fbevnts Amnesty for tax evasion and general interest in the collection of taxes. Constitutional profiles

Condono fiscale e interesse generale alla riscossione dei tributi. Profili costituzionali

06.11.2019

Salvatore La Porta

 

Condono fiscale e interesse generale alla riscossione dei tributi. Profili costituzionali*

 

Amnesty for tax evasion and general interest in the collection of taxes. Constitutional profiles

 

Sommario: 1. Definizione di condono e impostazione della questione – 2. Il condono come remissione delle sanzioni – 3. Il diverso fondamento costituzionale della retroattività più favorevole del regime sanzionatorio e del condono – 4. Il condono e il principio di uguaglianza – 4.1. Il condono come sospensione legislativa e non come deroga – 4.2. La ragione giustificatrice del condono – 5. Condono e Amnistia – 6. La remissione delle sanzioni amministrative

 

 

  1. Definizione di condono e impostazione della questione

 

Chi volesse conoscere la traduzione in lingua inglese dell’espressione “condono fiscale” e, a tal fine, consultasse uno dei più rinomati dizionari giuridici, troverebbe la seguente definizione: «[g]rosso modo, amnesty for tax evasion: nelle dimensioni nostrane, virtualmente ignoto e impensabile nei paesi civili; ma attivamente praticato nel nostro che, almeno per questo capo, civile non è». Ancora più tranchant l’autore a proposito del lemma “condono edilizio”, che, prima, è tradotto, «[g]rosso modo», in pardon for infringement of building (o zoning) e, subito dopo, si precisa che «non esiste nei paesi civili»[1].

Le pungenti espressioni riportate sopra mettono in luce una diffusa antipatia (se non un’aperta ostilità) verso varie forme di condono e, più in generale, di clemenza[2]. Giornalisti, opinionisti, “comuni cittadini” si scagliano contro ogni condono, additato come emblema del peggior malcostume politico. E i politici, dal canto loro, non vogliono essere da meno e criticano aspramente ogni condono approvato. Finché militano in gruppi di opposizione, salvo dimenticare i loro strali contro i condoni quando passano in maggioranza.

Insomma, il condono non è à la page, ma è ferocemente criticato da più parti. Almeno a parole. Perché nella realtà assistiamo da decenni a una incessante attività di approvazione di varie forme di condono e non solo in ambito tributario – dove il condono è nato e ha la più ampia applicazione – ma anche in altri settori, come quello edilizio e della disciplina del rapporto di lavoro. I condoni sono così numerosi che si fatica a contarli e ad avere un numero preciso di quelli approvati nel corso della storia unitaria del nostro Paese. Una difficoltà nel quantificarne il numero che deriva vuoi dal fatto che spesso i condoni sono inseriti, con definizioni letterali non sempre immediatamente riconoscibili, in provvedimenti legislativi contenenti disposizioni eterogenee; vuoi dall’origine pre-repubblicana del condono che rende arduo stabilire da quando iniziare il conteggio[3].

Ebbene, anche a costo di sfidare tale diffusissima “antipatia” nei confronti delle disposizioni condonistiche, nelle pagine seguenti si vuole sostenere che il condono, a determinate (e stringenti) condizioni, non contrasta con norme e princìpi costituzionali e che, in tali casi, la sua approvazione può essere intesa come il frutto di un uso non irragionevole della discrezionalità legislativa. Di converso, le norme condonistiche che non dovessero rispettare tali condizioni e limiti, sarebbero, a parere di chi scrive, non conformi alla Costituzione.

Sia chiaro: tale posizione che sfida il comune sentimento di antipatia nei confronti del condono è meno “eroica” di quanto, a prima vista, non possa apparire. E questo non solo perché in dottrina è stata sostenuta la legittimità costituzionale di norme condonistiche, ma soprattutto perché la Corte costituzionale ha sempre “salvato” i condoni sottoposti al suo giudizio. Con argomentazioni non sempre condivisibili, ha quasi sempre dichiarato l’infondatezza (e talvolta la manifesta infondatezza) delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.

Anche quando il Giudice delle leggi ha accolto le questioni sollevate, non ha scardinato l’impianto condonistico, ma anzi ha ampliato la platea dei destinatari, estendendo i benefici del condono fiscale anche a soggetti che ne erano stati esclusi (a dire della Corte) illegittimamente[4]. Analogamente, per i condoni edilizi: le questioni di legittimità accolte riguardavano il riparto delle competenze tra Stato e Regioni, senza che questo abbia mai messo in discussione l’impianto del condono edilizio, che è passato sostanzialmente indenne al giudizio della Corte costituzionale[5]. Per le finalità e l’impostazione di questo scritto, si deve precisare che nel prosieguo si farà riferimento più alla giurisprudenza costituzionale sul condono edilizio che a quella sul condono fiscale. È, infatti, nella giurisprudenza sul condono edilizio che la Corte costituzionale approfondisce profili che attengono all’istituto condonistico, con considerazioni che valgono anche per quelli fiscali. Viceversa, nelle decisioni relative a quest’ultimi, quasi sempre i vizi denunciati attengono a un’asserita disparità di trattamento, nel senso che si lamenta l’esclusione di alcuni soggetti dal novero dei beneficiari del condono.

La massiccia e regolare presenza di condoni ce li hanno resi familiari, di conseguenza potrebbe apparire superfluo definirli. Tuttavia, fornire una definizione del condono, oggetto di questo scritto, è utile e opportuno, non solo perché è sempre buona norma definire l’oggetto del proprio studio, ma anche e soprattutto perché il legislatore raramente utilizza il termine “condono” e, comunque, lo fa in atti risalenti[6].

Per i «moderni condoni» (come li chiama la Corte costituzionale nella sentenza n. 369 del 1988) il legislatore usa espressioni più pudiche e oscure come «definizione automatica» (finalizzata all’estinzione dei debiti); «dichiarazione integrativa speciale»; «rimpatrio»; «procedura di collaborazione volontaria»; «regolarizzazione» (tutti finalizzati all’emersione); «legalizzazione»; «stralcio»; «sanatoria» (degli abusi edilizi).

Tale fantasia definitoria[7] è stata, poi, “arricchita” dalla dottrina e dalla stampa (ripresa talvolta dalla giurisprudenza) con pittoresche definizioni che spaziano da un funereo “condono tombale”[8] ad un avveniristico “scudo fiscale”[9] fino all’immancabile espressione straniera di voluntary disclosure[10].

Ben si comprende, allora, come – almeno in via di prima approssimazione – sia utile dare una definizione del condono, al fine di circoscrivere l’oggetto di questo studio.

Si tratta di una definizione per certi versi convenzionale, adottata per riunire sotto la stessa “etichetta” figure eterogenee, ma che – pur denominate in maniera diversa dal legislatore – presentano delle caratteristiche comuni che ci consentono una trattazione unitaria.

