poneva tra persona lato sensu e christifidelis. Fu così che si pensò di sancire espressamente uno statuto giuridico comune a tutti i fedeli, prima ancora di enumerare gli specifici doveri e diritti corrispondenti alla loro condizione di chierici o di laici[6].
2 - Il fedele battezzato nel Popolo di Dio
Il legislatore canonico fu pervaso, in principio, da forti titubanze circa la qualificazione formale dei diritti del fedele come fondamentali, a tal punto da negarla nel primo schema di Lex Ecclesiae Fundamentalis del 24 maggio 1969[7].
Pur recando il titolo I della parte prima del libro De Populo Dei del Codice del 1983 semplicemente de omnium christifidelium obligationibus et iuribus, tuttavia il problema della fondamentalità dei doveri-diritti del fedele non può essere considerato chiuso in senso negativo dal silenzio del vigente Codice. Ciò per due ragioni.
In primo luogo, la proposizione codiciale de omnium christifidelium obligationibus et iuribus, circa il contenuto dei doveri e dei diritti in essa elencati, lascia emergere l’intento del legislatore di seguire le orme delle Dichiarazioni dei diritti fondamentali dell’uomo, tipiche delle Costituzioni secolari[8].
In secondo luogo, sembra che il Codice del 1983 abbia portato a compimento le due linee direttive lungo le quali è maturata l’idea di Chiesa quale società coinvolgente tutti i fedeli.
La prima ragione è infatti da individuarsi nel significato dell’espressione Popolo di Dio: un popolo cioè che “[…] ha per capo Cristo […], per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio […], per legge il nuovo precetto di amare come Cristo stesso ci ha amati […], per fine il regno di Dio” (Lumen Gentium, n. 9). La seconda ragione è invece rappresentata dall’elemento dell’appartenenza a tale Popolo; il compito della salvezza interessa tutti i suoi membri, i quali diventano testimoni, ciascuno secondo la propria condizione, dell’originale messaggio divino dato dal fondatore. Tenendo presenti questi due principali elementi, si può comprendere meglio la nota definizione di Hervada sul Popolo di Dio, descritto come “un Popolo di indole soprannaturale con una congenita dimensione comunitaria che condivide gli strumenti di salvezza e che si organizza in società”[9]. A ben vedere, questa definizione è di stampo tomista: è, infatti, la condivisione dei sacramenti a creare i rapporti giuridici all’interno di tale popolo, divenendone imprescindibile l’aspetto societario[10]. In quest’ottica la categoria concettuale di Popolo di Dio, quale comunità di fedeli battezzati, può essere considerata elemento costituzionaledella Chiesa, in quanto sono i fedeli a costituirele relazioni giuridiche fondamentali interne alla società ecclesiale. Il vigente Codice di diritto canonico non ha quindi abbandonato la nozione di persona, che nell’impostazione di quello anteriore risultava centrale, avendo adottato una duplice accezione di persona e di christifidelis: la prima tecnico-giuridica, la seconda strettamente ecclesiologica e teologica[11]. Detto questo, vi sono peraltro ulteriori considerazioni da svolgere sul punto.
Nel can. 96 si legge che
“Baptismo homo Ecclesiae Christi incorporatur et in eadem constituitur persona, cum officiis et iuribus quae christianis, attenta quidem eorum condicione, sunt propria, quatenus in ecclesiastica sunt communione et nisi obstet lata legitime sanctio”.
Dal canto suo, il can. 204, al § 1, definisce il fedele battezzato nei seguenti termini
“Christifideles sunt qui, utpote per baptismum Christo incorporati, in populum Dei sunt costituti, atque hac ratione muneris Christi sacerdotalis, prophetici et regalis suo modo participes facti, secundum propriam cuiusque condicionem, ad missionem exercendam vocantur, quam Deus Ecclesiae in mundo adimplendam concredidit”.
Da entrambi i citati canoni emerge l’attribuzione al battesimo di una differente funzione.
Secondo il can. 96, la porta dei sacramenti incorpora l’uomo alla Chiesa e lo costituisce, in essa, persona; secondo il can. 204, invece, esso incorpora gli uomini a Cristo, costituendoli Popolo di Dio.
In realtà, l’unica conclusione che si può trarre dall’accostamento delle due disposizioni è che l’essere persona in Ecclesia e l’essere fedele non sono due situazioni distinte.
I due canoni descrivono soltanto l’uomo battezzato nella Chiesa. Sotto il profilo sostanziale, dunque, al battesimo non può essere attribuito un duplice effetto.
È sotto l’aspetto formale che il legislatore ha inteso giovarsi di una duplice qualifica (di persona e di fedele) per rappresentare una stessa condizione. Ciò, inoltre, non deve far ritenere che la Chiesa neghi sul piano ontologico-sostanziale all’uomo non battezzato l’essere persona. Come tutti gli uomini nell’ordinamento civile sono, infatti, persone e non tutti cittadini, allo stesso modo per certi versi nell’ordinamento canonico l’elemento personale non è affatto disconosciuto.
