fbevnts Cicero and Caerellia: a necessary kinship

Cicerone e Cerellia: un'affinità 'necessaria'

06.07.2024

Francesca Lamberti*

 

Cicerone e Cerellia: un'affinità 'necessaria'**

 

English title:Cicero and Caerellia: a necessary kinship

DOI: 10.26350/18277942_000182

 

Sommario: 1. Testimonianze letterarie su Cerellia. - 2. La vita privata del ‘dopo Farsalo’: matrimoni, divorzi, debiti dell’Arpinate. - 3.  Cerellia, una necessitudo elettiva. - 4. Necessità culturali di una ‘necessaria’. - 5. Vicinanza e mediazioni. - 6. Interessi intellettuali ed economici: la benefattrice assidua.

 

  1. Testimonianze letterarie su Cerellia

 

L’epistolario di Cicerone fornisce notizie preziose su alcune donne del suo tempo, attive non solo a livello sociale, ma anche in ambito economico e non di rado con un loro influsso sulla scena politica[1].

Una figura composita che fu senz’altro vicina all’oratore negli ultimi anni della sua vita è quella di Cerellia. Il suo nome ricorre non solo in una lettera dell’Arpinate ad familiares e nell’epistolario indirizzato all’amico fraterno Attico, ma anche in una testimonianza di Cassio Dione e in una di Ausonio.

Cassio Dione, nell’inscenare il discorso che Marco Antonio avrebbe fatto pronunciare a Fufio Caleno in risposta alle Filippiche[2], elencava, fra le accuse rivolte da Caleno (/Antonio) a Cicerone, quella di aver divorziato da Publilia, la seconda moglie tanto più giovane di lui, per proseguire la tresca con l’anziana Cerellia, anche più grande di lui[3]. Stando ad Ausonio, poi, Cicerone avrebbe scritto alla donna lettere di contenuto equivoco[4]. Non è improbabile che una tradizione filoantoniana e anticiceroniana sia giunta, filtrata, sino a Dione. Se anche il retore di IV secolo attingesse alla stessa fonte può essere oggetto di mera speculazione. In qualche modo le affermazioni di Ausonio su un epistolario tra i due trovano corrispondenza in accenni di Quintiliano[5]. Non disponiamo di alcuna delle lettere in esame, ma solo di annotazioni di Cicerone nelle epistole di cui si diceva. Le prime in cui troviamo menzione della donna risalgono al maggio del 45, come vedremo.

 

2. La vita privata del ‘dopo Farsalo’: matrimoni, divorzi, debiti dell’Arpinate

 

Le vicende personali dell’oratore, negli anni subito precedenti, avevano assunto accenti drammatici e concitati. Come noto, fra la seconda metà del 48 e il settembre 47 Cicerone, rientrato in Italia dopo la rovinosa disfatta della factio pompeiana a Farsalo, sostò quasi un anno a Brindisi, in attesa del perdono di Cesare. Una volta intervenuta la riconciliazione, Cicerone poté rientrare – ai primi di ottobre del 47 – presso i propri possedimenti nel Lazio e a Roma. In quella fase, fra la fine del 47 e la tarda estate del 46 a.C.[6], si consumò il divorzio con la prima moglie Terenzia. Al divorzio fece seguito quasi subito, sul finire del 46, il matrimonio con Publilia. Dopo pochissimo tempo, alla metà di febbraio del 45, Tullia, anch’ella fresca di divorzio (mentre era incinta) dal marito Dolabella, spirò per le conseguenze del parto[7]. Vuoi per il dolore per la morte della figlia, vuoi per l’eccessiva differenza di età fra loro, Cicerone decise di allontanare Publilia, come risulta da almeno una lettera del marzo 45[8]. I due sarebbero rimasti separati, ma ancora sposati, fino all’estate (come era consuetudine, all’epoca, in occasione di divorzi)[9]. Frattanto l’oratore avrebbe dato vita sia ad una frenetica attività di scrittura che alla ricerca di un terreno adatto per erigere un tempietto in memoria di Tullia[10]. In quel periodo di gran turbamento appare, nell’epistolario, Cerellia. Ma andiamo con ordine.

Alla fine del 46 a.C. l’oratore scriveva all’amico Plancio in risposta alle sue congratulazioni per la ‘riabilitazione’ da parte di Cesare e per il nuovo matrimonio:

 

Cic. ad fam. 4.14 (a Gneo Plancio, fine 46-inizi 45): 1. Binas a te accepi litteras Corcyrae datas, quarum alteris mihi gratulabare quod audisses me meam pristinam dignitatem obtinere, alteris dicebas te velle quae egissem bene et feliciter evenire … 3. Quod autem mihi de eo quod egerim gratularis, te ita velle certo scio. sed ego tam misero tempore nihil novi consili cepissem nisi in reditu meo nihilo meliores res domesticas quam rem publicam offendissem. quibus enim pro meis immortalibus beneficiis carissima mea salus et meae fortunae esse debebant, cum propter eorum scelus nihil mihi intra meos parietes tutum, nihil insidiis vacuum viderem, novarum me necessitudinum fidelitate contra veterum perfidiam muniendum putavi.

 

A Plancio narrava fra l’altro di aver trovato, al ritorno a Roma, i propri affari in condizioni così precarie da aver deciso, per reagire agli intrighi scaturiti dalla vecchia unione[11], di dare vita a nuovi legami[12]. Il termine necessitudo usato nella lettera appare una parola-chiave. L’Arpinate lo usa di regola nelle orazioni e nelle epistole per indicare o un rapporto di parentela acquisita o una stretta vicinanza personale[13]. Non improbabile che vedesse nell’unione con Publilia l’opportunità di nuove alleanze, cementate dalla adfinitas che veniva a crearsi con i parenti (o amici, o adfines) della fanciulla e della sua famiglia. Non a caso, dunque, Cerellia in una delle lettere è qualificata, come vedremo, necessaria: non sappiamo se realmente fosse imparentata con Publilia – in ogni caso faceva parte della cerchia di persone assai vicine alla famiglia di lei, con la quale Cicerone, alla ricerca di novae necessitudines, avrebbe stretto legami. Non sarebbe stata del resto, vedremo, l’unica donna di una certa età e benestante con cui ebbe rapporti di vicinanza in quegli anni.

L’oratore, al ritorno da Brindisi, stando a Plutarco, aveva trovato «una casa gravata di molti e ingenti debiti». Del resto la guerra civile fra Cesare e Pompeo aveva portato a una crisi di liquidità e alla difficoltà, anche per via della scomparsa di denaro contante dalla circolazione, per molti debitori, di far fronte alle loro pendenze[14]. Lo stesso soggiorno a Brindisi, per molti mesi, aveva certo implicato a sua volta costi, legati al mantenimento dello stesso Cicerone e degli schiavi al seguito. La decisione di divorziare aveva condotto con sé la necessità di restituire la dote alla ex-moglie[15]. Il genero Dolabella, prima che intervenisse il divorzio con Tullia, aveva preteso di prepotenza il saldo della dote promessa[16]. Il viaggio di studio ad Atene previsto per il figlio Marco prometteva di implicare, analogamente, costi sensibili[17]. Insomma, le nozze con Publilia rappresentavano per l’Arpinate una boccata d’aria nel quadro delle necessità economiche in cui versava. La fanciulla, orfana di padre, viveva con la madre e il fratello, e non era l’unica possibile partner che si offriva a Cicerone[18]. La scelta dové cadere su di lei per via della giovane età e forse perché Cicerone era stato nominato come una sorta di ‘erede fiduciario’ dal padre. Plutarco usa in proposito l’espressione «ἐν πίστει κληρονόμος»: potrebbe pensarsi che Cicerone fosse stato istituito (co)erede e gravato di un sostanzioso fedecommesso nei riguardi di Publilia[19]: se così fosse, invece di restituire la somma alla fanciulla, potremmo immaginare che abbia proposto di sposarla, così rendendo oggetto della dote i beni (e la pecunia) contenuti nel fedecommesso[20]. Le nuove nozze con Publilia erano destinate in ogni caso – è noto – ad attraversare come una meteora la vita dell’oratore.