Pertanto il condono può essere definito come una remissione (o riduzione) delle sanzioni ordinariamente previste per un illecito commesso in un periodo determinato dalla legge (e precedente alla sua entrata in vigore), previo il compimento da parte dell’autore dell’illecito di alcuni adempimenti entro un termine fissato dalla legge medesima. Per completare tale definizione si deve aggiungere che il condono è previsto da leggi ordinarie o, comunque, da atti aventi il valore di legge, nello specifico: decreti legge. Questa preliminare definizione di condono sarà meglio specificata di seguito anche per differenziare il condono da altre figure che potrebbero apparire identiche, ma prima conviene fare alcune brevi precisazioni sia su questa definizione sia per chiarire l’impostazione che si vuole dare a questo scritto.

La prima riguarda l’inserimento del condono nel novero della remissione sanzionatoria. Ora, non vi è dubbio che lo stesso termine “condono” richiama l’abbuono (il condono, appunto) di sanzioni ordinariamente previste nel caso della commissione di un illecito. Tuttavia, nel campo del condono fiscale, il legislatore ha previsto fattispecie diverse che la dottrina tributaristica non ha mancato di evidenziare, distinguendo i condoni “puri”, quelli che si limitano «ad abbuonare le sanzioni, escludendo effetti sulla imposta e sugli interessi», dagli “impuri”, quelli di «ogni altro tipo»[11], che, quindi, non si limitano a condonare le sanzioni, ma producono effetti anche sull’imposta (che sarebbe stata) dovuta. Si può anticipare che quest’ultimi presentano profili problematici che meglio saranno analizzati nel prosieguo e che, per il momento, mi limito a segnalare.

La seconda breve precisazione sulla definizione di condono fornita sopra riguarda l’adempimento che l’autore dell’illecito deve compiere per accedere al condono. L’abbuono (o la riduzione) delle sanzioni è riconosciuto dalle leggi condonistiche a fronte di un adempimento richiesto all’autore dell’illecito, che anzi deve presentare un’istanza (variamente denominata), una sorta di autodenuncia, e poi adempiere in genere al pagamento di una oblazione o, comunque, di quanto originariamente dovuto o, almeno, parte di esso. In sostanza, il condono non opera automaticamente, le sanzioni non sono rimesse per il solo fatto che il relativo illecito sia stato commesso nel periodo considerato dalla legge: è comunque sempre richiesta la partecipazione (e l’autodenuncia) dell’agente entro un termine determinato dalla legge stessa. Anche quando la legge parla di «definizione automatica degli anni pregressi», in realtà non vi è alcun automatismo, ma è richiesto che l’agente presenti una «dichiarazione» e la definizione automatica si perfeziona con dei versamenti[12]. È, questo, un profilo, rilevante che distingue il condono da altre forme di remissione della sanzione su cui più avanti si ritornerà.

Veniamo così all’ultima precisazione che appare utile non solo per esplicitare l’impostazione che si vuole dare a questo scritto, ma anche per fugare ogni dubbio su quanto anticipato sopra.

Infatti, si è detto che, a determinate condizioni, le norme condonistiche non contrastano con il quadro costituzionale, il che non vuol dire che la diffusa pratica dell’evasione fiscale (su cui interviene il condono) sia da considerare positivamente. È evidente che l’evasione fiscale è una patologia grave. Ed è grave non solo perché consiste in una violazione di norme, ma anche, e soprattutto, perché quelle norme violate sono poste a presidio di un interesse fiscale – costituzionalmente fondato – che soddisfa istanze e aspirazioni dell’intera collettività[13] e, in special modo, dei soggetti più deboli e bisognosi[14]. Probabilmente la fantasia definitoria del legislatore a cui si accennava in precedenza deriva proprio dalla consapevolezza di tale gravità, che lo spinge a utilizzare formule spesso oscure quasi per nascondere il condono.

Sottolineata la gravità dell’evasione, si deve fare una puntualizzazione di ordine metodologico. Posto, quindi, che l’evasione fiscale è inosservanza del dovere tributario, si è privilegiato un altro angolo visuale. Nel prosieguo ci si focalizzerà sulla libertà del legislatore di adottare i condoni o, per meglio dire, sui limiti (in primis, quello connesso al principio di uguaglianza) che esso incontra nell’esercitare tale libertà, anche con riferimento all’amnistia, da cui – si può anticipare – il condono si differenzia. In questo senso, il dovere tributario non scompare dall’orizzonte di questo scritto perché si porrà l’accento su quell’interesse costituzionale alla riscossione dei tributi, che – come riconosce la Corte costituzionale – è «particolarmente differenziato» proprio perché, come si vedrà, condiziona la vita della comunità nazionale, attenendo al regolare funzionamento dei servizi necessari a questa.

Naturalmente, il taglio di questo scritto è costituzionalistico, pertanto pure i temi relativi alla disciplina sanzionatoria – anche con richiami a concetti penalistici e amministrativistici – saranno analizzati in quest’ottica.

La tesi che si vuole sostenere è che se nella tradizionale libertà riconosciuta al legislatore rientra anche quella di rimettere le sanzioni previste per gli illeciti commessi in un periodo precedente, tale libertà incontra dei limiti, che si esporranno di seguito. Limiti, beninteso, che valgono per qualsiasi tipo condono, ma che, nel caso di quelli fiscali, devono essere particolarmente stringenti perché, in questo caso, entra in gioco il dovere tributario.

 

  1. Il condono come remissione delle sanzioni

 

Quando si ricomprende il condono nell’ambito della remissione della sanzione, di quest’ultima si accoglie – sulla scia della dottrina costituzionalistica che più ha approfondito il tema – quella nozione ampia o, se si vuole, generica di «mancata irrogazione di sanzione, pur in presenza di un illecito». La stessa dottrina, però, per circoscrivere il concetto – che altrimenti sarebbe troppo ampio – prevede che debbano sussistere alcune caratteristiche.

In primo luogo, la remissione sanzionatoria «non è legittimata da una valutazione sulla personalità (ed attitudine a commettere futuri illeciti) del soggetto…[ma]…avviene in via concreta». In secondo luogo, la remissione che a noi interessa è disposta da un organo diverso da quello «che è competente, in via ordinaria, ad irrogare la sanzione in seguito alla commissione dell’illecito». Infine, l’interesse perseguito dall’organo remittente può essere diverso da quello «sottostante al rapporto: illecito-sanzione»[15].

Volendo riassumere ai nostri fini questa ricostruzione della remissione sanzionatoria, si può dire che il condono è una forma di remissione (potenzialmente) collettiva della sanzione che prescinde dalle qualità del soggetto responsabile dell’illecito e che è disposta da un organo che non è quello ordinariamente competente ad irrogare la sanzione. Pertanto, il condono interviene dall’esterno nell’ordinaria dinamica processuale (o procedimentale, per le sanzioni amministrative), dove l’irrogazione delle sanzioni trova la sua sede naturale.