La persona in quanto tale - sia non battezzata, sia battezzata o catecumeno - ha una sua specifica soggettività ed è portatrice di uno statuto proprio, fondato nel diritto naturale[12].
I doveri-diritti propri del fedele rappresentano una specificazione o un arricchimento nella società ecclesiale del patrimonio dei doveri-diritti connaturato alla condizione umana, cui non si può negare rilievo nell’ordinamento canonico[13].
Dal ragionamento finora condotto deriva che i doveri-diritti dei fedeli non sono tali perché codificati nel Codice o perché promulgati dalla competente autorità, ma in quanto nascono proprio dalla condizione fondamentale dell’uomo battezzato, che consiste nella libertà di tendere a Dio, nella ordinatio in Deum. I doveri-diritti del battezzato nascono, cioè, dal suo giusto relazionarsi all’altro; essi sono fondati su di una piattaforma metafisica.
Dal can. 204 emerge la configurazione di uno statuto giuridicocomune a tutti i fedeli.
È l’intero libro II del Codice a esaltare la centralità della figura del fedele.
L’analisi della disposizione normativa in oggetto rinvia inoltre l’interprete a una serie di insegnamenti del Vaticano II: il battesimo come incorporazione a Cristo[14], la Chiesa come Popolo di Dio, la partecipazione di tutti i fedeli agli uffici di Cristo, l’universale missione di salvezza affidata alla Chiesa e la responsabilità che compete a ogni cristiano nella sua realizzazione[15].
La principale conseguenza giuridica del can. 204, poi, si rinviene nel can. 208, che apre il titolo primo sugli obblighi e diritti di tutti i fedeli: è l’uguaglianza tra tutti i fedeli sia nella dignità, sia nell’agire, ciascuno secondo la propria condizione.
Va tuttavia riconosciuto che ci possono anche essere fratture nella Chiesa. Il can. 205 indica, in questa visione sistematica, tre criteri con cui si instaura la piena comunione con la Chiesa cattolica: 1) il vincolo della professione di fede; 2) dei sacramenti; 3) di governo ecclesiastico. Il significato autentico di questa norma emerge soltanto se la si legge congiuntamente all’ultima parte contenuta nel can. 96, in cui sono indicati i tre elementi che concretano, a loro volta, una comunione gerarchica: la condicio, la communio, la sanctio. In quest’ultimo canone, peraltro, condicio indica la condizione di battezzato: per esistere nella Chiesa occorre la recezione del battesimo.
3 - Alcune criticità del concetto di comunione
I canoni 96 e 205 contengono, dunque, un’idea di comunione giuridica che si rivela insoddisfacente perché il fedeleè concepito esclusivamente come soggetto formale, titolare di doveri e di diritti, e non invece nel suo essere figlio di Dio.
Secondo Hervada, il legame tra fedele e Chiesa dà vita a un rapporto di comunione ecclesiale, che a sua volta si può distinguere in communio fidelium, hierarchica ed ecclesiarum[16]. Ragionando in questi termini, nella Chiesa si riscontrano due livelli costituzionali.
Il primo è quello sacramentale, della Chiesa intesa come corpo mistico di Cristo e come compagine visibile: è la comunità di fedeli in comunione con la gerarchia. Si tratta della coesistenza della communio fidelium e di quella hierarchica: a questo livello costituzionale si collocano anche la Parola e i Sacramenti.
Il secondo è quello di operatività salvifica di ciascuna Chiesa particolare. È la communio ecclesiarum, ossia la comunione tra le Chiese particolari di cui al can. 368; è l’agire dei fedeli nelle diverse porzioni del Popolo di Dio. Questa di Hervada è senza dubbio una reale e matura descrizione della comunione nella società ecclesiale.
Per Corecco la comunione diviene elemento costituzionalenella Chiesa[17]. Dire che la Chiesa è costituita essenzialmente dalla comunione comporta, però, che tutti i fedeli devono realizzarla costantemente. È quanto esprime incisivamente il can. 209, inserito come il primo dei doveri dei fedeli: “christifideles obligatione adstringuntur, sua quoque ipsorum agendi ratione, ad communionem semper servanda Ecclesia”. Sembra quasi che il fedele debba sempre con generosità tendere alla comunione nella Chiesa, tanto che il suo agire viene finalizzato al bene pubblico. Si assiste, dunque, ad una reciproca compenetrazione tra fedele e comunità, tra Chiese particolari e universali: la comunione lega i fedeli tra loro e li unisce in funzione del bene comune[18]. Essa diventa un elemento strutturale, ontologico nella Chiesa: il fedele non è preesistente all’ordinamento giuridico, ma è la Chiesa stessa che conferisce a lui la dignità di battezzato[19].