 

  1. Cerellia, una necessitudo elettiva

 

Quanto alla situazione finanziaria di Cicerone, si diceva, Cerellia parve proporsi sin da principio, fra le novae necessitudines, come una sorta di (disinteressata?) benefattrice. La prima lettera, almeno nella corrispondenza con Attico, in cui ne troviamo menzione è datata al 20 maggio del 45.

 

Cic. ad Att. 12.51.3: De Caerellia quid tibi placeret Tiro mihi narravit: debere non esse dignitatis meae, perscriptionem tibi placere: «hoc  metuere, alterum in metu non ponere!» sed et haec et multa  alia coram. sustinenda tamen, si tibi videbitur, solutio est  nominis Caerelliani dum et de Metione et de Faberio sciamus.

 

Dalla lettera si ricava che l’oratore aveva debiti anche con la donna: Attico gli consigliava di ricorrere a un particolare meccanismo di gestione dell’obbligazione (la perscriptio), che forse consentiva di non apparire ufficialmente come debitore, e di temporeggiare con l’adempimento[21]. Se ne evince dunque che le difficoltà finanziarie di Cicerone (che sarebbero proseguite almeno fino all’estate) lo spingessero a chiedere aiuto a una donna abbiente, della buona società, forse appartenente al ‘nuovo giro’ di amicizie formatosi dopo il divorzio da Terenzia. Cerellia, si diceva, non era l’unica donna che vantasse un credito (che dobbiamo supporre di una certa entità) nei riguardi dell’oratore a quel tempo. Poche settimane prima della nostra lettera ad Attico, Cicerone affermava di dovere centomila sesterzi a una certa Ovia, moglie di un non meglio identificato Lollio (forse il padre di quel Marco Lollio che fu console con Q. Emilio Lepido nel 21 a.C.)[22]. Il novero dei debitori di Cicerone era vasto, come si evince particolarmente dalla corrispondenza di quel periodo e dai gossip che rinveniamo in Plutarco, nonché dal nuovo matrimonio con una fanciulla ricca e che per via della giovane età difficilmente si sarebbe opposta ai suoi movimenti finanziari e alla gestione economica dei beni dotali. Gli studiosi reputano comunemente che l’Arpinate contraesse debiti per assolvere altri debiti: il prestito accordatogli da Cerellia era forse diretto ad adempiere, in tutto o in parte, quanto dovuto ad Ovia o ad altri debitori (secondo una prassi del tutto abituale, e non solo per l’antichità)[23].

Cerellia, in ogni caso, doveva essere più che benestante, e vicina all’oratore sin dal 46, come si evince dalla corrispondenza.

 

Cic. ad fam. 13.72.1 (fra il 46 e il 44 a.C.): M. Cicero P. Servilio (Isaurico) collegae s. 1. Caerelliae, necessariae meae, rem, nomina, possessiones Asiaticas commendavi tibi praesens in hortis tuis quam potui diligentissime, tuque mihi pro tua consuetudine proque tuis in me perpetuis maximisque officiis omnia te facturum liberalissime recepisti. meminisse te id spero; scio enim solere. sed tamen Caerelliae procuratores scripserunt te propter magnitudinem provinciae multitudinemque negotiorum etiam atque etiam esse commonefaciendum.  2. Peto igitur ut memineris te omnia quae tua fides pateretur mihi cumulate recepisse. equidem existimo habere te magnam facultatem (sed hoc tui est consili et iudici) ex eo senatus consulto quod in heredes C. Vennoni factum est Caerelliae commodandi. id senatus consultum tu interpretabere pro tua sapientia; scio enim eius ordinis auctoritatem semper apud te magni fuisse. quod reliquum est, sic velim existimes, quibuscumque rebus Caerelliae benigne feceris, mihi te gratissimum esse facturum.

 

La missiva in esame riguardava affari (res), investimenti (nomina) e possessiones della donna in Asia. Cicerone, fra il 46 e la metà del 45 (o i primi del 44)[24], pregava l’allora governatore di quella provincia, Servilio Isaurico, di curare con attenzione gli interessi di lei[25]: pare che analoga raccomandazione, fattagli di persona da Cicerone prima della partenza per l’Asia, non avesse sortito grande effetto, se gli agenti di Cerellia avevano avuto bisogno di sollecitarlo più volte nel corso del suo governatorato (Caerelliae procuratores scripserunt te … etiam atque etiam esse commonefaciendum)[26]. Considerando che aveva effettuato la sua commendatio prima della partenza di Servilio per l’Asia, si può senz’altro datare, si diceva, al 46 l’amicizia con la mulier: se ella era necessaria sua qualche mese dopo[27], doveva rientrare fra le novae necessitudines che Cicerone aveva avviato a ridosso del divorzio (non possiamo, ovviamente, escludere che vi avesse rapporti già da prima). Essendo in ogni caso l’oratore circondato da un gran numero di necessarii, con cui intercorrevano nessi di clientela e scambi di favori, mi pare notevole il fatto che nella cerchia in esame (composta esclusivamente di personaggi di sesso maschile[28]) facesse il suo ingresso una donna – e con un ruolo di un certo rilievo.

 

4. Necessità culturali di una ‘necessaria’

 

Non sorprende che Cicerone si sia avvicinato a donne ricche, e che probabilmente disponevano di contanti e liquidità, come Publilia, Ovia e la stessa Cerellia, dopo il divorzio. Oltre ad Attico infatti la principale fonte di denaro per lui, sino a pochi anni prima, era stata una donna, la sua ex-moglie. Potremmo credere che la sua posizione sociale e politica si prestasse ad essere usata per attrarre nuove ‘finanziatrici’, sia per via di strategie matrimoniali che attraverso erogazione di favori, come la commendatio di Cerellia presso il governatore d’Asia[29]. Non inverosimile che reputasse le donne della sua ‘nuova cerchia’ mecenati più generose di quella che aveva lasciato dopo oltre un trentennio di vita in comune. Era del resto abituato all’autonomia finanziaria che donne del livello di Terenzia o di Cerellia vantavano nell’ultimo secolo della respublica: nessun accenno è infatti nelle lettere alla presenza di tutori (che pure le mulieres dovevano avere) in occasione del compimento dei loro affari[30]. Ovviamente l’Arpinate ricorreva anche a finanziatori di sesso maschile, come nel caso di Cornelio Balbo, un suo ex-cliente vicinissimo a Cesare (e dunque economicamente e politicamente un personaggio-chiave del tempo)[31].

Vi è poi che Cerellia nutriva interessi culturali di un certo livello. Lo si evince da un aneddoto che rinveniamo in lettere indirizzate da Cicerone ad Attico fra la fine di giugno e gli inizi di luglio del 45.

Fra la prima lettera che ne fa il nome, del 20 maggio, e la corrispondenza in esame era trascorso non più di un mese e mezzo. Il legame tra i due doveva essere – si è detto – più risalente, visto che la vicinanza fra la donna e l’oratore le consentiva una certa disinvoltura quanto ai lavori di lui ancora ‘in corso di pubblicazione’.