Ci si soffermerà più avanti (e approfonditamente) sugli interessi perseguiti dal condono, perché del condono inteso come remissione sanzionatoria, adesso, preme sottolineare un altro aspetto e, cioè, che l’illecito cui si ricollega la sanzione rimessa dal condono mantiene il suo connotato di antigiuridicità. In sostanza, il condono non compie una rivalutazione permanente della condotta illecita, spogliandola del suo tratto di antigiuridicità per ammetterla definitivamente nell’ambito del lecito. Esso si limita a rimettere le sanzioni soltanto a quei soggetti che hanno commesso l’illecito nel periodo determinato e che hanno compiuto gli adempimenti previsti entro il termine stabilito. Fuori da questi casi e, quindi, fuori dai due termini temporali (quello della commissione dell’illecito e quello entro cui adempiere alle prescrizioni stabilite) la condotta mantiene la sua caratteristica di antigiuridicità, con la conseguente sottoposizione al regime sanzionatorio[16].

 

  1. Il diverso fondamento costituzionale della retroattività più favorevole del regime sanzionatorio e del condono

 

Il condono, quindi, non opera una rivalutazione della condotta illecita, che rimane tale, limitandosi ad abbuonare le sanzioni per l’illecito commesso nel periodo determinato dalla legge e a essa precedente. In ciò, quindi, il condono si differenzia dalla depenalizzazione sia perché con quest’ultima il legislatore rivaluta una determinata condotta togliendole definitivamente il connotato di illiceità e, dunque, viene meno la ragione del punire; sia perché la depenalizzazione opera pro futuro.

Tuttavia, questa affermazione necessita di alcune precisazioni, perché possiamo riscontrare alcune tipologie diverse di depenalizzazione.

Si può distinguere una prima tipologia, consistente in una radicale abolitio criminis, che si ha quando il legislatore abolisce l’illecito, nel senso che una condotta ritenuta illecita non viene più considerata tale in seguito alla legge.

A questo si aggiunge la classica depenalizzazione (o “decriminalizzazione”) che si ha quando la legge degrada alcuni illeciti da penali ad amministrativi.

Con una qualche forzatura – che chiarirò subito – possiamo far rientrare nel novero delle leggi che tolgono per il futuro il connotato di antigiuridicità a una condotta anche un terzo tipo di provvedimenti che sono quelle che trasformano una condotta considerata come illecito amministrativo in una condotta lecita, non più sanzionata. È vero che, in quest’ultimo caso, a rigore, non si può parlare di depenalizzazione perché manca all’origine l’illecito penale, ma, ai nostri fini, il meccanismo che si innesca è identico a quello degli altri due casi, perché la legge toglie pro futuro il connotato di illiceità (seppur solo amministrativo) ad una condotta.

Conviene precisare subito, però, che nonostante tale meccanismo sia identico a quello delle leggi di depenalizzazione vera e propria, non vuol dire che vi sia una completa sovrapponibilità tra sanzione amministrativa e sanzione penale. Fra i due tipi di sanzione – soprattutto per quanto attiene alle tutele riconosciute all’autore dell’illecito – permangono delle differenze, nonostante le recenti evoluzioni della giurisprudenza costituzionale volte ad assottigliare la distanza tra i due tipi di sanzione e culminate nella recentissima sentenza 21 marzo 2019, n. 63, che ha esteso anche a chi è soggetto alle sanzioni amministrative c.d. “punitive” la retroattività del regime più favorevole, che, fino a quel momento, era riconosciuta solo per le sanzioni penali[17]. Si tornerà più avanti sulle sanzioni amministrative che sono importanti per queste note perché storicamente i condoni fiscali nascono come remissione di queste[18] e, soltanto in anni più recenti, hanno previsto pure l’abbuono di sanzioni penali sulla scorta anche di altri tipi di condono, diversi da quelli fiscali.

Adesso si deve riprendere il discorso sulla depenalizzazione perché, quando si sostiene, come si è fatto sopra, che la depenalizzazione opera per il futuro, si fa un’affermazione formalmente corretta, perché questa è l’intenzione del legislatore. In sostanza, la depenalizzazione è il frutto di un diverso (e attuale) apprezzamento del legislatore su un fatto che, fino a quel momento, rappresentava un disvalore che per questo veniva punito, ma che, proprio in seguito al diverso apprezzamento, non verrà più considerato tale.

Ciò non toglie, però, che – almeno per i primi due tipi, quelli cioè di depenalizzazione vera e propria – la legge dispieghi i suoi effetti anche nel passato, in base al principio della retroattività della legge penale più favorevole. Com’è noto, questo principio è sancito dall’art. 2 del codice penale, in base al quale «[n]essuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge posteriore, non costituisce reato, e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali»[19] e trova applicazione non solo nel caso di legge successiva che abolisce il reato, ma anche nel caso di legge successiva che mitiga la pena.

Più controverso è stabilire se questo principio della retroattività della lex mitior – che trova applicazione in ambito penale – possa valere anche per le leggi che aboliscono i soli illeciti amministrativi. L’estensione analogica dell’art. 2, cod. pen., alle ipotesi in parola sembra da escludere, anche perché la legge 24 novembre 1981, n. 689, nel determinare i principi generali in tema di sanzioni amministrative, non sancisce un principio analogo. Anzi l’art. 1 di questa legge, nel riproporre quasi testualmente il 2° comma dell’art. 25, Cost.[20], lascerebbe intendere che – salvo che una legge non disponga diversamente – si debba applicare «la disciplina vigente al momento in cui è stata commessa la violazione, anche se il fatto abbia successivamente perduto il carattere di illecito amministrativo, ovvero sia subentrata una diversa disciplina più favorevole all’agente»[21].

Come si diceva, nemmeno la giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni che, anche sulla scorta di decisioni sia della Corte EDU che della Corte di Giustizia, ha ridotto la differenza fra i due tipi di sanzione, è giunta a una completa equiparazione. Solo recentissimamente i giudici di Palazzo della Consulta, con la già citata sentenza n. 63 del 2019, hanno esteso il principio della retroattività della lex mitior alle sanzioni amministrative c.d. “punitive” e, quindi, non a tutte le sanzioni amministrative. Si tratta, com’è noto, di sanzioni che, in base a criteri elaborati dalla giurisprudenza[22], presentano un alto grado di severità, sicché la loro elevata carica afflittiva è sostanzialmente[23] analoga a quella delle sanzioni penali, a prescindere dalla qualificazione formale delle stesse.

La Corte costituzionale estende anche a questo tipo di sanzioni amministrative il principio della retroattività della lex mitior, in base alla stessa logica individuata dalla giurisprudenza costituzionale in ordine alle sanzioni penali. Ed è proprio questa logica e, quindi, il fondamento costituzionale del principio in parola che ci consente di confermare la diversità tra la depenalizzazione e il condono, nonostante anche la prima, come il secondo, operi anche ex post facta, in virtù della retroattività favorevole.

Infatti, la giurisprudenza costituzionale ha chiarito come la regola della retroattività della legge penale più favorevole non trovi il suo fondamento costituzionale nell’art. 25, comma 2 della Costituzione, secondo cui «[n]essuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso».

La disposizione costituzionale testé citata, infatti, enuncia il principio – assoluto e inderogabile – della irretroattività della legge penale che introduce nuove fattispecie criminose o aggrava il regime sanzionatorio di quelle già esistenti. In un’ottica garantistica si vuole così tutelare l’autodeterminazione dell’individuo che non può essere sorpreso da una nuova (o più grave) sanzione, non prevista (né prevedibile) nel momento in cui ha compiuto il fatto.