Tale visione è criticabile perché il bene pubblico non può prevalere sui singoli: la doverosità del fedele sancita dal can. 209 di costruire la comunione, nel suo rapportarsi alla comunità, conduce a una sorta di annullamento della persona, in tutta la sua valenza di battezzato creato a immagine di Dio[20]. Non è infatti corretto pensare né a una contrapposizione tra il fedele e la Chiesa, né a un totale annullamento della persona nella comunione. Ciò perché la condizione di battezzato è anzitutto una condizione di libertà.
L’uomo creato a somiglianza di Dio possiede una relazionalità intrinseca, e quando si incontra con il prossimo riscopre la sua immagine trinitaria: è nel momento dell’agire che egli pone l’atto di libero arbitrio e si concreta la sua condicio libertatis. In tale ottica tutto nasce dai fedeli: nell’ordinamento della Chiesa ad essere salvati sono i fedeli e non gli istituti giuridici. Il fedele va descritto nella sua singolarità di creatura tendente a Dio, con tutti i suoi carismi che fruttificanosolo mediante la partecipazione con gli altri fedeli. Il rapporto tra il fedele e la comunità, visto in tali termini, non è di completa identificazione (come lo rappresenta Corecco), né di antinomia (così com’è nella logica statuale), ma è un rapporto di tensione verso la propria realizzazione dell’immagine di Dio.
Il can. 209 rappresenta un punto di riferimento: attraverso la comunione i fedeli, dotati di libero arbitrio, realizzano liberamente se stessi; attraverso la loro collaborazione passa l’azione creatrice e salvifica di Dio[21].
4 - La fondamentalità dei doveri-diritti nella società ecclesiale
Alla luce delle considerazioni svolte, è lecito chiedersi quale valore conservano i cosiddetti diritti fondamentali dei fedeli rispetto all’altra categoria concettuale dei diritti fondamentali dell’uomo.
Se, come visto, è indiscutibile che le Costituzioni civili abbiano esercitato un certo influsso sull’idea di stilare una carta dei diritti dei fedeli, è altrettanto palese che tali diritti hanno un fondamento e una natura ben diversi dai diritti riconosciuti ai cittadini dalle legislazioni degli Stati. Tale differenza è oggettiva: infatti, la società religiosa e la comunità politica si situano su due piani diversi, a causa delle loro visioni circa il rapporto tra persona e comunità cui si ispirano i rispettivi ordinamenti.
Basti pensare che nella società ecclesiale non è concepibile una separazione, né tanto meno una contrapposizione tra bene comunee bene privato. La dottrina cattolica individua, infatti, nella ‘salvezza’il fine dell’istituzione Chiesa, partecipando alla quale ogni fedele è in grado di realizzare il proprio personale destino.
Inoltre, il concetto di libertà per la Chiesa è frutto di una differente elaborazione di pensiero rispetto alla cultura laica e razionalistica. Tanto è vero che il fedele, nell’esercizio della sua libertà, incontra il dovere di rispettare la sua primigenia dipendenza da Dio.
Ancora, i diritti dei fedeli non si fondano sulla natura umana, ma sono conferiti dalla Chiesa col battesimo e gli altri sacramenti. Ciò non consente, allora, di identificarli con i diritti umani, cui il magistero pontificio ha dedicato tanta attenzione.
Peraltro, una riflessione ponderata sulla fondamentalità dei doveri-diritti del fedele esige, in via preliminare, una soluzione circa un equivoco di fondo. Si può cioè parlare di doveri-diritti nella Chiesa accostandovi un aggettivo come fondamentale, sorto e maturato in ambito esclusivamente statuale? A tal riguardo si segnalano varie impostazioni dal punto di vista dottrinale.
Per alcuni non si può parlare di diritti fondamentali nella società ecclesiale in quanto essi non possono in alcun modo considerarsi derivazione della costituzione gerarchica della Chiesa, essendo suo elemento costituzionale primario la communio[22]; secondo altri, tali diritti sono da ritenersi fondamentali perché scaturiscono dalla condizione primaria del fedele nella Chiesa[23]. In quest’ultima ottica, i diritti fondamentali incontrerebbero dei limiti, costituiti dai diritti degli altri fedeli e della Chiesa; si caratterizzerebbero per le note dell’universalità e della irrinunciabilità; richiederebbero, per una loro concreta fruizione da parte del soggetto titolare, di alcuni presupposti, quali la capacità d’agire, la comunione ecclesiastica e l’assenza di una sanzione legittimamente inflitta.
Vi è, d’altra parte, chi ritiene la fondamentalità un appellativo storico, legato all’evoluzione di istituti giuridici e di categorie dogmatiche propri dello Stato[24].