 

Cic. ad Att. 13.21a (Arpino, 30 giugno o 1° luglio 45): 1. Dic mihi, placetne tibi primum edere iniussu meo? hoc ne Hermodorus quidem faciebat, is qui Platonis libros solitus est divulgare, ex quo ‘λόγοισιν Ἑρμόδωρος’. quid illud? rectumne existimas cuiquam Bruto, cui te auctore προσφωνῶ? scripsit enim Balbus ad me se a te quintum ‘de finibus’ librum descripsisse; in quo non sane multa mutavi, sed tamen quaedam. tu autem commode feceris si reliquos continueris, ne et ἀδιόρθωτα habeat Balbus et ἕωλα Brutus. sed haec hactenus, ne videar περὶ μικρὰ σπουδάζειν. etsi nunc quidem maxima mihi sunt haec. quid est enim aliud? … 2. Quo modo autem fugit me tibi dicere? mirifice Caerellia  studio videlicet philosophiae flagrans describit a tuis: istos ipsos de finibus habet. ego autem tibi confirmo (possum falli ut homo) a meis eam non habere; numquam enim ab oculis meis afuerunt. tantum porro aberat ut binos scriberent, vix singulos confecerunt. tuorum tamen ego nullum delictum arbitror  itemque te volo existimare; a me enim praetermissum est ut  dicerem me eos exire nondum velle…

 

Apprendiamo dalla lettera, datata alla fine di giugno del 45, che Cerellia era entrata (surrettiziamente) in possesso dei libri de finibus: di essi almeno il quinto, non ancora nella sua versione definitiva, era del resto finito anche nelle mani di Cornelio Balbo[32]. L’opera era dedicata a Bruto[33] e il suo autore era turbato all’idea che il lavoro (sia pur in una versione provvisoria) venisse letto da altri prima del suo effettivo destinatario. Nonostante la vicenda fosse considerata ‘di poca importanza’ (μικρὰ), Cicerone accusava, neppure troppo velatamente, Attico di non aver sorvegliato i suoi amanuensi o di aver permesso loro con leggerezza di trarre copie di alcuni dei libri de finibus a beneficio di lettori avidi di novità[34]. Singolare che circolassero versioni ‘non definitive’ dell’opera: forse può immaginarsi che Cerellia avesse inviato un suo scriba a copiare dal librarius di Attico la ‘prima bozza’ del de finibus, oppure che più di una copia fosse stata estratta dal manoscritto di Cicerone per affidarne la correzione a degli ‘editor’ (altri librarii) e uno di tali esemplari fosse finito nelle mani della donna; oppure ancora che lei avesse pagato sottobanco uno dei copisti, visto che se lo poteva permettere. Ma siamo ovviamente su un piano congetturale. Sta in fatto che ancora il 10 luglio i copisti di Attico lavoravano al testo, a quella data dunque non del tutto ultimato[35].

La vicenda è confermata da un’altra lettera del 4 luglio, verosimilmente in risposta alla replica frattanto intervenuta da parte di Attico[36]. L’Arpinate ribadiva all’amico la sua incondizionata fiducia in lui ma precisava anche che, se a Balbo non era possibile dire di no, forse con Cerellia l’editore poteva essere più prudente.

Parrebbe verosimile, alla luce di questi accenni, che Cerellia – come altri esponenti della buona borghesia del tempo - usasse il proprio denaro per arricchire la sua biblioteca privata[37] ma anche per acculturarsi. L’irrilevanza della donna sul piano politico (proveniva forse da una famiglia equestre che solo nella generazione successiva avrebbe ‘prodotto’ senatori[38]) era compensata dall’essere una delle finanziatrici, e necessaria, del nostro. L’Arpinate del resto si fermava su ‘piccolezze’ del genere, a mio avviso, anche per vanità, dato che il desiderio di persone a lui vicine di leggerne in anteprima gli scritti era ovviamente per lui motivo di lusinga. Vi è da supporre infine che, oltre alle lettere, vi fosse tra i due un dialogo in materia letteraria e filosofica: la commendatio presso Servilio Isaurico quanto agli investimenti e alle proprietà di Cerellia in Asia non scaturiva solo dall’interesse economico ma, può supporsi, anche da alcune comuni passioni intellettuali e politiche.

 

5. Vicinanza e mediazioni

 

D’altronde il legame con Cerellia ebbe un seguito, nonostante l’‘incidente’ editoriale. Ne fanno fede altre tre lettere ad Attico, distanti diversi mesi dalla corrispondenza sul de finibus.  Poco dopo questo episodio, nell’agosto del 45, l’oratore, istituito erede dal ricco affarista Cluvio, aveva ricevuto in base al suo testamento una villa rustica sita a Puteoli, tabernae del valore di circa un milione di sesterzi e terreni con una rendita di oltre ottantamila sesterzi l’anno, nonché una certa liquidità[39]. Pare che l’eredità gli avesse dato lo slancio decisivo per divorziare da Publilia, essendo ora in grado di far fronte a spese e ad obbligazioni pendenti senza ricorrere alle ricchezze della giovane. Sappiamo dalla sua corrispondenza che, alla fine di agosto del 45, Attico era stato incaricato di trattare con Publilio (evidentemente) del divorzio e della restituzione della dote[40]. Le trattative erano durate a lungo, considerato che Cerellia ricompare, implicata nella mediazione, a partire dall’anno successivo, dal maggio del 44.

Non deve dimenticarsi in realtà che l’autunno-inverno del 45 aveva visto l’oratore intensamente coinvolto nelle attività di Cesare[41]; che in quel periodo, o ai primi del 44, il fratello Quinto aveva divorziato dalla moglie Pomponia e le tensioni fra l’oratore e il fratello erano aumentate[42]; e, soprattutto, che le Idi di marzo avevano gettato Roma nel caos più assoluto. Non stupisce dunque che questioni di carattere economico, ma anche attinenti a vincoli familiari e sociali, sia pure legate a un evento (il divorzio con Publilia, appunto) dell’estate del 45, a quasi un anno di distanza fossero ancora materia di discussione e trattative. Cerellia pare essere in quelle circostanze drammatiche un punto di riferimento, o almeno una presenza costante.

Nelle settimane dopo il cesaricidio Cicerone si tenne prudentemente lontano da Roma, trattenendosi nelle sue villae in Campania fra metà aprile e metà maggio del 44[43].

Dopo l’affaire del de finibus del giugno-luglio 45, le prime lettere nella quale ricompare Cerellia sono una missiva inviata da Pompei l’8 maggio del 44, e una da Puteoli del 17 maggio:

 

Cic. ad Att. 14.19.4 (8 maggio 44): .... Publilius tecum tricatus est. huc enim Caerellia missa ab istis est legata ad me; cui facile persuasi mihi  id quod rogaret ne licere quidem, non modo non libere. Antonium si videro, accurate agam de Buthroto.

 

Cic. ad Att. 15.1.4 (17 maggio 44): De Quinto filio tibi adsentior. patri quidem certe gratissimae et bellae tuae litterae fuerunt. Caerelliae vero facile satis feci; nec valde laborare mihi visa est, et si illa, ego certe non laborarem. istam vero quam tibi molestam scribis esse auditam a te  esse omnino demiror. nam quod eam collaudavi apud amicos, audientibus tribus filiis eius et filia tua, τκ τοτου; [quid est hoc] quid est autem cur ego personatus ambulem? parumne foeda persona est ipsius senectutis?

 

In esse è riferimento a un incontro tra il fratello di Publilia e lo stesso Attico, al quale avrebbe fatto seguito una visita di Cerellia a Cicerone come ‘missa ab istis’, ossia come emissaria della famiglia di Publilia. Evidentemente, non volendo l’oratore più avere a che fare direttamente con la ex-moglie e i suoi parenti stretti, si serviva di intermediari: Attico e la stessa Cerellia. In questa lettera l’Arpinate riferiva ad Attico di aver convinto la donna facilmente che quanto gli veniva chiesto (forse di ammettere di nuovo Publilia alla sua presenza, o un certo tipo di accordo circa la restituzione della dote) gli era impossibile. A distanza di 10 giorni, il 17 dello stesso mese, affermava di nuovo di averla persuasa senza difficoltà – non sappiamo però se quanto allo stesso o a un diverso frangente: di certo v’erano di mezzo ancora i negoziati con Publilia e la sua famiglia[44].  Purtroppo non chiari sono, sempre nella stessa lettera, gli accenni agli elogi che Cicerone avrebbe rivolto a una donna madre di tre figli, e che avrebbero offerto motivo di gossip ai benpensanti del tempo: non si evince infatti, dall’epistola, se la donna fosse Cerellia ovvero un’altra signora che frequentava l’Arpinate. Se ne può solo dedurre che lui cercasse, in quella fase, la vicinanza di donne non più giovani (forse per evitare le esperienze negative vissute con Publilia), verosimilmente della buona società, e che questo fornisse il fianco alle critiche dei suoi oppositori[45].