Il principio della retroattività della legge penale più favorevole, invece, trova esplicita enunciazione solo a livello di legislazione ordinaria (nel citato art. 2 del codice penale), ma questo non vuol dire che sia privo di un fondamento costituzionale, individuato dalla Corte nell’art. 3 della Costituzione[24].

Infatti, la retroattività della lex mitior[25] è il portato di una legge di depenalizzazione che toglie definitivamente il connotato di illiceità a un fatto (o, comunque, decide definitivamente di mitigare la pena), di conseguenza si equipara il regime sanzionatorio di fatti identici, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo la legge più favorevole[26], in quanto «[n]on sarebbe ragionevole punire (o continuare a punire più gravemente) una persona per un fatto che, secondo la legge posteriore, chiunque altro può impunemente commettere (o per il quale è prevista una pena più lieve). Per il principio di eguaglianza, infatti, la modifica mitigatrice della legge penale e, ancor di più, l’abolitio criminis, disposte dal legislatore in dipendenza di una mutata valutazione del disvalore del fatto tipico, devono riverberarsi anche a vantaggio di coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento anteriore, salvo che, in senso opposto, ricorra una sufficiente ragione giustificativa»[27].

Proprio questo fondamento costituzionale della retroattività della legge più favorevole ci consente di distinguere la depenalizzazione dal condono perché se è vero che entrambi operano ex post facta, è altrettanto vero che la retroattività favorevole trova il suo fondamento costituzionale nell’art. 3 Cost., mentre il condono sembra porsi in una posizione antinomica rispetto al principio di uguaglianza[28].

 

  1. Il condono e il principio di uguaglianza

 

La tensione con il principio di uguaglianza emerge se solo si pensa che chi beneficia del condono si vedrà riconosciuta – da una legge successiva alla commissione dell’illecito – una posizione più favorevole (la remissione della sanzione) rispetto a chi ha commesso l’identico illecito ma in un periodo diverso da quello considerato dalla legge di condono e, di conseguenza, soggiacerà al regime sanzionatorio che – come si è detto – non è abrogato dal condono.

In questo caso non vi è una rivalutazione permanente del fatto illecito (come nella depenalizzazione), che porterebbe, in un’ottica di uguaglianza, a estendere la disciplina più favorevole anche a chi ha commesso il fatto nel vigore di una legge precedente più severa. Con il condono due posizioni identiche (gli illeciti) sono disciplinate in maniera diversa, per il solo fatto che una non rientra (anche per un solo istante) nel periodo considerato dalla legge: chi ha commesso il fatto prima o dopo questo periodo continuerà a soggiacere al regime sanzionatorio previsto.

Si aggiunga che la posizione di chi beneficia del condono appare più favorevole anche rispetto a quella di chi, nello stesso periodo dell’illecito, rispettava le medesime disposizioni violate, magari con sacrifici economici o astenendosi dal compiere azioni da cui trarre benefici. Non si vuol certo sostenere che si deve premiare chi si astiene da una condotta antigiuridica: sarebbe probabilmente un nonsenso logico prima ancora che giuridico, benché non manchino nel nostro ordinamento esempi di questa natura[29].

Ora, è vero che chi rispetta le disposizioni, probabilmente lo fa, oltre che per intima convinzione, anche nel timore di soggiacere al regime sanzionatorio, ma ciò non esclude risvolti pratici e giuridici della questione. Basti pensare, per esempio, alla posizione dell’imprenditore che – impegnando risorse che avrebbe potuto utilizzare diversamente – rispetta le norme fiscali e previdenziali e che, quindi si potrà trovare in una situazione di svantaggio rispetto ad un suo concorrente che beneficia del condono e potrà così risparmiare (nel caso dei condoni c.d. “impuri” che prevedono non solo l’abbuono delle sanzioni, ma anche il versamento solo di una parte dell’imposta dovuta) o ritardare il pagamento dell’imposta dovuta (nel caso dei condoni c.d. “puri”)[30]. Non si tratta di una sorta di “ammirata invidia” da cui sorge il sospetto che «l’onestà non paghi»[31], ma il nostro discorso si incanala entro margini giuridici quando ci si concentra (come si farà in seguito) sulla natura degli adempimenti cui devono assolvere i soggetti che aderiscono al condono.

Tuttavia, tale disparità di trattamento potrebbe anche essere legittima a condizione che si rinvenga una ragionevole causa giustificatrice, in assenza della quale, il condono è illegittimo. La questione della ragione giustificatrice del condono è stata affrontata dalla Corte costituzionale, anche se con riferimento al condono edilizio, ma le argomentazioni della Corte valgono anche per quello fiscale, in quanto attengono all’istituto condonistico.

In particolare, la Corte, con la sentenza n. 427 del 1995, salva il c.d. “secondo condono edilizio”[32] in base a un duplice percorso argomentativo. Premettendo che il condono in questione ha il carattere di norma eccezionale[33] anche in relazione a «ragioni contingenti e straordinarie di natura finanziaria»[34] e che il legislatore ha inteso arginare il perdurare di un diffuso abusivismo edilizio[35], anche con norme più severe rispetto al “primo condono edilizio”, il Giudice delle leggi ritiene legittimo il condono, in primo luogo, perché non è in contrasto con le «finalità proprie della pena, cioè con la difesa degli stessi beni tutelati attraverso l’incriminazione» e, in secondo luogo, perché la norma impugnata ha la «finalità di realizzare un contemperamento dei valori in giuoco», quali il paesaggio, la salute, la «conformità dell’iniziativa economica privata all’utilità sociale»[36], la funzione sociale della proprietà, l’abitazione e il lavoro. In sostanza la Corte, nel bilanciamento tra questi valori e beni e quello della punizione degli illeciti, ritiene legittimo sacrificare quest’ultimo.

Due sono, quindi, gli argomenti della Corte: la coerenza del condono con il regime sanzionatorio e il bilanciamento dei beni e valori costituzionali. Due argomenti sicuramente diversi perché il primo è tutto interno al sistema, mentre il secondo individua beni e valori costituzionali esterni (tutelati dal condono) da bilanciare con quelli tutelati dal regime sanzionatorio.

Tuttavia, il fatto che i due argomenti utilizzati dalla Corte siano diversi non vuol dire che, almeno con riferimento al condono, siano necessariamente confliggenti, come pure è stato sostenuto in dottrina[37].

 

4.1.    Il condono come sospensione legislativa e non come deroga

 

Sull’idea che i due argomenti siano fra loro confliggenti influisce probabilmente anche l’impostazione seguita dai sostenitori di questa tesi, secondo cui il condono sarebbe una “deroga” al regime sanzionatorio ordinario e generale[38]. Si può ritenere, invece, che a proposito del condono sia più corretto parlare di “sospensione”. Nell’affrontare questi argomenti si deve premettere che si tratta di temi discussi da molti anni dalla dottrina, anche giusfilosofica, che, in questa sede, non posso analizzare approfonditamente. Inoltre, conviene precisare che si tratta di argomenti sfuggenti e che i termini sono spesso utilizzati in maniera convenzionale[39], per descrivere, però, fenomeni concettualmente diversi.