Per altri ancora, invece, essa è una definizionepuramente dottrinale e l’attuale Codice non la contiene[25]; infine, per qualcun altro tutti i diritti nell’ordinamento della Chiesa sono fondati nella Lex, ossia intorno a un dato oggettivo costituito dall’ordine voluto dal suo legislatore divino[26].
5 - Conclusioni
A me pare che il problema dei diritti fondamentali possa essere considerato nell’ordinamento canonico facendo riferimento alla concezione ontologica e sacramentaledel singolo fedele[27]. I doveri e i diritti, intanto sono fondamentali, in quanto rispondono a una condizione di libertà, responsabilità e dignità. Delle quattro condiciones che Hervada ha proposto per definire lo status di fedele battezzato[28], occorrerebbe privilegiare la condizione di libertàdell’essere creato a immagine di Dio.
Tuttavia, problematiche di un certo rilievo sono state poste sia dalla dottrina canonica che da quella teologica circa le richieste di garanziae di tutelanella Chiesa di quei diritti che quasi tutti gli ordinamenti contemporanei civili riconoscono.
Se è indubbio che la Chiesa offre garanzie alla libertà di pensiero, a quella di associazione e all’esercizio del diritto di libertà religiosa, stabilendo limiti alla loro esplicazione, due sono le ragioni che animano il dibattito tra gli studiosi.
La prima sta nel fatto di dare una risposta allo scontato esito positivo, in quanto la Chiesa, da sempre sostenitrice della persona umana e dei suoi inviolabili diritti nelle realtà temporali, non può agire diversamente in campo spirituale.
La seconda ragione è da ricercarsi in un’avvertita inadeguatezza dell’ordinamento canonico ad accoglierequei diritti e la loro conseguente tutela nelle forme previste dagli ordinamenti secolari. Infatti, i diritti dell’uomo esistono nella Chiesa in quanto fondati sul diritto naturale.
D’altra parte, se intesi in senso giuspositivistico, non tutti i diritti sono fondamentali, poiché alcuni di essi appartengono solamente alla società ecclesiale: si pensi al diritto alla propria vita spirituale o alla scelta del proprio stato di vita.
In una situazione del genere è sembrato che i canonisti, almeno in un primo tempo, muovendo qualche modifica o limitazione, si accontentassero di adattare i diritti dell’uomo, notoriamente quelli riconosciuti dal magistero della Chiesa, alla specifica situazione della società ecclesiale[29]. I diritti dell’uomo così canonizzati divenivano i diritti fondamentali del cristiano[30].
In verità, nel rapporto fedele-comune (quello che il codice di diritto canonico chiama christifidelis) e persona-cittadino non c’è dubbio che nel primo si riscontrano una dignità cristiana e dei dirittifondamentali cristiani che gli derivano dalla fede e dal sacramento del battesimo, realtà che devono essere rispettate in quanto fanno parte del patrimonio cristiano indisponibile. Si ha, quindi, una sorta di osmosi tra le due sfere di diritti spettanti ai fedeli e agli uomini tutti, anche quelli non incorporati a Cristo. Ciò perché la Chiesa, oltre che una comunità di fedeli che si riconoscono in Cristo, è anche una società umana con delle strutture di potere che sono finalizzate alla salvezza. In questa prospettiva, vale anche per la Chiesa il fondamentale diritto della libertà di religione, per cui nessuno potrà essere indotto ad abbracciare la fede cattolica contro la sua volontà, poiché una qualsiasi fede non può essere imposta violando il santuario della coscienza individuale.
Allo stesso modo, si deve, ad esempio, riconoscere il diritto fondamentale di poter essere giudicati in base a leggi prestabilite, chiare, avvalendosi altresì del diritto concreto di difesa e di protezione del buon nome e della buona fama di cristiano fino a prova contraria[31].
Abstract: After giving a brief outline of the concept of individual rights employed by the 1917 CIC based on concept of persona, the author sets out to discuss the new prospective implemented in the 1983 CIC based upon the fundamental rights of the Christian faithful (christifidelis), as a baptized member of the People of God. The author points out the inherent tensions between these two concepts as seen in canons 96 and 204 and critically examines concept of communio as a solution. Finally, the author directly addresses the relationship between the fundamental rights of man and the so-called fundamental rights of the faithful, considering in conclusion the way in which these rights are translated into the canonical sphere by means of the natural law.
Key words: persona, christifidelis, communio, fundamental rights of the Christian faithful.
* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
[1] L’opera di codificazione, conclusasi sotto il pontificato di Benedetto XV, il quale promulgò il Codex Iuris Canonici con la Costituzione Apostolica Providentissima Mater Ecclesia, il giorno di Pentecoste del 1917, era stata intrapresa dal m.p. di Pio X, Arduum sane munus, del 19 marzo 1904. Cfr. L. Musselli, Storia del diritto canonico, Introduzione alla storia del diritto e delle istituzioni ecclesiali, Torino 2007, 2ª ed., p. 86, il quale scrive sul punto che “Il 13.11.1904 iniziava così la laboriosa elaborazione del Codex Juris Canonici, attraverso l’opera di consultori coordinati dal monsignore e poi cardinale Pietro Gasparri, che prepararono i progetti delle singole parti. Alla fine lo schema del codice, verso il 1912-1914, fu inviato ai vescovi, che già erano stati interrogati, all’inizio dell’opera, sugli orientamenti da dare al nuovo Codex”.
[2] Cfr. V. Del Giudice, Nozioni di diritto canonico, Milano 1953, p. 41.
[3] Cfr. P. A. D’Avack, Corso di diritto canonico, I, Introduzione sistematica al diritto della Chiesa, Milano 1956, p. 211, secondo il quale la Chiesaè“[…] fondamentalmente distinta, per diritto stesso divino positivo, in due classi distinte di soggetti, titolari rispettivamente di due diversi status giuridici e quindi di un differente complesso di diritti e doveri, in una parola di una distinta capacità giuridica: i laici […], privi in modo assoluto di ogni partecipazione e ingerenza nel governo e nell’amministrazione della Chiesa, cioè […] privi di ogni capacità di diritto pubblico; e i chierici […], ai quali esclusivamente è riservata siffatta capacità e che soli pertanto possono entrare a far parte della gerarchia ecclesiastica tanto d’ordine che di giurisdizione e quindi avere la capacità e potestà sia di distribuire ai fedeli i mezzi di grazia, sia di ammaestrarli spiritualmente, sia di esplicare diritti politici e funzioni di governo nell’ordinamento canonico”.
[4] Cfr. G. Feliciani, Il Concilio Vaticano I e la codificazione del diritto canonico, in Studi in onore di Gualazzini, vol. II, Milano 1982, pp. 35-80.
[5] Circa l’appartenenza alla Chiesa, Pio XII scrive che “In Ecclesiae autem membris reapse ii soli annumerandi sunt, qui regenerationis lavacrum receperunt veramque fidem profitentur, neque a Corporis compage semet ipsos misere separarunt vel ob gravissima admissa a legittima auctoritate seiuncti sunt”. Cfr. Pius P.P. XII, Litterae encyclicae Mystici corporis, in Acta Apostolicae Sedis XXXV (1943), pp. 193-248. Il testo citato si trova a p. 202.
[6] Già nei princìpi direttivi della nuova codificazione, approvati dal Sinodo dei vescovi del 1967, sottolineando il dovere dell’autorità ecclesiastica di un esercizio non arbitrario dei propri poteri, si riconoscevano e tutelavano conseguentemente i diritti attribuiti a ogni singolo fedele dal diritto divino e dalla legislazione della Chiesa. In primo luogo occorreva, dunque, mettere in luce la fondamentale uguaglianza esistente fra tutti i cristiani, avente la propria fonte nella loro dignità umana e nel battesimo ricevuto. Cfr. Communicationes I (1969), pp. 82-83.
[7] In realtà si trattava della terza redazione di un progetto di LEF; le precedenti, del 1966 e del 1967, rimasero all’interno della Commissione di revisione del Codice come base di lavoro per le successive elaborazioni: cfr. R. Metz, La nouvelle codification du droit de l’Eglise (1959-1983), in Revue de droit canonique XXXIII (1983), p. 147. La qualifica di ‘fondamentale’fu esplicitamente prevista per i doveri-diritti del fedele nel testo emendato dello schema di Lex Ecclesiae Fundamentalis, datato 25 luglio 1970, e nella successiva Lex Ecclesiae Fundamentalis seu Ecclesiae Catholicae Universae Lex Canonica Fundamentalis del giugno 1976: cfr. Il Regno, Documenti, XVI (1971), p. 15; ibidem, 23 (1978), p. 483. La qualifica di fondamentale sarebbe, però, venuta meno alla previsione del passaggio di una serie di canoni della LEF al Codice, nell’ipotesi, alla fine avveratasi, di non promulgazione della prima. Pareva quasi che tale qualifica fosse strettamente legata al luogo legislativo della LEF, e che fosse incompatibile con il Codice; essa, infatti, sia nel cosiddetto anti-progetto (precisamente nello Schema canonum libri II De Populo Dei), sia nello Schema Codicis del 1982 non fu mai prevista. Inoltre, lo schema del 1980 non contemplava i doveri-diritti dei christifideles, che ancora facevano parte della LEF: cfr. Communicationes XV (1984), p. 91.