 

6. Interessi intellettuali ed economici: la benefattrice assidua

 

La terza e ultima lettera in cui trova menzione Cerellia è datata al 2 luglio del 44. Essa aveva senz’altro contenuto economico, segno che i rapporti di carattere patrimoniale tra i due erano perdurati dal 46 sino a quel momento.

Prima di esaminarne il dettato è opportuno fornire alcune indicazioni sulla situazione economica dell’oratore fra il 45 e il 44. Dalla corrispondenza con Attico si evince (purtroppo spesso con un lessico ambiguo, e dunque complesso da decifrare) l’esistenza di una serie di rapporti debitori che Cicerone intendeva estinguere. L’apertura del testamento di Cluvio, avvenuta a metà del 45, avrebbe condotto a una concreta attribuzione dei beni solo nel 44. Frattanto vi erano obbligazioni pendenti. In primis quella relativa alla restituzione della dote a Terenzia: con la donna però, considerato il lungo matrimonio e la presenza di un figlio comune, era possibile temporeggiare, e far valere interessi di Marco (come quello del viaggio di istruzione ad Atene, iniziato nel marzo 45 ma già programmato a partire dagli inizi del 46), che consentivano di destinare al giovane rendite dai beni dotali e sottrarle al computo relativo alla res uxoria[46]. Più urgente era forse per lui rendere a Publilio la dote della seconda moglie: dall’epistolario risulta che nel luglio 44 era stata restituita già metà della somma, ma che era necessario che Publilio attendesse ancora per il saldo[47]. Come già visto anche le spese per mantenere Marco nel suo soggiorno ad Atene costituivano una preoccupazione di non poco momento[48]. Da più di un passaggio nell’epistolario apprendiamo che Cicerone dopo le Idi di marzo aveva deciso di mettere ordine nelle proprie finanze, col supporto del servo Eros e del liberto Tirone, facendo chiarezza sui singoli rapporti di dare e avere[49]. Non escluderei che, vista la crisi in atto dopo il cesaricidio e i mutamenti nella sua stessa situazione personale (i due divorzi da Terenzia e da Publilia, la morte della figlia, la permanenza in vita del solo figlio maschio), Cicerone avesse in animo di (ri)confezionare il proprio testamento, e a tal fine (e per non gravare Marco, o anche Attico, di debiti) incaricasse schiavo e liberto di mettere mano ai conti e fare chiarezza sulle sue innumerevoli attività economiche.

È proprio nel contesto in esame che si inquadra l’ultima lettera che menziona Cerellia, del 2 luglio 44. La trasmissione dell’epistola è purtroppo lacunosa, proprio nel punto in cui Cicerone fornisce ad Attico indicazioni su un affare da concludere con la donna. Da quello che è ancora possibile leggere nel documento, Attico avrebbe dovuto vendere per conto di Cicerone, mediante mancipatio, a Cerellia l’ottava parte di un immobile urbano, situato nei pressi del tempio di Strenia: Cicerone raccomanda che ciò avvenga al prezzo più alto possibile da ottenere nel caso in cui si fosse messo all’asta l’edificio.

 

Cic. ad Att. 15.26.4 (2 luglio 44): M. Aelium cura liberabis: me paucos specus in extremo fundo et eos quidem subterraneos servitutis putasse aliquid habituros; id me iam [iam] nolle neque mihi quam esse tanti. sed ut mihi dicebas, quam lenissime, potius ut cura liberetur quam ut me suscensere aliquid suspicetur. item de illo Tulliano capite libere cum Cascellio loquere. parva res est, sed  tu bene attendisti; nimis callide agebatur. ego autem si mihi imposuisset aliquid, quod paene fecit nisi tua malitia adfuisset, animo iniquo tulissem. itaque, ut ut erit, rem impediri malo. octavam partem tuli luminarum aedium ad Streniae memineris cum Caerelliam videris mancipio dare ad eam summam quae sub praecone fuit maxima. id opinor esse CCCLXXX.

 

Da alcuni si è ipotizzato, visto l’accenno a una octava pars, che qui Cicerone avesse in mente una divisione fra coeredi, possibilmente riguardo all’eredità di Cluvio, e che in quanto coerede fosse coinvolta anche Cerellia[50]. Divisione che, se volontaria, poteva avvenire cedendo la propria parte di titolarità sul bene ad altro coerede, con ricorso, appunto, a una mancipatio.

A me pare improbabile che nella lettera si alludesse a una compravendita tout court: soprattutto se nei riguardi di un’amica, dovremmo attenderci che il prezzo riservatole fosse di favore (e non ‘il più alto possibile’). Può forse pensarsi, ma con tutte le cautele del caso considerata la lacunosità del testo, a una mancipatio fiduciae causa. Attico avrebbe cioè ricevuto a titolo di mutuo da Cerellia un’ingente somma di danaro (380.000 sesterzi) e le avrebbe trasferito mediante mancipatio, in funzione di garanzia reale, l’ottava parte di un edificio posseduto da Cicerone presso il tempio di Strenia.

V’è da tener presente, fra i vari calcoli della complessa contabilità avviata da Cicerone a partire dalla primavera del 44, che sussistevano crediti vantati presso terzi il cui adempimento tardava a venire. Un esempio (ma eclatante) era dato dall’obbligo dell’ex-genero Dolabella di restituire la dote di Tullia. A quanto apprendiamo, nell’ottobre 44, una parte della somma era stata saldata: Cicerone confidava che il resto del denaro potesse essere usato per soddisfare a sua volta il credito dotale vantato da Terenzia[51]. Alla fine dell’anno, tuttavia, questo non era ancora avvenuto. La lettera ad Attico in cui l’oratore trattava con l’amico di queste difficoltà finanziarie è l’ultima, in ordine di tempo, che ci sia pervenuta[52]: non ci è noto, pertanto, come le vicende della restituzione della dote da parte di Dolabella a Cicerone e da parte di quest’ultimo a Terenzia siano andate a finire. Cicerone nella tarda estate del 44 (come notissimo) tornò a Roma per riassumere il suo ruolo nelle tormentate vicende della guerra civile, e significativamente la corrispondenza con Attico si interrompe a fine 44. 

Quel che invece sappiamo con certezza è che, nell’estate del suo penultimo anno di vita, l’oratore aveva ancora a che fare con Cerellia per questioni economiche. Forse la donna assumeva una volta di più il ruolo di finanziatrice, forse la vicinanza a lui era dettata da comuni interessi (non solo intellettuali ma anche) patrimoniali. Un intenso legame personale che in ogni caso – e forse fino alla morte di lui –, diversamente che per le altre donne della sua vita, non conobbe scossoni.

 

Abstract: The essay examines the character of Cerellia, a woman who was among Cicero’s friendships (= necessaria) in the last years of his life. The anticiceronian tradition depicts her as an elderly and lascivious lover of the orator, while from the letters emerges a women of culture, active both socially and economically, who preserved the relationship until Cicero’s death. Especially interesting are the letters, that Cicero wrote to Atticus, that offer a trace of the financial negotiations among Cicero and Cerellia.

 

Key Words: Donne romane, storia politica romana, storia economica romana, Cicerone, Cerellia, Attico.

 

 


* Università del Salento (francesca.lamberti@unisalento.it).

** Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review. Le ricerche che hanno condotto al presente contributo derivano primariamente dal finanziamento della Fondazione tedesca Alexander von Humboldt diretto a favorire un soggiorno di studi presso la Johannes Gutenberg Universität di Mainz. Sono particolarmente grata all’amico e collega Peter Gröschler per avermi accolto presso la sua cattedra moguntiaca con attenzione e generosità e per aver ragionato con me su alcuni punti della ricerca.  Un grazie di cuore vorrei rivolgere anche a Leo Peppe per la sua benevola lettura, in anteprima, del lavoro, e a Lauretta Maganzani per averlo affettuosamente accolto nella sua rivista. 