Si ha una deroga, in ambito normativo, quando una norma disciplina alcune fattispecie rientranti nell’ambito di operatività di un’altra norma (generale), sicché, mancando la norma derogante, le fattispecie da essa regolate non resterebbero prive di disciplina, ma sarebbe regolate dalla norma derogata (generale)[40]. S’instaura così tra la norma generale e quella derogatoria un rapporta di regola-eccezione[41]. La deroga può essere introdotta contestualmente alla norma derogata o anche in un momento successivo perché lo scopo della deroga è quello di impedire che fattispecie obbiettivamente diverse siano disciplinate dalla norma generale, creando, quindi, una disparità di trattamento. Insomma la finalità della deroga è quella di attuare il principio di uguaglianza, il quale impedisce che norme uguali disciplinino fattispecie diverse e che norme diverse regolino situazioni oggettivamente uguali.

In questo senso si può dire che la deroga è «potenzialmente perpetua»[42] perché, come è stato efficacemente sostenuto, la deroga ha una natura parassitaria[43], nel senso che si attacca alla norma generale per impedire le possibili disparità di trattamento che potrebbero derivare da una sua generalizzata applicazione. Il fatto che la deroga abbia una natura potenzialmente perpetua non vuol dire che essa non possa essere eliminata qualora il legislatore ritenga che siano venute meno le ragioni che giustificavano la deroga. In questo caso la disciplina generale si riespande, applicandosi anche alle fattispecie che rientravano nell’ambito di operatività della deroga. Inoltre, la potenziale perpetuità della deroga non vuol dire che le situazioni da essa disciplinate non possano essere quelle verificatesi in un periodo delimitato, qualora il legislatore ritenga che il fatto che quelle situazioni si siano verificate in quel periodo le abbia rese oggettivamente diverse da quelle analoghe, ma verificatesi in un altro periodo.

La sospensione, invece, si ha quando l’efficacia di una norma vigente è preclusa (sospesa, appunto) fino a un termine (ancorché incertus quando)[44]. Beninteso anche la norma sospensiva si pone in rapporto con la norma sospesa secondo lo schema regola-eccezione, ma, in questo caso, la finalità della sospensione non è (o, almeno, non sempre) quella di evitare disparità di trattamento. E questo perché se la norma sospesa provocasse disparità non si comprenderebbe perché precluderne l’efficacia solo per un periodo temporalmente delimitato. Ne consegue che, proprio perché la sospensione segue lo schema regola-eccezione (ponendosi, quindi, in tensione col principio di uguaglianza), deve avere una valida ragione giustificatrice e, quindi, la finalità perseguita dal legislatore con la sospensione deve superare il vaglio di ragionevolezza.

Così succintamente esposte le due figure, non si può dubitare del fatto che il condono rappresenti non una deroga, bensì una sospensione, Infatti, il regime sanzionatorio è sospeso fino allo scadere del termine entro cui chi vuole aderire deve compiere gli adempimenti previsti. Per questo motivo per verificare la legittimità del condono, cioè di una disciplina che si pone in tensione con il principio di uguaglianza, si dovrà ricercare una valida giustificazione anche nella protezione di beni costituzionale esterni alla norma incriminatrice.

E si ritorna così alla giurisprudenza costituzionale citata sopra, che – come si è visto – segue due percorsi argomentativi diversi, ma, ad avviso di chi scrive, non confliggenti nel caso delle leggi condonistiche.

Infatti, il primo, il criterio della conformità del condono alle finalità della pena, rappresenta, a nostro avviso, una pre-condizione. In altre parole, il condono deve necessariamente essere conforme alle finalità della punizione. Il che è ben rappresentato da una precedente sentenza della Corte (sul c.d. “primo condono edilizio”), espressamente richiamata dalla sentenza n. 427 del 1995, secondo cui «[t]utte le volte in cui si rompe il nesso costante tra reato e punibilità e quest’ultima viene utilizzata per fini estranei a quelli relativi alla difesa dei beni tutelati attraverso l’incriminazione penale, tale uso, nell’incidere negativamente sul principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., deve trovare la sua “giustificazione” nel quadro costituzionale che determina il fondamento ed i limiti dell’intervento punitivo dello Stato. La “non punibilità” o la ”non procedibilità”, dovuta a situazioni successive al commesso reato…deve comunque essere valutata in funzione delle finalità “proprie” della pena: ove l’estinzione della punibilità irrazionalmente contrastasse con tali finalità, ove risultasse variante arbitraria, tale, come e stato esattamente sottolineato, da svilire il senso stesso della comminatoria edittale e della punizione, non potrebbe considerarsi costituzionalmente legittima”[45].

Solo dopo aver verificato che il condono non persegua «fini estranei» a quelli tutelati con il regime sanzionatorio (primo argomento), si individuano i beni e i valori costituzionali esterni che il legislatore vuole tutelare col condono che saranno bilanciati con quello della punizione degli illeciti (secondo argomento).

Concentrandoci sul primo argomento, la pre-condizione di legittimità del condono, notiamo che, a prima vista, appare difficile conciliare il condono con il regime sanzionatorio: come può una norma che rimette le sanzioni soddisfare le stesse finalità della norma che quelle stesse sanzioni prevede?

 

4.2.   La ragione giustificatrice del condono

 

Per rispondere a questa domanda si deve individuare la finalità perseguita dal regime sanzionatorio, che, con una certa facilità e con riferimento al condono fiscale, si può rinvenire in quell’interesse generale alla riscossione dei tributi, sancito dall’art. 53 Cost. e che la Corte costituzionale ha, da tempo, qualificato come un «interesse particolarmente differenziato che, attenendo al regolare funzionamento dei servizi necessari alla vita della comunità, ne condiziona l’esistenza»[46]. Sul punto si crede di non doversi soffermare ulteriormente, dato che si tratta di una finalità che intuitivamente appare chiara: il regime sanzionatorio (su cui interviene il condono fiscale) è posto a presidio della normativa tributaria che persegue l’interesse costituzionale «particolarmente differenziato» alla riscossione dei tributi e, quindi, attua il dovere tributario.

Individuata così la finalità del regime sanzionatorio, si deve vedere come il condono possa essere coerente con essa e, per far questo, ci si deve concentrare – come anticipato sopra – sulla natura degli adempimenti che l’autore degli illeciti deve compiere per accedere al condono. Si ritiene che una remissione sanzionatoria sia coerente con il regime sanzionatorio solo se l’autore dell’illecito metta in essere una «condotta reintegratoria/eliminativa…[che toglie]…fondamento alle stesse ragioni del punire»[47]. In sostanza, solo se l’agente elimina le conseguenze del suo illecito, reintegrando il bene offeso con la commissione dello stesso si persegue l’interesse generale alla riscossione dei tributi.