[8] Peraltro è stato anche osservato come il Concilio Vaticano II, mentre ha riconosciuto l’esistenza di doveri e di diritti comuni a tutti i membri del Popolo di Dio, non si sia dato carico di prospettarne un elenco organico e completo, limitandosi piuttosto ad alcune esemplificazioni formulate in termini privi della necessaria veste giuridica: cfr. J. Beyer, Dal Concilio al Codice. Il nuovo Codice e le istanze del Concilio Vaticano II, Bologna 1984, p. 137.
[9] Cfr. J. Hervada, Diritto costituzionale canonico, Milano 1989, p. 34.
[10] Nel Liber IV, cap. 76, n. 4103, della Summa contra Gentiles Tommaso parla di Popolo e di Chiesa come di un’unica realtà, distinguendoli però sia dal punto di vista sacramentale che da quello sociologico. In tal modo, sotto il primo aspetto il Popolo di Dio è composto da una congregatio fidelium, ossia un’unione di battezzati fondata su un’unica piattaforma ontologica rappresentata dal sacramento del battesimo. Se considerato, invece, sotto l’aspetto sociologico, questo peculiare Popolo per Tommaso è costituito da un insieme di fedeli legati tra di loro da vincoli comunionali, dati dalla condivisione degli strumenti di salvezza della Parola di Dio e dei sacramenti. È, quest’ultimo, l’aspetto più propriamente comunitario. D’altra parte, in Tommaso vi è anche un’accezione societaria di Popolo di Dio, in cui il popolo è quella moltitudine di uomini che si riconoscono ricompresi sotto una certa legge. In quest’ottica, il popolo diviene la società che si organizza. Quindi, nel parlare della Chiesa, l’Aquinate esamina in primo luogo la dimensione sacramentale (essenza); poi passa alla sua dimensione concreta e contingente (comunità). Ne deriva che il Popolo di Dio è insieme uno e molteplice: una è la Chiesa in quanto uno è il Popolo cristiano. Dal punto di vista dell’elemento sacramentale e di quello sociologico, Popolo di Dio e Chiesa coincidono (cfr. Summa contra Gentiles, Liber IV, cap. 76, n. 4103, vol. III, Torino-Roma 1961).
[11] Cfr. P. Erdö, Il cattolico, il battezzato e il fedele in piena comunione con la Chiesa cattolica. Osservazioni circa la nozione di cattolico nel CIC (a proposito dei cann. 11 e 96), in Periodica LXXXVI (1997), pp. 213-240.
[12] Il diritto naturale consiste in una “[…] serie di princìpi razionalmente derivati da un ristretto gruppo di princìpi primi” (G. Dalla Torre, Diritti dell’uomo o diritti del cristiano?, in I diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società. Atti del IV Congresso internazionale di diritto canonico, Fribourg (Suisse), 6-11 ottobre 1980, Milano 1981, p. 132).
D’altra parte, anche Maritain ha autorevolmente affermato, in relazione alla problematica concernente i diritti dell’uomo, l’inscindibilità della nozione di diritto da quella di obbligazione morale. Per il filosofo, “[…] entrambe poggiano sulla libertà propria degli agenti spirituali; se l’uomo è moralmente obbligato a cose necessarie per il compimento del suo destino, gli è che egli ha il diritto di perseguire il suo destino, e, se ha il diritto di compiere il suo destino, ha pure il diritto alle cose a ciò necessarie” (J. Maritain, I diritti dell’uomo e la legge naturale, Milano 1977, p. 60).
[13] Le soluzioni interpretative proposte dalla dottrina canonica intorno alla configurabilità di uno statuto giuridico comune a tutti i fedeli si possono ricondurre sostanzialmente a tre posizioni.
Secondo una prima teoria, detta della positivizzazione, sostenuta in particolar modo dal Del Giudice, l’uomo, conosciuto il diritto di natura, lo formalizza in un testo cogente e vincolante. La questione che concerne lo statuto fondamentale dei diritti-doveri del fedele viene incentrata tutta sulla positivizzazione delle norme promananti dal diritto naturale (cfr. V. Del Giudice, cit., pp. 11-13).
Di diverso avviso è la Scuola di Monaco, per la quale il diritto canonico è eminentemente una scienza teologica; ciò che crea il diritto è la communio, ossia la comunione mistica perpetuata dalla Parola di Dio e dai Sacramenti; è essa a tenere uniti i fedeli. Corecco giunge a definire tutto il diritto canonico come un’ordinatio fidei ad communionem. In tal modo il problema della fondamentalità dei diritti-doveri dei fedeli viene analizzato in un’ottica esclusivamente teologica (cfr. E. Corecco, Ius et communio, vol. II, Casale Monferrato 1997).