[1] In letteratura, per una prima approssimazione all’epistolario, part. J. Carcopino, Le secrets de la correspondance de Cicéron, Paris, 1947; D.R. Shackleton Bailey, Cicero’s Letters to Atticus, 7 voll., Cambridge, 1965-1970.; Id., Cicero. Epistulae ad familiares, 2 voll., Cambridge, 1977.; Id., Cicero. Letters to Atticus, 4 voll. Cambridge, MA-London, 1998-1999. Si v. altresì la letteratura cit. in https://tulliana.eu/ephemerides/frames.htm(consultato in data 9.3.2024)

[2] Caleno, di parte cesariana, pretore nel 59 a.C., sostenne il dittatore nella guerra civile contro Pompeo; dopo le Idi di marzo del 44, quale longa manus di Antonio, fu fra i senatori costantemente ostili a Cicerone. Per tutti P. Grattarola, I cesariani dalle idi di marzo alla costituzione del secondo triumvirato, Torino, 1990, pp. 130 ss.; R. Mangiameli, Tra duces e milites. Forme di comunicazione politica al tramonto della Repubblica, Trieste, 2012, p. 109 s. e nt. 454.

[3] Cass. Dio 46.18.4: καὶ οὐδὲἐκείνην (scil. Publiliam) μέντοι κατέσχες, ἵνα Καιρελλίαν ἐπ’ ἀδείας ἔχῃς, ἣν τοσούτῳ πρεσβυτέραν σαυτοῦ οὖσαν ἐμοίχευσας ὅσῳ νεωτέραν τὴν κόρην ἔγημας, πρὸς ἣν καὶ αὐτὴν τοιαύτας ἐπιστολὰς γράφεις οἵας ἂν γράψειεν ἀνὴρ σκωπτόλης ἀθυρόγλωσσος πρὸς γυναῖκα ἑβδομηκοντοῦτιν πληκτιζόμενος.

[4] Auson. Cent. Nupt. 11: … in praeceptis omnibus extare Tullii severitatem, in epistulis ad Caerelliam subesse petulantiam. Nelle parole di Ausonio risalta l’uso del termine petulantia. Vi è chi (H.W. Prescott, Studies in the Grouping of Nouns in Plautus,in Classical Philology 4, 1909, p. 18) lo associa ad allusioni spinte negli scritti di Cicerone a Cerellia. Le ricorrenze del termine (in ispecie negli scritti ciceroniani) elencate in ThlL sv. Petulantia (ora al link https://publikationen.badw.de/de/thesaurus/lemmata#68576, consultato in data 25.2.2024) confermano il significato di lascivia, luxuria, inverecundia. V. fra altri N. Lapini, Nuove prospettive per l’azione matronale: l’esempio di Cerellia corrispondente di Cicerone, in Matronae in domo et in re publica agentes. Spazi e occasioni dell’azione femminile nel mondo romano tra tarda repubblica e primo impero, a cura di F. Cenerini - F. Rohr Vio, Trieste, 2016, pp. 89 ss.; U. Walter, Die Arbeit der Zuspitzung. Ciceros rhetorische Totalmobilmachung in den Philippischen Reden und das Ende der Römischen Republik, in Rhetorik Politik Propaganda. Cicero und die Macht des Wortes, (hrsg.) L. Benz – J. Sauer, Heidelberg, 2021, pp. 11 ss., p. 22.

[5] Quint. Inst. or. 6.3.112: Etiam illud quod Cicero Caerelliae scripsit, reddens rationem cur illa C. Caesaris tempora tam patienter toleraret: «haec aut animo Catonis ferenda sunt aut Ciceronis stomacho»; stomachus enim ille habet aliquid ioco simile. Haec quae monebam dissimulanda mihi non fuerunt: in quibus ut erraverim, legentis tamen non decepi, indicata et diversa opinione, quam sequi magis probantibus liberum est. Il linguaggio colloquiale usato da Cicerone nei riguardi della donna lascia trasparire una certa fiducia nei suoi riguardi. V’è da chiedersi come Quintiliano (per Ausonio può supporsi una traduzione indiretta) possa essere venuto a conoscenza del carteggio, se non per via di una diffusione letteraria dello stesso (ovviamente dopo la morte di Cicerone). E. A. Hemelrijk, Matrona docta. Educated women in the Roman élite from Cornelia to Julia Domna, London-New York, 1999, p. 182, nel porre in risalto l’umorismo sofisticato e il carattere politico delle lettere, afferma che vi fosse un diffuso interesse fra i lettori a vederla pubblicata.  N. Lapini, Nuove prospettive, cit.,p. 90, reputa che lo scambio riferito da Quintiliano rifletta «l’immagine di una donna interessata alle vicende politiche e con la quale l’oratore poteva lasciarsi andare a confidenze degne di Attico … condite però con l’ironia e l’amore per lo scherzo che si trova ad esempio nel brillante scambio epistolare con Celio». Se le lettere vennero realmente diffuse, avrebbero potuto prestare il fianco allo sferzante giudizio di Cassio Dione e di Ausonio.

[6] È incerto quanto tempo intercorse fra il divorzio e il nuovo matrimonio: l’ultima lettera direttamente indirizzata a Terenzia è del 1° ottobre 47 (Venusia), ad fam. 14.20. Una lettera indirizzata ad Attico e datata al 26 novembre del 46 (ad Att. 12.1) tratta delle donne che gli erano state proposte quali possibili mogli (v. anche infra).  La lettera a Plancio (ad fam. 4.14.3)con accenni al nuovo matrimonio può datarsi alla fine del 46, ma senza ulteriori precisazioni. Collocano il divorzio fra la fine del 47 e la prima metà del 46, fra altri, J. Carcopino, Le secrets, cit., p. 1.241; Th. Mitchell, Cicero: the Senior Statesman, New Haven, CT, 1991, p. 273; S. Treggiari, Terentia, Tullia and Publilia. The Women of Cicero’s Family, London-New York, 2007, pp. 129 ss.

[7] Cic. ad Att. 12.13.1-2; 12.15; 12.18.1. S. Treggiari, Terentia, cit., pp. 130 ss.

[8] Cic. ad Att. 12.32.1. Stando a Plutarco, Publilia aveva dato l’impressione di essersi rallegrata per la morte di Tullia, per cui Cicerone la allontanò senza rimedio: Plut. Cic. 41.8.

[9] Lo si evince, direi, da una lettera del 26 agosto del 45, dove ancora si menzionano rapporti con Publilio, il fratello della moglie (Cic. ad Att. 13.34): tu velim, si grave non erit, efficias ne ante Nonas mihi illuc veniendum sit (id potes per Egnatium  Maximum), illud in primis ut cum Publilio me … absente conficias. Anche per Tullia e Dolabella le cose pare non siano andate diversamente: per via dell’inaffidabilità (anche politica) e dei tradimenti del marito il matrimonio sarebbe entrato in crisi, ma il divorzio sarebbe intervenuto a qualche mese distanza dalla separazione (di quest’ultima si parla già nel luglio del 47, il divorzio si sarebbe consumato nella seconda metà del 46): Cic. ad Att. 11.22.3; 11.24,1; ad Att. 12.8; ad fam. 14.13. Per tutti S. Treggiari, Terentia, cit., pp. 130 ss. Si sarebbe dunque presunto il perdurare dell’affectio coniugalis anche durante la ‘crisi’ (che poteva rientrare, come pare si sperasse, ad esempio, nel caso di Tullia) sino alla formalizzazione del divorzio attraverso una esplicita dichiarazione e di regola un libellus repudii.

[10] Per la cronologia esatta e il raffronto con il corpus epistolare, si rinvia a https://tulliana.eu/ephemerides/frames.htm (a. 45), (consultato in data 9.3.2024).