Tuttavia questa condotta reintegratoria/eliminativa si atteggia in maniera diversa a seconda dei diversi tipi di condono fiscale. Si ha un primo tipo di condono, che possiamo chiamare “regolarizzazione”, che riguarda quelle attività finanziarie (o, comunque, cespiti) illecitamente[48] sottratti alla tassazione che, in seguito alla regolarizzazione, saranno soggetti, “da ora in poi”, alla ordinaria disciplina tributaria. Ci sembra che rientrino in questo tipo di condono sia il c.d. “scudo fiscale” sia la c.d. voluntary disclosure. Nel primo caso si tratta della «emersione di attività detenute all’estero»[49], finalizzata al «rimpatrio» – che avrebbe dovuto effettuarsi nel periodo compreso tra il 1° novembre 2001 ed il 28 febbraio 2002 – di capitali ed altre attività finanziarie detenuti illegalmente all’estero alla data del 1° agosto 2001. Nel secondo caso si tratta della «collaborazione volontaria»[50], finalizzata alla «emersione delle attività finanziarie e patrimoniale costituite o detenute fuori dal territorio dello Stato» fino al 30 settembre 2016[51], a condizione che la collaborazione volontaria avvenisse entro 31 luglio 2017. Come si vede, questi provvedimenti tratteggiano figure di remissione sanzionatoria che possono rientrare nello schema di condono sopra delineato, perché regolarizzano precedenti situazioni illecite (rientranti in un periodo determinato) a fronte di adempimenti da compiersi entro un termine stabilito.

In entrambi i casi, l’agente elimina le conseguenze dell’illecito, riconducendo nell’alveo della liceità una situazione che fino a quel momento ne era esclusa perché dal momento del «rimpatrio» e della «emersione» delle attività detenute all’estero, queste ultime saranno sottoposte al regime ordinario o, comunque, immesse nel circuito produttivo, economico, finanziario italiano. Di conseguenza, il legislatore, facendo un uso non irragionevole della sua discrezionalità, può – con l’abbuono delle sanzioni – incentivare tale rimpatrio o emersione, anche al fine di evitare una complessa procedura di recupero all’estero, dall’esito, peraltro, incerto. In questi casi, la condotta reintegratoria consiste nell’autodenuncia (perché in questo si risolvono sia il rimpatrio sia la collaborazione volontaria) che, quindi, fa venir meno le stesse ragioni del punire[52]. In tal modo le attività rimpatriate saranno soggette, da quel momento in poi, al regime tributario ordinario, soddisfacendo così quell’interesse alla riscossione dei tributi (seppur per il futuro) nei confronti del quale la disciplina condonistica deve essere coerente. Ovviamente, tale tipo di condono appare legittimo se la legge fissa un termine entro cui rimpatriare i capitali, altrimenti, se fosse sempre possibile rimpatriare, l’intento della sanzione sarebbe vanificato.

Esiste, però, un secondo tipo di condono che riguarda l’evasione di imposte dovute esclusivamente in annualità individuate e per le quali non è certo che le imposte saranno dovute nello stesso importo per le annualità successive. Si tratta dei condoni più comuni che abbuonano le sanzioni per l’evasione delle ordinarie imposte (per esempio, Irpef, I.V.A., ecc.) dovute per alcuni anni. In questo caso, non si verifica quello che abbiamo visto accadere per le “regolarizzazioni”, perché non si verifica la definitiva acquisizione all’ambito del lecito di attività che fino a quel momento sfuggivano alla tassazione. In altre parole, manca l’effetto di sottoporle “da ora in poi” alla tassazione. Per essere ancora più chiari: le “regolarizzazioni” riguardano cespiti eventuali (perché, riprendendo gli esempi fatti sopra, non tutti detengono attività all’estero) che, una volta individuati con le procedure di regolarizzazione, saranno soggetti per il futuro (“da ora in poi”) alla tassazione. Viceversa, in questo secondo caso le imposte evase riguardano presupposti necessari (le persone fisiche sono soggette alle relative imposte e così le persone giuridiche e, per quanto riguarda l’I.V.A., i titolari della partita I.V.A.) e, inoltre, il fatto che abbiano aderito al condono per le imposte evase in quegli anni individuati dal condono stesso, non garantisce che anche per il futuro si atterranno agli obblighi tributari, perché non si verifica quel fenomeno di emersione di cespiti sconosciuti che avviene con le regolarizzazioni.

Ebbene, in queste ipotesi la condotta reintegratoria/eliminativa non può consistere soltanto nell’autodenuncia, ma il soggetto dovrà pagare l’intero importo evaso e gli interessi. Solo così il soggetto eliminerà le conseguenze del suo illecito e potrà beneficiare dell’abbuono delle sanzioni. Se nell’ipotesi di regolarizzazione il legislatore può rinunciare agli interessi a fronte dell’emersione di cespiti sconosciuti che saranno tassati per il futuro, in questo caso la reintegrazione non può che essere il pagamento dell’imposta e degli interessi dovuti. Così si assolve alla pre-condizione, ma la legge condonistica deve anche avere una sua ragione giustificatrice, perché il solo recupero di quanto dovuto non fa venir meno il contrasto col principio di uguaglianza, in quanto, come detto sopra, chi aderisce al condono si vedrà riconosciuta una posizione più favorevole rispetto sia a chi, nello stesso periodo, ha assolto agli obblighi tributari sia a chi soggiacerà al regime sanzionatorio previsto per gli stessi illeciti commessi, però, in un periodo diverso.

Trovare in questi casi una ragionevole causa giustificatrice non è facile, ritenendo che le suddette «ragioni contingenti e straordinarie di natura finanziaria» addotte dalla Corte costituzionale per giustificare il secondo condono edilizio non possano più essere richiamate (anche se si ha il sospetto che siano queste le vere ragioni per cui si continua ad approvare leggi condonistiche) o, quantomeno, la Corte dovrebbe sforzarsi di specificarle meglio, agganciandosi a dati oggettivi e non limitarsi a un generico richiamo alle stesse. Probabilmente, una valida ragione potrebbe essere l’approvazione di una radicale riforma del sistema tributario. In questo caso, il legislatore potrebbe giustificare il condono con l’esigenza di “chiudere i conti col passato” per avviarsi celermente all’entrata a regime del nuovo sistema.

Da quanto precede sembra emergere con chiarezza che nessuna copertura costituzionale possa essere riconosciuta ai condoni c.d. “impuri”, quelli, cioè, che non si limitano a condonare le sanzioni, ma incidono anche sull’imposta originariamente dovuta e sugli interessi. Credo che il loro contrasto col principio di uguaglianza ex art. 3 Cost. e con quello della capacità contributiva ex art. 53 Cost. nonché con l’interesse alla riscossione dei tributi sancito dallo stesso articolo sia evidente[53]: l’autore dell’illecito non reintegra il bene offeso né elimina le conseguenze del suo illecito.

Questo se l’abbuono delle sanzioni avviene con legge ordinaria, il discorso cambia se le sanzioni sono rimesse con un provvedimento di amnistia.