Altra parte della dottrina, facente capo alla Scuola di Navarra, recupera tutte le istanze tomiste circa i caratteri fondanti la categoria giuridica di Popolo di Dio. Secondo i principali esponenti di tale Scuola di pensiero, dal diritto naturale segue il sensus fidei; il popolo cristiano agisce in conformità alla legge naturale, derivazione della legge eterna di Dio. Il Magistero ecclesiale trasfonde i contenuti del diritto naturale positivizzandoli nel Codice e nelle diverse leggi della Chiesa. Emerge un’idea di diritto che è in continua evoluzione: il popolo cristiano conosce sempre meglio il diritto naturale, e la fonte di tale conoscenza diviene la stessa relazione umana (cfr. J. Hervada, cit., p. 34).
[14] Nel decreto Unitatis redintegratio, al n. 22 a è detto che “[…] quanti ricevono il battesimo sono veramente incorporati a Cristo e vengono rigenerati per partecipare alla vita divina”.
[15] Nella Lumen Gentium n. 9 a, nella Sacrosanctum Concilium n. 5 e nella Lumen Gentium n. 35 a, è rispettivamente detto che “[…] I battezzati costituiscono il nuovo Popolo di Dio, che volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma riunendoli in un unico popolo che lo riconoscesse e lo servisse; […] Essi diventano così partecipi della missione del Signore nelle sue funzioni di sacerdote, costituito mediatore tra Dio e gli uomini; […] di profeta, mandato a proclamare il Regno del Padre”.
[16] Cfr. J. Hervada, cit., p. 34.
[17] Cfr. E. Corecco, I presupposti ecclesiologici e culturali del nuovo Codice, in S. Ferrari (a cura di), Il nuovo codice di diritto canonico, Bologna 1983, pp. 37-68.
[18] Cfr. V. De Paolis, Communio in novo Codice iuris canonici, in Periodica LXXVII (1988) pp. 521-552.
[19] Cfr. E. Corecco, cit., pp. 617-645.
[20] Cfr. G. Ghirlanda, De Christifidelibus (Cann. 204-207), Roma 1983, pp. 1-18; R. Botta, “Bonum commune et Ecclesiae” ed esercizio dei diritti fondamentali del fedele nel nuovo codice di diritto canonico, in Raccolta di scritti in onore di Pio Fedele, vol. I, Perugia 1984, pp. 317-331.
[21] Si può dunque definire sinteticamente il fedele nella Chiesa mediante il riconoscimento della presenza dei seguenti elementi costitutivi: 1) è il battezzato, che si identifica anche dal punto di vista ontologico-sacramentale; 2) diviene membro del Popolo di Dio qualunque funzione svolga; 3) è un essere creato ad immagine di Dio e ordinato in Dio; 4) è un essere caratterizzato da relazionalità; 5) è immagine trinitaria nel suo relazionarsi al prossimo; 6) fruttifica la costruzione della comunione, tendendo ad essa come piena realizzazione di se stesso; 7) è dotato di libero arbitrio e vive una condizione di libertà; 8) attraverso la sua collaborazione passa l’azione creatrice e salvifica di Dio (cfr. P. A. Bonnet, Il “christifidelis” recuperato protagonista umano nella Chiesa, in R. Latourelle (a cura di), Vaticano II: bilancio e prospettive. Venticinque anni dopo (1962-1987), vol. I, Assisi 1988, pp. 471-492).
[22] Cfr. E. Corecco, cit., p. 630 s.
[23] Cfr. K. Walf, Vangelo, Diritto canonico e diritti umani. Fondazione e carenze, in Concilium II (1990), pp. 55-67.
[24] Cfr. G. Dalla Torre, cit., p. 125. Secondo l’autore “[…] non deve certamente sorprendere il ritardo con cui la riflessione giuridica su di un problema di così grande rilievo com’è quello dei diritti fondamentali sia venuta maturando nella società ecclesiale, in riferimento alle esigenze di tutela della persona umana nell’ordinamento canonico, rispetto al più che secolare sviluppo che le dottrine giuridico-politiche e le esperienze normative in tale materia hanno conosciuto nell’ambito degli ordinamenti giuridici secolari”.
[25] Cfr. G. Lo Castro, Il soggetto e i suoi diritti nell’ordinamento canonico, Milano 1985, p. 51, secondo il quale “[…] ancor meno naturalmente sarebbe stato possibile rintracciare una normativa sui diritti del christifidelis, non specificato per condizioni particolari di vita o per specifiche funzioni svolte, atteso che tale categoria, strettamente dipendente da quella di Popolo di Dio, non era presente nel Codex”.
[26] Cfr. P. Bellini, Diritti fondamentali dell’uomo, diritti fondamentali del cristiano, in Libertà e dogma, Bologna 1984, pp. 117-153. Per l’autore il perno dell’ordinamento canonico non è fondato sul concetto di soggetto e sui suoi attributi, ma proprio sulla Lex: è questa che fonda teoreticamente l’ordinamento e in particolare i diritti dell’uomo.