[11] Intensamente discusse in letteratura le ragioni dei dissapori fra Cicerone e Terenzia. Ai malumori legati alla lontananza di Cicerone da Roma nell’ultimo anno dovettero aggiungersi, da parte della moglie, quelli relativi al disordine nelle finanze del marito e alla necessità di dovervi sopperire col proprio patrimonio, nonché la delusione per le (disastrose) scelte politiche di lui: per tutti J.-M. Claassen, Documents of a Crumbling Marriage: The Case of Cicero and Terentia, in Phoenix 50, 1996, pp. 215 ss.; S. Treggiari, Terentia, cit., pp. 129 ss., pp. 155 ss.; A. Buonopane, Terenzia, una matrona ‘in domo et in re publica agens’, in Matronae in domo, cit., pp. 59 ss. Infra, nt. successiva.

[12] V. altresì Plut. Cic. 41.3: αὖταιγὰρεὶσιναἱ  λεγόμεναιτῆςδιαστάσεος  εὐπρεπέσταταιπροφάσεις, τῆδὲΤερεντίακαὶταύταςἀρνουμένῃλαμπρὰνἐποίησετὴνἀπολογίαναὐθοςἐκεῖνοςμετ᾽οὐπολὺνχρόνονγήμαςπαρθένον, ὡςμὲνἡΤερεντίακαρεφὴμιζεν, ἒρωτιτῆςὣρας, ὡςδὲΤίρωνὁτοῦΚικέρωνοςἀπελευθεροςγεγραφεν, εὐπορίαςἓνεκενπρὸςδιάλθσινδανείων (Ella infatti non era venuta a Brindisi, per quanto egli vi si fosse fermato per molto tempo, e alla figlia che, ancora giovinetta, aveva intrapreso quel lungo viaggio per venire dal padre, non aveva procurato un conveniente accompagnamento, né mezzi; addirittura poi ridiede a Cicerone una casa priva di tutto e gravata di molti e ingenti debiti. Questi i motivi più decorosi su cui si fondò il divorzio). Plutarco lascia intendere che vi fossero anche motivi meno ‘decorosi’ per il divorzio (potremmo pensare a sospetti di adulterio, anche reciproci).

[13] V. part. pro Quinct. 54.5; in Verr. II 5.176; de inv. 2.158, 171, 173; ad fam. 9.13.3; 12.22a.2. Cfr. sul ‘lessico’ dei legami personali part. E. Deniaux, Clientèles et pouvoir à l’époque de Cicéron, Rome, 1993, part. pp. 83 ss., pp. 191 ss.

[14] Caes. B.C. 3.1-3; Appian. B.C. 2.48.198; Suet. Iul. 42.2; Plut. Caes. 37.2. Sull’episodio inter plures R. D’Alessio, Il denaro e le sue funzioni nel pensiero giuridico romano: la riflessione giurisprudenziale nel principato, Lecce, 2018, pp. 90 ss.

[15]S. Dixon, Family Finances: Terentia and Tullia, in Antichthon 18, 1984 (= The Family in Ancient Rome: New Perspectives, ed. B. Rawson, London-Ithaca, 1986); S. Treggiari, Terentia, cit., pp. 118 ss.; ripercorre la vicenda della restituzione della dote, con attenta analisi delle risultanze provenienti dalle lettere ad Attico, da ultimo E. S. Scheuermann, Cicero und das Geld, Frankfurt a.M., 2015, pp. 77 ss. Ulteriori dettagli infra, nel n. 6.

[16] Cic. ad Att. 11.1; 11.2; 11.3; 11.4a; 11.13.4. Dote che, come vedremo, Cicerone avrebbe avuto difficoltà, in seguito, a farsi restituire per intero (infra nel n. 6).

[17] Il viaggio sarebbe stato intrapreso a partire dal marzo del 45, ma era pianificato sin dal 46. V. part. infra, nel n. 5.

[18] Da Cic. ad Att. 12.11 (29 nov.(?) 46) si evince che Pompeo aveva in animo di offrirgli in sposa la figlia, da poco vedova di Fausto Silla. Forse analoga proposta gli era giunta per Irzia, sorella del luogotenente di Cesare Aulo Irzio: ut ne praetermittam, Caesonius ad me litteras misit Postumiam Sulpici domum ad se venisse. De Pompei Magni filia rescripsi me nihil hoc tempore cogitare; alteram vero illam quam tu scribis, puto, nosti: nihil vidi foedius … (v. anche retro nt. 6).

[19] È ben verosimile che la costruzione in esame fosse legata ad aggirare le sanzioni della lex Voconia: se il testatore apparteneva alla prima classe di censo, la fanciulla non poteva essere istituita erede né destinataria di un legato; Cicerone sarebbe stato istituito erede (o individuato come legatario dicis causa)e onerato della restituzione del fedecommesso universale alla fanciulla. Sulla figura dell’ ‘heres fiduciarius’ valga il rinvio a F. Bertoldi, L’‘heres fiduciarius’ in una prospettiva storico-comparatistica, in Studi Urbinati 66, 2015, pp. 157 ss.; sull’escamotage della rogatio fedecommissaria per aggirare la Voconia, ibid. p. 159 s. e nt. 21.

[20] Plut. Cic. 41.5:  ἦν γὰρ ἡ παῖς σφόδρα πλουσία, καὶ τὴν οὐσίαν αὐτῆς ὁ Κικέρων ἐν πίστει κληρονόμος ἀπολειφθεὶς διεφύλαττεν. ὀφείλων δὲ πολλὰς μυριάδας ὑπὸ τῶν φίλων καὶοἰκείων ἐπείσθητὴνπαῖδαγῆμαιπαρ᾽ἡλικίανκαὶτοὺςδανειστὰςἀπαλλάξαιτοῖςἐκείνηςχρησάμενος. (La fanciulla era infatti molto ricca, e Cicerone ne amministrava le sostanze perché era stato nominato ‘erede fiduciario’; essendo egli gravato da debiti di decine di migliaia di sesterzi, fu convinto da amici e familiari a sposarla, nonostante l’età, e a placare i creditori attingendo alle ricchezze di lei). La traduzione, avanzata da alcuni, di ἐν πίστει κληρονόμος come ‘tutore’ dà adito a perplessità. Non può escludersi, certo, che venisse nel testamento del padre di lei individuato come tutore muliebre; v’è da chiedersi tuttavia come mai la tutela non fosse affidata all’adgnatus proximus della fanciulla, quel Publilio, fratello o comunque suo stretto parente, a più riprese menzionato nella corrispondenza con Attico. La questione è destinata a rimanere aperta.

[21] Verosimilmente un escamotage che consentiva a un terzo (forse lo stesso Attico) di apparire come debitore verso la donna, lasciando in ombra la presenza di Cicerone come reale titolare del debito (onde l’opinione per cui il debere non convenisse alla sua dignitas, mentre una ‘perscriptio’ sì): così part. M. Ioannatou, Affaires d’argent dans la correspondance de Cicéron. L’aristocratie sénatoriale face à ses dettes, Paris, 2006, p. 406 (ivi letteratura precedente), che ipotizza che Cicerone desse incarico a un terzo (un argentarius o altro fiduciario) di assumere e adempiere il debito, ma altresì di ‘temporeggiare’. Tenderei a credere che il ‘mascheramento’ in esame mirasse a preservarne la dignitas perché forse lasciava presumere rapporti di altra natura con Cerellia (quelli che del resto l’invettiva politica gli attribuiva), e non perché fosse disonorevole per una persona dell’alta borghesia prendere a mutuo denaro da una donna. M. Ioannatou, Affaires, cit., p. 274, immagina che, considerata la necessitudo che lo legava a Cerellia, Cicerone agisse nella convinzione che lei non avrebbe richiesto con troppa insistenza un adempimento, una volta scaduto il termine.

[22] Alla prima lettera che parla del prestito avuto da Ovia – Cic. ad Att. 12.21.4 (17 marzo 45) - seguono ulteriori accenni al debito non ancora saldato sia in Cic. ad Att. 12.24.1 che in Cic. ad Att. 12.30.2 (20 e 27 marzo 45) e forse anche in Cic. ad Att. 13.22.4 (4 luglio 45). Quanto a Marco Lollio, si v. per tutti la scheda prosopografica a firma di F. Münzer, Art. Lollius (11), in PWRE 26, 1927, pp. 1377 ss.