 

  1. Condono e Amnistia

 

Che il condono sia una sorta di amnistia mascherata è questione antica e affrontata dalla giurisprudenza costituzionale e dalla dottrina. In questa sede non si possono certo analizzare tutti i profili della clemenza “tipica” prevista dalla Costituzione, ma ci si limiterà a indicare gli elementi più rilevanti, utili per questo studio, che segnano la differenza fra condono e amnistia. Si tralasceranno gli aspetti attinenti al modo di operare dei due istituti in un’ottica processualpenalistica[54].

Effettivamente l’amnistia (ma anche l’indulto) è, come il condono, provvedimento ex post facta. Sia l’amnistia propria (che estingue il reato e impedisce l’esercizio dell’azione penale) sia quella impropria (che interviene dopo che vi è stata la condanna, impedendo l’esecuzione della stessa e delle pene accessorie) interviene dopo che il fatto illecito è stato commesso. Come il condono, anche l’amnistia non toglie definitivamente il connotato di illiceità a quei fatti amnistiati perché gli stessi reati[55], al di fuori del periodo temporale individuato dall’amnistia, rimangano tali.

Né può valere a differenziare il condono dall’amnistia il fatto che per accedere al primo l’autore dell’illecito debba compiere degli adempimenti entro un dato termine, perché anche l’amnistia «può essere sottoposta a condizioni o ad obblighi» (art. 151 del codice penale)[56].

Esiste, però, una differenza procedurale perché, mentre il condono è approvato con legge ordinaria (o, comunque, con atto avente il valore della legge), l’amnistia è concessa con un provvedimento ad hoc che, prima del 1992, era il decreto che il Presidente della Repubblica emanava su legge di delegazione delle Camere e, ora, è concessa con una legge approvata con una maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera «in ogni suo articolo e nella votazione finale». Ed è proprio per questo che era stato sollevato il dubbio di legittimità costituzionale: si sosteneva che il condono fosse una amnistia mascherata perché si approvava con legge ordinaria un provvedimento dagli effetti identici a quelli dell’amnistia senza seguire la procedura prescritta dall’art. 79 Cost., che, dal 1992, richiede una maggioranza qualificata.

A parere di chi scrive i due tipi di provvedimenti, come è stato correttamente osservato, si differenziano «quanto a funzione»[57] perché l’amnistia è concessa in presenza di eventi eccezionali[58] e (tendenzialmente) irripetibili tali da rendere inopportuna (se non ingiusta) la punizione, mentre il condono – come si è visto – dovrebbe mirare (come pre-condizione) a reintegrare il bene offeso e anche a tutelare (in un’ottica di bilanciamento) beni diversi da quelli tutelati dalla norma incriminatrice.

Depone in tal senso anche il fatto che la espressa previsione nel testo costituzionale degli istituti di clemenza non ha un mero significato descrittivo-procedurale, bensì fondativo[59], sicché si potrebbe ritenere che se mancasse la previsione costituzionale verrebbe meno anche la potestà di clemenza[60]. In altre parole, possiamo dire che, in assenza dell’art. 79, Cost., la tradizionale libertà riconosciuta alla legge del Parlamento – attuale titolare della potestà di clemenza collettiva – si dovrebbe arrestare dinanzi alla possibilità di adottare atti clemenziali[61]. Non si tratta di rispolverare l’antica idea illuministica, secondo cui la clemenza penale sarebbe sempre e comunque contraria al principio di uguaglianza[62]. Perché l’eccezione al principio di uguaglianza (data dall’amnistia) è espressamente prevista dalla stessa Costituzione e, comunque, il provvedimento di clemenza dovrebbe superare il vaglio di ragionevolezza, come, almeno sin dal 1971, ha sempre ritenuto la Corte costituzionale rivendicando il proprio sindacato su l’amnistia anche alla luce dell’art. 3 Cost.[63].

D’altra parte, questa lettura sembra confermata dal fatto che sia in Assemblea Costituente sia in sede di revisione dell’art. 79, Cost. gli avversari della potestà di clemenza proponevano, rispettivamente, la non previsione nel testo costituzionale della clemenza e l’abrogazione dell’art. 79 stesso[64]. Dal che si può ricavare a contrario che, mancando una disposizione costituzionale sulla clemenza collettiva, questa non avrebbe diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento.

La circostanza che la Costituzione riconosca la potestà di clemenza vuol dire che questa potrà essere utilizzata – al verificarsi di fattori eccezionali e irripetibili – anche in assenza di una condotta reintegratoria/eliminativa[65], mentre il legislatore ordinario può condonare le sanzioni per illeciti commessi in precedenza solo se l’autore mette in atto tale condotta.

 

  1. La remissione delle sanzioni amministrative

 

In conclusione di queste note, rimane da accennare a un ultimo argomento relativo alle sanzioni amministrative perché i condoni abbuonano anche sanzioni amministrative e, anzi, come si è detto sopra, storicamente le sanzioni rimesse dai condoni fiscali erano solo quelle amministrative e, in seguito, si sono “arricchiti” anche della remissione di sanzioni penali. Non si può ripercorrere l’ampio e serrato dibattito sulla natura e sulle finalità delle sanzioni amministrative, nonché sulle differenze da quelle penali che, in questa sede, potrebbe apparire ridondante[66].

Si ribadisce quanto detto sopra e, cioè, che una completa equiparazione tra i due tipi di sanzione non è possibile, nonostante l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale richiamata in precedenza[67].

Di certo non si può negare che quelle penali appaiano più “gravi”[68] di quelle amministrative, ritenendosi che lo Stato ricorra alle prime sulla base di quella generale potestà punitiva (penale, appunto), da sempre considerata come un suo attributo originario e indefettibile, si potrebbe dire: consustanziale ad esso.

Ovviamente, non si tratta soltanto di un comune sentire, di un’impressione largamente condivisa dal tessuto sociale, ma la sanzione penale è avvertita come più grave anche (e soprattutto) per la sua conformazione giuridica e per le implicazioni a essa connesse. Basti pensare alla conseguenza (questa sì, giuridica) del solo illecito penale di «menomare la dignità sociale (si pensi all’istituto del casellario giudiziario)»[69].

Questa più intensa gravità dell’illecito penale si evince anche dal testo costituzionale, che appronta garanzie per il soggetto che valgono solo in ambito penale (e, in parte, estese, come si è visto, anche per le sanzioni amministrative “punitive”). Infatti, princìpi come quelli sanciti dal 2° e 3° comma dell’art. 25 e dall’art. 27 sembrano limitati – come la gran parte della dottrina[70] e la costante giurisprudenza costituzionale confermano[71] – alla sfera dell’illecito penale. Non che manchino principi costituzionali riferibili anche alle sanzioni amministrative[72], ma la preoccupazione del costituente di circoscrivere, in un’ottica garantistica, l’illecito penale sottolinea un tasso di gravità più elevato di quello delle sanzioni amministrative.

La stessa ostinazione con cui la Corte costituzionale difende – nonostante voci contrarie in dottrina[73] – «il monopolio statale della produzione della legge penale»[74], peraltro ribadito dalla riforma del Titolo V della Costituzione che assegna alla legislazione esclusiva dello Stato la materia “ordinamento penale” (art. 117, lett. l), si può spiegare con la necessità di evitare differenziazioni regionali in una materia così delicata.