[27] D’altra parte, anche P. Hinder, Grundrechte in der Kirche. Eine Untersuchung zur Begründung der Grundrechte in der Kirche, Fribourg 1977, p. 217, osserva che per diritti fondamentali del cristiano si intende “l’istituzione giuridica che regola le relazioni fondamentali nella comunità ecclesiale, in modo che la communio e i suoi membri possano accogliere liberamente gli atti ecclesiali fondamentali” [nostra traduzione]. Hinder tocca la problematica dei diritti del cristiano nella prospettiva ecclesiologica, prima di passare a servirsi dei metodi giuridici di analisi. Così egli evita di prendere come punto di partenza il concetto moderno di libertà; al contrario, il punto d’avvio della sua disamina è il fedele integrato nella communio. I diritti fondamentali del cristiano non sono diritti individuali del cristiano di fronte alla comunità; essi sono colti attraverso l’integrazione del cristiano nella communio della Chiesa.
[28] Cfr. J. Hervada, cit., pp. 40 ss. Un inquadramento sistematico dei diritti e doveri dei fedeli (cann. 208-223) è quello operato dallo studioso spagnolo, secondo il quale la condizione del fedele è costituita dalla simultanea presenza di quattro condiciones: 1) condicio libertatis, 2) communionis, 3) subiectionis, 4) activa.
Le situazioni giuridiche derivanti dalla condicio libertatis rappresentano sfere di attività libera (sfere di immunità) del fedele. Ci si riferisce al contenuto del can. 211 (diritto di apostolato personale), del can. 214 (diritto alla propria forma di vita spirituale, purchè conforme alla dottrina della Chiesa), del can. 215 (diritto di riunione e di associazione), del can. 219 (diritto di scelta della personale condizione di vita), del can. 227 (immunità da coercizioni esterne e sfera di autonomia personale). Invece, le situazioni giuridiche proprie della condicio communionis derivano dalla comunione nella fede e nei sacramenti, riferendosi soprattutto ai sacramenti e alla Parola di Dio. La condicio subiectionis caratterizza la dimensione istituzionale del Popolo di Dio, e le situazioni giuridiche sono regolate dal principio di subordinazione alla legittima autorità. Infine, le situazioni giuridiche derivanti dalla condicio activa sono sfere personali del fedele che presentano rilievo sociale in quanto possono essere manifestazioni della funzione sociale del fedele stesso (si pensi al diritto alla propria opinione, al diritto all’informazione, a quello di ricerca scientifica e di insegnamento, al diritto-dovere di sovvenire alle necessità temporali della Chiesa).
[29] “[…] La trasposizione nell’ordinamento canonico della classe dei diritti fondamentali così come elaborata nella speculazione laica e nell’esperienza degli ordinamenti secolari conduce a evidenti incongruenze. Si pensi al caso del diritto alla vita o del diritto all’integrità fisica, che non hanno ragion d’essere in un ordinamento, com’è quello canonico, che non possiede il potere incisivo, la capacità di coazione anche fisica, propri dello Stato” (G. Dalla Torre, cit., pp. 125 ss.).
[30] Secondo R. Metz, Droits de l’homme ou droits du chrétien dans le projet de la Lex Fundamentalis? Quelques réflexions, in Ius et salus animarum. Festschrift für Bernhard Panzram, Freiburg i. Br. 1972, pp. 86-88: “[…] una doppia confusione appariva nell’enumerazione dei diritti fondamentali del cristiano (si trattava del progetto di LEF del 1970). Vi troviamo la confusione tra i diritti del laico e i diritti del cristiano; in seguito, la confusione, ancora più grave, tra i diritti dell’uomo e i diritti del cristiano […]. La confusione potrebbe lasciar credere che la Chiesa illude i suoi fedeli: essa riconosce loro dei diritti nella loro qualità di cristiani, allorché quei loro diritti sono dovuti in quanto uomini in virtù della più elementare giustizia […]. Si immaginerebbe volentieri che la Chiesa dicesse ai suoi fedeli: non soltanto tutti i diritti dell’uomo sono acquisiti come pieni di sé, ma essi vi sono acquisiti a un titolo eminente in ragione del vostro battesimo, che ha fatto di voi dei figli di Dio e dei fratelli di Cristo […]. Tuttavia la realtà che è espressa nella Legge Fondamentale è ben diversa. Il cristiano non ha lo stesso diritto a ciò che è riconosciuto ad ogni uomo, perché i diritti fondamentali del cristiano, che corrispondono per la più parte a semplici diritti dell’uomo, sono ancora muniti di clausola restrittiva. La Legge Fondamentale è molto più preoccupata a restringere il campo d’azione dei diritti fondamentali piuttosto che a enunciarli” [nostra traduzione].
[31] Cfr. V. Marcozzi, Il diritto alla propria intimità nel nuovo Codice di diritto canonico, in Vita consacrata XX (1984), pp. 552-559.
Giarnieri Enrico
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