[23] Si v. fra altri I. Shatzman, Senatorial Wealth and Roman Politics, Bruxelles, 1975, pp. 407 ss.; M. Ioannatou, Affaires, cit., passim e pp. 359 ss.; E. S. Scheuermann, Cicero, cit., pp. 183 ss. Infra, nel n. 5.

[24] Per un inquadramento sulla questione cronologica, si rinvia ancora a: https://tulliana.eu/ephemerides/frames.htm (consultato in data 9.3.2024). Per una datazione al 46 a.C. fra altri R.Y. Tyrell-L.C. Purser, The Correspondence of Marcus Tullius Cicero, Dublin, 1918, p. 493; L. Austin, The Caerellia of Cicero’s Correspondance, in The Class. Journ., 41, 1946, p. 306.

[25] Cerellia era, secondo E. Deniaux, Clientèles, cit., pp. 215 ss., part. p. 225, creditrice di città asiatiche e necessitava del supporto del governatore per far valere (giudizialmente?) i suoi nomina. Quanto alla possibilità che ella stessa fosse di origine asiatica, o che potesse rientrare fra gli eredi del G. Vennonio menzionato in Cic. ad Fam. 13.72.3, tutte ipotesi che non hanno sostegno nella fonte, valga il rinvio a P. Buongiorno, Cicerone, gli affari di Cerellia e un enigmatico senatoconsulto ‘in heredes C. Vennonii, in Koinonia 44.1, 2020, pp. 195 ss.

[26] Sulla vicenda, oltre a E. Deniaux, Clientèles, cit., pp. 213 ss.; K. Verboven, The Economy of Friends. Economic Aspects of Amicitia and Patronage in the Late Republic, Bruxelles, 2002, pp. 292 ss.; M. Ioannatou, Affaires, cit., p. 273 s.; N. Lapini, Nuove prospettive, cit., pp. 96 ss.; P. Buongiorno, Cicerone, cit., pp. 195 ss.; G. Vettori, Bonae matronae e bona matronarum. Donne e capacità patrimoniale tra repubblica e principato, Bari, 2022, p. 256 s.

[27] Deve tenersi presente in ogni caso che in numerose lettere indirizzate a personaggi potenti del tempo (e non solo a Servilio) Cicerone fa leva sui legami di necessitudo che intercorrono fra lui e i suoi commendati, spesso con l’uso dei termini necessarii o pernecessarii (es. ad fam. 9.13.1; 13.6.1; 13.26.2; 13.65.2; 13.69.2; 13.70). Per i profili in esame valga il rinvio a E. Deniaux, Clientèles, cit., pp. 83 ss., pp. 88 ss., pp. 191 ss., p.  202. 

[28] A giudicare almeno dalla tabella dei necessarii realizzata da E. Deniaux, Clientèles, cit., p. 202; ma anche quella dei familiarissimi, ibid. p. 201, si segnala per l’assenza di nomi femminili.

[29] Sulla presenza di donne, fra repubblica e principato, che non esercitassero stabilmente la professione ‘bancaria’, ma che ciò nonostante potessero definirsi feneratrices, part. L. Peppe, Civis Romana. Forme giuridiche e modelli sociali dell’appartenenza dell’identità femminili in Roma antica, Lecce, 2016, pp. 300 ss.; sulle finanziatrici donne da ultimo G. Vettori, Bonae matronae, cit., p. 256 s. (ivi bibl. precedente).

[30] V. part., per Terenzia, S. Dixon, Family Finances, cit., pp. 78 ss.; S. Treggiari, Terentia, cit., part. pp. 30 ss.; sull’assenza di tutore (o in ogni caso di un familiare di sesso maschile che la affiancasse) quanto a Cerellia, N. Lapini, Nuove prospettive, cit., pp. 96 ss.; sul progressivo affrancamento, a partire dal tardo II sec. a.C., delle donne dal loro tutore muliebre, per tutti F. Lamberti, La famiglia romana e i suoi volti, Torino, 2014, pp. 15 ss.

[31] Balbo era stato difeso da Cicerone, nel 56 a.C., dall’accusa, promossa dai cittadini di Gades (di cui era originario) di aver ottenuto lacittadinanza romana in fraudem legis. La intervenuta assoluzione rinsaldò i legami con l’Arpinate e i frequentissimi scambi di opinioni (di cui è conto nell’epistolario) e in generale i contatti. Sta in fatto che Cicerone si sarebbe rivolto a lui per un mutuo di notevole entità, al fine di rimborsare la dote a Terenzia, ottenendolo a condizioni non favorevoli (Cic. ad Att. 12.12.1, 16 marzo 45: De dote tanto magis perpurga. Balbi regia condicio est delegandi. quoquo modo confice. turpe est rem impeditam iacere); un anno dopo avrebbe dovuto pregarlo di attendere ulteriormente per l’estinzione del debito (Cic. ad Att. 16.3.5, luglio 44: … ad Balbum scripsi apertius, ut, si quid tale accidisset, ut non concurrerent nomina, subvenisset, su cui infra). Cicerone vi era frequentissimamente in affari. In argomento inter multos N. K. Rauh, Cicero’s business friendships: economics and politics in the late Roman Republic, in Aevum 60, 1986, pp. 3 ss.; M. Ioannatou, Affaires, cit., p. 331 s.

[32] «Il vanto di poter essere i primi a toccare con mano l’ultima fatica di Cicerone aveva spinto anche Lucio Cornelio Balbo … a tentare con successo la stessa manovra (scil. di Cerellia)»: N. Lapini, Nuove prospettive, cit., p. 92. A Balbo del resto, anche per via del mutuo appena ottenuto (retro nt. precedente), oltre che per la sua connessione con Cesare, doveva essere estremamente difficile dire di no.

[33] Su Marco Giunio Bruto, il futuro cesaricida, vicinissimo a Cicerone, esiste un’ampia bibliografia. Valga il rinvio, per tutti, a M. Dettenhofer, Perdita iuventus. Zwischen den Generationen von Caesar und Augustus, München, 1992, pp. 99 ss.; K. Tempest, Brutus. The noble Conspirator, New Haven-London, 2017; R. Cristofoli, Marco Giunio Bruto. Il cesaricida che diede la vita in nome degli ideali della repubblica, Roma, 2022, passim (sulla amicizia e sul dialogo intellettuale con l’Arpinate, pp. 45 ss.).

[34] Attico, è noto, disponeva di copisti di gran cultura e assai attenti a ortografia, grammatica e sintassi: Corn. Nep. Att. 13.3:  Usus est familia, si utilitate iudicandum est, optima … namque in ea erant pueri litteratissimi, anagnostae optimi et plurimi librarii, ut ne pedisequus quidem quisquam esset, qui non utrumque horum pulchre facere posset, pari modo artifices ceteri, quos cultus domesticus desiderat, adprime boni

[35] Cic. ad Att. 13.23.2 (10 luglio 45): item quos Bruto mittimus in manibus habent librarii. V. L. Pecere, Roma antica e il testo, Bari, 2010, p. 126.

[36] Cic. ad Att.13.22.3 (4 luglio 45): Ad prima redeo. scripta nostra nusquam malo esse quam apud te, sed ea tum foras dari cum utrique nostrum videbitur. ego et librarios tuos culpa libero neque te accuso, et tamen  aliud quiddam ad te scripseram, Caerelliam quaedam habere non potuerit. Balbo quidem intellegebam sat faciendum fuisse; tantum nolebam aut obsoletum Bruto aut Balbo incohatum dari. Varroni, simul ac te videro, si tibi videbitur, mittam. quid autem dubitarim, cum videro te, scies.

[37] Sulle biblioteche private di età ciceroniana part. Clift 1945, 12 ss.; L. Pecere, Roma antica, cit. Sulla disponibilità di una biblioteca privata per Cerellia part. E. A. Hemelrijk, Matrona docta, cit., p. 52.

[38] Si rinvia per questo alla scheda prosopografica e allo stemma proposto in N. Lapini, Nuove prospettive, cit., pp. 99 ss. (dubbi residuano quanto ai legami di parentela tra Cerellia e i Publilii).