Tuttavia, gli argomenti esposti nelle pagine precedenti sulla remissione sanzionatoria prevista dal condono possono valere per entrambi i tipi di sanzione.

Se ci si sofferma, infatti, sul contenuto della sanzione (indipendentemente dalla sua qualificazione penalistica o amministrativistica) risulta ininfluente – almeno con riferimento ad alcuni profili di questo scritto – che la remissione riguardi le sanzioni penali o quelle amministrative.

Infatti, quasi pacificamente si ammette che entrambi i tipi di sanzione hanno un contenuto afflittivo[75], pertanto non è possibile distinguerle sulla base della presenza o meno di tale contenuto. Peraltro, sarebbe anche fuorviante, considerato che sulla misura del tasso di afflittività incidono anche fattori soggettivi[76].

Se, quindi, si può dire che «le sanzioni sono un male»[77] (almeno dal punto di vista di chi le subisce), la loro remissione può essere considerata un “bene” (sempre dallo stesso punto di vista), ne consegue che le questioni cui abbiamo affrontato in precedenza si profilano negli stessi termini per la remissione tanto delle sanzioni penali quanto di quelle amministrative. Si vuol dire che una disparità di trattamento, nel senso illustrato sopra, si può riscontrare nella remissione di entrambi i tipi di sanzione[78].

E allora, concludendo, il legislatore può sicuramente condonare le sanzioni penali e amministrative per gli illeciti tributari commessi in un periodo precedente alla legge condonistica, ma entro i limiti esposti sopra. Un’ultima precisazione: si ritiene che la remissione delle sanzioni penali senza che l’autore dell’illecito compia una condotta reintegratoria/eliminativa sia possibile solo con un provvedimento di clemenza (salvo il controllo di ragionevolezza); mentre nel caso delle sanzioni amministrative sia formalmente possibile rimetterle con legge ordinaria, ma ciò – come visto sopra – sarebbe sostanzialmente contrastante col quadro costituzionale.

 

 

Abstract: The essay examines the amnesty for tax evasion from a constitutional point of view. After outlining the typical features of the amnesty for tax evasion that distinguish it from other similar figures, the essay indicates what should be the constitutional limits that the legislator meets in adopting condonistic measures, intended as remission of sanctions. In particular, the legislator should adopt such measures only if he intends to pursue an interest which, in balancing with the ends pursued by the sanctions condoned, is prevalent, but on the condition that the offender eliminates the consequences of his tort.

 

Key words: amnesty for tax evasion; equality; constitutional duty of payment of taxes; remission of sanctions


* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] F. de Franchis, Dizionario Giuridico. Law Dictionary. 2 Italiano-Inglese Italian-English, Milano, 1996, p. 543.

[2] Si ricorderà che, all’indomani della concessione dell’ultimo indulto, la gran parte degli esponenti politici di diversi schieramenti si affrettarono a prenderne le distanze, nonostante la relativa legge (la n. 241 del 2006) fosse stata approvata con maggioranza qualificata, vale a dire, come prevede l’art. 79 della Costituzione, con una maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera «in ogni suo articolo e nella votazione finale».

[3] Si veda, comunque, il corposo elenco dei soli condoni fiscali approvati dal 1900 al 2002 riportato da E. De Mita, Il condono fiscale tra genesi politica e limiti costituzionali, in Jus, 2003, nota 41, pp. 437-440.

[4] È il caso della sentenza 13 luglio 2007, n. 270 con cui la Corte costituzionale, accogliendo la questione sollevata con riferimento all’art. 3 Cost., dichiara l’illegittimità dell’art. 2, comma 44 della legge n. 350 del 2003 nella parte in cui non consente l’applicazione delle disposizioni del c.d. “condono tombale” (ex articoli 7, 8 e 9 della legge n. 289 del 2002), anche ai periodi di imposta non coincidenti con l’anno solare, chiusi anteriormente al 31 dicembre 2002, ai quali non sono applicabili le suddette disposizioni della legge n. 289 del 2002 e per i quali, entro il 31 ottobre 2003, sono state presentate dichiarazioni dei redditi tempestive. In sostanza, il Giudice delle leggi ha ritenuto che la norma impugnata non consentisse ai contribuenti aventi un esercizio sociale (e, quindi, un periodo d’imposta) non coincidente con l’anno solare di beneficiare del suddetto condono, in ciò integrando una disparità di trattamento.

[5] Così è stato per il c.d. “primo” condono edilizio con riferimento al quale la Corte costituzionale, con la sentenza 23 marzo 1988, n. 369, tra inammissibilità e infondatezza, ha rigettato tutte le questioni sollevate. Così pure per il c.d. “secondo” condono edilizio la sentenza12 settembre 1995, n. 427 ha dichiarato l’infondatezza (e anche la «manifesta» infondatezza) di tutte le questioni sollevate. Per quanto riguarda il c.d. “terzo” condono edilizio, è vero che con la sentenza 28 giugno 2004, n. 196, il Giudice delle leggi ha accolto numerose questioni sollevate, ma tutte riguardavano il riparto costituzionale delle competenze tra Stato e Regioni (allora da poco ridisegnato dalla Riforma del Titolo V), sicché tale accoglimento ha portato alla dichiarazione di illegittimità costituzionale «solo parziale» delle norme statali condonistiche perché contrastanti con gli articoli 117 e 118 della Costituzione, nonché con le norme statutarie della ricorrente Regione Friuli Venezia Giulia. D’altra parte, quest’ultima sentenza è l’unica delle tre citate che è stata pronunciata in un giudizio in via principale.

[6] Se non erro, l’ultima volta che il termine condono è stato utilizzato nella intitolazione di un provvedimento normativo risale a oltre mezzo secolo fa con la legge 23 dicembre 1966, n. 1139, recante “Condono di sanzioni non aventi natura penale in materia tributaria”.

[7] Presa ironicamente di mira da C. Ruga Riva, Sanatorie, condoni, «indultino»: forme e limiti costituzionali dell’impunità retroattiva, in Riv. trim. dir. pen. dell’ec., 2004, p. 206, il quale affianca le «postmoderne sanatorie» a quelli che – come si è visto – la Corte costituzionale chiama i «moderni condoni».

[8] La singolare denominazione, in realtà non è da attribuire al legislatore, che utilizza la più burocratica «definizione automatica per gli anni pregressi» (art. 9, legge 27 dicembre 2002, n. 289).

[9] Anche in questo caso il legislatore utilizza una denominazione più sobria, giacché il Capo III del decreto-legge 25 settembre 2001, n. 350 (convertito nella legge 23 novembre 2001, n. 409) parla di «emersione di attività detenute all’estero» e gli articoli rientranti nel citato Capo III si riferiscono al «rimpatrio» dei capitali e di altre attività finanziarie.

[10] L’art. 5-quater del d.l. 28giugno 1990, n. 167, convertito nella legge 4 agosto 1990, n. 227 (e introdotto

La Porta Salvatore



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