[39] Cic. ad Att. 13.37a; 13.46.3; 13.47; 14.1.9; 14.10.3. Ai beni indicati nel testo doveva aggiungersi una notevole quantità di denaro (Cic. ad Att. 13.45.3: … multos nummos domi esse numeratos, quos oporteret quam primum dividi, magnum pondus argenti, praeter praedia) nonché svariati crediti di cui il banchiere era titolare. Per i calcoli complessivi si rinvia alla ricostruzione di I. Shatzman, Senatorial Wealth, cit., pp. 407 ss., part. p. 410 s., cui adde, con considerazioni importanti, M. Ioannatou, Affaires, cit., part. pp. 135 ss., pp. 154 ss.

[40] Cic. ad Att. 13.34: … illud in primis ut cum Publilio me … absente conficias (retro, nt. 9). V. anche ad Att. 13.47a.2. Sui profili giuridici legati agli obblighi di restituzione della dote, per tutti J. F. Stagl, Klage auf Herausgabe des Frauenguts (§ 89), in Handbuch des Römischen Privatrechts 2, (hrsgg.) U. Babusiaux, Chr. Baldus, W. Ernst, F.-S. Meissel, J. Platschek, T. Rüfner, Tübingen, 2023, pp. 2516 ss.

[41] Al novembre 45 risale la difesa, svolta nella domus di Cesare, del re Deiotaro (ad fam. 9.12.2; pro rege Deiot. 5; 32); intorno al 19 o 20 dicembre avrebbe ospitato nella sua villa di Puteoli o in quella di Cuma Cesare e il suo seguito di 2000 uomini (ad Att. 13.52). A fine dicembre (o inizi gennaio) avrebbe assistito a Roma, come augure, alla consacrazione di un tempio (ad Att. 13.42.3). Sulla fase del riavvicinamento fra il dittatore e l’oratore, inter multos K. Kumaniecki, Cicerone e la crisi della Repubblica Romana, Roma, 1972; E. Narducci, Introduzione a Cicerone, Roma-Bari 1992, pp. 53 ss.; E. Malaspina, Rome, an 45 av. J.C.: Cicéron contre le “tyran”?, in Le tyran et sa postérité dans la littérature latine de l’Antiquité à la Renaissance, (éds.) L. Boulègue-H. Casanova-Robin-C. Lévy, Paris, 2013, pp. 57 ss.

[42] Cic. ad Att. 14.10.4; 14.13.5.

[43] Cronologia e bibliografia in https://www.tulliana.eu/ephemerides/anni/44/044a05.htm. (consultato in data 9.3.2024)

[44] M. Ioannatou, Affaires, cit., p. 273 s.

[45] Quanto alla tradizione anticiceroniana si rinvia a quanto osservato supra, nel n. 1.

[46] Cic. ad Att. 12.32.2 (28 marzo 45): Ciceroni velim ut hoc proponas …, ut sumptus huius peregrinationis, quibus, si Romae esset domumque conduceret … facile contentus futurus erat, accomodet ad mercedes Argileti et Aventini. Gli appartamenti sull’Argileto e sull’Aventino facevano parte della dote di Terenzia e quasi sicuramente già la madre aveva pensato di destinarne le rendite all’istruzione di Marco (accenni già in ad Att. 12.8.1, del marzo 46): v. part. S. Treggiari, Terentia, cit., pp. 34 ss.; E. S. Scheuermann, Cicero, cit., pp. 91 ss., p. 94.

[47] Cic. ad Att. 16.2.1 (11 luglio 44): De Publilio autem, quod perscribi oportet, moram non puto esse faciendam. Sed cum videas quantum de iure nostro decesserimus, qui de des CCCC HS CC praesentia solverimus, reliqua scribamus, loqui cum eo, si tibi videbitur, poteris eum commodum nostrum expectare debere, cum tanta sit a nobis iactura facta iuris. Sulla lettera, osservata da una prospettiva finanziaria, A. Petrucci, Mensam exercere. Studi sull’impresa finanziaria romana (II sec. a.C. – metà del III sec. d.C.), Napoli, 1991, p. 124; M. Ioannatou, Affaires, cit., p. 385 s.; E. S. Scheuermann, Cicero, cit., pp. 88 ss.

[48] Cic. ad Att. 15.17.1 (giugno 44); ad Att. 16.1.5 (8 luglio 44): Cicerone incassa (da una fonte sconosciuta) 210.000 sesterzi, che prevede di impiegare in parte per sistemare i conti di Marco; ad Att. 16.3.2 (17 luglio 44): l’Arpinate sospetta che Marco spenda più di quanto dica, e per questo le sue richieste siano ripetute e pretestuose. E. S. Scheuermann, Cicero, cit., pp. 91 ss. Dalle lettere in esame si evince «tutto un gioco di anticipi contabili che ci permette di immaginare cosa fosse uno iussus filio credi, pratica notoriamente legata ai viaggi di studio … dei filii familias»: Y. Thomas, Il diritto paterno fra ordine domestico e ordine politico, in Id., La morte del padre. Sul crimine di parricidio nella Roma antica, a cura di V. Marotta, tr. it. G. Lucchesini, Macerata, 2023, 77 ss., 99 (= Id., Droitdomestique et droit politique à Rome. Remarques sur le pécule et les honores des fils de famille, in MEFRA. 94.2, 1982, p. 527 ss.).

[49] Cic. ad Att. 15.17.2 (15 giugno 44: … Erotis rationes cognovi et ex Tirone cognovi et vocavi ipsum); ad Att. 15.20.4 (20 giugno 44: Rationes Erotis, etsi ipsum nondum vidi, tamen ex litteris eius et ex eo quod Tiro cognovit prope modo cognitas habeo); ad Att. 16.3.5 (17 luglio 44): Maxime autem me angit ratio reliquorum meorum; quae quamquam explicata sunt, tamen, quod et Dolabellae nomen in his est et attributione mihi nomina ignota, conturbor, nec me ulla res magis angit ex omnibus.

[50] V. ad es. L. Austin, The Caerellia, cit., pp. 305 ss.; K. Verboven, The Economy of Friends, cit., p. 214.

[51] Cic. ad Att. 16.15.5 (… nam de Terentiae nomine  Tiro ad me scripsit te dicere nummos a Dolabella fore). V. part. J.-M. Claassen, Documents of a Crumbling Marriage, p. 223 s.

[52] Cic. ad Att. 16.5.1 (dopo il 12 novembre 44): Ego, si me non improbissime Dolabella tractasset, dubitassem fortasse utrum remissior essem an summo iure contenderem. … Quod autem quaeris quo modo agi placeat cum dies venerit, primum velim eius modi sit ut non alienum sit me Romae esse; de quo ut de ceteris faciam ut tu censueris. de summa autem agi prorsus vehementer et severe volo … de hoc quid placeat rescribas velim; nec dubito quin hoc totum lenius administraturus sis. Cicerone, dopo la morte di Cesare, aveva inizialmente sperato che Dolabella (con cui i rapporti erano rimasti ottimi nonostante il divorzio da Tullia) fosse tra gli uomini che si assumevano il compito di restaurare la repubblica; constatata la sua vicinanza ad Antonio e il progressivo rivelarsi delle intenzioni del futuro triumviro quanto all’assunzione di poteri extracostituzionali, l’oratore aveva percepito il tradimento della res publica come un’offesa anche sul piano personale. I profili economici e giuridici di quest’ultima epistola ad Attico sono esaminati con grande acribia da M. Kaser, Cicero ‘ad Atticum’ 16.15.2. Formularprozeß ohne ‘litis contestatio’?, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino 7, a cura di V. Giuffrè, Napoli, 1984, pp. 3151 ss. (= Römische Rechtsquellen und angewandte Juristenmethode, Wien-Köln-Graz, 1986, pp. 373 ss.), part. p. 3174. Su alcuni profili della figura di Dolabella si v. particolarmente M. Dettenhofer, Perdita iuventus, cit., pp. 119 ss.

Lamberti Francesca



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